Sulla traduzione
È rivolta la traduzione ai lettori che non comprendono l’originale? Ciò sembra spiegare a sufficienza la differenza di rango fra l’uno e l’altra nel regno dell’arte. Inoltre sembra questa la sola ragione possibile di ripetere più volte “la stessa cosa”. Ma che cosa “dice” un’opera poetica? Che cosa comunica? Assai poco a chi la comprende. L’essenziale in essa non è comunicazione, non è asserzione. Ma la traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – e cioè qualcosa di inessenziale. (Benjamin, 1962, p. 39)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Le indicazioni dei testi citati o a cui si fa riferimento nell’articolo riportano l’autore, l’anno dell’ed. it., la pagina. Il riferimento alle pp. delle traduzioni italiane è mantenuto anche nel caso di traduzioni modificate in base al testo originale.
Antonello, Giuliano, 1999 “Linguaggio e filosofia in Walter Benjamin”, Seminari a.a. 1998-1999, Università di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia
Benjamin, Walter, Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino (Il saggio “Il compito del traduttore”, p. 39-52)
Harl, Marguerite (et al.), 1994 La Bible grecque des Septante : Du Judaïsme hellénistique au Christianisme ancien, Ed. du Cerf, Paris
Heidegger, Martin, 1999 Parmenide, Adelphi, Milano
Pindaro, 1991 Canti, Bompiani, Milano
Steiner, George, 1992 Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano
Assunto nella sua accezione corrente, il concetto di traduzione sembra presentare problemi di natura tecnica piuttosto che filosofica. La traduzione, infatti, viene intesa come quell’operazione attraverso la quale un testo scritto in una determinata lingua viene riprodotto in un’altra cercando di conservarne nel modo più fedele possibile i significati. In altri termini, essa appare come una vera e propria protesi applicata al testo originale per renderlo comunicabile anche al di fuori della comunità linguistica entro la quale è nato. È in quest’ottica che alcuni testi appaiono agevolmente riproducibili (manuali tecnici, prosa quotidiana, ecc.), altri, invece, per caratteri intrinseci che esamineremo, sono considerati quasi intraducibili o traducibili solo con grave detrimento rispetto all’originale, pensiamo ad esempio al testo poetico, al testo sacro e al testo filosofico.
Contro questa communis opinio e basandosi su una concezione della lingua di assoluta peculiarità e originalità, Benjamin non solo sostiene che questi peculiari testi sono traducibili, ma anche che sono gli unici degni di essere tradotti. Per una trattazione organica della complessa e suggestiva teoria benjaminiana della lingua e della traduzione, rimando al testo dei miei seminari citati in bibliografia (e di prossima pubblicazione su in “Prospettiva filosofica”). In questo articolo, comunque, essa sarà un costante, anche se non esclusivo, riferimento.
Ho fra le mani il manuale d’uso italiano-inglese della mia fotocamera digitale. Se confronto le istruzioni per l’impostazione della data e dell’ora nelle due lingue, non ho difficoltà a constatare che i due testi dicono esattamente la stessa cosa (se la traduzione è tecnicamente corretta). Supposto che l’istruzione inglese sia quella originale, la traduzione italiana altro non è che la “ricopiatura” di quel testo in un’altra lingua con lo scopo dichiarato di renderlo disponibile a chi non conosce l’inglese. In questa operazione tutto l’essenziale sta nel contenuto informativo, le istruzioni, non nella lingua e nelle parole che le esprimono. Una volta che dispongo della traduzione italiana, posso tranquillamente buttare l’originale inglese, dato che il nuovo testo riprodotto è assolutamente equivalente a quello di partenza.
Rivolgiamoci a un campo completamente diverso, ad esempio il discorso di un leader politico alle Nazioni Unite. Ora il problema è davvero più complesso, perché i termini e le espressioni, passando da una lingua a un’altra acquistano sfumature diverse, significati a volte distanti, riguardano concetti più complessi e meno determinabili dell’otturatore o del pulsante di accensione di una fotocamera. Il testo, per essere pienamente compreso, rimanda a un contesto politico, storico, sociale, culturale in senso lato. Le sfumature semantiche, le ambiguità lessicali, costituiscono zone di opacità spesso volute, a volte ineliminabili. E tuttavia, si tratta pur sempre di artifici retorici al servizio di un senso che per loro tramite si comunica. Sia pure in un modo ben più sofisticato dell’esempio precedente, anche qui la lingua è solo un mezzo al servizio di un fine estrinseco. Se la riproduzione interlinguistica di un testo tecnico richiede precisione e competenza, la riproduzione di un testo diplomatico o politico richiede in aggiunta una raffinata preparazione culturale, una sperimentata sensibilità politica e una approfondita conoscenza storica. Il testo originale non può più essere buttato e sostituito con quello tradotto, i due testi devono convivere, ma per la stessa ragione, se mi si passa la metafora, per la quale va conservato l’originale in rapporto a un documento fotocopiato, a comprova di fedeltà.
