Plotino: Bellezza sensibile e Bellezza intelligibile

Introduzione

Plotino è considerato il più grande fra i filosofi neoplatonici, così chiamati perché pensano nel solco tracciato da Platone. È luogo comune ritenere che, nei confronti dell’arte, i neoplatonici, e Plotino in particolare, abbiano operato un deciso ripensamento fino a rovesciare la condanna pronunciata dal maestro. Alla base di questa rivalutazione starebbe un cambiamento di senso del concetto di mimesi, non più pensata come copia del reale, ma come idealizzazione, come copia del modello ideale. Vedremo che questo è vero solo in parte.

Il concetto di bellezza in Platone

Il carattere ambiguo del concetto di bello. Equivoci ermeneutici

Prima di affrontare l’interpretazione di Plotino, è necessario tornare a Platone e considerare un concetto che nel suo pensiero svolge un ruolo cruciale, quello di Bellezza. È questo uno dei momenti di più alta e feconda ambiguità nel pensiero di Platone, perché il carattere ancipite della bellezza, in parte sensibile e in parte intelligibile, affida a questa idea il ruolo di mediatrice, sia pur precaria, fra mondo sensibile e mondo delle idee. È grazie alla bellezza che l’uomo può trovare lo “slancio” per sollevarsi alla contemplazione delle idee, ma è anche a causa sua che rischia di “imprigionarsi” definitivamente fra le apparenze del mondo delle copie. L’interpretazione che presenteremo del concetto di bellezza confermerà la profonda e incolmabile inimicizia che Platone nutre verso l’arte. Questa inimicizia trova conferma in un antico aneddoto, che Cassirer ci ricorda in un breve e intenso saggio dedicato al problema dell’arte e del bello in Platone (E. Cassirer, Eidos e eidolon, Edizioni Libreria Cortina, Milano, 1998): il giovane Platone, affascinato al suo primo incontro con Socrate dalla dialettica, brucia tutte le sue poesie. Questa precoce inimicizia, tuttavia, non riesce a spegnere il genio artistico di Platone, ma solo a dirottarlo dalla poesia al dialogo filosofico.

I due luoghi principali dove Platone parla della bellezza sono il discorso di Diotima a Socrate nel Simposio e il terzo grande discorso di Socrate sull’amore nel Fedro. Prima di analizzare queste pagine, leggiamo alcune righe del citato saggio di Cassirer.

Tutte le teorie artistiche successive a quella platonica si mantengono fedeli alla correlazione dell’arte con il bello, che assumono quasi come un ovvio presupposto. [Fino ad arrivare alla nota e ancora attuale contrapposizione nell’ambito delle arti fra arti meccaniche, in cui si annoverano le varie forme di artigianato, e le cosiddette belle arti]. Ma per Platone questa correlazione si rovescia nel suo opposto. Si conosce la posizione decisiva da lui conferita all’idea del bello, così come è fornita nel discorso di Diotima nel Simposio e nel terzo grande discorso sull’amore nel Fedro appartiene a quei capolavori dell’arte platonica della rappresentazione che hanno colmato i secoli a venire del proprio splendore e della loro intensa forza di illuminazione spirituale. [ Proprio la forza artistica di questa rappresentazione ha generato l’equivoco di vedere, nella teoria platonica dell’eros e della bellezza, un possibile punto di partenza per giustificare e fondare l’operare artistico stesso] […] Ma l’arte di amore che Platone loda non è l’arte del poeta e del plasmatore, bensì è l’arte socratica, l’arte della dialettica. Alle peculiarità più intime della figura di Socrate, così come Platone l’ha descritta nel Simposio in tratti immortali, appartiene proprio il fatto che Socrate sta in un rapporto veramente ambiguo, autenticamente “ironico” nei confronti tanto del problema della verità quanto del problema del bello. (V. E. Cassirer, Eidos e eidolon, cit., p. 38) [c.m.]

Proprio Socrate, brutto e deforme, è il banditore della vera idea del bello, lui che, nel momento in cui la fonda nella sua verità ideale, la nega con il proprio aspetto fisico. La vera bellezza, che pure sembra necessitare, come vedremo, della bellezza dei corpi, si afferma nella sua verità proprio nel più brutto degli uomini.

Il discorso di Diotima nel Simposio

Nel Simposio, dove si discute della natura di Amore, troviamo il mito della nascita di Eros, figlio di Penia, la penuria, sempre costretta a mendicare, e di Poros, l’ingegno, l’espediente. Poros, uscito ebbro di nettare da un banchetto di Afrodite, esce nel giardino di Zeus e si addormenta. Penia, che gli si è coricata accanto, concepisce Amore. Da questa nascita discende la duplice natura del demone, che dalla madre eredita povertà, mancanza di bellezza e di sapienza, ma anche la consapevolezza di questa mancanza, e dal padre l’ingegno, la passione volta a superare l’indigenza e il limite, per conquistare bellezza, bontà e sapienza. Essenziale è la natura intermedia di Amore: consapevole della sua deficienza, aspira a colmarla raggiungendo Bellezza. Amore è amor di sapienza (etimologicamente filosofo), di cui bellezza è tramite.

L’ascesa verso la sapienza assume l’aspetto di un vero e proprio percorso iniziatico, lungo una scala di quattro gradini, che si può decidere di percorrere da soli o condotti da una guida.

Colui che intende accingersi a questo percorso, e lo fa con retta disposizione, deve cominciare, fin da giovane, a frequentare la bellezza corporea. Come primo passo amerà un’unica persona nella bellezza del suo corpo, e già qui si vedrà in grado di generare i primi ragionamenti e discorsi belli. In un secondo tempo scoprirà che la bellezza di un qualsiasi corpo non è diversa da quella di tutti gli altri corpi, e, dal momento che la meta è bellezza nella sua forma universale, non sarà così sprovveduto da non vedere che la bellezza propria di tutti i singoli corpi, non è che una e la medesima. Diverrà allora amante di tutti i corpi belli e lascerà cadere quell’attaccamento a uno solo: gli sembrerà privo di valore e lo disprezzerà. (Symp. 210a-210b)

Notiamo le cose rilevanti di questo passo. Innanzitutto non c’è scelta. La bellezza dei corpi, la bellezza sensibile, è un punto di partenza obbligato. Non si dà immediatamente la visione delle idee, ma solo dopo un percorso di ascesa, di elevazione. Nella determinazione del sensibile come punto di partenza da lasciare per incamminarsi verso qualcosa di trascendente c’è tutta la tensione originariamente etica, prima ancora che epistemologica, che anima il filosofare platonico. Altro punto importante è l’affermazione che l’amore per il bello porta a generare il bello. Terzo punto è l’idea che, fin dall’inizio, il rivolgersi alla bellezza sensibile deve essere guidato da una forma universale di bellezza, che è la vera meta da raggiungere.

