Filosofi e strani attrattori

Filosofi e strani attrattori

Un filosofo, rispetto a un altro filosofo, indipendentemente dalla sua collocazione cronologica, non è mai né precursore né innovativo, ma sempre nuovo.

Per intenderci, Parmenide è nuovo rispetto a Kant e viceversa. Questo non significa sottrarre il filosofo alla sua epoca per affidarlo a uno spazio di astratta universalità, ma esattamente il contrario. Nella misura in cui Kant è un uomo del Settecento ed è profondamente riconoscibile come tale, esso è sempre nuovo, non solo rispetto a Cartesio o a Hume, ma anche rispetto a Hegel e a Husserl. Uomo del Settecento significa “uomo che ha fatto il Settecento”, nel senso che ha risposto con concetti ai problemi che si ponevano nel Settecento e che porta, quindi, impressi nel suo volto spirituale i tratti inconfondibili della sua epoca. Solo un uomo che è figlio della propria epoca in questo senso è sempre nuovo, mentre non lo possono essere uomini comuni, anonimi, che potrebbero attraversare ogni epoca, senza lasciare e senza ricevere traccia alcuna.

Ciò che garantisce l’inesauribile novità di un filosofo è il suo pensiero. E il pensiero è una ben strana “cosa”.

Possiamo raffigurarci la cultura, il sapere, l’erudizione, come un immenso puzzle. In un puzzle l’immagine da ricomporre è già data a priori. Basta mettere assieme con pazienza e diligenza i moltissimi pezzi di cui è costituito e, se non l’immagine intera, almeno parti significative di essa prendono forma. Questo grande puzzle, più o meno compiuto a seconda della vastità o della ristrettezza del sapere di una persona, è il décor, l’ambiente, lo sfondo culturale in cui si vive. Il comportamento, le opinioni, le abitudini di una persona si conformano a questo “ambiente, muovendosi lungo percorsi noti e in esso già tracciati.

Cosa accade quando si incontra un problema, quando un’affezione troppo forte minaccia di distruggerci o di esaltarci?

La nostra naturale inerzia, la bêtise, vorrebbe che ci affidassimo ai percorsi già noti e sperimentati del nostro “ambiente”, cercando di riassorbire in essi la perturbazione prodotta. È il ricorso all’opinione, all’abitudine, all’esperienza acquisita, al bagaglio culturale. In questo comportamento naturale siamo come pianeti che percorrono orbite stabilite, con degli aggiustamenti prevedibili all’interno di queste orbite.

Può accadere, però, che il “riassorbimento” fallisca, che i noti percorsi dell’opinione e della cultura si rivelino strade sbarrate. In tal caso ci si trova davanti a due possibilità, entrambe strade a senso unico.

O la nostra potenza d’essere viene compromessa, intaccata, deteriorata e il comportamento, prima regolare, si fa stereotipato, volgendoci o a un progressivo e irreversibile spegnimento o a un incontrollato impazzimento.

O si può pensare, creare idee, ben sapendo che il pensiero non è una scelta fra le altre, ma una decisione disponibile solo per chi ha la “stoffa”.

Il pensiero ha la straordinaria caratteristica di sottrarre il nostro movimento alla regolarità dell’orbita prestabilita, senza con questo arrestarlo o affidarlo al mero caso. Scompagina le abitudini, mette impietosamente in luce il carattere angusto che ogni ambiente culturale, anche il più ricco, ha. Questo perché il movimento di un pensatore avviene entro una configurazione molto speciale, che si chiama attrattore strano.

Il concetto di “attrattore strano” nasce all’interno della teoria della complessità e viene formalizzato entro quella branca speciale della teoria della complessità nota come matematica dei frattali.

L’attrattore strano è una configurazione, quindi definisce, in un certo senso, una zona. È una configurazione che descrive il comportamento di un sistema caotico e, come ben sappiamo, un sistema caotico non è affatto un sistema disordinato, ma un sistema dotato di una complessità pressoché infinita.

