Il grande tema della chora nel Timeo (1a parte)
Sistemi e costellazioni concettuali. Il concetto di traduzione
Il divino demiurgo, il quale, come ci racconta il Timeo, costruisce il mondo secondo la misura delle idee e obbedendo a canoni di bellezza, “incontra”, suo malgrado, il problema della chora, una dimensione ontologica ambigua, inquietante, ineliminabile. Un concetto, questo di chora, che appartiene alla stessa costellazione semantica a cui appartiene l’istante e il “fuori”. L’organizzarsi dei concetti in una costellazione o in un campo è una cosa molto diversa dal loro organizzarsi in un sistema.
Abbiamo visto che il sistema concettuale platonico è regolato dal meccanismo dell’opposizione binaria (interno-esterno; intelligibile-sensibile; maschile-femminile; ecc.) sostenuto dalla decisione di valorizzare uno dei due termini di ogni dicotomia. Ciò fa sì che, da un lato, un termine della dicotomia sia necessariamente compreso a partire dall’altro, quello sede di valorizzazione positiva (ad esempio, il sensibile è ciò che non è intelligibile), e, dall’altro, che ogni dicotomia possa essere compresa, cioè ri(con)dotta, a un’altra (ad esempio, la coppia sensibile-intelligibile o quella maschile-femminile sono varianti della coppia generatrice interno-esterno).
La costellazione concettuale (istante, differenza, singolarità, chora, ecc.), invece, dispone i concetti in modo “figurativo”, secondo linee di forza prodotte non da un concetto determinato (si ricadrebbe altrimenti nell’apriorismo ontologico e nella trascendenza del sistema concettuale), ma da un campo semantico differenziale, un campo di forze, che, nel nostro caso è il concetto di “fuori”, etimologicamente interpretato come soglia, come l’aprirsi di uno spazio. I concetti che appartengono a una costellazione concettuale non si riferiscono a un termine valorizzato che dia senso agli altri, perciò nessuno di loro è riducibile all’altro o comprensibile nei termini di un altro, nessuno può stare al posto di un altro e nessuno può stare senza gli altri. Tutti i concetti di una costellazione concettuale dicono lo “stesso” con sensi profondamente diversi, hanno lo stesso significato, ma non lo stesso senso. (Sulla distinzione fra senso e significato v. Gottlob Frege, Senso, funzione, concetto. Scritti filosofici 1891-1897, Laterza, Bari, 2001. In particolare i saggi Senso e significato; Funzione e concetto; Concetto e oggetto)
In rapporto alla distinzione fra sistema e costellazione concettuale è opportuno introdurre, dopo il concetto di “fuori”, un secondo concetto-guida, quello di “traduzione”. I concetti organizzati in una costellazione sono traducibili l’uno nell’altro per il fatto di essere l’uno all’altro irriducibili, quelli organizzati in un sistema concettuale, invece, non sono traducibili ma solamente riproducibili e riducibili l’uno all’altro. Dietro questa affermazione apparentemente paradossale c’è il concetto di traduzione elaborato da Walter Benjamin (v. Walter Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1962. In particolare i saggi Il compito del traduttore; Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo; Sulla facoltà mimetica), di cui forniamo una descrizione volutamente semplificata e metaforica, ma utile allo scopo che ci proponiamo, quello di differenziare il sistema concettuale dalla costellazione concettuale.
Per Benjamin ci sarebbe stata una lingua originaria mandata in frantumi dalla dispersione babelica, allo stesso modo in cui può andare in frantumi un vaso prezioso. I frammenti, dispersi in tutto il mondo, si sono moltiplicati generando copie, altri frammenti, organizzandosi in tanti e disparati sistemi linguistici (le lingue particolari) nell’oblio sempre più completo della lingua originaria. Ognuna delle lingue particolari, dunque, sarebbe formata da alcuni frammenti del prezioso vaso infranto (le parole fondamentali di quella lingua) e da tutti gli altri frammenti prodotti in seguito per scopi utilitaristici, comunicativi, ecc. (le parole “strumentali” di quella lingua). Alla luce di questa concezione, che cosa significa, allora, tradurre?
