L’iconoclastia

Riferimenti bibliografici

Cacciari, Massimo

1985 Icone della legge, Adelphi, Milano

Damasceno, Giovanni

1983 Difesa della immagini sacre, Città nuova, Roma

Dionigi Areopagita

1981 Tutte le opere, Rusconi, Milano

Filone di Alessandria

1987 La filosofia mosaica, Rusconi, Milano

Florenskij, Pavel

1977 Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano

Russo, Luigi (a cura di)

1997 Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palermo

Uspenskij, Leonid A.

1995 La teologia dell’icona, La casa di Matriona, Milano

Introduzione

Un piccolo grande saggio sull’icona, opera del teologo, poeta, filosofo e critico d’arte russo ortodosso, Pavel Florenskij (1882-1943), Le porte regali, si apre con queste parole:

Secondo le prime parole del Genesi, Dio “creò il cielo e la terra” e questa divisione di tutto il creato in due parti è sempre stata considerata fondamentale. Così nella confessione di fede chiamiamo Dio creatore delle cose visibili e delle invisibili. Questi due mondi – il visibile e l’invisibile – sono in contatto. Tuttavia la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine che li mette in contatto, che li distingue, ma altresì unisce. Come si può intenderlo? (Florenskij, 1977, p. 19)

La prospettiva dell’autore è religiosa e dualistica: l’invisibile e il visibile sono due modi per dire lo spirituale e il materiale, il divino e l’umano, l’infinito e il finito. Non è facile tracciare la linea di confine fra queste due regioni, dal momento che è necessario evitare due pericoli: da un lato, quello di sfumare tale linea fino alla sua dissoluzione e alla conseguente confusione dei due mondi, dall’altro, quello di tracciarla troppo netta, quasi corposa, fino a pensare i due mondi come giustapposti e incomparabili, l’uno trascendente e inattingibile nella sua sublimità, l’altro completamente disponibile, profano, mondano.

Giovanni Damasceno, il primo grande apologeta delle immagini nella controversia iconoclastica che travagliò il mondo bizantino per oltre un secolo (dal 730 all’843), scrive tre Discorsi (Contra imaginum calumniatores orationes tres) contro coloro che rifiutano le immagini sacre e nel primo si chiede:

Come sarà raffigurato l’invisibile? Come sarà ritratto ciò che è senza figura? Come sarà delineato ciò che non ha quantità, né grandezza, né limiti? Come sarà specificato ciò che è senza forma? Come sarà dipinto con colori ciò che è senza corpo? (Damasceno, 1983, p. 36)

È il classico problema della non rappresentabilità della natura divina, in quanto infinita e inaccessibile. Di essa si può parlare solo negando ogni determinazione finita (teologia negativa o apofatica). Damasceno definisce la natura divina in vari modi: ἀπερίγραπτος (non circoscritta, senza confini), ἀνεῖδος (senza forma), ἀσχηματίστος (senza figura), ἀκαταληπτός (inafferrabile). Nel II e nel III Discorso afferma perentoriamente che, se qualcuno osasse fare un’immagine della Divinità, questa andrebbe respinta senza esitazione come falsa, menzognera. L’inconoscibilità di Dio mette fuori gioco ogni sua possibile rappresentazione. Questa posizione si basa su una convinzione, condivisa sia dagli iconofili che dagli iconoclasti: che l’immagine sia assunta non in sé, ma in quanto relativa. La parola immagine, in altri termini, va sempre letta come immagine di e all’immagine viene affidata la funzione di rispecchiamento iconico (somigliante) dell’archetipo. L’essenziale non è mai nell’immagine, ma sempre altrove, nell’idea, nel modello, nella visione, indipendentemente dal fatto che sia rappresentabile (come sostenevano gli iconofili) oppure no (come sostenevano gli iconoclasti).

Il termine iconoclastia deriva dal greco εἰκών (immagine) e κλάω (rompere, spezzare, troncare); κλάσις è la frattura, κλάσμα il frammento, il pezzo, ciò che risulta da una frattura. L’iconoclastia, letteralmente, è la rottura, la distruzione delle immagini. In senso lato, allora, si intende con iconoclastia ogni atteggiamento di ostilità (filosofica, religiosa, psicologica, politica, artistica …) verso le immagini. Il cristianesimo, a differenza degli altri due monoteismi (ebraismo e islamismo), ha avuto con le immagini un rapporto più problematico, decisamente ambivalente, forse addirittura ambiguo. Correnti iconoclaste hanno sempre convissuto, a volte apertamente a volte in modo sotterraneo, con posizioni decisamente iconofile. Al fine di chiarire questa ambiguità, prenderò in considerazione uno dei momenti più acuti di questo conflitto, l’iconoclastia bizantina dell’ottavo e del nono secolo.