Ben altra è la situazione che riguarda un particolare gruppo di testi: il testo poetico, il testo sacro e il testo filosofico. Se qui privilegiassimo il significato, considerando la lingua in cui sono scritti come un semplice mezzo per esprimere un contenuto autosufficiente, essi verrebbero pesantemente impoveriti, mortificati e la loro pregnanza si perderebbe in modo irreparabile. Questo perché, in ognuno di loro, ciascuno in modo proprio e originale, lingua e significati, espressione e contenuto sono indissolubili. Ora nessuna riproduzione li può sostituire o può convivere con essi nel rapporto di originale e copia. Sono destinati, allora, a causa della natura non strumentale ma mediale della lingua in cui sono scritti a rimanere “confinati” nella loro “enclave linguistica”, accessibili solo a lettori che li possono leggere in originale?
In effetti, appare davvero arduo tradurre senza tradire i concetti fondamentali che incontriamo in un testo filosofico, la densa e polisemica parola che vive nel testo sacro, le sorprendenti immagini che il poeta sa creare, talmente arduo, che non è infrequente la rinuncia, più o meno mascherata, a tradurre. Che altro sono, infatti, goffe letteralità, proliferazione arbitraria di bizzarri neologismi, prolisse note, se non l’alzare bandiera bianca da parte del traduttore? La traduzione è un esercizio difficile e rigoroso, una disciplina del pensiero che non ammette né sciatteria né protagonismi.
Eppure le parole fondamentali devono essere tradotte, se non vogliamo che rimangano per noi irrimediabilmente estranee, se non vogliamo riferirci ad esse nell’affettata confidenza di un’acquisizione solo esteriore. In filosofia, come nel testo sacro o nel testo poetico, la traduzione deve (de jure, se non de facto) essere sempre possibile, anzi, addirittura obbligatoria. Tradurre è un compito necessario al quale non ci si può sottrarre e un traduttore che non trovi nella propria lingua una parola dal profilo compatibile con la parola straniera ha gravemente fallito il suo compito e lascia il testo nella sua muta estraneità.
Solo laddove esiste uno speciale rapporto forma-contenuto, un rapporto di reciproca implicazione, per cui la lingua che esprime un determinato significato non è strumentalmente comunicativa, ma pregnantemente espressiva, si pone “necessariamente” il problema della traduzione. Per la loro stessa struttura, infatti, certe opere esigono la traduzione, allo stesso modo in cui la vitalità comporta l’espressività. Nella traduzione il testo originale si esprime, “es-pone” all’altro la propria sopravvivenza, trascende il proprio ambito di vita per alludere a una dimensione superiore e più originaria, quella della comune appartenenza alle creazioni del pensiero.
Non è naturalmente compito della traduzione “ricreare” l’idea che vive nell’originale. Se lo facesse, essa non sarebbe altro che una volgare operazione di falsificazione e di contraffazione. Il λόγος (logos) greco non ha equivalente possibile in nessun’altra lingua, e l’omerico “tίς τ᾿ἄρ σφωε θεῶν ἔριδι ξυνέηκε μάχεσθαι;” (tis t’ar sphoe theon eridi xyneeke machesthai?) né il Monti con il suo incisivo “E qual de’ numi inimicolli?” né Rosa Calzecchi Onesti con il più prosaico e fedele “Ma chi fra gli dei li fece lottare in contesa?” possono sperare di farlo risuonare nella sua originaria bellezza.
