La “condanna” platonica dell’arte – 9 (Conclusione)

Il grande tema della chora nel Timeo (3a parte)

La “spazialità” della chora

Χώρα (Chora) in greco significa spazio, regione, ma la sua spazialità non va certo intesa né nel senso della spazialità moderna, cartesiana, la spazialità geometrica o fisica della scienza matematica della natura, né in quello generico di luogo. La chora è indifferente alla contraddizione, perché nella sua estraneità a tutte le forme può esserle tutte. È differenza senza identità, perché l’identità si applica solo al mondo delle forme. È il “fondo” dell’essere (genitivo soggettivo) che si dà negli enti, il “fuori” in cui lo spazio della rappresentazione si genera, il “qualcosa” che, in quanto tale si nientifica per lasciar essere qualsivoglia determinazione. Come l’istante non è nel tempo, così la chora non ha essenza, non ha definizione, non ha luogo, come l’istante è sempre nei momenti del continuum temporale, così la chora “scompare” negli enti, “si traduce” nelle cose che sono, sottraendole allo spazio della mera possibilità e affidandole alla carne dell’esistenza.

Il fondo non va confuso né con lo sfondo di una figura né con la materia di cui una figura è fatta, come bene mostra uno storico dell’arte, P. Schneider, in Figure, sfondi, frontiere.

Impercettibile presenza, quando la figura funziona e satura lo sguardo, il fondo si fa invece percettibile assenza quando la figura smette di funzionare oppure rischia di svanire inghiottita nell’indeterminato come in certi disegni di Watteau. Il fondo, né figura né sfondo né materia, rappresenta allora il punto insituabile e letteralmente metafisico della conversione miracolosa di qualcosa in dechomenon, in luogo della raffigurazione. Conversione che ogni raffigurazione presuppone e mette in opera, esponendo se stessa a questo faccia a faccia con l’illimitato. Se infatti la figura dice l’essere determinato, il fondo che ogni figura porta con sé esprime l’altro dalla figura determinata, l’illimitato che orla ogni limite. (Citato in Rocco Ronchi, Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Christian Marinotti edizioni, Milano, 2001, p. 44).

Perché le cose effettivamente siano, perché ogni cosa sia “davvero” quella determinata cosa che è, è necessario che la chora, in un modo “difficile e oscuro”, si mostri nelle cose che si danno. Non che si mostri la chora, naturalmente, che, per sua natura, è invisibile, ma che essa si mostri “nella” cosa. Non si dà fondo se non come suo tradursi in figura e non si dà figura se non come particolare determinazione di questo fondo, così non si dà istante se non come suo determinarsi in un presente e non si dà presente se non come determinazione particolare di un istante. Come comprendere, allora, la chora, che è il “fuori” in quanto tale?

Prima di rispondere a questa domanda, osserviamo che la necessità della chora, che Platone, suo malgrado, non può fare a meno di riconoscere, anche se, integrandola nel suo sistema, tenterà di razionalizzarla e di disarmarla, indica alla fine un’imbarazzante verità. Le Idee, essenze somme, pure ed eterne, sommamente determinate nella loro identità, collocate in quel luogo atopico che è l’iperuranio, modelli che sono misura della qualità e del grado d’essere delle cose, si rivelano drammaticamente insufficienti proprio da un punto di vista ontologico. Senza la chora, le idee non possono letteralmente “aver-luogo”, restano mute, senza voce. Ma se vogliono “parlare” sono obbligate ad affidarsi a una voce che le “stona”, a un medium che, con la forza di un altro principio, nel mentre “rappresenta”, instancabilmente destituisce ogni rappresentazione affermando in primo luogo se stesso.

Senza l’azione determinante del “fuori”, la coppia “cosa sensibile-idea intelligibile” costituirebbe una dicotomia astratta, un mero rimando segnico: il letto reale sarebbe solo “segno” del letto ideale in un rapporto di mero riferimento, ombra che sta al posto della realtà, apparenza che, in modo inadeguato semplicemente “rappresenta” un’essenza. È la chora che dà a questa apparenza la consistenza della presenza effettiva e, con ciò, la forza di una realtà altra da quella intelligibile. Questa è la ragione del pericolo che le cose sensibili rappresentano nel mondo platonico, primariamente di quelle cose sensibili, come le immagini artistiche, che volutamente oscurano e indeboliscono il proprio status di copie e di segni. Le idee, che le cose sensibili rappresentano, sono sempre minacciate, nella loro purezza, dall’incessante precarietà del loro sempre “eventuale” aver-luogo.

Il pensiero bastardo

E allora, come comprendere la chora, principio inconcepibile e invisibile? Come parlare di essa? Finora Platone ha fatto ricorso a immagini, a metafore, il ricettacolo, la nutrice, la base inodore, la materia molle che accoglie le impronte, ecc. Ci si deve rassegnare a un discorso metaforico? Leggiamo ciò che dice Platone.

Bisogna ammettere che c’è un terzo genere, quello della chora, che è sempre e che non è soggetto a distruzione, e che fornisce sede a tutte le cose che sono soggette a generazione. E questo è coglibile senza i sensi, con un pensiero bastardo, ed è a mala pena oggetto di persuasione. Guardando a esso noi sogniamo, e diciamo che è necessario che ogni cosa che è, sia in qualche luogo e occupi uno spazio, mentre ciò che non è né in terra né in qualche luogo in cielo, non è nulla. (Tim., 52a-52b)

La chora non può essere né pensata, dato che il pensiero ha per oggetto solo l’essere vero, le idee, né percepita, perché la percezione riguarda solo le cose sensibili. Solo una terza via del pensiero, spuria, legittima, bastarda può accedere ad essa, può volgersi non all’idea né alla cosa sensibile, ma al “darsi sensibile” dell’idea.