Il movimento iconoclastico e la reazione ortodossa

Il movimento iconoclastico esplode in forma violenta nella prima metà dell’ottavo secolo: è del 730 l’editto che impone la distruzione delle immagini  religiose emanato da Leone III l’Isaurico, allora imperatore a Bisanzio. La frattura che si viene a creare all’interno della Chiesa d’Oriente è subito evidente. Non solo il patriarca di Costantinopoli è contrario e, per questo, viene sostituito con un personaggio più docile, ma gli stessi cristiani di Egitto (Alessandria), di Palestina (Gerusalemme) e di Siria (Antiochia) si oppongono a tale editto, avversato, naturalmente, anche dal papa in Occidente. Ancora più radicale è la scelta iconoclastica del successore di Leone, Costantino V, il quale nel 754 convoca addirittura un sedicente concilio ecumenico, disertato, però, dalle altre sedi patriarcali di Roma, Alessandria, Gerusalemme e Antiochia. Questo concilio si conclude con la condanna formale delle immagini religiose.

Il culto delle immagini viene ristabilito da Irene, la vedova di Leone, reggente dell’Impero, che convoca un secondo concilio a Nicea nel 787, in cui sconfessa le conclusioni dello pseudo-sinodo del 754 e formula solennemente, grazie all’apporto decisivo di Giovanni Damasceno, la distinzione fra adorazione, riservata a Dio, e venerazione, di cui le immagini possono essere oggetto. Si tratta di distinguere due tipi di riverenza (revereri, temere e onorare) verso qualcuno o qualcosa, riconosciuto come superiore: la προσκύνησις τῆς λατρείας, cioè l’adorazione o culto per latria, che spetta solo a Dio (in greco la λατρεία è la condizione di servitù in cui si trova un operaio salariato, da qui il culto prestato agli dei, nei confronti dei quali siamo servitori) e la προσκύνησις τῆς τιμῆς, cioè la venerazione che spetta a persona o cosa che, pur appartenendo a questo mondo, è per qualche ragione degna di rispetto.

Una seconda ondata iconoclastica, anche se meno compatta e violenta della prima (ma non meno teoricamente interessante, dato che l’ideologo era Giovanni il Grammatico, un erudito di notevole spessore), ebbe luogo nella prima metà del IX secolo, ma un’altra donna, l’imperatrice Teodora, vedova di Teofilo, ripristina ufficialmente il culto delle immagini nell’843.

È necessario inquadrare con più precisione tale controversia, per mostrarne il radicamento secolare nel corpo del cristianesimo orientale.

Fin dai primi secoli del cristianesimo c’erano correnti che, appoggiandosi alla proibizione mosaica, da un lato, e all’associazione di immagini (statue in particolare) e paganesimo, dall’altro, manifestavano, se non aperta ostilità, almeno diffidenza nei confronti delle immagini. Questi atteggiamenti convivevano, a volte in modo contraddittorio, con il culto – spinto fino all’adorazione – delle reliquie e delle cosiddette immagini acheropìte (dal greco χείρ, mano), cioè non fatte dall’uomo, come la famosa immagine di Abgar, raccontataci da Damasceno.

Abgar, sovrano di Edessa, infiammato di amore divino dalla fiamma del Signore, mandò a lui ambasciatori che chiedessero una sua visita: se egli avesse rifiutato, ordina che un pittore modelli la sua immagine. Avendo conosciuto ciò, colui che tutto sa e tutto può prese un pezzo di stoffa, lo accostò al volto e impresse su di esso la propria immagine (Damasceno, 1983, p. 65).

In entrambe queste speciali forme di immagini viene meno la separazione fra immagine e prototipo: le reliquie, in quanto parte stessa del prototipo (un pezzo di croce, un pezzo di osso di un santo, il lembo del manto della Vergine, ecc.), l’immagine acheropita, in quanto scaturita da un contatto fisico diretto con il prototipo.

Ancora maggiore importanza riveste l’implicita accettazione di un grande principio, estraneo in questa forma tanto all’ebraismo quanto all’islamismo, quello della mediazione materiale del divino, la credenza che il divino possa darsi, anzi debba darsi, in qualche modo misterioso, nel mondo materiale. Tale idea, come è ben noto e più sotto vedremo, trova il suo esempio più noto e il suo fondamento nell’Incarnazione.

Filosoficamente rilevante, infine, è l’adattamento della filosofia neoplatonica alla dottrina cristiana che si compie verso la fine del V secolo con gli scritti dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita. Questi, con i suoi concetti anagogici, diffonde la concezione che l’intero mondo dei sensi riflette il mondo dello spirito, e che la contemplazione del primo è, perciò, un mezzo per elevarsi al secondo.