Se la qualità della creazione poetica sta in uno speciale rapporto lingua-contenuto, irriproducibile a causa della sua unicità, a nulla valgono i tentativi di riproporlo. Ciò che è stato detto in greco non può essere semplicemente riprodotto in italiano o in una qualunque altra lingua, così come nessun Pentateuco, per quanto canonizzato e ispirato, può riprodurre l’originale Toràh ebraica. Eppure la grande idea, la grande creazione, è tale anche e in primo luogo perché è capace di universalità. Ma, allora, come “comunicare” l’idea, se per sua natura essa si sottrae a ogni mimesi riproduttiva? La geniale risposta di Benjamin è: ristrutturando, non arbitrariamente, nella traduzione il rapporto lingua-contenuto che vige nell’originale. Nell’impossibilità e nel divieto di ricreare l’idea, il traduttore la deve “custodire”: es-posta all’altro, l’opera originale si trasforma, trasformando a sua volta la lingua straniera che ora la ospita e se ne prende cura.
Il compito del traduttore assomiglia all’invito di Nietzsche a “danzare in catene”: esercitare la più gioiosa libertà nella più rigorosa fedeltà. Il riferimento all’originale è naturalmente ineludibile, dato che in esso si trova la legge stessa della traducibilità, individuabile nella qualità del legame fra contenuto e lingua, che il traduttore deve comunicare e conservare a un tempo, evitando, senza cadere in compromessi di basso profilo, la doppia deriva della mera servitù e della sfrenata licenza. All’organica, immediata relazione che sussiste nel testo originale, irriproducibile, la traduzione sostituisce un rapporto più libero, artificiale, ma non per questo artificioso, dove, per usare la bellissima metafora di Benjamin del manto regale, il significato, come il corpo dall’abito, è, da un lato, solo promesso, annunciato e, dall’altro, fecondamente dissimulato.
Il rapporto del contenuto alla lingua è affatto diverso nell’originale e nella traduzione. Se essi formano, nel primo, una certa unità come il frutto e la scorza, la lingua della traduzione avvolge il suo contenuto come un mantello regale in ampie pieghe. (Benjamin, 1962, 45 – 46)
Il cattivo traduttore al posto di un frutto naturale ci offre un frutto contraffatto, anche se perfettamente riprodotto: ci dà dell’opera l’inessenziale, l’apparenza, il meramente comunicabile. Il vero traduttore, invece, ingegnoso “artigiano”, anziché simulare, risponde all’appello, restituendoci non l’opera, ma la sua “ratio”.
Solo così, non perseguendo la chimera di una mimesi impossibile, quel significato che abita nel testo originale può essere accolto nella madrelingua del traduttore, esponendo quest’ultima ai rischi ed alle opportunità della straniazione. Nessuna grande traduzione di Baudelaire può avvenire senza che la lingua in cui è tradotto si francesizzi in profondità, evitando, naturalmente di dare a queste parole un senso banale. Francesizzare l’italiano non significa fare un calco in italiano di parole o forme francesi, ma mettere in evidenza, nello straniamento che l’italiano subisce, a un tempo la differenza e la parentela due lingue.
Ogni traduttore vive nella differenza dei linguaggi e dei molteplici modi dell’intenzionare che essi rappresentano, e ogni traduzione si fonda su questa differenza. Se pare perseguire il disegno opposto di sopprimerla, ciò accade non perché riduca una lingua a un’altra, ma perché eleva le due lingue verso una superiore comunanza. L’opera è matura e degna di essere tradotta solo se serba in sé, disponibile in qualche modo, questa differenza. Grazie alla traduzione, che tematizza l’intimo rapporto fra le lingue, giocando e vivendo della loro differenza, Babele ha il suo riscatto e la molteplicità delle lingue, anziché apparire un problema di disordine e di confusione da risolvere sostituendo una lingua con un’altra, riducendo l’ignoto al noto, appare come una ricchezza inesauribile da amare e salvaguardare. In relazione al rapporto fra lingua originale e lingua della traduzione, Benjamin presenta la più famosa delle metafore contenute nel suo saggio:
Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo di intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande. (Benjamin, 1962, p. 49)
La traduzione del testo filosofico
Il problema della traducibilità del testo filosofico è primariamente, ma non esclusivamente, di natura “lessicale”, avendo a che fare con concetti espressi da parole singole, i cosiddetti termini fondamentali. La traduzione, in questo caso, non cerca semplicemente una parola sostitutiva, ma una parola essenziale, perciò i traduttori, tanto più se sono a loro volta filosofi, sentono a un tempo il pericolo e il fascino di questo compito.