Se non vogliamo fraintendere il percorso di elevazione verso il Bello, il Vero e il Bene come un’operazione di tipo generalizzante, non dobbiamo mai dimenticare questo punto. Il giovane innamorato non giunge a formarsi il concetto di bello in seguito all’osservazione che ci sono tanti corpi belli, i cui tratti comuni possono costituire un unico genere. I singoli corpi belli non stanno alla bellezza come tanti individui stanno al concetto di uomo, non rappresentano i casi particolari di un concetto generale, ma in ogni corpo bello si rivela un’unica bellezza, la quale non è astrazione, ma il fondamento stesso della bellezza dei singoli corpi. È la “stessa” bellezza che ogni corpo, nella sua determinatezza, rivela.

La rivelazione della forma universale di bellezza avrà sul singolo corpo bello, che pure è stato l’occasione iniziale dell’ascesa, un effetto catastrofico. Una volta che si è rivelata la natura universale della bellezza, il luogo dove essa si è inizialmente manifestata si riduce a una pallida sembianza della verità, fissata com’è in una forma determinata, un “povero luogo” che non può sottrarsi al disprezzo. Alla sua pretesa di valere di per sé, Platone oppone la verità che tutti i corpi belli manifestano la stessa bellezza. Quel singolo corpo, che pure ha avviato il processo, rischia con la sua pretesa, di ostacolare l’ascesa.

In seguito coglierà la bellezza che risiede nelle anime, e questa gli parrà ben più preziosa di quella corporea, allora potrà anche incontrare persona non bella, ma di anima degna; ciò gli basterà, e l’amerà e ne avrà cura: ne nasceranno discorsi e ragionamenti sommamente educativi. Qui sarà a sua volta costretto a cogliere la bellezza delle istituzioni e delle leggi, […] fino a giudicare misera la sola bellezza di un corpo. Dopo le istituzioni bisognerà condurlo fino alle scienze, affinché colga la bellezza del sapere e, aperti gli occhi su tanta distesa, non più attaccato come un servo alla bellezza di un giovinetto, o di un uomo, o di una sola istituzione, non più schiavo di animo vile e di parola meschina, ma volta decisamente la prora all’immenso pelago della bellezza, possa generare molti discorsi belli e profondi, ragionamenti nati da sovrabbondanza d’amore per il sapere, finché, fortificato ed ormai cresciuto, riesca ad avere visione di un’unica scienza, la scienza di questa bellezza di cui stiamo parlando. (Symp. 210b-210e)

In questi successivi due momenti continua il distacco dal sensibile e dal particolare e, a testimonianza del nesso indissolubile fra l’intellettuale e il morale, l’apprezzamento per la bellezza delle leggi e delle istituzioni conduce al superamento dello stesso attaccamento per una singola anima, per una singola legge, per un’istituzione particolare, muovendo l’amante al puro desiderio di conoscere, all’amore per la sapienza. Sia nel secondo che nel terzo grado Platone non risparmia parole di biasimo e di disprezzo per la bellezza sensibile, per la bellezza di un singolo corpo. (È, tuttavia, un biasimo che tradisce un fascino nel senso etimologico del termine, quello di legame, che sembra non essersi davvero sciolto, una specie di ritorno del rimosso, per capirci). Non basta, infatti, salire. L’ascesa deve essere accompagnata, a ogni passo, dal ripudio del luogo che si è lasciato, proprio come uno scalatore che, pur diretto con tutto il suo essere verso la meta, non può fare a meno, di quando in quando, di voltarsi indietro e guardare, con un misto di timore, angoscia e orgoglio, il punto da cui è partito, un punto in cui rischia sempre di cadere, se non mantiene viva ed estrema la tensione della scalata.

Colui che nel mistero d’amore è stato portato fino a questo punto, e ha potuto scorgere di grado in grado e per corretto metodo le diverse cose belle, giunto al limite supremo di questa scienza d’Amore, ecco, costui vedrà, improvvisamente, una certa bellezza, meravigliosa, proprio quella, Socrate, che era stata la meta di tanti suoi precedenti sforzi: una bellezza che innanzitutto sempre è; […] qualcosa che è eternamente se stessa, per sé con sé omogenea e semplice, mentre tutte le altre cose di lei partecipano in qualche modo, ma in modo tale che, nascendo e morendo quelle, nulla essa guadagni, nulla perda, nulla subisca. Orbene, quando uno, da queste bellezze sensibili, colte attraverso retto amor di giovinetti, si distacca, e, levandosi in progressiva ascesa, comincia a scorgere quella bellezza ideale, allora egli non è lontano dal termine supremo. È proprio in questo che consiste il giusto itinerario d’Amore, il percorso da intraprendere con o senza guida: iniziare da queste singole bellezze sensibili e, avendo di mira la bellezza eterna, sempre salire come lungo i gradini di una scala. […] È questo, caro Socrate (diceva la straniera di Mantinea), il momento più importante nella vita di un uomo, e il più degno di essere vissuto: il momento in cui ci è data la contemplazione del Bello in sé. (Symp. 210e-211d)

Il percorso termina con la visione dell’idea del Bello, quell’idea che, fin dall’inizio, ha mosso l’amante verso di essa. Le parole di Platone sono pervase di entusiasmo, fino a rasentare l’estasi. Finalmente la Bellezza in sé appare in tutto il suo splendore, meravigliosa. Vediamo, però, quali sono i tratti essenziali di questa bellezza, di questa idea che ha l’inusitato privilegio (ma si tratta poi di un privilegio?) di apparire nel sensibile. Non c’è dubbio che il suo tratto essenziale è quello di aver lasciato, come un resto impuro da dimenticare, le sue “spoglie” sensibili e particolari, quell’essere ora bella in un corpo, ora in un altro, ora in una legge, ora in un’anima, l’esser bella “ora”, ma il non esserlo stato “prima” o non esserlo più “dopo”. A questa bellezza sensibile, precaria ed effimera, si oppone la bellezza in sé, sempre uguale.

