La natura ambivalente del sensibile (Repubblica VII)
“Oggetti” che ci forzano a pensare
Nel VII libro della Repubblica (523b e segg.) incontriamo, posto in tutta la sua drammaticità, il problema del sensibile, problema che appare, tuttavia, nelle vesti dimesse di una distinzione strana, quella fra “oggetti” che lasciano tranquillo il nostro pensiero e “oggetti” che ci forzano a pensare.
– Mostro come alcuni oggetti delle sensazioni non fanno appello all’intelligenza perché li esamini, essendo già abbastanza vagliati dal senso, altri, invece, le impongono in ogni modo di esaminare, come se il senso nulla compisse di valido. (523 b)
Nel nostro mondo quotidiano, dice Socrate, incontriamo due tipi di oggetti, giudicati ora non più in rapporto all’imitazione dell’idea e alla loro conseguente maggiore o minore distanza dalla verità, ma in base al fatto che alcuni di questi oggetti lasciano tranquillo il nostro pensiero, mentre altri lo mettono in movimento.
Per comprendere questa distinzione ci riferiamo alle analisi fatte da Deleuze su questo passo in Differenza e ripetizione (Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina editore, 1997, p. 185-186). Deleuze vede all’opera, nell’ambito della filosofia occidentale, lo scontro fra due immagini del pensiero, una, quella dominante, che annovera fra i suoi massimi eroi Platone e Hegel, è l’immagine del pensiero come riconoscimento, l’altra, alla quale lo stesso Deleuze appartiene, ma anche Spinoza, Nietzsche, Heidegger, per citare solo alcuni fra i più grandi, è l’immagine del pensiero come incontro.
In realtà, pensare significa sempre incontrare una dimensione estranea e irriducibile a ogni categoria precostituita. Solo davanti a un vero problema l’uomo è, infatti, forzato a pensare. La differenza fra le due immagini del pensiero, allora, non sta nel sorgere del pensiero, sempre forzato da un incontro, quanto nel tipo di risposta o di soluzione che viene data al problema incontrato, risposta che, semplificando, può articolarsi in due direzioni opposte, a seconda che venga accordato un privilegio all’identità o alla differenza.
O si risponde a questo “fuori” che ci minaccia cercando di ricondurlo a una struttura identitaria in armonia con i nostri schemi concettuali e le nostre leggi logiche, scoprendo che la molteplicità e il disordine caotico con cui il “fuori” si dà possono essere riportati a strutture stabili, ideali, immutabili, colonizzando quindi il “fuori” del mondo con il “dentro” della mia mente, o si risponde accogliendo il “fuori” come differenza in sé, una differenza non identificabile e perciò “incomprensibile” a partire dagli schemi concettuali, una differenza inconcepibile e, tuttavia, non impensabile. Un pensiero, quello del riconoscimento, impone a ciò che incontra il proprio metodo e le proprie categorie, un altro pensiero si espone all’incontro, riposizionando senza sosta il proprio metodo e i propri schemi e creando continuamente nuovi concetti.
Tornando al testo platonico, notiamo che gli oggetti che non impongono al nostro pensiero un ulteriore esame sono quelli che, quando li incontriamo, li riconosciamo senza alcuno sforzo. Quando vediamo una sedia, un tavolo, una casa, non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscerli per quello che sono. Questo anche se non li riconosciamo subito a prima vista, come avviene quando sono troppo lontani o quando si danno in situazioni di illuminazione insufficiente. Basta attendere che si avvicinino, munirsi di un binocolo o migliorare l’illuminazione e ciò che ci appariva incerto si palesa come qualcosa di conosciuto. Dire che questi oggetti non ci forzano a pensare equivale a dire che nel mondo platonico essi non costituiscono un problema, perché si danno, pur nel variare degli adombramenti percettivi, con sufficiente stabilità. Il loro aspetto, il loro εἶδος (eidos), viene agevolmente identificato. Non danno da pensare perché il pensiero su di essi ha già esercitato la sua azione.
La sedia reale, costruita dall’artigiano secondo la misura del modello ideale, non scompagina la mia anima, non si contrappone, pur essendo sensibile, alla sua parte razionale, anzi, l’anima la riconosce come una legittima, anche se depotenziata, manifestazione dell’essere. La sedia reale, in un certo qual senso, affida la propria mutevolezza e contingenza all’immutabilità e all’identità della sedia ideale e viene riconosciuta come copia legittima di questa. Nella somiglianza delle copie si ritrova l’identità del modello e la sottomissione del sensibile all’intelligibile. La sedia reale è ciò che Platone chiama un αἰσθητόν (aistheton), un dato sensibile, un ente che solo contingentemente si dà nella sensibilità, ma che potrebbe benissimo, come in effetti avviene, essere colta, pur con diverse modalità di riempimento, anche da altre facoltà (memoria, intelletto, ecc.). Il sensibile, insomma, è un luogo accidentale della manifestazione dell’eidos “sedia”, un eidos che ha la propria inseità nell’intelligibile. Questa datità sensibile non ci crea nessun problema perché riguarda un sensibile già abitato da un significato, un sensibile concepibile e nominabile.