Nelle prime pagine del corso universitario del 1942-43 dedicato a Parmenide, Heidegger, il cui pensiero è strutturalmente innervato dalla ricostruzione etimologica delle parole fondamentali della filosofia, si sofferma sul problema della traduzione in generale e sulla traduzione della parola greca ἀλήθεια (aletheia) in particolare.
Se ci limitiamo a sostituire il termine greco ἀλήθεια con il nostro s-velatezza, non stiamo ancora traducendo. Ciò avviene solamente quando la parola che traduce svelatezza ci “traduce” nell’ambito e nella modalità di esperienza da cui la grecità proferisce la parola ἀλήθεια. (Heidegger, 1999, p. 46)
Come è noto, il filosofo tedesco rifiuta di tradurre tale termine con il tradizionale “verità” (ted. Wahrheit), e crea invece un neologismo, il termine “non-nascondimento” (ted. Un-verborgenheit), facendo quasi un calco del termine greco. Ora, fare il calco etimologico di un termine è un’operazione fortemente ambivalente, dal momento che, da un lato, comporta il rischio dell’appiattimento mimetico di una cultura su un’altra, dall’altro, scuote e inquieta la lingua di accoglienza con la possente presenza in essa dello “straniero”.
L’Un-verborgenheit heideggeriana “ripete” l’ἀλήθεια greca e permette a Heidegger la ricapitolazione dell’intera tradizione metafisica occidentale, riportandola alla sua sorgente originaria. Questa traduzione “marca” una tradizione e la dichiara a un tempo destino a cui rimetterci ed errore fondamentale da cui rimetterci. Non ripete semplicemente l’ἀλήθεια, ma impone un ritorno ad essa. Consegnati alla metafisica, la “superiamo” ridicendo la parola iniziale in altri termini, nei termini cioè di una lingua (il tedesco, in questo caso) in cui tale parola si è “pervertita” e obliata.
Comprendiamo bene come la traduzione-calco di Heidegger, lungi dall’essere giudicabile in termini di correttezza (è giusta, è sbagliata), sia in realtà una rivelazione. Ripetere la metafisica come “ritorno” all’origine svela, fra molte altre cose, la consonanza profonda e insospettabile del pensiero heideggeriano con la corrente principale e dominante della metafisica occidentale, quella che considera il pensiero come νόστος (nostos), come odissea che sogna il ritorno a casa. Unverborgenheit-ἀλήθεια non è la semplice sostituzione di una parola con un’altra, ma l’assegnazione-composizione di un destino
Che ne facciamo, allora, del tradizionale significato di ἀλήθεια come Wahrheit, come veritas, come “verità”? Lungi dall’essere l’esito deiettivo di un allontanamento, di una decadenza, di un fraintendimento, di una chiusura e di una dedizione incatenante all’ente nell’oblio dell’essere, è a sua volta una “composizione fatale” di parole che apre lo spazio fecondo e pericoloso di differenti prospettive dell’essere. Se Un-verborgenheit è un calco che ripete senza riprodurre, Wahrheit, invece, ci mantiene in una distanza che sarebbe superficiale ridurre a mera perdita. È, da un lato, tensione, dall’altro, distacco: non più il νόστος, l’Odisseo greco, la nostalgia di Itaca, ma l’Ulisse dantesco, la sete inestinguibile del “nuovo”, l’al di là delle colonne di Ercole. Unverborgenheit o Wahrheit, in altri termini, non sono due parole che stanno “per” o “al posto di” ἀλήθεια, ma due termini che stanno “con” ἀλήθεια, componendosi con essa in modo diverso, per formare due diverse immagini del pensiero.