La matematica dei frattali ha mostrato che ogni sistema caotico ha una sua specifica forma globale, la quale, entro certi limiti di indeterminazione, si mantiene relativamente stabile e prevedibile. Solo che questa prevedibilità globale è fatta di dettagli imprevedibili, perché all’interno di un sistema caotico vige un’estrema sensibilità alle condizioni iniziali. Anche una minima perturbazione (il battito d’ali di una farfalla in Amazzonia) può provocare, se si innescano le condizioni adatte, un enorme sconvolgimento (un uragano in Florida). Un sistema caotico, infatti, è olistico e ogni sua parte interagisce ricorsivamente su tutte le altre parti. Le forme nascono e muoiono in continuazione, a volte si stabilizzano per periodi più o meno lunghi, per poi implodere, esplodere o riformarsi altrove entro il sistema. E così i percorsi che in questo sistema si possono tracciare.

Gli attrattori strani, a dire il vero, possono anche cambiare la loro forma globale, se il sistema viene perturbato in maniera drastica. A parte queste metamorfosi radicali, comunque, con ciascuna ricorsione il sistema caotico esplora e traccia una nuova zona all’interno della complessa regione delimitata dal suo attrattore strano. Lo stesso contorno dell’attrattore strano viene continuamente ridisegnato e arricchito di dettagli, via via che le ricorsioni procedono.

Ogni attrattore strano è talmente complesso che contiene in sé, a varie scale (proprietà dell’invarianza di scala), zone di puro disordine, altre di ordine assoluto, altre, infine, di transizione bidirezionale dall’una all’altra.

A dimostrazione della fecondità di questo concetto, si possono portare come esempi di attrattori strani due concetti provenienti da ambiti diversissimi.

Uno di questi è il clima. Ogni clima ha una sua configurazione che lo determina e lo rende ben conoscibile e relativamente stabile, ma le specifiche condizioni meteorologiche che lo caratterizzano sono, oltre un certo lasso di tempo, intrinsecamente imprevedibili.

Un altro è lo stile di un artista. Anch’esso, nel suo complesso, è immediatamente riconoscibile. Anche se non avessimo mai visto un particolare quadro del Canaletto, ma conoscessimo comunque la sua opera, riusciremmo senza eccessive difficoltà ad attribuirlo a lui o alla sua scuola. Eppure nessuna delle opere che “formano” lo stile di un artista è prevedibile prima della sua apparizione o “producibile” in base a regole.

L’elettrocardiogramma mostra che i battiti del cuore descrivono un tracciato complesso che ha la forma di un attrattore strano. Questo sfondo caotico riguarda però un cuore sano. Il tracciato di fondo del battito cardiaco di persone che poco tempo dopo sarebbero state colpite da infarto tende, invece, a mostrare un tracciato stranamente regolare, quasi meccanico, come se il caos di fondo, vitale riserva di sempre nuove soluzioni, si fosse spento o esaurito. Più in generale si può pensare che la vecchiaia, non solo quella biologica, ma anche quella spirituale, sia proprio questo: non la sostituzione del disordine all’ordine, ma l’insorgenza di un ordine stereotipato di fondo. Un sistema sano è un sistema fondamentalmente caotico, in cui forme e regolarità si generano dinamicamente senza mai irrigidirsi. Un sistema malato, invece, è un sistema regolare, semplificato, stereotipato, abitudinario, in cui il disordine interviene non come elemento creativo ed energetico di fondo, ma come perturbazione di questo “ordine”.

Ricerche neurofisiologiche hanno mostrato che il nostro cervello reagisce a stimoli insoliti con tracciati caotici, che hanno la configurazione e l’andamento di attrattori strani. Se lo stimolo insolito si ripete, divenendo alla fine abituale, il tracciato si semplifica sempre di più, fino a essere riassorbito dalla normale attività cerebrale. La cosa straordinaria è che questo non accade con le opere d’arte. Posso ascoltare infinite volte una sinfonia, rileggere quante volte voglio una poesia, vedere in continuazione un quadro o una statua, e ogni volta il tracciato encefalografico è caotico. L’opera d’arte ha la straordinaria caratteristica di sorprenderci sempre, senza mai diventare uno stimolo abituale.