Ma non ci sono, naturalmente, solo questioni teoretiche a sostenere la legittimità del culto delle reliquie e delle immagini in generale. Questa forte base teoretico-concettuale è anche accompagnata sia da motivazioni pragmatiche, dato che le immagini possono rivelarsi utili nella lotta contro le eresie (pensiamo al monofisismo), in quanto testimonianza della piena realtà dell’Incarnazione di Cristo (tanto importante è la sottolineatura di questo evento che, per non lasciare adito a nessuna lettura allegorica di esso, il Canone 82 del Concilio di Costantinopoli del 692, prescrive l’abbandono della rappresentazione simbolica di Cristo in forma di agnello a favore della sua raffigurazione con sembianze umane), sia da ragioni didattiche, dal momento che l’immagine è anche un mezzo di istruzione e di edificazione. Tale aspetto, tuttavia, gioca un ruolo più rilevante in Occidente che in Oriente, dove prevalgono le ragioni teoretiche e dottrinali su quelle pragmatiche e, piuttosto che sul rapporto fra l’immagine e l’osservatore, tutta l’attenzione è rivolta al rapporto ontologico fra immagine e prototipo, da intendersi tanto in termini di possibilità (è circoscrivibile l’infinito nel finito?) tanto in termini di modalità (può l’immagine finita assomigliare al prototipo infinito?). Per gli iconofili, entrambe le domande pretendono una risposta affermativa: la prima, legittimata dall’Incarnazione di Dio nel Cristo, la seconda, dalla creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio.

La controversia si chiude con la vittoria degli iconofili e il cristianesimo, come già detto, resta l’unico fra i tre monoteismi a mantenere un atteggiamento positivo verso le immagini. Un atteggiamento non univoco, naturalmente, ma variegato e in sé dissonante, disposto lungo quell’ampia gamma che va dall’iconismo ortodosso fino all’arte sacra occidentale.

L’immagine nella Bibbia

Immaginazione e imitazione hanno la stessa radice indoeuropea *yem, che indica un frutto doppio. Immagine indica, dunque, un duplicato della realtà. Ciò comporta due importanti conseguenze filosofiche: (a) l’allusione a un doppio livello di realtà, uno originario e l’altro derivato, e (b) la caratterizzazione della realtà derivata come copia, prodotto dell’imitazione della realtà originaria. La realtà-copia, che noi cogliamo con i sensi, può salvarsi da un destino di mera illusorietà solo se mantiene un saldo riferimento, in termini di somiglianza, con la realtà-modello. Non a caso il termine che in greco dice immagine, εἰκών, deriva immediatamente da ἔοικα, che significa essere simile, assomigliare, mentre il termine latino imago è etimologicamente vicino a quello di imitatio.

La creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1, 26)

La stretta connessione fra immagine e somiglianza è tipica dell’originaria esperienza indoeuropea. Sembra che tale convinzione sia condivisa anche dal mondo semita, seconda radice dell’Occidente cristiano. Il testo sacro degli ebrei, infatti, la Toràh (il nostro Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia tradizionalmente attribuiti a Mosè) si apre nel Bereshìth (il nostro Genesi) con l’improvviso e inequivocabile accostamento fra immagine e somiglianza. E tuttavia è proprio tale accostamento, nella forma in cui appare, che crea un problema.

Creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza (Genesi, 1, 26).

Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram (Vulgata).

Ποιήσωμεν ἄνθρωπον κατ’εἰκώνα ἡμετέραν καὶ καθ’ὁμοίωσιν (Septuaginta).

אָדָם בְּצַלְמֵנוּ כִּדְמוּתֵנוּ נַעֲשֶׂה (Bibbia ebraica)

Sono state scritte centinaia di pagine a commento dei termini immagine e somiglianza, molte di queste volte a indagare i sensi riposti nella congiunzione e. La domanda fondamentale è: perché è necessario aggiungere la somiglianza all’immagine, se l’immagine, in quanto tale, è già imitazione del modello? Appare pleonastico quel somiglianza giustapposto a immagine. In realtà qui gioca un ruolo essenziale quell’autore spesso invisibile, ma quasi sempre determinante, che è il traduttore. Essendo la lingua ebraica, come l’arabo e le altre lingue semite, marcatamente paratattica, tende preferibilmente a giustapporre le proposizioni piuttosto che a organizzarle ipotatticamente, usando particelle subordinanti come le congiunzioni o i pronomi relativi. Allora, l’espressione a immagine e somiglianza di Dio altro non è che il modo semita per dire a immagine somigliante di Dio. Se è così, allora la lettura va orientata non più in direzione di una misteriosa convivenza fra termini semanticamente sinonimi, ma in direzione di una distinzione fra immagini che somigliano (l’uomo) e immagini che non somigliano (tutti gli altri enti).