Se io, per fare un altro esempio, traduco secondo tradizione il termine νοῦς (nous) con “intelletto” o λόγος con “ragione”, o se invento allo scopo un neologismo, commetto comunque un “errore inevitabile”, ben più fecondo, però, della pilatesca scelta, purtroppo frequente, di lasciare questi termini, come molti altri, non tradotti. Proprio la traduzione sottrae il λόγος o il νοῦς a un destino di mera etnicità. Lasciati nella loro splendida veste greca, questi termini rimarrebbero alla fine degli impensati, dei corpi estranei entro una compagine linguistica straniera, non integrati, incapaci di fecondare la lingua in cui vengono accolti. Quando Benjamin parla di traduzione interlineare (per il testo sacro, ma io credo che questo valga anche per il testo filosofico e, forse, per il testo poetico) non intende certo richiamare il traduttore a una pedissequa fedeltà alla lettera del testo originale, bensì lo esorta alla ben più impegnativa esigenza di “disporre” contemporaneamente i due testi, quello da tradurre e quello tradotto. Solo così i frammenti si ricompongono. νοῦς non tradotto rimarrebbe, come abbiamo già detto, un impensato, apolide, senza patria, senza radici, ma anche “intelletto” da solo rappresenterebbe un tradimento più che una traduzione, non più un impensato, ma un già-pensato. Invece “riga sopra-νοῦς”, “riga sotto-intelletto”, non è più una traduzione che consuma un tradimento, ma una traduzione che apre tutta una tradizione di pensiero, affidando al lettore un compito da pensare.
Lungi dal rendere irrilevante i termini originari, la traduzione li mette in costellazione. Ben sappiamo che il νοῦς non è l’intelletto, ma altrettanto bene sappiamo che i due termini in qualche modo si corrispondono. Vi sono nel termine originale e nella sua traduzione differenze irriducibili e straordinarie complicità. In quanto parole fondamentali, una volta pensate assieme, una volta che l’una è stata tradotta nell’altra, non è più possibile pensarle separatamente se non in forza di un’operazione di analisi che letteralmente “sfigura” la comprensione. Strana mimesi la traduzione, fedele solo in quanto “produce” termini e somiglianze non sovrapponibili ed insostituibili con ciò che imitano.
La traduzione del testo poetico
Quando si prende in considerazione il testo poetico, bisogna distinguere una duplice forma di traduzione-tradimento. In primo luogo, c’è la tentazione dell’assoluta letteralità, ma, in questo caso, o si è Hölderlin e si traduce (fecondamente anche tradendo) o, come quasi sempre accade, si farnetica e ci si consegna al tic paralinguistico. Sono famose le traduzioni hölderliniane di Sofocle, Pindaro e altri autori greci. Considerate deliranti dalla critica del suo tempo, in realtà rappresentano un incontro inquietante e profondo fra il greco e il tedesco. Se nella traduzione di una poesia ciò che ci si propone è la salvaguardia del senso comunicabile (e inessenziale), allora molto meglio riescono in questo scopo i “cattivi traduttori” con la loro indisciplinata libertà. In secondo luogo, c’è la seduzione dell’invenzione, raramente felice come l’Iliade “tradotta” dal Monti, quasi sempre vanitosa esibizione di idiotismi stilistico-psicologici. La piatta e insensata letteralità e la vacua ricreazione del senso sono in realtà due derive entro le quali ciò che si perde è proprio il “poetico”.
Prendiamo, come mero esercizio esemplificativo, due versi di Pindaro dalla III Pitica:
Μὴ, φίλα ψυχά, βίον ἀθάνατον
σπεῦδε, τὰν δ᾿ἔμπρακτον ἄντλει μαχανάν.
(Me, phila psycha, bion athanaton
Speude, tan d’emprakton antlei machanan)
Come tradurli? Abraham Cowley, fin troppo “libero traduttore” di Pindaro, efficacemente nota che “se uno provasse a tradurre Pindaro parola per parola, si penserebbe che un matto ne ha tradotto un altro”. (cit. in Steiner, 1992, p. 388). Una traduzione letterale, del tipo “Anima mia, non desiderare una vita immortale, ma i fattibili espedienti esaurisci” appare brutta, sciatta, sicuramente peggiore della traduzione più libera proposta da Guido Bonelli nell’edizione Bompiani dei “Canti” di Pindaro (“Non cercare, mio cuore, una vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile”), eppure anche questa impone pesanti sacrifici. Innanzitutto si perde il chiasmo altamente espressivo fra bίον ἀθάνατον e ἔμπρακτον μαχανάν, si indebolisce l’opposizione fra l’irraggiungibile “immortalità” e il “fattibile” a portata di mano, o ancora fra la “vita” e gli “espedienti”. Anche i due verbi usati da Pindaro sono estremamente pregnanti nel loro significato greco: σπεύδω (affrettarsi, darsi da fare; cercare ardentemente, anelare) indica una tensione forte, un desiderio inestinguibile, qui rivolto però inopinatamente a ciò che non è disponibile, mentre ἀντλέω (esaurire, ma lett. vuotare dall’acqua la sentina di un’imbarcazione) invita a dedicare tutta la propria energia a sfruttare ciò che abbiamo a disposizione. Se la traduzione proposta rispetta entro certi limiti il significato, tuttavia tale “restituzione” viene offerta tramite una struttura linguistica fortemente compromessa.