L’arte come impotenza di vedere il bello in sé

In tutto il discorso sul bello non c’è traccia dell’arte, per cui, più che di distanza fra arte e bellezza, in Platone sembra giusto parlare di indifferenza, se non addirittura di inimicizia. Dietro le entusiastiche parole rivolte alla Bellezza in sé, possiamo scorgere la più potente e, per certi versi, infamante accusa mai rivolta all’arte. L’immagine artistica, infatti, è l’eidolon che scimmiotta l’idea, l’eidos, e si pavoneggia in vesti non proprie. Come nota Cassirer, eidos e eidolon costituiscono una coppia che ha la stessa origine etimologica nell’idein, il vedere, ma che comporta due opposte direzioni del vedere: un vedere che, mosso da eros verso il vero, desidera ascendere a esso abbandonando il mondo sensibile, e un vedere che, imprigionato nelle bellezze e nelle seduzioni apparenti del sensibile, dimentica il vero. (V. E. Cassirer, Eidos ed eidolon, cit. p. 15). Ed ecco la terribile sentenza contro l’arte che Platone pronuncia: l’arte è incapacità di vedere il vero, artista è chi non ha la forza di vedere il bello in sé e, perciò, si dibatte, sterile ed improduttivo, fra le apparenze. Proprio in nome della bellezza Platone dichiara l’arte un’operazione fallimentare e l’artista un simulatore per impotenza creativa. L’artista come artigiano impotente, il sofista come tessitore di discorsi vuoti. Non c’è davvero riscatto per l’arte e l’artista nel mondo platonico. Tanta e tale è l’asprezza e la radicalità della condanna, da non poter far trapelare un oscuro presagio che questo “impotente artigiano” possa essere davvero il doppio ossessivo del filosofo.

Il discorso di Socrate sull’amore nel Fedro

Nel Fedro appare, celeberrima l’immagine dell’anima come biga alata, guidata da un auriga. I due cavalli, uno bianco e uno nero, rappresentano le forze irrazionali dell’anima, una positiva e una negativa, mentre l’auriga rappresenta la parte razionale. L’immagine della biga alata vale sia per le anime degli dei che per quelle degli uomini. Mentre i carri degli dei sono ben equilibrati, quindi possono contemplare in modo perfetto il vero essere, i carri degli uomini, per colpa di cavalli riottosi, non riescono a mantenere una rotta stabile. Alcune anime riescono a stento a vedere le idee, altre non ne vedono affatto, molte, per incapacità degli aurighi, si urtano reciprocamente e, spezzandosi le ali, cadono, non riuscendo così a vedere il vero essere e cibandosi del cibo dell’opinione. Per l’anima, la visione dell’iperuranio è essenziale, perché il suo nutrimento proviene dalla Pianura della Verità che si trova là. Solo se si ha avuto modo di contemplare la Pianura della Verità si diventa uomini, e lo si diventa in proporzione alla visione che se ne è avuta. Cadute sulla terra, le anime si uniscono a un corpo, mentre le ali, che riportano verso gli dei, rispuntano solo dopo un lunghissimo periodo di tempo (diecimila anni) e un altrettanto lungo ciclo di reincarnazioni.

Vediamo un punto decisivo del discorso di Socrate.

Bisogna che l’uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni a un’unità colta con il pensiero. E questa è una reminiscenza di quelle cose che un tempo la nostra anima ha visto, quando procedeva a seguito di un dio e guardava dall’alto le cose che sono essere, alzando la testa verso quello che è veramente essere. (Phaed. 249b-c)

La conoscenza deve con-formarsi all’idea sulla base della reminiscenza di quelle realtà superiori che la nostra anima ha visto quando si trovava nel mondo celeste. È superfluo sottolineare l’importanza della teoria della reminiscenza in Platone. Essa svolge nel processo conoscitivo il ruolo che, mutatis mutandis, svolgono le idee innate di Cartesio. L’uomo non si forma le idee per via di astrazione. Le idee le ha viste in un tempo che non appartiene alla vita terrena, perciò l’anamnesi va distinta dal ricordo empirico. Il testo di Platone può trarre in inganno: procedere da una molteplicità di sensazioni all’unicità dell’idea sembra proprio indicare il processo di astrazione. In realtà, tale percorso ha senso solo in quanto è guidato da una meta, da uno scopo, nel senso etimologico del termine, che trascende e catalizza la molteplicità.

Perciò giustamente solo l’anima del filosofo mette le ali. Infatti con il ricordo, nella misura in cui gli è possibile, egli è sempre in rapporto con quelle realtà, in relazione con le quali anche un dio è divino. Un uomo che si serva di tali reminiscenze in modo retto, in quanto è sempre iniziato a misteri perfetti, diventa, lui solo, veramente perfetto. Però, in quanto si allontana dalle occupazioni umane e si rivolge al divino, viene accusato dai più di essere uscito di senno. Ma sfugge ai più che egli, invece, è invasato da un dio. È questa la conclusione cui perviene tutto il discorso sulla quarta forma di mania, ossia quella mania per la quale, quando uno veda la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali, e desideroso di volare, ma rimanendo incapace, guardando verso l’alto come un uccello e non prendendosi cura delle cose di quaggiù, riceve l’accusa di trovarsi in uno stato di mania. (Phaedr. 249c-d)

Il vero significato dell’apparire sensibile della bellezza

Anche qui, come nel Simposio, la mania d’amore deriva dalla visione della bellezza in un corpo fisico, la quale richiama, per anamnesi, la bellezza intelligibile che l’anima ha visto nell’Iperuranio. E la bellezza suscita amore, dato che essa sola ha avuto l’ambiguo privilegio, rispetto a tutte le altre realtà intelligibili, di essere manifesta anche nella dimensione del fisico e del sensibile e di essere, pertanto, la più amabile. C’è tutto il platonismo in questa tensione erotica verso il paese senza forma, senza colore, dove tutto eternamente è, senza mai mutare.

Dal momento che il nostro scopo è quello di capire il nesso (mancato) fra arte e bellezza in Platone, vediamo di andare un po’ più a fondo nella comprensione di questo strano privilegio accordato alla bellezza. L’amore, come sappiamo, è suscitato dalla bellezza, che è un tralucere dell’intelligibile nel sensibile. Solo la bellezza appare. Delle altre idee, infatti, giustizia, temperanza od ogni altra che per l’anima abbia valore, Platone afferma non esservi immagine nel mondo dei sensi. Tali idee non brillano nelle cose, come la bellezza, perciò solo pochi sono capaci, con difficoltà e misteriosamente, di scorgere nelle copie la loro presenza. Solo la bellezza, fra le idee, splende, è cioè dotata di immediata attrattiva. Idea, come più volte abbiamo ricordato, deriva da idein, vedere. Il darsi a vedere è, pertanto, il carattere proprio, etimologico, se vogliamo, delle idee. Ora, l’unica idea che propriamente si manifesta in quanto tale, fulgida e splendente è la bellezza. Platone intende forse privilegiare la bellezza fra le altre idee rendendola, oltreché intelligibile, cioè coglibile con l’intuizione intellettuale, anche visibile, coglibile attraverso l’organo di senso della vista, rendendola in altri termini oggetto anche di un’intuizione empirica? Sarebbe ben strano, se così fosse. Leggiamo, dunque, il testo di Platone.

Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. [Appare chiaro il ruolo di mediazione fra mondo sensibile e mondo intelligibile che tale idea svolge nel mondo platonico. Tutto il platonismo è attraversato da una tensione irrisolvibile, anzi, il platonismo “è” questa tensione irrisolvibile tra separazione, χωρισμός, (chorismos) e partecipazione, μέθεξις (methexis). Senza methexis la separazione fra sensibile e intelligibile sarebbe mera indifferenza reciproca, senza chorismos, la partecipazione fra i due mondi sarebbe identità di ambiti. La bellezza, fra le idee, è l’unica che, col suo duplice aspetto di sensibile e intelligibile, oggetto del desiderio di quel demone intermedio per natura che è Eros, svolge a un tempo questo ruolo di separazione e di raccordo fra il mondo terreno e l’iperuranio ideale]. Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista, susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne di amore. Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile. (Phaedr. 250c-e) (c.m.)

Questo passo è decisivo. Il più acuto dei nostri sensi ci apre uno squarcio nel mondo ideale grazie alla bellezza. La vista, tuttavia, sarebbe incapace di sopportare lo splendore delle altre idee, perché queste genererebbero amori tremendi, terribili, δεινοὺς ἔρωτας, (deinous erotas). (Il δεινόν (deinon) è un termine fondamentale del pensiero greco, su cui Heidegger si è più volte soffermato. È il terribile che provoca il timor panico, ma è anche l’inquietante, lo spaesante (unheimlich) che estromette dall’abituale, dal familiare). Se le altre idee fossero visibili, per la loro potenza, anziché dare il via a un percorso iniziatico di anamnesi, sradicherebbero l’uomo da sé, fino a perderlo. E allora sembra inevitabile concludere che solo la bellezza ha avuto la “sorte” (μοῖρα, moira, parte assegnata dal destino) di apparire nel visibile a causa della sua sopportabilità per l’uomo. È vero, senza la bellezza l’uomo non riuscirebbe più a far rinascere le ali per sollevarsi nuovamente alla contemplazione delle idee, ma ci viene anche il sospetto che, senza il corpo e il sensibile, forse la bellezza e lo stesso eros, sarebbero “superflui”.

Questa è la “feconda” ambiguità di Platone: la necessità e la maledizione del sensibile, in cui abita la più appariscente e la più amabile delle idee, quell’idea senza la quale saremmo destinati a strisciare come vermi nel mondo, quell’idea che è anche la più pericolosamente seduttiva e funesta, quando non è guidata dall’intelletto. La più appariscente e la più amabile delle idee è anche la più intellettualmente precaria. L’origine della filosofia (amore per la sapienza ispirato dalla bellezza) sta nello stesso luogo dove si colloca l’origine della sofistica e della simulazione artistica (amore per le copie ancora ispirato dalla bellezza). È proprio nell’ambiguità della bellezza platonica che affonda le sue radici la lotta mortale tra arte e filosofia, nella seduzione amorosa che essa provoca e che può essere “volta” verso la bellezza senza tempo e senza colore degli eide, oppure “stravolta” verso la malia e le bellezze dell’apparenza, tra le quali si sguazza impotenti e sedotti, prigionieri del fascino degli eidola. Perciò, subito dopo il passo sopra citato, Platone afferma:

Dunque, chi non è di recente iniziato, o è già corrotto, non si innalza propriamente di qui a lassù, verso la Bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta lo stesso nome. Di conseguenza, guardandola non la onora, ma dandosi al piacere come un quadrupede che cerca solo di montare e generare figli, e, abbandonandosi agli eccessi, non prova timore e non si vergogna nel correre dietro a un piacere contro natura. (Phaedr. 250e-251a)

Chi non ha intelletto, o chi rifiuta la sua guida, cade nel tranello della bellezza. Il furore morale di Platone è inflessibile e ambiguo nello stesso tempo e nasce, come in tutti i grandi moralisti, dalla acuta percezione della potenza sprigionata da ciò che è creduto essere il male.

Invece colui che è di recente iniziato e che ha molto contemplato le realtà di allora, quando vede un volto di forma divina che imita bene la bellezza, o una qualche forma di corpo, dapprima sente i brividi, e qualcuna delle paure di allora penetra in lui. [Anche la bellezza è un’idea e anche in essa, sia pure in una veste depotenziata e commisurata alla sensibilità dell’uomo, vige il deinon, il tremendo]. Poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non avesse timore di essere ritenuto in stato di eccessiva mania, offrirebbe sacrifici al suo amato come a un’immagine sacra e a un dio. (Phaedr. 251a)

È l’inizio del percorso ascendente che porterà l’amante alla contemplazione degli eide, un percorso dal quale è escluso il bruto quadrupede tutto sensi, ma anche quell’abile simulatore di parole, che è il sofista, e quell’illusionista facitore di eidola, che è l’artista. Uomini corrotti che si sono persi negli inganni dell’apparenza.

Il trattato sul bello (Enneadi, I, 6)

