Un excursus nel pensiero orientale: lo Zen e il Taoismo – 1

Il “nulla” nel pensiero zen

Introduzione

Come premessa alla lettura del testo di Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, e del dialogo fra Heidegger e Tezuka, Da un colloquio in ascolto del linguaggio, è necessario analizzare brevemente un concetto che appartiene tanto alla filosofia occidentale quanto a quella orientale, anche se con accezioni profondamente diverse, il concetto di “nulla”. A tale scopo commenterò un testo, La pienezza del nulla, (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla. Sull’essenza del buddismo Zen, Il melangolo, Genova, 1989) scritto dal maestro giapponese Hisamatsu, noto in Europa per aver conosciuto e frequentato alcuni fra i più importanti filosofi del Novecento, Heidegger compreso. Il testo ha un titolo ossimorico, una figura retorica, questa, che ricorrerà spesso, e non a caso, in questa interpretazione. Il nulla zen, infatti, appartiene alla stessa costellazione concettuale della chora platonica e, come ho sottolineato allora, della chora si può parlare solo in modo indiretto (V. su questo sito i testi dedicati alla condanna platonica dell’arte).

Il saggio di Hisamatsu è un testo di pregevole utilità, ma, più che un testo filosofico, è un testo didattico, animato dalla volontà di rendere disponibile a occidentali uno dei concetti zen fondamentali. Questo saggio, forse al di là delle stesse intenzioni dell’autore, rappresenta un riuscito tentativo di “confronto culturale” fra Oriente e Occidente e nulla di più. Troveremo in esso, comunque, strani oggetti, “concetti figurativi” o “figure concettuali” che meritano di essere considerati.

L’assunzione del “nulla” come oggetto del discorso genera una reazione comune che assume valenze affettivo-emotive di segno opposto. La reazione comune potrebbe essere quella del brivido nichilistico, che per alcuni assume i connotati seducenti del tuffo nell’ignoto, nel territorio sconosciuto dell’antiessere, per altri quella terrorizzante dell’annientamento e della perdita. Decidere di parlare del “nulla” significa porsi all’origine di una strada che, in realtà, è un sentiero stretto e pericoloso, o meglio ancora una corda tesa su cui camminare e dalla quale si rischia sempre di cadere in due diverse vuote farneticazioni: da un lato, il vuoto del parlare oracolare, iniziatico, gergale (un vaniloquio “colto”), dall’altro, il vuoto della ciarla quotidiana e del luogo comune (un vaniloquio banale). Due modalità diverse della ciarlataneria. La stessa enunciazione dell’argomento, “parlare del nulla”, ci dispone e ci espone, per il suo carattere ossimorico, più che a un parlare del vuoto, a un parlare a vuoto. E tuttavia non si può fare filosofia, se non assumendosi, in ogni parola, in ogni concetto, in ogni frase che si pronuncia, questo rischio mortale.

Comincio allora con un chiarimento: voglio parlare del nulla filosoficamente, perciò non darò, né all’inizio né alla fine del discorso, alcuna definizione del nulla (come si può dire, infatti, che cos’è ciò che in sé non è?), né tanto meno cercherò di evocarlo per via indiretta con suggestioni più o meno efficaci, e nemmeno tenterò di rappresentarlo con analogie, come ad esempio il vuoto, anche se in realtà non mancherò di ricorrere a immagini che in un certo senso sappiano, se non rappresentarlo, almeno presentarlo. Il nulla proverò a “indicarlo” e, paradossalmente, a indicarlo proprio nell’attualità dell’essere. In questa impresa ritroverò dei concetti già visti, come ad esempio la chora platonica, il cui senso si arricchirà e si modificherà, ne formulerò altri, generando una costellazione filosofica alla quale anche l’arte intimamente appartiene.