Ma allora, contro quanto abbiamo finora detto, non c’è verso di tradurre il verso?
Il poetico non è un senso mistico e ineffabile, un qualcosa di inattingibile che vive misteriosamente nelle parole del poeta e che va conservato nella sua enigmaticità. Essenzialmente è relazione, nesso mimetico-fisiognomico fra contenuto e lingua, che è compito del traduttore salvaguardare e custodire. Già abbiamo indicato sopra la natura speciale di questa trasformazione-conservazione. Ciò su cui ora, con l’aiuto di Benjamin, vogliamo fissare l’attenzione è il diverso modo in cui il testo poetico e la sua traduzione durano nel tempo.
Le parole non sono entità statiche, fissate in un significato dato una volta per tutte. Esse hanno una maturazione “continua”, anche e soprattutto le parole “definitive” come quelle poetiche o quelle sacre: un campo semantico, che all’epoca del poeta era dominante, può chiudersi, mentre nuove virtualità scaturiscono dal testo già formato. È nella natura stessa della lingua, infatti, la tendenza a trasformarsi ed è la traduzione l’agente che alchemicamente “rivela” questo processo vitale.
Il termine usato da Benjamin per “maturazione” è Nachreife e ha in agricoltura un significato tecnico: indica infatti la maturazione che il frutto ha anche dopo il raccolto. Preferisco perciò parlare di “maturazione continua” piuttosto che di “maturazione postuma”, come si legge nella traduzione di Solmi, per evitare il richiamo indiretto alla “morte”, assente nel termine tedesco.
Se la lingua in cui l’originale è scritto si trasforma, anche la lingua del traduttore si trasforma. Ma in questo processo di metamorfosi viene alla luce una radicale differenza fra lingua del poeta e lingua del traduttore.
Poiché, come il tono e il significato delle grandi opere poetiche cambiano radicalmente coi secoli, così cambia anche la lingua materna del traduttore. Anzi, mentre la parola poetica perdura [meglio che sopravvive, come si legge in traduzione] nella sua lingua, anche la più grande delle traduzioni è destinata a entrare (e a essere assorbita) nello sviluppo della lingua, e a perire nel suo rinnovamento. (Benjamin, 1962, p. 43)
Il testo poetico si trasforma e si rinnova proprio perdurando nella forma che il poeta gli ha dato. Così le terzine di Dante, nella forma in cui il poeta le ha scritte, perdurano lungo tutto il flusso dell’evoluzione storica della lingua italiana e proprio questo perdurare genera continuamente nuovi significati. Non così la traduzione, la quale è fatalmente condizionata, fino all’obsolescenza, dallo sviluppo della lingua. Essa avverte, infatti, in modo quasi sensibile, da un lato, la fecondità inesauribile del testo poetico, e, dall’altro, le doglie gestatorie della propria lingua. (v. Benjamin, 1962, p. 43-44) Perciò la traduzione, anche la più grande, deve essere effimera, non può né deve pretendere di perdurare, come legittimamente lo esigono le opere poetiche. La vita dell’originale può sopravvivere nelle traduzioni solo se queste, come le manifestazioni vitali di un organismo vivente, si rinnovano in continuazione.
