La “rivalutazione” aristotelica dell’arte – 1

Introduzione

Aristotele è l’autore di quello che si può considerare il più famoso trattato “estetico” (in realtà un trattato sull’arte poetica) dell’antichità. La Poetica è un testo che, praticamente sconosciuto nel Medioevo, ha esercitato tutto il suo influsso a partire dal XVI secolo per arrivare fino alle soglie della modernità. È uno dei testi meno compiuti, più frammentari, della produzione aristotelica e, fin dall’inizio, si presenta caratterizzato da due aspetti filosoficamente marginali. Da un lato, è un breviario prescrittivo, un trattato di precettistica su come deve essere una tragedia, dall’altro, è una descrizione degli elementi che compongono una tragedia. Entrambi questi aspetti hanno perso ogni rilevanza teorica e conservano, a mio avviso, un interesse meramente storiografico ed erudito.

Nella vulgata filosofica Aristotele è considerato, contro Platone, il filosofo che ha saputo restituire dignità all’arte e alla poesia, riconoscendo a esse, grazie a una reinterpretazione del concetto di imitazione, un innegabile ruolo conoscitivo. Una lunga tradizione si appoggia proprio sull’autorità della Poetica per ribadire la legittimità e il valore dell’imitazione nell’arte. Un’arte, quella poetica in particolare, che sembra proporsi con caratteri opposti rispetto alla concezione platonica: l’imitazione, infatti, è tutt’altro che inganno. Anzi, è una forma di conoscenza, anche se non propriamente del vero, ma di un suo modo minore, il verosimile. La poesia, poi, lungi dal suscitare passioni incontrollate, lungi dal blandire l’anima irrazionale, opera in essa una vera e propria catarsi, una purificazione, una liberazione dalle passioni incontrollate e dai loro effetti negativi.

Platone e Aristotele

L’antiplatonismo di Aristotele

All’inizio del X libro della Repubblica Platone, per pronunciare la sua condanna morale, politica e ontologica delle arti imitative, si serve dell’esempio dei “tre letti”, quello originale, “prodotto” dal dio, φυτουργός, (phytourgos), la sua copia reale, prodotta dal falegname, δημιουργός, (demiourgos), imitando direttamente il modello, e la copia illusoria, opera di quel simulatore di professione che è il pittore, μιμητής, (mimetes). Fra le molte cose che Socrate dice in questo passo c’è anche l’affermazione riguardo alla necessità che l’oggetto ideale sia “uno e identico a sé”. In questo suo carattere di unità il letto ideale si oppone alla molteplicità dei letti reali giocando, nei loro confronti, il ruolo di fondamento che ne impedisce la mera dispersione.

Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto, sia che qualche necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo ed unico letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé, ossia “ciò che è” letto. Ma due o più letti di tal genere dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai. Perché, se ne facesse anche due soli, ne riapparirebbe uno, di cui, ambedue quelli, a loro volta, ripeterebbero la specie. E “ciò che è letto” sarebbe quest’ultimo, anziché quei due. (Rep. 597 c)

Anche se in forme diverse, questa necessità che l’idea sia “una” ritorna tanto nel Parmenide che nel Timeo.

Non è possibile che qualcosa sia simile all’Idea, né che l’Idea sia simile ad altro, altrimenti sempre sorgerà, oltre all’Idea, una nuova Idea e, se anche questa sarà simile a qualcosa, un’altra ancora, né mai finirà di aggiungersi una nuova idea, se l’Idea è simile a ciò che ne partecipa” (Parmenide, 132e-133a)

Il mondo è uno solo, se è stato costruito secondo il modello. Infatti quello che comprende tutti quanti gli animali intelligibili non potrebbe mai essere secondo, insieme a un altro. Infatti, in tal caso, ci dovrebbe essere, ulteriormente, un altro vivente che li comprenderebbe ambedue, e di cui quei due sarebbero parti; e si direbbe che questo universo è stato fatto simile non più a quei due, ma a quello che li comprende. (Timeo, 31 a)

È il famoso argomento noto in logica come argomento del “terzo uomo”, del quale abbiamo già parlato nella parte dedicata a Platone, un argomento che il filosofo ateniese usa come dimostrazione per assurdo e del quale Aristotele si servirà proprio per contestare il platonismo, sostenendo che le Idee, in quanto forme separate, rappresentano una inutile moltiplicazione degli enti. Questo, ben lungi dall’aiutare il riconoscimento di una causa stabile al di là del variare delle apparenze, semplicemente complica il conto e, ciò che è più grave (ma anche ironicamente interessante) fa ripiombare tutta l’episteme in quel caos poetico e mimetico dal quale si era voluta sollevare. Leggiamo nella Metafisica l’affondo di Aristotele contro Platone.

La difficoltà più grave che si potrebbe sollevare è la seguente: quale vantaggio apportano le Forme agli esseri sensibili, sia a quelli sensibili eterni, sia a quelli soggetti a generazione e a corruzione? Infatti le Forme, rispetto a questi esseri, non sono causa né di movimento né di alcuna mutazione. Per di più le Idee non giovano alla conoscenza delle cose sensibili (infatti non costituiscono la sostanza delle cose sensibili, altrimenti sarebbero a queste immanenti) né all’essere delle cose intelligibili, in quanto non sono immanenti alle cose sensibili che di esse partecipano. […] Dire che le Forme sono “modelli” e che le cose sensibili “partecipano” di esse significa parlare a vuoto e far uso di mere immagini poetiche. Infatti, cos’è mai ciò che agisce guardando alle Idee? È possibile che ci sia o che si generi una qualunque cosa simile a un’altra, pur senza essere stata modellata a immagine di questa; sicché potrebbe ben nascere un uomo simile a Socrate, sia che Socrate esista sia che non esista. E sarebbe lo stesso, evidentemente, anche nel caso che ci fosse un “Socrate eterno”. Inoltre, per una medesima cosa, dovranno esserci numerosi modelli e, di conseguenza, anche numerose Forme: dell’uomo, per esempio, ci saranno le Forme dell’animale, del bipede, oltre che dell’uomo in sé. Inoltre le Forme saranno modelli non solo delle cose sensibili, ma anche di sé medesime: per esempio, il Genere, in quanto Genere, sarà modello delle Forme in esso contenute. Di conseguenza la medesima cosa verrà ad essere modello e copia. (Met. A9, 991a 5-30)