Nessuna descrizione di qualcosa di presente ci può restituire la presenza di questo qualcosa, nessun racconto ci può regalare l’evento, forse solo i fatti: descrizione e racconto in realtà traducono, sottraendo, aggiungendo, selezionando, modulando, ma non presentando, bensì solo rappresentando. Ciò che si mostra non può essere detto, afferma con efficacia Wittgenstein. Ebbene, il nulla si mostra, il nulla non può essere detto, se non con perifrasi, perché il nulla è la sua presenza. Purché, naturalmente, non si intenda tale presenza allo stesso modo in cui si intende la presenza delle cose: il nulla non è presente come è presente una sedia, una cattedra, oggetti particolari, né come lo è una determinata tonalità di bianco o di un altro colore, dati della sensazione. Eppure il nulla è proprio nella presenza delle cose, ma ancora una volta, purché ciò non venga inteso come una realtà che sta sotto, sopra o dietro le cose (tutti modi di intendere/fraintendere la semplice presenza), una realtà, quindi, che per essere percepita, richieda un atto che trascenda la presenza stessa delle cose.

L’interpretazione negativa del nulla

Il testo si apre con l’indicazione di cinque differenze fra il nulla zen e altri modi di intendere il nulla, che solo impropriamente possono essere definiti occidentali.

La prima differenza è con il nulla inteso come negazione della mera esistenza, il cosiddetto nulla esistenziale, la negazione di un ente particolare (in questa stanza non c’è un lampadario) o dell’esser-presente di un qualsiasi ente in assoluto (non c’è nulla).

Il Nulla, come negazione della mera presenza. Si tratta del nulla quale è inteso e compreso in asserzioni come “il tavolo non c’è” o “la gioia non esiste”; perciò della negazione di un ente o materiale o spirituale. Tale nulla nega in due sensi: tanto l’esser presente di un ente individuale come nei casi indicati, quanto l’esser presente di un qualsiasi ente in assoluto, come “non vi è nulla” o “ogni cosa non è (presente)”. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 11)

Così interpretato, il nulla zen sarebbe frainteso in senso nichilistico, come un nulla oggettivato.

Nel nulla dello zen o nel destarsi della verità non vi è nulla che possa venir affermato come essente. Tuttavia non si deve sulla base di tale indeterminata definizione dedurne la conclusione erronea che il nulla dello zen significhi in assoluto la negazione dell’esser presente. […] “L’essenza vera è uguale allo spazio vuoto del cielo; è senza forma e figura, senza direzione e senza luogo; tuttavia non è un non essere”. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 13-14)

Ciò che qui viene detto, in uno stile metaforico, ma non per questo poco rigoroso, è che il nulla, pur non essendo riconducibile all’essere presente delle cose, tuttavia non è nemmeno pensabile alla stregua di un non essere. Il fraintendimento del nulla esistenziale nasce da una limitazione del significato di “essere” a quello di “essere come attualità”, come esistenza data e determinata. Non solo il nulla zen non nega l’essere presente, ma esso “è” solo nella presenza dell’ente. Solo dove c’è qualcosa, il nulla realmente “è”. Allo stesso modo in cui solo nelle forme possiamo cogliere le forze che le generano. È in questo “cogliere” che si nasconde l’enigma.

La seconda differenza va posta con il cosiddetto nulla essenziale, il nulla inteso come negazione dell’asserzione e del giudizio, come negazione del predicato che viene attribuito a qualcosa, come avviene, ad esempio, quando si dice “il tavolo non è una sedia”, oppure “la lavagna non è nera”.