Se la traduzione filosofica crea illuminanti costellazioni di parole, la traduzione poetica è un esercizio di ospitalità a un tempo raffinato e discreto, splendidamente espresso dalle parole dello scrittore ebreo David Grossmann: “in ebraico noi definiamo la traduzione un bacio attraverso un fazzoletto. È quasi un bacio vero, ma non è un vero bacio”. Sul rapporto originale-traduzione, v. queste parole fondamentali di Benjamin:
Come la tangente tocca la circonferenza di sfuggita e in un solo punto, e come questo contatto sì, ma non il punto, le prescrive la sua legge, per cui essa continua all’infinito la sua via retta, così la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso, per continuare, secondo la legge della fedeltà, nella libertà del movimento linguistico, la sua propria via. (Benjamin, 1962, p. 50 – 51)
La traduzione del testo sacro
La traduzione del testo sacro mette in campo un problema di natura diversa rispetto alla traduzione di una poesia o di un testo filosofico, quello del carattere “sacro” della lingua in cui avviene la rivelazione. Quanto è vincolante tale carattere ai fini della traduzione? Prendiamo come esempio l’arabo del Corano. Come ben sappiamo, pur esistendo versioni del testo sacro dell’islamismo in praticamente tutte le lingue del mondo, nessuna di queste costituisce a sua volta testo canonico, ma solo un semplice strumento di sussidio. Della Bibbia, invece, esistono molteplici versioni che sono diventate a loro volta “canoniche”, ma ognuna di esse è espressione di una diversa fede religiosa.
Per illustrare il problema, riflettiamo brevemente su alcuni aspetti linguistici della cosiddetta Bibbia dei Settanta.
La Bibbia dei Settanta, tuttora utilizzata dalla Chiesa Ortodossa greca, comunemente indicata come LXX, è la più vecchia versione greca del Vecchio Testamento; il titolo “Settanta” si riferisce alla tradizione secondo la quale questa era l’opera di 70 traduttori. La traduzione fu fatta durante il III e II secolo a.c. dalla Bibbia ebraica e dagli ebrei ellenistici ad Alessandria. Inizialmente la Bibbia dei Settanta fu ampiamente usata dagli ebrei di lingua greca, ma la sua adozione da parte dei cristiani, che la utilizzavano preferendola all’originale ebraico, suscitò l’ostilità fra gli ebrei, che smisero di servirsene all’incirca attorno al 70 d.C. Contro quanto abbiamo affermato all’inizio dell’articolo, qui la traduzione appare proprio come un servizio diretto a colmare le lacune dei destinatari, e questo proprio nel più radicale dei testi che Benjamin considera traducibile, ma non riproducibile, il testo sacro. Vedremo che non sarà così.
Se il greco e l’ebraico sono profondamente diversi fra loro, e lo sono, come garantire la custodia e la salvaguardia del messaggio sacro nel passaggio da una lingua a un’altra? Il traduttore che si accinge a por mano al testo sacro si espone a un duplice esito “catastrofico”, da un lato, quello di profanare il testo, dall’altro, quello di sostituirlo con un nuovo testo canonico. Vediamo brevemente alcuni esempi, riservandoci ad altra occasione il compito di un’analisi teorica del problema della traduzione del testo sacro. (V. su questo Harl, 1994, passim)
In Isaia 7, 14, citato poi in Matteo 1, 23, si profetizza che il futuro messia nascerà da una vergine. In realtà il termine ebraico usato è עַלְמָה (‘almàh), che significa “giovane donna” e una traduzione più appropriata sarebbe stata senza dubbio κόρη (kore) (tale termine, però, era adoperato anche per indicare le statuette pagane di dee e ninfe, ragione per cui venne scartato) oppure νεᾶνις (neanis). Invece il traduttore sceglie παρθένος (parthenos) (vergine, lat. virgo), più adatto all’ebraico בְּתוּלָה (bethulàh), aprendo in tal modo la strada al dogma cristiano della verginità della Madonna. È una traduzione sbagliata o ispirata? Se ci poniamo in una prospettiva meramente linguistica e secolare, o in quella della religiosità ebraica in quanto animata dalla volontà di distinguersi dal trionfante cristianesimo, non c’è dubbio che si tratta, se non di una traduzione sbagliata, sicuramente di una fin troppo libera interpretazione. Se invece ci poniamo entro l’ambito della fede cristiana, allora l’ispirazione divina appare una risposta convincente. A noi tuttavia non interessano queste due posizioni, entrambe “preconcette”. Ciò che conta e che dà fecondità a questa traduzione è lo spazio di senso, profondo e controverso, che essa ha indubbiamente aperto.