C’è un senso scontato, comune, del termine, dove tradurre significa trasporre una parola da una lingua in un’altra, cosa che i dizionari fanno (cielo, ciel, sky, Himmel, ecc.). Questo, a ben vedere, equivale ad avallare la dispersione babelica delle lingue: se la parola “cielo”, infatti, come ogni parola è un frammento, riprodurla in un’altra lingua significa aumentare la frammentazione, moltiplicare i frammenti, aggiungere un frammento a un altro frammento. I concetti organizzati in un sistema concettuale funzionano allo stesso modo: ognuno di essi riproduce in termini diversi quello che l’altro dice, sono concetti dall’identico profilo, concetti che si sovrappongono, ma non si compongono.
Tradurre in senso proprio significa, invece, ricomporre l’infranto. Nel “compito” di ricomporre l’infranto non c’è alcun privilegio accordato alla totalità e, attraverso questa, all’unità. Concetti come “lingua originaria”, chora, “fuori”, ecc. o metafore come quella del vaso infranto appartengono a quel tipo di realtà che viene chiamata virtuale. La chora, l’istante, la lingua originaria non “ci sono” nel senso effettivo e determinato dell’esistenza. Solo il tempo come continuum temporale “c’è”, mentre l’istante, in quanto operatore differenziale, non è comprensibile nei termini di “qualcosa che c’è” ma in quelli di “qualcosa che fa essere”. Così il foglio bianco non va compreso come una cosa determinata, ma come il “luogo” in cui “ha luogo” la figura, luogo che scompare nel dar luogo a una realtà determinata. Così inteso, il virtuale, per propria intrinseca natura, è estraneo a ogni totalità, a ogni unità, a ogni identità. La natura propria del virtuale, infatti, è il differenziale e, come insegna l’analisi matematica, è l’operazione di integrazione (una forma di totalizzazione) che mi restituisce la curva o, meglio, l’area sottesa alla curva, una figura determinata, insomma. È l’integrazione, in altri termini, che mi trasporta dal virtuale all’attuale. La ricomposizione dell’infranto, quindi, non è animata da alcun telos verso una totalità che nessuna virtualità sopporta, ma indica invece la “cura” delle singolarità e delle differenze.
Il compito del traduttore, allora, è quello di rimettere assieme i frammenti del vaso infranto.
Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo di intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di una stesso vaso – frammenti di una lingua più grande. W. Benjamin, cit., p. 49
Una parola fondamentale di una lingua deve “comporsi” con altre parole fondamentali della stessa lingua (traduzione intralinguistica) o con un’altra parola fondamentale di un’altra lingua (traduzione interlinguistica), parole, concetti, che proprio per questo non possono avere lo stesso profilo. Tutte le parole fondamentali dicono lo stesso eppure tutte sono necessarie, perché ognuna è un frammento dello stesso vaso infranto. I concetti organizzati in una costellazione funzionano allo stesso modo: l’istante “traduce” la chora proprio perché l’uno non può mai stare al posto dell’altro (riduzione a un’identità) ma anche l’uno non può stare senza l’altro nella mera indifferenza reciproca. Entrambi si reclamano in virtù della irriducibile differenza con cui ripetono lo stesso, il “fuori”.
L’essenziale del concetto di “fuori” (soglia, passaggio) è il fatto di essere una discontinuità fondamentale che genera la continuità dell’essere effettivo, una indeterminazione determinante. Il fuori, la soglia, il passaggio, la linea di demarcazione sono tutti caratterizzati dal fatto di non essere una particolare determinazione, ma “ciò” a partire da cui c’è qualcosa di determinato. Sono operatori differenziali che lasciano essere il differenziato “scomparendo” in modi diversi in esso. L’istante, ad esempio, la X come quantità evanescente, non-tempo che si determina continuamente arrestando il proprio fluire (scomparendo come divenire) nell’infinita successione degli “ora”. Il termine “istante” è molto espressivo dal punto di vista etimologico: deriva da in-stare, ed indica un arresto, lo stare, che è pressato, incalzato, un fermarsi che è, contemporaneamente, un ripartire.
