Il grande tema della chora nel Timeo (2a parte)
La creazione demiurgica e la necessità della chora
Il Preludio al dialogo, che contiene i tre principi sopra enunciati, si chiude con l’individuazione del “livello di verità” a cui il dialogo si situa.
I discorsi hanno un’affinità con le cose stesse di cui sono espressione. Dunque, ciò che è stabile e saldo e che si manifesta mediante l’intelletto, conviene che sia stabile e immutabile. […] Invece i discorsi che si fanno intorno a ciò che fu ritratto su quel modello, e che quindi è immagine, sono a loro volta verosimili. (Tim., 29b)
Il Timeo eleva a livello mitico il demiurgo, l’artigiano. Le idee, trascendenti il cosmo sensibile, sono causa necessaria, ma non sufficiente dell’essere del mondo. Sono gli archetipi, i modelli del cosmo sensibile e, come tutti i modelli, possono “produrre” delle copie solo grazie a una causa efficiente che opera in vista di un fine. La causa efficiente è proprio il divino demiurgo, che pensa le idee nel suo intelletto, mentre la causa finale è rappresentata da una sorta di necessità morale, dal momento che la sola necessità logica sarebbe incapace di uscire dalla dimensione della mera possibilità. Il demiurgo non è solo intelligenza, ma anche bontà e, in forza di questa, vuole che tutte le cose siano simili a lui e decide, quindi, di portare il mondo all’esistenza. Come si può notare, questa visione è lontanissima dal creazionismo biblico ex nihilo. Le idee rappresentano la causa formale-paradigmatica delle cose, sono eterne e l’intelligenza demiurgica non le crea, ma solo le pensa. Il demiurgo pensa il mondo e lo esprime compiutamente come “progetto”.
Tuttavia, per realizzare effettivamente questo progetto, Platone deve far intervenire un principio di tutt’altra natura, l’enigmatica chora. Il progetto, per realizzarsi, deve letteralmente “uscire” dallo “spazio” in cui è stato concepito. Ora, una lettura senz’altro dominante e, per certi versi, legittima, interpreta questo principio, sotto l’influenza dei successivi sviluppi del neoplatonismo, in primo luogo di Plotino, come l’informe e l’indeterminato. A testimonianza di questo tipo di lettura, riportiamo quanto scrive Giovanni Reale nell’Introduzione al Timeo
Per Platone il non essere non è affatto il nulla, ma coincide con l’informe e con l’indeterminato, e dunque corrisponde al principio materiale. Dunque il passare dal non essere all’essere per Platone significa un passare da un tipo di realtà informe a una strutturazione di questa in funzione del modello di ciò che sempre è. Ed è proprio questo passaggio che non si spiega senza una causa intelligente che agisce. […] L’intelligenza produttiva presuppone, proprio per produrre,l’esistenza di due realtà, aventi fra di loro un nesso metafisico bipolare: quella dell’essere che è sempre allo stesso modo, che funge da esemplare, e un principio materiale, che è non essere nel senso di non ancora essere in senso pieno, caratterizzato dal più e meno, dal disordine e dall’eccesso. (Giovanni Reale, Introduzione a Platone, Timeo, Milano, Rusconi, 1994, p. 28)
Credo che così rimaniamo alla superficie del problema platonico del sensibile e del “materiale” perché si rischia di confinare Platone in un’arcaica posizione di dualismo metafisico che non gli rende giustizia.
La chora, impropriamente identificata con il principio materiale, non è essere nel senso pieno del termine, se con essere intendiamo l’essere determinato e pienamente dispiegato. Questo, tuttavia, non basta per decretare tale realtà, dato che di realtà a tutti gli effetti si tratta, come informe e indeterminata. ἄμορφον (amorphon) non è l’informe, ma ben altro, la sua neutralità non è passività né inerzia, ma ben altro. Se semplicemente fosse l’indeterminato plasmabile dall’intelligenza, non costituirebbe alcun problema filosofico, accoglierebbe docilmente le forme che l’intelligenza vuole imprimere in essa e sarebbe, come la ὕλη (hyle), materia, complementare alla forma. Invece Platone la definisce una specie difficile e oscura, ἀμυδρόν (amydron, lo stesso termine usato nel X libro di Repubblica per indicare l’oscurarsi della verità nel sensibile).