Il Nulla come negazione dell’asserzione, del giudizio. Si tratta in questo caso di constatazioni e affermazioni quali: “un tavolo non è una seggiola” o “la gioia non è tristezza”. Ciò che viene negato è l’asserzione intorno a una cosa. Non si tratta come nel primo caso della negazione del tavolo in quanto tale, ma della negazione del predicato che gli viene attribuito. Il nulla entra qui in gioco nel significato di “questo non è quello”. Anche qui vi è una doppia negazione, nel caso speciale di giudizi riferiti a un singolo oggetto come nell’asserzione “il tavolo non è una seggiola”; e contemporaneamente nel caso del tutto generale di giudizi in cui il soggetto della frase è indeterminato come: “ciò non è qualcosa d’altro” o “ciò non è nulla”. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 11)

Giudizio significa attribuire qualcosa a qualcos’altro: S è P (la lavagna è nera). “Nera” è una determinazione, “lavagna” è un ente determinato da questa determinazione e da infinite altre ancora. Le determinazioni costituiscono quello che gli scolastici hanno chiamato la realitas di un ente, il suo contenuto reale, il suo corredo ontologico. Realitas è ciò che l’ente propriamente è. L’uomo, ad esempio, è, secondo la classica definizione, animal rationale: l’animalità lo assegna a un genere, quindi a un’identità, mentre la razionalità lo differenzia all’interno di questa identità generica e lo costituisce come specie. Della realitas non fanno parte gli “accidenti”, i quali riguardano ciò che l’ente contingentemente è e che, quindi, potrebbe anche non essere, senza pregiudizio alcuno della sua natura, come l’essere biondo per un uomo, o il suo trovarsi seduto in un determinato posto. Sono gli accidenti che “particolarizzano” la specie uomo nei diversi individui. Le determinazioni, in quanto tali, “sono” necessariamente qualcosa, indipendentemente dal fatto che “ci siano” oppure no, cioè che esistano effettivamente o meno. I famosi cento talleri di Kant sono qualcosa di perfettamente determinato, indipendentemente dal fatto che siano semplicemente pensati o effettivamente esistenti. I cento talleri, infatti, non sono ciò che sono in base alla loro existentia, cioè al loro essere effettivamente presenti, ma in base alla loro realitas, cioè all’insieme delle loro determinazioni. La distinzione fra realitas ed existentia è espressa dal diverso uso del verbo essere, copulativo o esistenziale.

Con la prima differenza, abbiamo visto che il nulla zen non ha a che fare con la negazione dell’esistenza di qualcosa o dell’intera realtà, anzi. Ora, invece, si afferma che il nulla zen non ha nemmeno a che fare con la negazione della realitas di qualcosa, essenziale o accidentale che sia. Se la prima differenza riguarda la presenza delle cose e ci mette in guardia dal confondere il nulla con l’assenza di ogni cosa, la seconda ha a che fare con la determinazione delle cose e ci mette in guardia dal confondere il nulla con l’indeterminato. Il nulla zen, invece, è “reale”, senza essere qualcosa. Il nulla, insomma, non è né il mero niente, né il meramente indeterminato. Entrambi questi fraintendimenti si basano su quella che Heidegger chiama la riduzione dell’essere all’ente, per cui facciamo coincidere l’essere con l’essere determinato. Se l’essere è l’essere determinato, allora siamo costretti a pensare, per contrapposizione, il nulla come il non ente (il mero niente) e come il non determinato.

La terza accezione da cui il nulla zen si differenzia è quella del nulla logico, basata sulla comprensione del nulla come idea e indicante il non essere presente in generale in opposizione all’essere presente.

Il Nulla come idea. Questo nulla non afferma che “qualcosa di determinato non è (presente)” o che “siffatto qualcosa non è questo o quello”, ma indica il non-essere presente in generale in opposizione all’essere presente o il Nulla in opposizione all’Essere in generale. Si tratta del nulla come idea logica del pensiero astraente che può essere così rappresentata: “il Nulla non è l’Essere” o “dal Nulla non proviene nessun essere”. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 12)