Un pensatore risponde alla sollecitazione di un problema con un movimento imprevedibile entro quell’attrattore strano che è il suo pensiero. Chiamo l’attrattore strano di un pensatore la sua costellazione concettuale. L’incontro con il pensiero di un filosofo da parte di un altro pensatore è l’interazione fra due attrattori strani.

Se, ad esempio, interagisco con l’attrattore strano “Platone”, mentre me ne sto placido in un’orbita tranquilla del mio attrattore strano, non accade nulla. Platone mi scorre addosso indifferente, o mi si presenta sotto forma di un frammento di puzzle da aggiungere al mio “ambiente” culturale. Se invece l’interazione avviene mentre mi trovo in una zona di transizione, il mio attrattore strano (il mio pensiero) si accende, va in fibrillazione in modi assolutamente imprevedibili e olistici.

In realtà il mio pensiero non incontra mai genericamente “Platone” (questo accade solo quando si studia Platone su un manuale di storia della filosofia), ma sempre un suo concetto, una linea frastagliata, una linea di forza particolare dell’attrattore strano “Platone”. È allora che questo particolare concetto di Platone improvvisamente si illumina, illuminando a sua volta alcune zone dell’attrattore “Platone”, alcuni percorsi, lasciandone in ombra altri. Alla luce di questo concetto “eccitato” Platone acquista una fisionomia particolare, diversa da altre infinite possibili fisionomie di Platone. Questo è il “mio” Platone, che feconda e scompagina il mio pensiero, tracciando in esso nuovi percorsi.

La coppia chora-bellezza, attorno alla quale si può centrare l’intera interpretazione di Platone, o quella hexis-sophia per Aristotele, dicono tutto Platone e tutto Aristotele proprio nel loro affermarsi come intrascendibili e drastiche letture di dettaglio. Questo “tutto”, comunque, non va frainteso. È sbagliato pensarlo in modo simbolico, nel senso che ogni dettaglio, ogni concetto di un filosofo sarebbe un frammento in cui il tutto del suo pensiero si riassume e si rispecchia. Al contrario. Ogni lettura di dettaglio, quindi parziale, è il vero Platone e il vero Aristotele, perché Platone e Aristotele si danno sempre concretamente solo in concetti specifici, mai in una dottrina globale.

Leggere Spinoza a partire dal concetto di espressione, come fa Deleuze, ci offre un ritratto non somigliante di Spinoza (cioè non formale, meramente riproduttivo o espositivo della sua dottrina), un ritratto irriconoscibile se confrontato con il ritratto di Spinoza fatto da Hegel, il quale non era certo meno intelligente di Deleuze. Hegel ha solo incontrato una linea diversa dell’attrattore strano Spinoza, rispetto a quella su cui si è innestato Deleuze.

Quando un filosofo legge un altro filosofo, lo fa in modo assolutamente non obiettivo e assolutamente appassionato, catturato da uno o più dettagli che solo lui sa vedere in quel modo, mentre ad altri può comunicare non la stessa figura, ma la stessa forza di vedere, di creare, di amare, di odiare.

Se il filosofo, invece, cade nelle mani di un erudito, i dettagli (le linee di forza creatrice) del suo pensiero si disperdono in frammenti da ricomporre per creare una figura statica, possibilmente oggettiva, e l’attrattore strano dello sventurato filosofo, privato della sua imprevedibilità e dei suoi percorsi frattali, diventa un’orbita regolare da misurare, da confrontare con altre orbite, in un universo che non è più il chaosmos, dove vivere è bello, difficile, pericoloso, seducente, ma solo l’ordinato habitat di un animale da lavoro, dove vivere è, al più, utile e funzionale.

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