Motivi platonici

Cosa significa essere platonici? Plotino è, senza ombra di dubbio, platonico, precisamente neoplatonico. Questo non vuol dire, tuttavia, che sia un epigono di Platone. Plotino, infatti, non è un autorevole commentatore, ma un autentico filosofo. Essere platonici non significa studiare con più o meno entusiasmo le opere di Platone, aderendo alle sue dottrine, bensì entrare nel suo mondo, incontrarvi autentici problemi, ai quali sembra che Platone, che pure ha creato il mondo in cui tali problemi sono sorti, non abbia voluto o potuto rispondere, e perciò creare nuovi concetti stranieri o incompatibili con il mondo platonico stesso. Non c’è modo migliore, per incontrare un filosofo, di creare concetti filosofici che rispondano ai suoi problemi in un modo che lui non avrebbe mai potuto o voluto fare. Per creare nuovi concetti non basta “pensare diversamente”, pretestuosamente diverso, spinti da un futile desiderio di originalità. Bisogna pensare autenticamente e dolorosamente diverso dal pensatore che si ama. Solo quando, mio malgrado, non posso pensare un problema che nasce dal mondo di Platone, senza vedermi costretto a creare con ciò un altro mondo da quello platonico, solo allora sono autenticamente platonico. “Pensare diverso”, tuttavia, non significa pensare in modo diverso da Platone un concetto di Platone, perché nessuno meglio di lui ha pensato fino in fondo i propri problemi. Un filosofo non vuol dire nulla di più di ciò che ha effettivamente detto e i suoi problemi non nascono perché non ha saputo spiegarsi bene. Bisogna invece pensare un problema che nasce nel suo mondo così come questo mondo si è trasformato nell’incontro con un altro pensatore. Chiunque, incontrando un problema suscitato da un filosofo, si sforzasse di ri(con)durre tale problema nell’orizzonte di pensiero di quel filosofo, ne sterilizzerebbe la fecondità, dimostrandosi non all’altezza di tale incontro. Un filosofo non ha bisogno di fedeli (utili per il prete) o di servitori (utili per il padrone), ma di amici, come indica la stessa etimologia della parola filosofia. Non vuole coerenza o sudditanza, ma creatività e libertà. Finché non ho la forza di pensare diverso da un filosofo, in realtà questo filosofo non l’ho ancora incontrato, ma solo diligentemente studiato.

Allora, il mondo in cui Plotino vive è un mondo autenticamente platonico ma, come ogni mondo reale e concreto, non è un mondo chiuso. In esso sono penetrati influssi e apporti diversi. Ad esempio, l’eidos, che lui pure usa e pensa platonicamente, ha attraversato anche altri mondi e si è “contaminato” (senza accezione negativa in tale termine) innanzitutto con quello aristotelico. È Aristotele, ad esempio, ad aver affermato, in Met. 1032a che le opere d’arte si distinguono dai prodotti della natura, solo perché la loro “forma”, prima di penetrare nella materia, esiste nell’anima dell’uomo. L’endon eidos plotiniano risente di questa concezione. La trascendenza metafisica ed etica delle forme platoniche, poi, si è venuta irreversibilmente colorando di trascendenza religiosa, il pensiero e la conoscenza si sono impercettibilmente, ma strutturalmente, colorati di accezioni mistiche, la materia si è definitivamente consegnata al male, e così via. Non si vuole fare della storiografia, ma non si può certo ignorare che ogni mondo filosofico è per ciò stesso un mondo storico.

Il problema platonico della bellezza, allora, che Plotino effettivamente incontra in questo mondo, non potrà avere una risposta scolasticamente e storiograficamente platonica. Il concetto plotiniano di bellezza sarà somigliante a quello platonico, ma incompatibile con quel mondo, da cui pure nasce, e perfettamente acclimatato, invece, nel nuovo mondo neoplatonico.

Nelle Enneadi sono due i trattati tematicamente dedicati al bello, uno dedicato al bello intelligibile (Enneadi, V, 8) e l’altro (Enneadi, I, 6) dedicato al bello in generale.

In quest’ultimo trattato Plotino non si discosta molto dal percorso compiuto da Platone nel Simposio e nel Fedro: il bello è ciò che attrae l’anima verso il mondo delle Idee. La contemplazione estetica si intreccia alla ricerca amorosa e al desiderio di unione con la realtà intelligibile sulla base della somiglianza che tale realtà possiede con la natura dell’anima. Pur senza la tensione drammatica che abbiamo riscontrato in Platone, anche qui è lo stupore provato di fronte alla bellezza delle cose sensibili a costituire l’inizio dell’ascesi dell’anima, verso il riconoscimento di forme sempre più pure e immateriali del bello. Il trattato, tuttavia, introduce anche un’importante novità, un cambiamento di prospettiva rispetto a Platone, l’accento posto sul carattere interiore della ricerca del bello. L’ascesi dell’anima, il viaggio verso quel mondo ideale di cui condivide l’essenza, è in realtà un viaggio che l’anima compie dentro se stessa, alla scoperta della sua dimensione conoscitiva e ontologica più vera. Il paese che cerchiamo, scrive Plotino, è il nostro e la ricerca intrapresa assume il carattere del nostos, paragonabile a quello di Ulisse, che desiderava solo tornare alla sua terra natale. Solo che la meta da raggiungere non richiede uno spostamento materiale: basta chiudere gli occhi dei sensi e attivare quelli dell’anima.

Il bello non è simmetria e misura

L’inizio del trattato ha un tono assolutamente platonico e Plotino ci presenta una gradazione gerarchica delle cose belle, da quelle sensibili, via salendo attraverso la bellezza delle occupazioni, delle azioni, delle scienze, fino a quella della virtù. Plotino, poi, passa a interrogarsi sul significato del termine “bello”. Perché si dicono belli i corpi sensibili? Il termine bellezza è univoco o equivoco? I corpi si dicono belli nello stesso senso in cui si dice bella un’idea, o ci sono due sensi diversi dell’essere bello? La risposta che dà è, ancora una volta, platonica in modo ortodosso. I corpi sono belli non in sé, ma per altro da sé. Infatti non sono né sempre né tutti belli, come sarebbero se la bellezza appartenesse loro necessariamente. Non così la virtù, che è sempre bella, quindi lo è in sé, per propria natura.

Plotino a questo punto precisa l’oggetto della sua indagine: cos’è questa bellezza presente nei corpi? Cos’è, platonicamente, ciò che muove lo sguardo dello spettatore e lo invita a contemplare bellezze sempre più elevate? È qui che appare la prima grande affermazione teorica del filosofo. Egli contesta radicalmente uno dei capisaldi dell’intera concezione classica della bellezza, la bellezza come simmetria e misura. Pensare alla bellezza come simmetria è pensarla non come essenzialmente è, ma come appare nel mondo fenomenico. Solo in tale mondo, infatti, le realtà sono composte di parti, presupposto necessario perché si possa parlare di simmetria e di proporzione. Una cosa non può essere chiamata bella proprio per ciò che la rende profondamente dissimile dalle idee, cioè il suo essere composta di parti. È vero che di tali parti si apprezza il reciproco accordo, quindi in qualche modo se ne privilegia l’unità, ma questo non può comportare che tale unità derivata sia superiore a un’unità intrinseca. Saranno pertanto le cose semplici, come un colore, la luce, l’oro, che, grazie alla loro purezza, sono primariamente belle fra le cose sensibili. Il procedere di Plotino è rigoroso: se affermo che la bellezza dei corpi sta nella simmetria, la consegno, nel suo fondamento, a una ragione immanente alla sensibilità, dove vige la separazione e la divisione. Dato che la bellezza in Plotino appartiene solo alle idee e, quando la si predica delle cose sensibili, lo si fa in modo analogico (non c’è una bellezza sensibile e una bellezza intelligibile, ma una bellezza dell’intelligibile in sé e una bellezza dell’intelligibile che traspare nel sensibile), allora essa deve risiedere in altra cosa, rispetto alla composizione delle parti.