La chora è un principio che non opera guidato dall’intelligenza, ma dalla necessità, ed è una causa che Platone non definisce affatto materiale ma, significativamente e problematicamente, “errante”, πλανωμένη αἰτία (planomene aitia). Causa errante ha, naturalmente, il senso di disordinato, caotico, irregolare, ma anche quello altrettanto importante, di ciò che induce all’errore, di ciò che inganna. Tutt’altro, quindi, di una docile materia plasmabile. Leggiamo direttamente il testo di Platone, per interpretare questo concetto davvero cruciale.
Le cose che abbiamo detto in precedenza, tranne poche, hanno chiarito le opere prodotte dall’intelligenza. (Le copie delle idee, che il divino artigiano ha concepito nella sua mente attraverso l’imitazione del modello ideale). Ora bisogna aggiungere al discorso anche ciò che avviene per mezzo della necessità. […] Pertanto, se si vuol dire come il cosmo si è effettivamente generato (Non solo progettato, ma anche venuto all’esistenza), bisogna mescolare nel discorso anche la forma della causa errante, per quanto comporta la sua natura. Bisogna dunque che torniamo indietro, e ricominciamo di nuovo da un altro principio che si addice a queste cose. Come abbiamo fatto per le cose di allora, così anche per queste bisogna ricominciare di nuovo da principio. (Tim., 47e-48b) (c.m.)
Il nuovo “ingrediente” di cui si occupa Platone non è un’aggiunta accidentale, un accessorio, ma qualcosa di davvero necessario, un vero e proprio altro principio che esige un ricominciamento. La “materia”, di cui il cosmo è “fatto”, è indisponibile a ridursi a mero mezzo utile per rappresentare le idee nella realtà. Essa è il “luogo”, il “dove”, l’in cui (non il tramite) le idee appaiono, non mezzo, ma medium. Questo nuovo ricominciamento, inoltre, comportando un allargamento della prospettiva metafisica, comporta anche una diversa articolazione del logos capace di tradurla in discorso e “conoscenza”.
Il principio che riguarda l’universo si basa su una distinzione più ampia di quella di cui si è detto prima. Difatti allora distinguemmo due generi, e ora bisogna spiegare un terzo e differente genere. I due generi erano sufficienti per le cose dette in precedenza: l’uno posto come forma di esemplare, come intelligibile e come essere che sempre è allo stesso modo. (Sono elencati i tre caratteri ontologici delle idee: sono modelli, vengono colte (viste) con l’intelletto, sono eterne). Il secondo come imitazione dell’esemplare, che ha generazione ed è visibile. (Sono elencati ora i tre caratteri ontologici delle realtà sensibili: sono copie dirette delle idee, vengono colte (viste) con i sensi, sono calate nella catena del divenire). (Tim., 48e) (c.m.)
Questo sembra esaurire le possibilità ontologiche: l’intelligibile e il sensibile, il mondo vero e il mondo delle copie, e lo stesso Platone, come sottolinea, ne è convinto. In realtà, se si vuole uscire dalla mera possibilità, bisogna ripensare questo schema, ed è ciò che Platone fa.