La logica di Aristotele è stringente e le sue conclusioni sono perentorie: anche Platone, come gli altri filosofi, ha parlato delle cause in modo confuso e perciò è portatore di una filosofia primitiva che sembra balbettare su tutte le cose, essendo giovane e ai suoi primi passi. Ciò che Aristotele farà sarà ripensare la mimesi come struttura portante del processo di produzione ontologica.

Il letto reale e le sue “immagini”: concetto e figura.

Nell’ordine del reale, sostiene Aristotele, viene prima il letto del falegname e, solo dopo, da questo, per via di astrazione e di generalizzazione e dall’esame di tanti letti empirici, si ricaverà il “letto in generale”, la specie, che sarà una “mimesi concettuale” del letto empirico, una “copia” generale e astratta del letto reale, (e questo è il carattere proprio del concetto, che lo differenzia radicalmente dall’Idea platonica), letto reale che potrà anche essere “imitato” non concettualmente ma sensibilmente nella figura pittorica (v. la figura in fondo all’articolo). Per Aristotele il vero essere è la sostanza individuale, mentre il concetto o l’immagine, significativamente poste, anche se con modalità e valorizzazioni diverse, sotto lo stesso genere della ripetizione, non sono che riproduzioni, sostanze in senso secondo o derivato. Sia il concetto che l’immagine divergono dal reale e lo ricomprendono sotto un diverso registro: entrambi sono ripetizioni, ripetizione generalizzante il concetto, capace di comprendere il reale in ciò che è, al di là delle sue vicende accidentali, ripetizione verosimile l’immagine, anch’essa mirante, pur con esiti e modalità diverse, in qualche modo all’universale. La mimesi, comunque, ha perso ogni carattere negativo, dal momento che non concerne più un allontanamento dalla realtà vera, ma un sua comprensione sotto altri aspetti.

L’incipit della Poetica

L’incipit della Poetica è quanto di più aristotelico si possa concepire.

Trattiamo dunque della poetica in sé e delle sue forme, quale potenzialità ciascuna possegga e come debbano comporsi i racconti perché la poesia riesca ben fatta, e inoltre di quante e quali parti consista, e anche, in modo simile, di tutti gli altri argomenti che pertengono alla medesima disciplina, incominciando secondo natura dapprincipio dai principi. (Poet. 47a 8-13)

L’arte poetica in sé, cioè nel suo carattere essenziale, nella sua natura propria, indipendentemente dalle forme che assume, è l’oggetto della trattazione. Le “forme” non vanno intese come “generi letterari” (tragedia, epica, commedia, ecc.), ma, come viene subito sotto chiarito, come forme generali secondo le quali l’arte si manifesta e si realizza in base all’imitazione (l’imitazione secondo i mezzi con cui si imita, l’imitazione secondo i soggetti che si imitano, l’imitazione secondo i modi). Il testo presenta poi tre interrogative indirette: (a) quale potenzialità ogni arte possieda, quale sia, cioè, la sua capacità di realizzare la mimesi in base alle diverse forme secondo cui l’arte si determina; (b) come debbano comporsi i racconti perché la poesia sia ben fatta (il racconto, μῦθος, mythos, è la trama delle opere poetiche, la sequenza dei fatti che costituisce la struttura compositiva di un’opera, ed è l’elemento fondamentale di un’opera, al quale se ne aggiungono altri cinque, i caratteri, il pensiero, il linguaggio, la musica e la scenografia); infine, (c) di quante e quali parti l’opera consista. Il passo citato si chiude con l’indicazione metodologica di seguire nella trattazione l’ordine naturale, il che significa, secondo la teoresi aristotelica, partire dai principi generali e derivare da quelli l’analisi dei particolari. Aristotele partirà dalla definizione dell’arte come mimesi e dalle forme generali della poetica, per passare poi all’analisi di un genere specifico di opera d’arte, la tragedia attica, la quale diventerà emblematica della stessa poetica, e giungere alla fine all’esame dei singoli elementi che vengono utilizzati dal poeta. Proseguiamo la lettura.

L’epica, così come la poesia tragica, nonché la commedia, la composizione di ditirambi e la maggior parte dell’auletica e della citaristica nel complesso sono tutte imitazioni, ma si distinguono l’una dall’altra sotto tre aspetti: nell’imitare o con mezzi diversi, o con oggetti diversi, o diversamente e non nello stesso modo. (Poet. 47a 14-18)

La parte interessante di queste righe è l’affermazione che tutte le arti, nei vari generi, sono imitazione, concetto che rappresenta uno dei centri teoretici fondamentali di quest’opera e sul quale dobbiamo, dunque, concentrare la nostra attenzione, anche se lo faremo partendo da più lontano.

Per l’interpretazione del concetto di τέχνη, techne in Aristotele mi sono in parte riferito al corso universitario del 1982-83 del fenomenologo francese François Fédier, pubblicato in Italia dalla casa editrice Christian Marinotti. V. François Fédier, L’arte, Christian Marinotti edizioni, Milano, 2001.

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