La bellezza è qualcosa che, nel sensibile, si dà in modo immediato. Non è qualcosa di in sé sussistente, ma qualcosa che si offre all’anima e che l’anima sente (riconosce) come affine a sé. Perciò con essa si accorda, mentre non lo farebbe, anzi, si agiterebbe e la respingerebbe, se tale qualità le fosse estranea. Il brutto è qualcosa che l’anima sente come estraneo e difforme da sé, qualcosa che inquina e respinge. Il brutto assoluto è l’informe, ciò che non è stato ancora toccato dall’idea, il brutto relativo è, invece, la materia non ancora dominata o governata dalla forma, il deforme. Quando la forma pervade e coordina le parti di cui un oggetto materiale è composto, portandolo a unità e armonia, allora la cosa si può dire bella. Questo sembra contraddire quanto si è detto sopra circa il non essere la simmetria un principio di bellezza, ma è solo apparentemente così. Plotino, infatti, non afferma che le cose simmetriche e ben composte non sono belle, ma solo che la bellezza non consiste nella composizione delle cause, ma nell’idea che informa le parti. Detto altrimenti, la simmetria non è principio di bellezza, ma effetto di un altro principio, l’idea, la forma, l’unità dell’idea che traspare nella cosa, perciò le qualità semplici sono belle prima ancora di quelle composte.

Il problema del darsi della bellezza nel sensibile

In che modo la bellezza corporea si accorda (sym-phonei, suona assieme) con quella anteriore al corpo? In che modo la bellezza intelligibile risuona nel sensibile, in che modo può trasparire “malgrado” il sensibile? In che modo il sensibile apre un varco, lascia aperto uno spiraglio alla bellezza, quella materia che, in sé, è male, inerzia, resistenza, oscurità? Come può l’idea “tradirsi” (consegnarsi al) nel sensibile, senza perdersi irrimediabilmente in esso? (Plotino formula il problema dell’accordo fra bellezza sensibile e bellezza intelligibile ricorrendo a un esempio aristotelico, quello dell’architetto che giudica bella la “casa realizzata” in rapporto alla “casa concepita”. Come mostra Panofsky, però, questo esempio è solo esteriormente simile a quello aristotelico, dal momento che i concetti di materia (hyle) e di forma (eidos) dello Stagirita sono profondamente diversi da quelli neoplatonici. V. E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze, 1998, p. 13-14). Superficialmente sentiamo in queste domande gli echi del Timeo, ma il mondo filosofico in cui germogliano è del tutto diverso da quello platonico: ora la materia è una determinazione negativa dell’essere, è il male assoluto, mentre in Platone la chora era una determinazione necessaria per sottrarre l’essere da uno status di mera possibilità.

La preoccupazione di Plotino non è più quella genuinamente platonica di “salvare i fenomeni”, σῴζειν τὰ φαινόμενα, (sozein ta phainomena), ma, al contrario, come salvare l’idea dagli inevitabili rischi connessi alla sua caduta nel sensibile, come preservarla nella sua purezza. Plotino, in altri termini, sottolinea il carattere accidentale e non necessario del connubio del bello intelligibile con la materia. È in questo contesto che il filosofo enuncia il suo principio: sono le armonie non visibili che producono le armonie visibili, sono esse che rivelano all’anima l’identico nel diverso. La bellezza è un principio di unità e di ordinamento, che appartiene a ciò che è in sé “uno” e che si impone come qualcosa di trascendente a ciò che in sé è “molti”, mera molteplicità e divisione. La concezione plotiniana della bellezza può richiamare la formula hegeliana del bello come il darsi sensibile dell’idea, ma ancora una volta bisogna diffidare dall’assimilazione di mondi così diversi. Per il filosofo neoplatonico, infatti, si deve semmai parlare del trasparire dell’idea malgrado il sensibile, dato che in lui il sensibile non appartiene necessariamente all’avventura dell’idea, ma solo contingentemente. L’idea non si dà nel sensibile, ma “cade nel sensibile”, accade sventuratamente in esso e da tale imprigionamento deve essere salvata.

La bellezza dell’anima

Più si sale nella gerarchia delle cose belle, più la bellezza si fa pura e più i sentimenti che essa suscita sono intensi. Importante è l’inventario delle emozioni che la bellezza suscita, tutte indicanti il carattere specificamente filosofico dell’esperienza del bello: gioia, stupore o meraviglia, commozione, amore. Platonica è l’analogia di Plotino sul “tormento” provocato dalla bellezza: come la bellezza dei corpi, che pure tutti vedono, stimola, pungola (Ma il verbo greco κεντέω (kenteo) ha più il significato di tormentare e ferire) solo gli amanti, così la bellezza delle idee pungola, tormenta, spinge alla ricerca solo il vero amante dell’intelligibile, cioè il filosofo. Gli amanti che si sono elevati ad un grado superiore a quello corporeo provano passione per l’anima, che è senza colore, senza attrattive sensibili, ma che possiede in sé l’invisibile temperanza, σωφροσύνη (sophrosyne) e lo splendore delle altre virtù.

E qui Plotino non si chiede più in che modo possiamo dire belli i corpi, ma in che modo diciamo bella l’anima e le sue virtù. Mentre i corpi, in quanto materia, sono in sé brutti e solo accidentalmente, quando in loro traspare la bellezza, possono apparire belli, l’anima materiale, invece, è in sé manifestamente bella e solo accidentalmente può essere brutta. Se nel corpo la bellezza sopraggiunge a illuminare, a purificare, per quanto è possibile, ciò che in sé è impuro, nell’anima ciò che invece può sopraggiungere è la bruttezza, la quale accade in lei come un male estrinseco che la sporca e la rende impura.

Impura, trascinata da tutti i lati dal fascino degli oggetti sensibili, contenendo in sé molti elementi corporei mescolati, accogliendo in sé molta materia e una forma diversa da sé, essa si modifica per questa mescolanza con l’inferiore: come se un uomo caduto nel fango o nel pantano non mostrasse più la bellezza che possedeva prima e non si vedesse che il fango di cui è sporco; la bruttezza è sopraggiunta in lui per l’aggiunta di un elemento estraneo e s’egli vuole ridiventar bello, deve lavorare per lavarsi e pulirsi e diventare così com’era prima. (Enneadi, I, 6, 5, 42 e segg.)