L’ebraico ha quattro parole per dire “uomo”: אָדָּם (’adàm: uomo, umanità), אִישׁ (’ish: uomo, essere umano), אֱנוֹשׁ (’ènosh: uomo, uomini), גְּבִיר (gebhìr: uomo, signore), il greco, invece, utilizza solo e sempre ἀνήρ (aner) o ἄνθρωπος (anthropos), talvolta semplicemente traslittera אָדָּם. Per dire “terra”, poi, il greco usa solo il termine γῆ (ghe)Á, mentre l’ebraico usa אֶרֶץ (’èretz: terreno, paese, terra), אֲדָמָה (’adamàh: campo, proprietà terriera, terra in quanto materia), אֵפֶר (’epher: terra malferma, polvere). Non è cosa da poco la scomparsa in greco del gioco di parole altamente significativo in ebraico fra אָדָּם (’adàm) e אֲדָמָה (’adamàh), fra l’uomo e la terra o la polvere, che troviamo in Gen. 2, 7.
Ben più rilevante è la conseguenza della sostituzione del tetragramma divino יהוה (YHWH) con κύριος (kyrios) (signore) e di אֱלֹהִים (’elohìm) con θεός (theos) dal momento che agevola il passaggio dal dio personale del popolo ebraico alla divinità universale che sarà poi del cristianesimo, oppure la scelta di un ventaglio di termini come ψυχή (psyche), σάρξ (sarx) e σῶμα (soma), così propri di una concezione greca dell’uomo, per tradurre l’unico termine ebraico נֶפֶשׁ (nèphesh: anima, soffio vitale, ecc.). Quando poi nel testo dei Settanta si incontrano termini come ἐν ἀρχή (en arche) per rendere l’ebraico בְרֵאשִׁית (bereshìth: in principio) o ποιεῖν (poiein) e κτίζειν (ktizein), al posto di בָרַה (baràh: fare, produrre, creare), non è facile evitare il condizionamento di un senso filosofico precostituito e tradizionale, che è invece assente, o che ha connotazioni diverse, nei corrispondenti termini originali. Che effetto doveva provocare, inoltre, nei lettori ebrei del testo greco imbattersi in Gen. 37, 35 in un termine così carico di paganesimo come ᾅδης (hades) (l’Ade) per rendere l’ebraico שְאוֹל (she’ol: il regno dei morti)?
Nel campo stilistico, infine, la differenza fra le due lingue emerge, se possibile, in modo ancora più clamoroso. Il greco, ad esempio, parla di un dio protettore o soccorritore, laddove l’ebraico più concretamente mette in campo un dio roccaforte, cittadella, fortezza, oppure ancora il greco conia il fortunato epiteto “onnipotente” (παντοκράτωρ, pantokrator) come abituale sostituzione del più esplicito dio degli eserciti (צֳבָאוֹת tzebha’òth da צָבָא tzabhà’, esercito). L’espressione enigmatica תֹהוּ וָבהוּ (tohù wa-bhohù) che ci sorprende in Gen. 1, 2 è resa in greco con due aggettivi filosofici, ἀόρατος καὶ ἀκατασκεύαστος (aoratos kai akataskeuastos) (invisibile e disorganizzata) di ben diversa portata semantica. La perdita dell’icastica concretezza dell’ebraico è palese in molteplici passi del testo, come ad esempio in Es. 6, 12, dove “essere circonciso delle labbra” è semplicemente reso con ἄλογος (alogos), essere senza parola, o in Dt 10, 16, dove il “circoncidere il prepuzio del cuore” viene sostituito con “circoncidere il cuore ostinato” ( la σκληροκαρδία, sklerocardia, o durezza di cuore), o infine in Es 22, 24, dove la parola greca che designa il prodotto del denaro prestato, τόκος (tokos) non rende affatto l’aggressiva forza del verbo ebraico נָשַׁךְ (nashàkh), che significa in primo luogo mordere e che fa, quindi, del prestito a interesse l’equivalente di un morso.
È lecito affermare, sulla scorta di questi pochi esempi, che ci troviamo davanti a due testi irriducibilmente diversi, al punto che solo l’originale sarebbe testo sacro? Da quanto abbiamo detto, la risposta non può che essere negativa. Il sacro, infatti, come il filosofico e il poetico, non è un contenuto indipendente dalla lingua in cui si dà. Anzi, se è vero, come afferma Benjamin, che nel testo sacro non c’è divisione fra lingua e senso, allora non vi è dubbio che tale testo, più ancora di quello filosofico e poetico, per sua natura è “immediatamente” traducibile e che solo grazie alla traduzione il divino, come il filosofico e il poetico, può sottrarsi tanto alla ghettizzazione etnica quanto all’imperialismo culturale.