Il nulla, insomma, in opposizione all’essere. Il nulla dello zen, invece, esclude del tutto il riferimento a una definizione che ricorra allo schema essere-non essere. Nel nulla esistenziale ed essenziale, prima considerati, è prioritaria l’assunzione di qualcosa come qualcosa, di cui viene negata o l’effettiva esistenza o l’appartenenza a esso di predicati. Nel nulla logico, invece, il qualcosa che viene assunto non ha i caratteri della determinatezza, ma quelli della generalità. A questo essere in generale contrappone il nulla in generale. Pensiamo all’essere di Parmenide o all’essere come tesi nella triade dialettica che apre la dottrina dell’essere nella Scienza della logica di Hegel, a cui si contrappone come antitesi il nulla, due astratti che sono lo stesso e che, perciò, devono “togliersi” in quanto tali nel concreto divenire. Se nella prima accezione il nulla è frainteso come mero niente e nella seconda come il mero indeterminato, due fraintendimenti fondati nell’oblio della differenza ontologica fra ente ed essere, due fraintendimenti che appartengono al destino storico della metafisica occidentale, ora invece il nulla è frainteso come mero non-essere, fraintendimento che risale al gesto stesso di fondazione della metafisica occidentale, quello parmenideo. Non più ente ed essere, nell’oblio della loro differenza, ma l’essere in quanto tale, assunto come il pensabile, opposto al nulla, assunto come l’impensabile. Il violento gesto diairetico di Parmenide, la sua totalitaria affermazione dell’essere, decreta non solo l’impensabilità e l’indicibilità del nulla, ma la sua stessa irrealtà. Le prime due accezioni intendevano il nulla come l’inesistente o l’indeterminato, questa terza, invece, lo intende come l’impossibile.

Il nulla zen va distinto anche dal nulla immaginato (quarta accezione), quel nulla che deriva dal mio potere di immaginare che qualcosa non sia, anche se la sua realtà è innegabilmente presente davanti ai miei occhi.

Il Nulla come prodotto dell’immaginazione. In questo caso posso immaginare che qualcosa non sia anche se la sua realtà è innegabile; posso persino immaginare di essere morto e di non essere più in vita, anche se hic et nunc vivo senza alcuna possibilità di dubbio. Tale è il nulla immaginato. Con un nulla siffatto l’immaginazione può riferirsi tanto ad una determinata cosa o persona, come nel giudizio “questo tavolo non è” o “io non sono”, quanto anche a tutto ciò che è, come nella proposizione “tutto ciò che è, non è”. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 12)

Se sciolgo le briglie della mia immaginazione posso far sparire il tavolo nel mio pensiero, anche se effettivamente si trova davanti ai miei occhi. Se ci si può suggestionare nella rappresentazione che qualcosa c’è, è allora anche possibile che l’occhio possa vedere ciò che in realtà non c’è. […] ma si tratta di un vuoto visto solo esteriormente. … il vuoto così esteriormente visto e percepito è tanto poco il vero vuoto quanto il Budda scorto nell’immaginazione è il vero Budda. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 17)

Le prime tre differenze hanno messo il nulla zen al riparo dalle minacce portate dalla metafisica e dall’ontologia fondamentale. La quarta differenza lo mette al riparo dalla minaccia portata da quella figlia legittima della metafisica occidentale che è la soggettività, con i suoi poteri di rappresentazione e di riduzione del reale alle operazioni e alle strategie conoscitive del soggetto. Il nulla zen non è concepibile come l’esito di un’operazione irrealizzante del soggetto, operazione che è nelle sue possibilità e nella quale Sartre vede addirittura l’origine stessa della libertà dell’uomo. Il nulla zen non è percezione soggettiva del vuoto, anche laddove c’è qualcosa, non è svuotamento allucinatorio della realtà o di sé. Perché il nulla zen non si dà entro lo schema soggetto-oggetto. Chi pensa al nulla zen come a un’esperienza esistenziale di natura psicologica è vittima di un grossolano abbaglio filosofico.

Infine, ed è la quinta differenza, il nulla zen non è nemmeno l’assenza di coscienza.