Significativa questa analogia dell’uomo che cade nel fango: la bruttezza è un elemento estraneo all’anima. Anche quando sopraggiunge, e sopraggiunge inevitabilmente quando l’anima è inclinata verso il corpo, non intacca mai l’essenza dell’anima stessa. Un uomo resta un uomo anche se coperto di fango, del quale può sempre decidere di liberarsi, la sua natura non ne viene toccata. Così accade per l’anima, per la quale non si dà corruzione essenziale, ma solo accidentale caduta nella materia. L’anima brutta non è un’anima corrotta, ma solo un’anima sporca.

L’ascesa alla bellezza in sé

La virtù, ogni virtù, è nella sua essenza purificazione, κάθαρσις (katharsis), termine che in Plotino ha il significato cruciale di allontanamento dai piaceri del corpo, di fuga da essi per riconquistare il carattere divino che l’anima ha per essenza. Solo purificata, cioè colma di virtù, l’anima è propriamente bella. Plotino giunge quindi a identificare la Bellezza con il Bene, i due caratteri che appartengono per essenza al divino, cioè al vero essere.

Il tragitto che Plotino propone per l’ascesa al Bello e al Bene ha un andamento solo superficialmente simile a quello platonico: l’iniziazione, più che filosofica, è mistica, prima che etica, è catartica e il premio di tale ascesa è la felicità, mentre il castigo è l’infelicità che inevitabilmente coglie chi è lontano dalla propria vera patria. Plotino ricorre a due notissimi racconti mitici.

[Chi vuole afferrare le immagini sensibili] è simile a colui che volle afferrare la sua bella immagine sull’acqua ed essendosi piegato troppo verso la corrente profonda disparve: nello stesso modo colui che tende alle bellezze corporee, non col corpo, ma con l’anima, piomberà nelle profondità tenebrose e orribili per l’Intelligenza, e soggiornerà nell’Ade, cieco compagno delle ombre. (Enneadi, I, 6, 8, 10 e segg. È chiara l’allusione al mito di Narciso)

Come Ulisse che narra di essere sfuggito alla maga Circe e a Calipso, facendo comprendere che non desiderava rimanere, benché vivesse in mezzo ai piaceri della vista e a bellezze sensibili di ogni specie. La nostra patria è quella donde veniamo e lassù è il nostro Padre. (Enneadi, I, 6, 8, 18 e segg.)

Il sensibile è paragonato sia all’illusione dell’immagine riflessa che, con il suo inganno, perde chi vi si affida, sia alle arti magiche di Circe e Calipso, che cercano di incatenare l’uomo ai piaceri del corpo. Ma l’uomo, se è degno di tale nome, non deve cadere rovinosamente nell’inganno come Narciso, ma rispondere, come Ulisse, al richiamo della sua vera patria, abbandonando il luogo della seduzione. Pur nello stile e nell’afflato religioso che lo caratterizza, Plotino è qui nello stesso registro platonico dell’inimicizia verso il sensibile.

Ma è proprio in questo punto che Plotino porta l’accento su una concezione che diventerà cruciale per l’arte, non solo nell’ambito neoplatonico, ma anche nella tradizione e nell’interpretazione successiva del platonismo.

La bellezza interiore e l’operare artistico

La luce della bellezza splende nell’interiorità dell’anima. Il viaggio verso la bellezza, la verità e il bene è, in realtà, un viaggio nella propria interiorità.

Come si può vedere la bellezza dell’anima buona? Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù. (Enneadi, I, 6, 9, 6 e segg.)

L’operare proprio dell’artista non consiste tanto nell’imitazione, anche se essa è l’origine propria della techne, un’imitazione che, comunque, ha come proprio modello, non le cose sensibili, ma l’intelligibile stesso, bensì consiste essenzialmente nella purificazione. L’artista toglie, raschia, ripulisce l’immagine da tutto ciò che la rende inadeguata a manifestare l’idea. Prima che mimesis, insomma, l’operare artistico è katharsis. Come lo scultore mira al bello in sé, così deve fare l’uomo con la propria anima e l’opera di purificazione è innanzitutto un’opera di assimilazione del sé alla bellezza stessa: solo il bello, infatti, può contemplare il bello.

È necessario, infatti, che l’occhio si faccia eguale e simile all’oggetto per accostarsi a contemplarlo. L’occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole (v. Platone, Repubblica), né un’anima vedrebbe il bello, se non fosse bella. Ognuno dunque diventi anzitutto deiforme e bello, se vuole contemplare la bellezza. […] Comunque il Bello è lassù nell’intelligibile. (Enneadi, I, 6, 9, 29 e segg.)

Il trattato sul bello intelligibile (Enneadi, V, 8)

L’arte possiede le forme della bellezza

Il trattato sul bello intelligibile si apre con la domanda sul modo in cui si può contemplare la bellezza dell’Intelletto e del cosmo intelligibile. A tale domanda Plotino risponde con un esempio che avrà grande rilevanza per la sua concezione dell’arte.

Pertanto prendiamo ad esempio due blocchi di pietra posti l’uno accanto all’altro: il primo allo stato grezzo e privo di lavorazione, il secondo già sottomesso all’arte e trasformato nella statua di un dio o di un uomo, di un dio come una Grazia o una Musa, oppure di un dio non qualsiasi, ma come l’arte ha saputo farlo radunando tutti i tratti della bellezza; bella potrà apparire la pietra che è stata condotta dall’arte alla bellezza della forma, e sarà tale non grazie al suo esser pietra – poiché altrimenti anche l’altra sarebbe ugualmente bella, bensì grazie alla forma che l’arte le ha infuso. Certo la materia non possedeva questa forma, ma essa esisteva in chi la pensava anche prima di raggiungere la pietra; ed esisteva d’altra parte nella mente dell’artefice, non perché egli fosse dotato di occhi o di mani, ma in quanto partecipava dell’arte. (Enneadi, V, 8.1)

In questo passo possiamo cogliere tutta la distanza di Plotino dal suo maestro Platone. È l’arte che possiede le forme della bellezza e che essa cerca di imporre alla materia. L’arte opera selezionando e idealizzando: nella rappresentazione della figura umana non si limita a prendere un uomo qualunque e a riprodurlo realisticamente. Fra tutte le qualità sceglie quelle belle e le mette assieme, le com-pone, guidata in quest’opera dall’idea del bello che essa possiede. Anche qui si vede come la bellezza sopraggiunga alla materia come qualcosa che le dà forma e senza la quale essa sarebbe informe e brutta.