Ma pensiamo anche a un’altra forma del “fuori”, a un altro modo dello “scomparire” nel lasciar essere qualcosa, il foglio bianco. Se lo consideriamo in quanto cosa è indubbiamente qualcosa di determinato, ma se lo considero come luogo di raffigurazione, esso è proprio ciò che si nega come cosa e come luogo determinato, per lasciar essere la figura. Il foglio bianco, come la base inodore dei profumi o la materia molle che deve ricevere l’impronta, di cui parla Platone nel Timeo, è una discontinuità spaziale, un non-luogo (la bianchezza) grazie al quale, o meglio, “dove” la figura può aver-luogo.
La costellazione concettuale del “fuori”, allora, indica un non-essere-qualcosa che, pur tuttavia non è un mero nulla: indica un qualcosa che non ha esistenza attuale, ma in cui può aver luogo l’effettiva esistenza delle cose, discontinuità che “produce” il continuo, virtualità.
L’impianto teorico del Timeo
Il Timeo si basa su tre fondamenti teorici di grande importanza.
- Ogni regione ontologica è colta da una specifica facoltà.
La νόησις (noesis), l’intelligenza, coglie l’essere in sé, l’essere ingenerato. Secondo Platone, questa è l’unica forma vera di conoscenza. La αἴσθησις (aisthesis), la percezione, che Platone definisce ἄλογος (alogos) (irrazionale, ma anche ciò che sta fuori dal discorso, ciò che è indicibile), coglie il divenire, l’essere generato, gli enti sensibili.
- Ogni cosa generata deve avere una causa.
Il mondo sensibile, infatti, non ha in sé la ragione del proprio essere. Qui il processo di generazione va compreso secondo la fondamentale categoria greca del ποιεῖν (poiein), cioè produrre secondo μίμησις (mimesis), guardando un modello. Il cosmo appare come un artefatto, anche se di natura molto speciale, dal momento che avrà la natura dell’animale vivente. Nel platonismo il problema della causa è un problema fondamentale. Usando con la dovuta cautela una concettualità aristotelica, possiamo individuare nelle Idee la causa formale, gli archetipi, i modelli, che costituiscono l’identità d’essere delle copie, nel Demiurgo la causa efficiente che “produce” le idee come immagini del suo pensiero e nel Bene la causa finale, la ragione per la quale il Demiurgo produce il cosmo. Sarà riguardo alla “causa materiale” che Platone produrrà il suo discorso più complesso e oscuro. Questa, infatti, non è la semplice materia che il divino artigiano lavora abilmente per rappresentare con essa le Idee, ma si presenta con la forza e la necessità di un altro principio, contrapposto, anche se non “estraneo” all’intelligibile, la chora.
- L’imitazione delle idee genera una realtà bella, l’imitazione del divenire genera una realtà brutta.
Qui l’opposizione non è più fra “utile” (i prodotti artigianali, oggetti d’uso utili al δῆμος (demos), popolo, della πολιτεία (politeia), repubblica, ideale) e “ingannevole” (le immagini artistiche, ma anche i discorsi sofistici, che si spacciano per verità, mentre altro non sono che riflessi di realtà, simili a quelli che lo specchio rimanda). Ora l’opposizione sembra radicalmente “estetica”, fra bello e brutto e mai divorzio fra arte e bellezza sembra essere stato più grande, dal momento che Platone ci sta dicendo che le opere d’arte sono brutte perché sono imitazioni del sensibile (copie di copie).
Quando l’artefice di qualsivoglia cosa, guardando sempre a ciò che è allo stesso modo e servendosi come di esemplare ne porta in atto l’idea e la potenza, è necessario che in questo modo riesca tutta quanta bella; quella cosa, invece, che l’Artefice porta in atto servendosi di un esemplare generato, non sarà bella. (Tim., 28a-b)