Il Nulla come assenza di coscienza. Si può dire che per un uomo che giace in un sonno profondo, è prigioniero di una sorta di totale impotenza o è morto, determinate cose non sono o tutte le cose non sono; anche nella veglia vi è la possibilità di questa assenza di coscienza. Esiste perciò tutta una serie di fenomeni che possono caratterizzarsi con la parola nulla, ma che sono essenzialmente e univocamente distinti dal Nulla del Buddismo Zen. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 12-13)

Rispetto a questo nulla, il nulla zen è invece una situazione di compiuta e piena chiarezza, una situazione di piena coscienza vissuta con perfetta chiarezza. Per comprenderlo, scrive Hisamatsu, non si deve rimanere abbarbicati alle espressioni concettuali che indicano il nulla, né prendere le immagini del nulla alla lettera. Esso va invece afferrato in un’esperienza immediata, senza con ciò ipotizzare alcuna estasi o alcun misticismo, che presuppongono sempre una qualche forma di incoscienza. La prima parte del saggio, quella dedicata alla via negativa al nulla, si chiude con queste parole:

Il fatto che la verità del fuoco o dell’acqua si manifesti immediatamente da se stessa e il fatto che la verità dello zen si mostri da sé immediatamente, questi due fatti, nonostante l’identità d’espressione, sono asserzioni che divergono profondamente. Se gli oggetti del conoscere sono cose come fuoco e acqua, la loro verità la si può esprimere del tutto semplicemente con parole. Ma se si tratta dello zen, una formulazione concettuale è del tutto esclusa. […] Si diviene intimi della vera essenza in una visione immediata, se si rinuncia a volerla comprendere con concetti. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 22)

Il nulla non è assenza, non è negazione, non è annichilimento, non è perdita di coscienza. Non è afferrabile con concetti o dicibile con parole, perché non è la determinatezza. Non è tuttavia l’indeterminato. Illuminante, nelle righe citate sopra, è la differenza tra la presenza del nulla e la presenza delle cose. L’acqua, il fuoco, ma questo vale per ogni cosa, sono presenti nella loro determinatezza. Il nulla, invece, pur non essendo il niente, si sottrae a ogni comprensione concettuale. Non possiamo non richiamarci alla mente l’ambigua e “residuale” presenza della chora nel mondo degli oggetti sensibili, una presenza inapparente, senza la quale, però, le stesse cose non potrebbero letteralmente né essere né significare le idee. Platone riconosceva cha la presenza della chora non era accessibile né ai sensi e alla conoscenza opinabile, la doxa, né all’intelletto e alla conoscenza epistemica, la noesis. Essa era oggetto di un loghismos nothos, un discorso bastardo (v. le parti dedicate alla condanna platonica dell’arte su questo sito).

La chiarificazione positiva del nulla

Vediamo ora, passando alla chiarificazione positiva del nulla del buddismo zen, qual è la natura di questa presenza che si sottrae a ogni determinazione tanto empirica quanto concettuale, cominciando con il capitolo che ha per titolo Il non-essere-qualcosa o la compiuta indeterminabilità. Compiuta indeterminabilità è, ancora una volta un’espressione contraddittoria, ma ormai già sappiamo che non va intesa come indeterminatezza, così come il non aver forma della chora non è in alcun modo l’informe. Il carattere di compiuta e piena indeterminabilità che caratterizza il nulla zen non indica un indeterminato passivo in attesa di essere determinato da qualche istanza ad esso trascendente, bensì indica che in esso non vi è qualcosa che possa essere compreso come realtà presente, attuale. L’indeterminazione non è un carattere negativo, ma affermativo. Attenzione però a non compiere l’errore opposto e considerarlo ciò che attivamente e finalisticamente determina, perché  sarebbe un modo di comprendere il nulla speculare e antitetico a quello precedente. È vero che tale nulla “informa”, ma lo fa nello stesso modo in cui deforma, trasforma; non ha un compito, un progetto, un fine verso cui orientare la sua attività e nemmeno è cieco e casuale, ancora una volta caratteristica opposta e speculare. I concetti di fine (presente o assente, poco importa), così come quelli di forma (ancora presente o assente) appartengono a una costellazione estranea ad esso. Teniamo per ora questa acquisizione: nulla zen = nulla di presente, cioè nulla che abbia la modalità d’essere della presenza delle cose, la determinatezza particolare dell’esistenza, nulla che abbia la modalità d’essere del concetto, la determinazione generale dell’essenza, nulla che abbia la modalità d’essere dell’immagine, nulla che abbia la modalità d’essere della coscienza. E, tuttavia, non un mero nulla.