Anche nel Sofista platonico c’è una distinzione simile, quella fra icone e fantasmi, ma è bene guardarsi da facili analogie. Lingua, contesto, intenzioni, cultura sono diversissime. In Platone, infatti, icone e fantasmi si definiscono entrambi in base a una pretesa somiglianza, legittima per le icone, illegittima per i fantasmi. La differenza, quindi, avviene all’interno del concetto di somiglianza. Tutt’altro accade, invece, per la distinzione ebraica.

In ebraico le parole usate sono צֶלֶם (tzèlem, forma, figura) e דְּמוּת (demuth imitazione, somiglianza).

Il testo ebraico ci dice che l’uomo è creato צֶלֶם (figura) di Dio. Questo termine, prima di significare immagine, concetto per esprimere il quale l’ebraico ricorre più frequentemente e preferibilmente ad altri termini, significa forma, ciò che ha figura, in contrapposizione a ciò che non ha forma, a ciò che non può essere limitato, a ciò che è infinito. Non solo, rimanda alla radice צלל (TZLL), che indica, fra altri significati, anche l’essere ombreggiato, e qui il richiamo al senso fenomenologico dell’essere dato per Abschattungen, per ombreggiamenti, viene spontaneo.

In ebraico, a differenza che in latino con imago o in greco con εἰκών non c’è nessun richiamo alla somiglianza. Ente fra gli enti, ente creato, testimone (vestigium, nel senso in cui Bonaventura da Bagnoregio adopera il termine nel suo Itinerarium mentis in Deum), come gli altri enti creati, della potenza di Dio, ma anche assolutamente distinto da Dio, il quale non potrebbe mai essere צֶלֶם, forma. Questo ci dice il צֶלֶם ebraico.

L’uomo, però, non è solo ente creato, ma, a differenza di ogni altro ente creato, che testimonia la gloria e la potenza di Dio con il semplice fatto di esserci, è anche un ente che somiglia a Dio. דְּמוּת deriva dalla radice ebraica דמה (DMH), l’essere simile, e questo termine indica il risultato di un paragonare. Da quanto detto sopra, appare evidente che questa somiglianza non può essere una somiglianza di forma, di aspetto. Non solo come forma l’uomo non può essere simile a Dio, ma proprio in quanto forma l’uomo si sottrae a ogni paragone con Dio, che è infinito e non circoscrivibile.

Se vogliamo comprendere il paradosso della somiglianza dell’uomo con Dio, dobbiamo osservare che in entrambe le versioni della creazione che la Bibbia ci presenta (quella elohista in Genesi I e quella jahvista in Genesi II) la creazione dell’uomo è subito seguita dall’assegnazione a esso di ben specificate attività e prerogative, due di queste particolarmente degne di nota: il dominio sul creato e la nominazione.

Dio crea con la parola, dice il nome e fa essere la cosa nominata (fiat lux et lux facta est). Solo ciò che ha nome esiste e solo ciò che esiste ha nome. L’uomo invece nomina e conosce la cosa, si appropria di essa. Mentre la parola di Dio è identica alla cosa, anzi è la cosa stessa, la parola dell’uomo è immagine della cosa, immagine fonetica. Alla parola essenziale, creativa, identica alla cosa, corrisponde la parola conoscitiva dell’uomo, quella parola in cui significato e significante sono separati fin dall’inizio. La nominazione dell’uomo si rivolge, infatti, a enti creati, il nome non è più la cosa, ma si riferisce alla cosa. È illuminante che l’ebraico usi lo stesso termine דָּבָר (davàr) per indicare sia la parola che la cosa. Ci si potrebbe interrogare sulla natura del nome adamitico e sul suo rapporto con la cosa: è un nome iconico o arbitrario? Il testo non ci consente di rispondere con sicurezza a questa domanda.

Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. (Gen. 2, 19)

Tutto lascia pensare all’arbitrio, ma le cose non sono così semplici. Questo versetto biblico, da un lato, esclude che la nominazione sia di tipo iconico-riproduttivo, onomatopeico, per intenderci, dall’altro, afferma il carattere vincolante del nome imposto dall’uomo. Oltre non ci viene detto.

Ecco la somiglianza (che è sempre, ricordiamolo, identità-differenza), la דְּמוּת fra uomo e Dio: se Dio crea con la parola, le creature che Adamo deve nominare un nome ce l’hanno già, altrimenti non potrebbero esistere. Queste, però, esistono solo per Dio, non ancora per l’uomo. La nominazione adamitica, allora, da un lato, ribadisce la similitudine dell’uomo con Dio (come Dio è il creatore, l’uomo è il legislatore e la sua parola è un riflesso della parola divina); dall’altro, sottolinea la differenza dell’uomo con Dio (il nesso solo gnoseologico e non più ontologico fra parola e cosa, fa sì che proprio la nominazione manifesti, nella separazione di parola e cosa, l’incolmabile distanza fra uomo e Dio).