Bastardo, secondo il codice culturale classico, è un figlio illegittimo, quello in cui il padre non vede impressa la propria somiglianza. Bastarda, secondo il codice platonico, è dunque quella realtà fenomenica in cui è rimasta traccia del passaggio attraverso l’inessenziale e notturno fondo materno. (R. Ronchi, Il pensiero bastardo, cit., p. 53)

Platone non fa intervenire un’altra facoltà, oltre alla percezione e all’intelletto, ma “prescrive” un uso diverso delle facoltà. Un uso che, con Deleuze, possiamo chiamare “perverso”, nel senso in cui il filosofo francese intende il suo paradossale empirismo trascendentale. Uso perverso delle facoltà o empirismo trascendentale vuol dire semplicemente questo: vedere, in ciò che si vede, più di quanto si vede. Questo non è né un “vedere oltre” la realtà sensibile (cercare dietro di essa una realtà nascosta e più vera) né un “vedere meglio” la realtà sensibile (dettagliare quanto più è possibile la cosa per coglierne tutti i particolari). Nella cosa sensibile non si vede l’idea che la legittima né le sue determinazioni particolari, ma “si vede” il determinarsi della forma, la traccia del fondo in cui la forma si dà. Platone si serve della metafora del sogno per determinare questa modalità di accesso alla chora, perché il sogno, in effetti, non richiede facoltà diverse da quelle della veglia, ma un loro uso diverso, improprio, svincolato dalle ragioni della realtà.

Come pensare il darsi delle forme senza ridurlo a qualcosa di essente? Come pensare l’aver-luogo della realtà, il divenire delle forme, senza imprigionarsi nella forma divenuta? Quell’aver-luogo che, per il suo carattere neutro e amorfo, non può essere percepito (è l’indeterminato determinante) e, per la sua alterità e resistenza strutturale all’intelligibile (è l’inessenziale), non può essere concepito? Il pensiero bastardo coglie nella cosa determinata la traccia dell’aver-luogo della cosa, cioè, come scrive Ronchi, “percepisce la differenza insensibile e inevidente tra il luogo come limite e ciò che insistendo in esso affiora all’essere.” (R. Ronchi, Il pensiero bastardo, cit., p. 56). Pensa nelle cose, non l’idea che esse rappresentano, ma il “luogo” di cui si sono “appropriate” per essere effettivamente ciò che sono, per “definirsi” come cose reali e non come semplici significati disincarnati, quel “luogo” che, come l’istante, è amorfo, neutro, non per manchevolezza di forme o per indifferenza, ma perché è il dispositivo differenziale che “traduce” l’idea in evento, sottraendola alla duplice “insensatezza” della pura essenza e del mero fatto.

Nella sua magistrale analisi della chora platonica e del λογισμός νόθος (loghismos nothos), pensiero bastardo, Ronchi “gioca” sulla differenza fra segno e traccia per sottolineare la necessità del concetto di chora per un “pensiero del sensibile”.

Il segno, come un fantasma, rimanda ad una presenza attualmente assente e ci pone sulle tracce di questa presenza. Il segno è anamnesi dell’idea. Ma il che di questo che cosa, la quodditas di questa quidditas, nessun sapere lo può circoscrivere. […] La traccia mostra che un evento ha avuto luogo, il segno dice che cosa ha avuto luogo. (R. Ronchi, Il pensiero bastardo, cit., p. 66-67)

Conclusione

Alla luce di quanto detto, la distinzione fra la copia legittima, prodotto della mimesi icastica, e la copia bastarda o simulacro, prodotto della mimesi fantastica, da cui siamo partiti nella nostra analisi del pensiero di Platone sul sensibile, distinzione su cui si gioca, da un lato, il riscatto del mondo sensibile dall’inconsistenza ontologica a cui l’eleatismo lo aveva costretto e, dall’altro, l’irredimibile condanna dell’arte in quanto colpevole imitazione del sensibile che allontana ingiustificatamente dalla verità, può essere compresa in tutta la sua portata.

Nella copia legittima, nell’oggetto fabbricato dall’artigiano, la materia (il sensibile) di cui questa è fatta, tende a scomparire nell’uso, nel servizio reso alla comunità della Repubblica ideale e, quando è “tema” di conoscenza, emerge come primaria la sua funzione segnica di riferimento all’Idea. La copia, insomma, lascia essere, sia pure in modo imperfetto, l’idea, senza imporre, come fa l’arte, in forza della sua natura illusionistica e simulatrice, una stasis nel sensibile.

Le opere artistiche, invece, ed è questa la loro grave colpa, presentandosi non come oggetti-per, ma come immagini in sé, lasciano essere in primo luogo il sensibile in quanto tale, il quale, come abbiamo visto trattando della chora, com-porta necessariamente il tradursi del fondo nella forma. Ciò fa sì che il ruolo delle immagini come segni dell’intelligibile si oscuri in favore di quello, fortemente eversivo, di essere tracce del principio differenziante. La chora, in quelle imagines tantum che sono le opere d’arte, trasmette la propria fisionomia, sfigurando in esse ogni somiglianza con l’idea. È questa la necessità concettuale che impone a Platone di bandire l’arte dal suo sistema concettuale, di confinarla all’esterno del suo mondo, nel luogo dell’espulso e del reietto. Platone, che non ha mai smesso di pensare il sensibile, ha intuito che l’arte non potrà mai essere davvero il “darsi sensibile della verità”, ma l’inaccettabile, per il suo sistema, “darsi del sensibile come verità”.

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