Il terzo genere allora non l’abbiamo distinto, ritenendo che i due bastassero. Ora invece il ragionamento ci costringe a cercare di chiarire con le parole anche questo terzo genere difficile ed oscuro. Quale potenza e natura dobbiamo pensare che abbia? Questa soprattutto: di essere il ricettacolo, ὑποδοχή, (hypodoché) di tutto ciò che si genera, come una nutrice. (Ti., 48e-49a)
Questo terzo genere, dalla natura difficile ed oscura, “deve” essere introdotto. Platone, suo malgrado, è costretto a riconoscere l’insufficienza ontologica delle idee (e delle loro copie legittime, perfettamente somiglianti all’archetipo) per la generazione del cosmo. Non solo. Il modello di produzione che finora ci aveva guidati, quello della produzione artigianale, lascia il posto a un modello del tutto diverso, dove, pur vigendo ancora il principio di somiglianza, questa si trasmette in modo totalmente diverso: il modello della generazione del figlio dall’unione del padre e della madre. La somiglianza, ora, non è più assicurata dall’imitazione di un modello, ma per impressione, secondo il modello greco di generazione, consistente in un principio maschile attivo che informa di sé un principio femminile passivo. Mentre il modello (l’intelligibile) e la copia sensibile (il figlio) sono rigorosamente maschili, il “terzo genere”, ciò “in cui” la copia è generata è, invece, di natura femminile. Ma questo “in cui” ha con il luogo lo stesso rapporto differenziante e “generativo” che l’istante ha con il tempo.
Ciò che riceve conviene paragonarlo alla madre, ciò da cui riceve al padre, e la natura che è di mezzo a questi al figlio. E bisogna inoltre pensare che, dovendo l’impronta risultare visibile in tutte le svariate varietà, in nessun altro modo quello in cui si realizza l’impronta sarebbe preparato opportunamente, a meno che non fosse privo della forma di tutte quante le Idee che riceve da qualche parte. (Tim., 50d-e)
Ciò in cui la copia sensibile si genera è ricettacolo, δεχόμενον, (dechomenon), un puro “dove” atto a ricevere un’impronta. E, a questo scopo, il miglior ricettacolo è quello che non lascia alcuna traccia di sé sul figlio che genera, perché nel mondo greco, e Platone non è solo un interprete della cultura greca, ma una sua figura preminente, la somiglianza deve appartenere solo al padre.
Se il ricettacolo fosse simile ad alcuna delle forme che entrano in esso, quando venissero quelle che sono di natura contraria e completamente diversa, le riceverebbe e le riprodurrebbe male, mettendo in mostra il suo aspetto. (Tim., 50e)
Il ricettacolo deve letteralmente “scomparire”, ritirarsi, per lasciar essere nel modo più puro l’idea rappresentata. Così come, per lasciar essere l’ora presente, la X (l’istante, il differenziale in quanto differenza evanescente fra A e C) deve scomparire e definirsi in B. La discontinuità, il “fuori” che in ogni istante crea la continuità del flusso temporale si dà nel “momento” B. Per spiegare questo concetto, Platone si serve di analogie tratte dal mondo reale.
Pertanto, è necessario che sia al di là di tutte le forme ciò che deve ricevere in sé tutti i generi, così come, ad esempio, per gli unguenti odorosi prima di tutto ci si impegna con arte nel fare questo, ossia si fa in modo che, per quanto è possibile, siano inodori i liquidi che devono accogliere i profumi. E coloro che intraprendono a imprimere delle figure in qualche materia molle fanno in modo che non ci sia alcuna figura visibile, e, spianandola, la rendono il più possibile liscia. (Tim., 50e)
Gli elementi della fisica tradizionale si determinano a partire da questa “neutralità”: aria, acqua, terra e fuoco, nel loro divenire incessante, si differenziano in rapporto a questo “neutro” in cui sono “immersi”, margine senza luogo del loro mutamento, “soglia” che ripartisce e divide l’acqua dalla terra, il fuoco dall’aria e così via.