L’allontanamento dall’idea è degrado

Plotino, affermando che la forma è nella mente di chi pensa, è in questo caso molto più aristotelico che platonico, (Met. 1031a 23-24  e Eth. Nic. 1040a 13-14) anche se poi è lontanissimo da Aristotele nel concepire la techne come unità di sapere e realizzazione. È vero che anche per Plotino la techne rappresenta il possesso di un modello, quindi di un sapere, ma il processo di realizzazione implica necessariamente un certo degrado della forma nella materia, dal momento che la bellezza, quanto più si espande, penetrando nella materia, tanto si corrompe in rapporto alla bellezza che in sé persiste immutata. (Come scrive Panofsky a p. 16 di Idea, cit., “Le concezioni di un ipotetico Raffaello senza mani dovrebbero, in ultima analisi, essere più pregevoli che non i quadri del Raffaello vero.”)

Nell’arte risiedeva dunque una simile bellezza, ben più pregevole. Non fu infatti la bellezza che è propria dell’arte a discendere nella pietra, ma essa resta lassù, mentre un’altra, inferiore, ne deriva; e quest’ultima né ha conservato la sua purezza nella pietra, né vi è restata come desiderava, ma solo nella misura in cui la pietra ha ceduto all’arte. […] la bellezza, infatti, quanto più si estende andando verso la materia tanto più perde vigore rispetto alla sua condizione di unità originaria. (Enneadi, 8.1)

È questo un principio fondamentale della filosofia di Plotino: ciò che si estende, sia nella materia, cadendo così nella molteplicità, sia nelle parole, cadendo così dalla conoscenza intuitiva a quella discorsiva, si allontana da sé, dalla propria natura, quindi si degrada.

L’arte come imitazione idealizzante

A questo punto Plotino entra in esplicita polemica con il suo maestro Platone.

Se qualcuno disprezza le arti in quanto creano imitando la natura, occorre innanzitutto dire che anche la natura imita qualcos’altro. È poi necessario sapere che le arti non imitano semplicemente ciò che si vede, ma risalgono dai principi razionali da cui deriva la natura; e inoltre creano da sé molte cose e completano ciò che per qualche aspetto è manchevole, possedendo la bellezza. Così anche Fidia creò Giove, senza seguire alcun modello sensibile, ma cogliendolo quale sarebbe stato, se avesse voluto apparirci alla vista. (Enneadi, 8.1)

L’arte non imita, ma esprime le forme costitutive del reale, superando in questo compito la stessa natura. Nel concetto che l’arte completa la natura vi è certamente un’eco aristotelica, mentre non può sfuggire l’importanza del concetto dell’arte come creazione, affermato in queste righe accanto a quello dell’arte come attività mimetica e idealizzante. Sembra proprio che con Plotino l’arte riesca finalmente a sottrarsi alla condanna senza appello pronunciata contro di essa da Platone. È però giunto il momento di chiederci se davvero la comprensione dell’arte da parte di Plotino sia una rivalutazione. Sul luogo comune che Plotino avrebbe liberato l’arte dai ceppi stessi del platonismo non sembra assolutamente d’accordo Panofsky.

È indubbio che Plotino si sforzi, nella sua filosofia, di attribuire alla forma interna (endon eidos) all’artista una dignità metafisica, grazie al suo rapporto diretto con un prototipo perfetto ed eccelso. È questo che garantisce alle intime rappresentazioni dell’artista il diritto di contrapporsi alle cose reali. L’immagine che l’artista Fidia porta nel suo intimo non è solo la rappresentazione di Zeus, non è una copia, un’immagine di Zeus. Il Fidia plotiniano non possiede le idee in rappresentazione, ma in essenza, per cui lo spirito artistico si scopre affine nell’essenza e nei destini al Nous creatore. L’arte combatte con le sue opere la stessa lotta del Nous, la lotta per il trionfo della forma sull’informe.

La problematica “rivalutazione” plotiniana dell’arte. La critica di Panofsky

Se la concezione mimetica, secondo la quale l’arte si limita a imitare il mondo sensibile, considerando un tale scopo come non adeguato allo scopo ne contesta in un certo modo la validità, la concezione plotiniana, per cui l’arte assume l’elevato compito di imporre un eidos alla materia riluttante, nega la possibilità stessa del successo, in quanto dimostra che il suo fine è irraggiungibile. (E. Panofsky, Idea, cit., p. 15)

Se le opere d’arte, create secondo la teoria della mimesi, erano mere imitazioni dell’apparenza sensibile, quelle considerate secondo l’ottica plotiniana sono solo allusioni a un bello intelligibile non realizzato né realizzabile in esso. Per Platone l’arte è nemica perché simula e porta una verità altra da quella ideale, per Plotino, invece, pur “rivalutata”, resta inefficace e sostanzialmente improduttiva.

Se la polemica platonica attribuisce alle arti la colpa di imprigionare l’intimo sguardo dell’uomo nell’ambito delle immagini sensibili, cioè di precludergli addirittura la visione del mondo delle Idee, la difesa di Plotino le condanna al tragico destino di spingere questo sguardo interiore sempre più lontano, al di là di esse immagini sensibili, aprendogli invero uno spiraglio verso il mondo delle idee, ma anche velandoglielo al tempo stesso. Intese come imitazione del mondo sensibile, le opere d’arte sono private del loro più alto contenuto spirituale, o, se così piaccia, simbolico; intese invece come manifestazione delle idee, vengono a perdere ogni finalità propria ed ogni autonomia. (E. Panofsky, Idea, cit. p. 16-17)

Le violente accuse che Platone rivolge all’arte (impotente, cieca, falsa) non sottraggono a questa il suo carattere seduttivo e la sua intrinseca pericolosità, anzi, come abbiamo visto, non è infondato il sospetto che tanta violenza nasconda in realtà una segreta attrazione, l’attrazione per un’attività autonoma, anche se negativa. Con Plotino, invece, come ben sottolinea Panofsky, l’arte perde proprio l’autonomia, condannata a un percorso senza fine, dato che il bello intelligibile, in realtà, si raggiunge per altre vie da quelle artistiche. Non a caso Plotino, nel saggio sul bello intelligibile, si affretta ad abbandonare questo territorio così labile.

Ma lasciamo da parte le arti. Consideriamo ciò la cui opera, si dice, esse imitano, le cose che per natura sono nate e vengono dette belle. … Che cosa è dunque bello in queste cose? (Enneadi, 8.2)

 

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