Se quanto abbiamo detto è vero, se nulla, in questi due primi capitoli del Genesi, autorizza a interpretare l’uomo come immagine ritrattistica di Dio, allora bene hanno fatto gli iconoclasti a rifiutare tale tradizione come significativa per la legittimità delle immagini. Tanto bene che la più autorevole voce filosofica dell’ebraismo ellenizzante del primo secolo dopo Cristo, Filone di Alessandria, nel De Opificio mundi (La creazione del mondo) rifiuta proprio l’idea che l’uomo sia immagine di Dio nella sua forma corporea.

Tale somiglianza nessuno cerchi di immaginarla in base ai tratti del corpo, perché Dio non ha figura umana, né il corpo umano è strutturato a somiglianza di Dio. Il termine immagine è usato con riferimento all’intelletto, guida dell’anima (ἠγεμονικόν τῆς ψυχῆς). (Filone di Alessandria, 1987, p. 64)

Al termine di quesita prima interpretazione, possiamo dire che il testo biblico non autorizza né vieta alcuna immagine di Dio, dal momento che, in rapporto a tale problema, è un testo neutro.

Il divieto mosaico delle immagini (Esodo 20, 4 e Deuteronomio 4, 15-19)

Inequivocabile invece appare la condanna delle immagini in altri libri del Pentateuco, in particolare Esodo e Deuteronomio.

Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo (sculptile, εἴδωλον, פֶסֶל, fesel) né immagine (similitudinem, ὁμοίωμα, תְּמוּנָה, temunàh)  alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li adorerai. (Esodo, 20, 4)

Poiché non vedeste alcuna figura nel giorno in cui il Signore vi parlò sull’Oreb, sul monte, dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita. State bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate la figura scolpita di qualche idolo – qualunque immagine! – , la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale che è sulla terra, la figura di ogni uccello che vola nel cielo, la figura di ogni rettile che striscia sul suolo, la figura di ogni pesce che vive nelle acque sotto la terra; perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutte le schiere del cielo, tu non sia tratto in inganno prostrandoti e adorando quelle cose. (Deuteronomio, 4, 15-19)

Nel modo in cui il divieto è formulato appare assolutamente evidente l’estraneità al mondo semita del problema della raffigurabilità di Dio. L’anatema, infatti, non colpisce coloro che tentano di raffigurare Dio, un Dio che non ha figura o forma, ma coloro che rinnegano Dio e lo sostituiscono con gli enti. I termini usati nel testo ebraico sono rispettivamente פֶסֶל e תְּמוּנָה. Il primo vocabolo deriva da פסל (PSL, sgrossare, quindi scolpire) e qui il divieto colpisce ogni tentativo di raffigurare plasticamente qualunque ente mondano per farne un dio, il secondo termine indica l’immagine tracciata da un disegnatore. Questi passi, allora, più che vietare la rappresentazione in quanto tale, vietano la rappresentazione di immagini da adorare come se fossero dio. La rabbia di Mosè non è rivolta verso il vitello d’oro in quanto immagine di Dio, bensì verso il vitello d’oro in quanto idolo al posto di Dio.

Possiamo trarre allora la seguente conclusione: pur non essendoci dubbio che ebraismo e islamismo sono due religioni fortemente iconoclastiche, l’influenza da esse esercitate sull’iconoclastia cristiano-bizantina è, a mio avviso, marginale ed esteriore. Il monoteismo semita, infatti, proibisce l’idolatria, intesa non come rappresentazione materiale di Dio, bensì come sostituzione del vero Dio con un feticcio, con un pezzo di mondo, l’idolo. L’iconoclastia cristiana, invece, è il risultato di una lettura squisitamente greca dei testi sacri, una lettura guidata dal concetto di somiglianza, cioè dal concetto di immagine come copia. Tanto il  no iconoclastico quanto il iconofilo sono pronunciati come risposte a una domanda semplicemente improponibile nel mondo semita.

Di ben altra natura è la proibizione di pronunciare il nome di Dio contenuta tre versetti dopo il passo di Esodo considerato sopra (4, 7).

Nel mondo semita il nome (שֵם, shem), a differenza dell’immagine visiva, è il luogo in cui Dio misteriosamente si rivela. E infatti qui la proibizione è esplicita e il contatto della potenza divina del nome con la materia è sommamente sacrilego. Il nome di Dio non può essere scritto su nessun supporto materiale, perché questo diverrebbe ipso facto sacro e obbligherebbe gli uomini a conservarlo per sempre: da qui nasce la pratica ebraica di scrivere il tetragramma יהוה (YHWH) con le consonanti corrette, ma con i segni vocalici errati, mutuandoli da quelli di Adonai, che significa Signore: la vocale a davanti a una gutturale diventa e, quindi YeHoVàH, da qui Geova.