Gli oggetti che ci forzano a pensare, invece, sono, non quelli che ci ingannano per casualità e contingenza, ma quelli che lo fanno per propria natura, non quelli la cui identità, pur talvolta precaria e incerta, può comunque essere rilevata, bensì quelli senza identità, oggetti che sfuggono per loro intrinseca natura a ogni identificazione. Una sensazione che manifesta un dato e il suo contrario è un incontro sommamente ingannevole, è la quintessenza dell’inganno. Ad esempio, la durezza, che non è mai davvero tale, senza essere contemporaneamente anche mollezza, dura rispetto a una cosa più molle, molle rispetto a una cosa più dura.
In questi casi l’anima cerca di esaminare, facendo appello all’intelligenza, se sia una sola o due, ciascuna delle sensazioni a lei riportate. Per far chiarezza, l’intelletto è costretto a vedere un duro e un molle, non già però confusi, bensì distinti, al contrario della vista. (524 b)
Il sensibile come luogo della differenza
Il sensibile è ciò che non ha propriamente un’essenza, esso, per natura, è l’”inessenziale”, ciò che nella definizione di un ente viene preliminarmente espunto, rimosso. Del sensibile in quanto tale, l’aistheteon (αἰσθητέον), non posso dire “che cos’è”. Che cos’è il rosso? Se lo voglio determinare come una certa lunghezza d’onda, l’ho già perso come sensibile. Il sensibile è ciò che può solo essere incontrato, ciò che è indicabile (“questo”), non definibile (come “qualcosa”). Il suo darsi inessenziale è un darsi intensivo, come luogo della differenza, della gradazione, della variabilità, del divenire. Non essenza d’essere, ma potenza d’essere.
Questo sensibile è per Platone il problema da risolvere, è ciò che deve essere pensato e non meramente negato, addomesticato e non semplicemente escluso. Lasciare impensato il sensibile nella sua autonomia è molto pericoloso, la sua potenza, la sua intensità, va imbrigliata e sublimata in un’essenza, deve acquietarsi nella determinazione, definirsi come proprietà, come qualità determinata. Questo sensibile è un problema perché non assume il ruolo subordinato di rappresentazione dell’intelligibile, anzi, fa di peggio, si impadronisce delle idee e ci gioca, le disperde nei riflessi e nelle illusioni della materia, nella consistenza opaca del materiale, materia che si afferma in quanto tale e che sfida, con la sua potenza, non il demiurgo terreno, umile servitore del vero, ma il fiturgo, il creatore di ogni forma.
La sfida, allora, avviene sul terreno della produzione ontologica, dove il simulacro rivendica la sua autonomia dall’idea. Platone, che è grande filosofo, si accorge che è questa la vera sfida, una sfida che non può essere ignorata, ma Platone, che è anche un grande artista, comprende che è l’arte ad aver assunto la difesa e la rappresentanza del sensibile in quanto tale. L’artista, il pittore, lo scultore, il poeta, il retore, il tragediografo, il rapsodo, e così via, sono tutte figure attraverso le quali, di volta in volta, il sensibile accampa la sua pretesa di verità, non di una verità qualunque, ma della verità in sé, quella verso cui solo il filosofo, a giudizio di Platone, può rivolgere legittime pretese. Sono, pertanto, figure tutte colpite, in modo più o meno diretto, dall’accusa di inganno, di ciarlataneria, di illusionismo, di mistificazione del vero, figure emblematicamente riassunte nel nemico per antonomasia del filosofo, il sofista.
La condanna platonica dell’arte nasce dalla piena consapevolezza che Platone ha della potenza destabilizzante del sensibile e la sua violenza, la sua drasticità, è possibile solo perché l’arte è stata elevata allo stesso livello della filosofia, l’arte contende la verità direttamente alla filosofia. L’arte, insomma, non è un’insidia fra le altre per la conoscenza filosofica, nel senso in cui Platone la intende, ma è l’insidia in quanto tale, perché pretende di affidare la verità al luogo proprio della simulazione, della differenza, della contraddizione, a un sensibile senza trascendenza, senza fondamento, senza origine.