Quello che abbiamo chiamato acqua, quando si condensa lo vediamo diventare pietra e terra, e quando si fonde e si discioglie lo vediamo diventare vento ed aria; e l’aria, quando si infiamma, la vediamo diventare fuoco, […] poiché queste cose non appaiono mai le medesime, quale di esse qualcuno potrebbe non vergognarsi sostenendo con sicurezza che è proprio questa cosa e non altra? Di quello che sempre vediamo trasformarsi ora in un modo ora in un altro, come ad esempio il fuoco, non si deve dire “questo” è fuoco, ma “tale” è fuoco ogni volta. […] infatti, tali cose sfuggono e non sostengono la denominazione di “questo” e “codesto” e di “in questo modo”, e ogni altra che le indichi come stabili. Non bisogna chiamare così ciascuna di queste cose singole, ma bisogna denominare in questo modo ciò che è sempre tale e passa identico in ciascuna cosa e in tutte, […] ciò in cui ciascuna di tali cose generandosi appare, e da cui di nuovo scompare, soltanto quello, a sua volta, bisogna chiamare usando i vocaboli “questo” e “codesto. (Tim., 49c-50a)
Il ricettacolo è il non-luogo in cui gli elementi sono quel che sono e, contemporaneamente, diventano altro da ciò che sono.
Perciò la madre è il ricettacolo di ciò che si genera ed è visibile e interamente sensibile, non diciamola né terra né acqua né fuoco né aria, né altre delle cose che nascono da queste o dalle quali queste nascono. Ma, dicendola una specie invisibile e amorfa, capace di accogliere tutto, e che partecipa in modo assai complesso dell’intelligibile e che è difficile da concepirsi, non ci inganneremo. (Tim., 51a-b)
Platone non dice affatto informe. Amorfo è altra cosa da informe: il primo è l’al di là delle forme, ciò che ritirandosi lascia essere le forme, ciò che si dà tutto nelle forme e senza il quale le forme stesse non sarebbero, ma che non è dell’ordine delle forme, l’altro è, invece, l’indeterminato che attende la determinazione e, in quanto forma indeterminata, appartiene all’ordine delle forme. Questa terza specie, che sta al di là delle forme, amorfa, è detta invisibile, e in ciò si oppone non solo al visibile sensibile, cioè alle cose che essa “lascia essere”, visibili con gli occhi del corpo, ma anche alla realtà intelligibile, visibile con gli occhi della mente.
Il greco, in questo, è molto efficace: la chora è ἀνόρατον εἶδος (anoraton eidos), entrambi le forme verbali ὁράω e ἰδεῖν (orao e idein) significano “vedere”. L’anoraton eidos, paradossale ossimoro, è il principio che si oppone direttamente, come un altro principio altrettanto potente, all’essere intelligibile. Questo essere al di là delle forme, inoltre, non può non richiamare un altro modo d’essere al di là dell’essere, al di là delle forme, al di là delle idee, il modo d’essere del Bene, che, per Platone, è ἐπέκεινα τῆς οὐσίας (epekeina tes ousias), al di là dell’essere. Sarà facile per il neoplatonismo legittimare la comprensione di questo terzo genere d’essere, quello della chora, come il Male. Un’interpretazione non arbitraria, ma sostanzialmente estranea a Platone.
Questo genere amorfo e, perciò, inesauribilmente capace di accogliere e di lasciar essere, invisibile, perciò estraneo tanto alla conoscenza sensibile quanto a quella intelligibile, tanto all’aisthesis quanto alla noesis, partecipa, μεταλαμβάνει (metalambanei) in modo assai complesso all’intelligibile.
Μεταλαμβάνω è un verbo sommamente ambiguo: significa partecipare di, ma anche prendere la parte, giocare la parte, scambiarsi i ruoli. Per questo terzo genere Platone non usa il consueto verbo μετέχω (metecho), partecipare nel senso di condividere, verbo che indica uno dei modi (gli altri sono la mimesis e la parousia) secondo cui si dà il rapporto fra le idee e le cose sensibili. Il lambano, che compone il verbo metalambano, è uno dei verbi semanticamente più ricchi della lingua greca: significa genericamente “prendere”, ma più specificamente catturare, afferrare, prendere con violenza, con sorpresa, e anche, scambiando la causa con l’effetto, percepire, ricevere, ottenere.
La terza specie, allora, è il “questo” assolutamente singolare e neutro, “in cui” tutte le cose vengono all’essere e dall’essere scompaiono, è ἐκμαγεῖον (ekmagheion), recettore di impronte, la cui natura amorfa necessariamente affetta ogni forma rappresentata.