Platone e Mosè. Il trascendente iperuranico e il trascendente monoteista

Per le divinità pagane essere rappresentate (avere figura, immagine) non solo è possibile, ma addirittura è necessario. Quando Omero descrive gli dei e le loro azioni e sentimenti o gli scultori ornano i templi e le città con le loro statue, compiono un’operazione assolutamente lecita e niente affatto problematica nell’ambito della tradizionale religione olimpica. La dimora degli dei, l’Olimpo, ancorché separata e inaccessibile, è nel mondo. Gli dei abitano nel mondo con gli uomini, intrecciano le loro azioni e le loro volontà con quelle degli uomini. E agli uomini appaiono, direttamente o, più spesso, in metamorfosi. È l’immaginazione poetica, sia letteraria che figurativa, la vera facoltà del politeismo.

Il monoteismo, in quanto religione del libro, della parola scritta, provoca un trauma antropologico: l’immaginazione dell’uomo, finora essenziale nel disegnare non solo il rapporto fra uomo e divinità, ma anche il mondo divino stesso, in questo particolare campo viene amputata. L’immagine può solo riprodurre enti creati, con funzione ornamentale o decorativa. Se YHWH non ha figura, per l’ebreo non si pone proprio il problema di raffigurarlo. L’immaginazione, in altri termini, piuttosto che semplicemente colpita da anatema, da interdizione riguardo al divino, viene letteralmente recisa. Da questo trauma nasce il trascendente aniconico del monoteismo, ben diverso dal polimorfico e antropomorfico mondo olimpico, dove il divino convive con l’umano e ne condivide le vicende, ma diverso anche dal trascendente iperuranico di Platone, popolato di essenze, gli εἴδη (idee), visibili solo alla vista noetica e non a quella estetica. Entrambe le prospettive si formano nella polis, la cui struttura è dialogica e polemica a un tempo.

Diamo uno sguardo da vicino alla struttura dei due mondi, quello platonico e quello monoteista. Per Platone la distinzione che si impone è quella fra una realtà vera e una realtà illusoria: la prima è formata dalle idee e dalle cose, dal mondo dell’essere, l’iperuranio, e il mondo del divenire, la cui realtà, pur umbratile, è garantita dal fatto di essere copia diretta delle idee, l’altra è costituita dalle immagini, i simulacri, puro divenire senza riferimento all’essere. Platone coglie la mortale minaccia che le immagini portano al suo sistema dualistico, basato sulla separazione di intelligibile e sensibile. La vittoria dei poeti o dei sofisti comporterebbe la riduzione radicale dell’essere al divenire. La cesura che Platone pone fra queste due dimensioni è di tipo conflittuale: separa due mondi in lotta fra loro, ognuno dei quali accampa una pretesa di verità. Il sistema platonico è l’esito di una vera e propria battaglia della verità, al termine della quale il mondo della religione tradizionale è confinato nella sfera dell’illusione e gli dei, che in questo mondo sono presenze vive e determinanti dell’azione umana, diventano significativamente εἴδωλα, immagini illusorie, φαντάσματα. L’immagine platonica condensa in sé il λόγος ψευδές καὶ ἀπατελός (discorso falso e ingannevole) dei sofisti, è puro divenire, idolatria del sensibile. È questo εἴδωλον corposo che Platone, con una perfetta inversione, riduce a φάντασμα, mera ombra illusoria. Ma il mondo che Platone mette al posto di quello idolatrico e sofistico è ancora, a ben vedere, un mondo visibile, fatto di εἴδη (idee, forme) e di εἰκώνες (immagini). In questo primato del visibile Platone è profondamente greco.

Il mondo del monoteismo, invece, si struttura secondo il dualismo di trascendenza e mondanità. Dio è assolutamente trascendente, mentre il creato è lasciato interamente alla sua dimensione profana. Mosè traccia una separazione incolmabile fra Dio e il Mondo e nel mondo le immagini non idolatriche hanno piena legittimità, anche se vengono confinate, a causa della loro natura meramente riproduttiva, a un ruolo solamente ornamentale o didattico. Le immagini, come le cose, appartengono integralmente al mondo profano, sono confinate in questo mondo, senza alcuna possibilità di mostrare il trascendente. Nel mondo semita tutto ciò che ha figura è, senza alcuna eccezione, creatura. In questo nuovo contesto, l’idolo, un pezzo di mondo, non può nemmeno accampare la pretesa di simulare il mondo vero (come le immagini artistiche di Platone). La cesura mosaica non è più selettiva, come quella platonica, è subordinante. Non lacera più il corpo del reale, ma prende tutta la realtà e la assegna al mondo profano. Possiamo sintetizzare così questo confronto:

Mondo platonico Mondo ebraico
Gli enti sono copie (immagini)

Il rapporto ontologico è basato sulla somiglianza, traduzione sensibile dell’identità che appartiene alle idee.

Gli enti sono creature (figure):

Non c’è traccia di somiglianza in questo mondo e, se ciò accade, l’ente somigliante, l’uomo, non è copia formale, ma, per così dire, funzionale.

La scelta in favore delle immagini è un errore

L’idolatria è, pertanto, un inganno del visibile: prendo per vero ciò che del vero ha solo l’apparenza, ma non la sostanza.

La scelta in favore degli idoli è un peccato

L’idolatria è una scelta in favore del visibile: prendo come vero dio ciò che, apparendo, cioè avendo una forma, non può essere dio.

Il Cristianesimo e l’immagine

Il Cristianesimo e con lui l’Occidente, che su di esso in buona parte si edifica, superata, anche se mai in modo definitivo, la furia iconoclastica, si è delineato, nel corso dei secoli come una vera e propria civiltà delle immagini. Questo esito, all’attenta analisi di alcuni passi del Nuovo Testamento, appare meno sorprendente di quanto potrebbe sembrare, se ci fermassimo solo all’interdetto biblico. L’immagine, infatti, appartiene alla natura stessa del cristianesimo, giacché esso si fonda sulla rivelazione non solo del Verbo ma anche dell’Immagine di Dio, manifestata dal Dio che si è fatto uomo. Numerosi sono i passi fondamentali che sottolineano il ruolo dell’immagine di Dio. Pensiamo a Giovanni in cui si legge: “Colui che ha visto me, ha visto il Padre” (XIV, 9). E ancora all’affermazione di S. Paolo secondo la quale “Cristo è l’icona di Dio” (2 Cor., 4, 4), “Icona del Dio invisibile” (Col. 1, 15), o al concetto giovanneo dell’Incarnazione del logos in Cristo, “E il Verbo si è fatto carne”.

 

L’Apologia di Giovanni Damasceno e il Concilio di Nicea del 787

Giovanni Damasceno, meglio di ogni altro, si fa interprete di questa posizione. Tutta la sua Apologia è intessuta di citazioni bibliche e patristiche, lette però – secondo il monito di Paolo da Tarso – con l’intento di ricercare lo spirito dietro la lettera. Egli ricorda anzitutto che l’Antico Testamento non vieta espressamente le immagini, quanto piuttosto gli idoli, e distingue pertanto tra adorazione, riservata solo a Dio, e venerazione, rivolta ai santi, alle reliquie o alle altre immagini e oggetti sacri. La venerazione di cui le immagini sono oggetto è un culto che non si concentra sulla materia che le costituisce, ma si rivolge all’originale, transita verso il prototipo divino a cui l’immagine rimanda. È infatti su questa somiglianza tra immagine e originale che si fonda il culto, sicché nel venerare un’immagine sacra è Dio stesso che si venera. In questo senso l’immagine e l’idea sono inseparabili, giacché per il Damasceno l’immagine è l’idea in Dio delle cose. Sono queste le posizioni a cui si riferirà il Secondo Concilio di Nicea, nella sua formulazione conclusiva ed essenziale, con la quale sancisce la legittimità del culto delle immagini:

[…] noi definiamo con ogni precisione e diligenza che, accanto all’immagine della preziosa e vivificante croce, le sante e venerabili icone, fatte di colori, di pietre preziose o di altro materiale adatto, vengano innalzate nelle sante chiese di Dio e applicate sui sacri vasi e paramenti, su muri e tavole, nelle case e nelle strade; che siano icone del Signore, Dio e salvatore nostro Gesù Cristo, e dell’immacolata Signora nostra, santa Madre di Dio, e degli onorabili angeli, di tutti i santi e degli uomini venerabili. Quanto più di continuo, infatti, essi vengono visti attraverso la rappresentazione iconica, tanto più coloro che le guardano vengono innalzati al ricordo ed all’ardente desiderio dei prototipi. E dichiariamo anche che si può tributare loro un affettuoso saluto e una venerazione fatta di onori: non l’autentica adorazione della nostra fede, che è dovuta soltanto alla divina natura, ma lo stesso tipo di venerazione tributata alla forma della preziosa e vivificante croce, ai santi Vangeli e alle altre cose sacre dedicate a Dio. Ancora dichiariamo che si può fare, in onore loro, offerta di incenso e di luci, secondo il pio costume degli antichi, l’onore tributato all’icona, infatti, passa al suo modello. (Russo, 1997, p. 147)

Significativo è il fatto che Damasceno e in genere tutti gli iconofili scelgano, per confutare le argomentazioni dell’earesia iconoclastica, proprio i passi dell’Antico Testamento in cui più netta e indubitabile appare la condanna dell’idolatria. Questo perché, ora, alla luce della dottrina dell’Incarnazione, le proibizioni bibliche vengono rilette secondo il disegno provvidenziale della salvezza esposto nel Nuovo Testamento e da esso superate: con l’evento dell’Incarnazione del Verbo, infatti, ogni pericolo di idolatria è definitivamente scongiurato. Anzi, l’immagine cristiana appare come la diretta conseguenza dell’interdetto biblico, come prodotto del vuoto figurativo veterotestamentario.

Nei tempi antichi Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto. (Damasceno, 1983, p. 45)

Senza il mistero dell’Incarnazione, senza la κένοσις, l’immagine rimarrebbe puro nulla, illusione maligna, falsità. È solo su questo evento che si basa la giustificazione dell’icona ed è per suo tramite che l’uomo si libera dal peccato idolatrico non in modo negativo, sopprimendo l’immagine, ma in modo positivo, rivelando la figura umana di Dio. Come scrive Leonid Uspenskij,

la proibizione di rappresentare il Dio invisibile contiene implicitamente la necessità di rappresentare Dio, una volta che le profezie si siano adempiute. Le parole del Signore: “Voi non avete visto immagini; quindi non fatene”, significano: “Non fate immagini di Dio finché non l’avrete visto” (Uspenskij, 1995, p. 11).

L’icona

Entro questo quadro concettuale si colloca l’interessantissima riflessione di Pavel Florenskij, secondo cui l’icona non può essere in alcun modo compresa come il prodotto della fantasia creatrice dell’artista. Essa, infatti, non è un oggetto artistico, rappresentazione sensibile, ma testimonianza e rivelazione, porta regale attraverso la quale si entra in contatto con il mondo spirituale. Nelle forme colorate dell’icona si manifesta la potenza dell’invisibile e questo irrompere dell’infinito nel finito è simboleggiato dallo spazio dorato, dalla cui luce gli eventi raffigurati emergono. Il colore non viene tuttavia negato, anzi: è proprio nella tensione, nella giusta distanza tra le distinte sfere dell’essere dell’oro e del colore che si manifesta l’icona.

Tema esclusivo della pittura cristiana di icone è il paradosso del dio-uomo e sua finalità non è la fruizione estetica, ma la devozione, perciò la raffigurazione non intende imitare alcunché, bensì mira a un compito a sua volta paradossale, inscrivere l’invisibile nel visibile. Lo scandalo ontologico dell’Incarnazione genera uno scandalo figurale. Ed è qui che risulta illuminante la grande lezione dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, il quale nel De coelesti Hierarchia indica la via che permette alla raffigurazione di dire ciò che la parola non può dire.

Se le negazioni sono vere nei riguardi delle cose divine, mentre le affermazioni non si adattano al mistero delle cose arcane, ne segue che il metodo di descrivere per mezzo di cose dissimili sia quello più conveniente alle cose invisibili. (Dionigi Areopagita, 1981, p. 84)

La dissomiglianza costituisce la forma sensibile dell’apofasi: se il silenzio in quanto silenzio non può dirsi, l’invisibile in quanto invisibile può manifestarsi come dissomiglianza che attraversa e inquieta il visibile negando la sua presunta autosufficienza. La figurazione dissimile che l’icona manifesta non nega il visibile nel nulla assoluto né lo reifica spegnendolo nella sua maschera, illusoria, prospettica, somigliante, ma lo afferma e lo concentra come sguardo sull’infinito. Ciò che l’icona ci dice, secondo Florenskij, è che l’invisibile, inaccessibile alla parola, non può che essere figurato: laddove il linguaggio tace, nella teologia apofatica, l’immagine rivela attraverso la dissomiglianza. Come scrive con grande efficacia Cacciari,

Ciò che deve farla (l’icona) diversa dall’idolo pagano non è semplicemente l’essere immagine del Cristo, ma l’essere immagine di altra natura: il Cristo muta la forma dell’immagine (Cacciari, 1985, p. 184).

L’icona, allora, è la soluzione cristiana del problema di mostrare il visibile e l’invisibile, problema, che in realtà consiste nel figurare quell’e in cui si gioca la verità dell’uno e dell’altro mondo. In quest’ottica l’iconoclastia non è una semplice deviazione (come non lo è la pittura religiosa dell’occidente cristiano), ma è forse la più pericolosa e subdola delle eresie cristologiche, perché colpisce al cuore l’evento fondante del cristianesimo, l’Incarnazione, negandola nei suoi stessi effetti. L’icona è apocalittica, essa rivela il mistero, non nel senso di svelarlo, ma in quello di testimoniarlo. Ciò che l’eresia iconoclastica nega è proprio questa testimonianza: il divino viene da essa nuovamente assolutizzato, rigettato nel trascendente e gli viene negata la forza di esprimersi nel finito.

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