La difficoltà di tutto il discorso sta nel fatto che le categorie della metafisica e, per certi versi anche dell’ontologia occidentale, al di fuori delle quali non c’è logos, non c’è discorso, non c’è fondamento, non solo non aiutano la comprensione del nulla zen, ma rischiano seriamente di comprometterla.

Il nulla dello zen non presenta uno spazio vuoto, privo di oggetti, che si trova al di là della mia persona, ma è la mia condizione di nulla, il mio me stesso, che è “nulla”. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 23)

La prima parte della frase ripete quanto abbiamo finora detto: il nulla, estraneo al concetto di presenza e di forma, non è comprensibile come assenza o mancanza, non è un non-essere in sé, nihil negativum, a me trascendente. Usiamo “obbligatoriamente” categorie proprie della nostra tradizione filosofica, e va sottolineato l’obbligatoriamente, perché, se non lo facessimo, cadremmo inevitabilmente nell’insignificanza propria di chi usa categorie culturali prese in prestito da altre culture, credendo così di identificarsi in queste culture e non accorgendosi, invece, di ottenere solo il risultato di rendere confuso e banale il suo pensiero, ostaggio, nella forma, di nomi estranei, ma sempre abbarbicato, nella sostanza, a quelle vecchie categorie ripudiate. Questo uso “obbligato” non può fare a meno di orientarci, nella comprensione di questa frase, ad esempio, verso una concettualità sartriana: se il nulla non è la condizione d’essere del mondo, allora sarà quella del soggetto. Il soggetto come nulla ha una lunga tradizione. È figlio di una tradizione strutturalmente innervata dalla scissione soggetto-oggetto, dai dualismi pensiero-essere, io-mondo, interno-esterno: per nulla non devo intendere il nulla che è fuori di me, ma il nulla che io devo essere perché tutto sia. È il soggetto come punto-origine della prospettiva secondo cui ogni cosa si dà, un punto che non è spazio, ma da cui tutto lo spazio prende origine. Leggiamo ciò che scrive Hisamatsu:

L’uomo è abitualmente circondato dalle cose più diverse che appartengono al mondo interno o al mondo esterno. Perciò è impossibile affermare che nulla è presente. Nel mondo esterno vede colori e ascolta voci, gioisce e soffre nel proprio intimo. Certamente collega i suoi pensieri a qualcosa, così che si trova sempre alla fin fine di fronte o a un oggetto del mondo interno o a un oggetto del mondo esterno. L’io che vive nella dimensione quotidiana della vita è perciò l’io che costantemente è in rapporto con oggetti. Un io siffatto non può perciò sottrarsi dal venir determinato dall’esterno. Se vede colori, viene limitato dai colori; se sente voci, da voci; se pensa al male, dal male; se pensa al bene, dal bene. Così in ogni caso è determinato da un oggetto del mondo interno o del mondo esterno e di tale oggetto è prigioniero. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 24)

In queste parole possiamo cogliere bene il punto della questione: la scissione, il dualismo soggetto-oggetto, quel dualismo che nella modernità duplica il dualismo originario, archetipico, quello fra interno-esterno, intelligibile-sensibile, inaugurato da Platone. Il nulla dello zen è l’affermazione di una identità interno-esterno: il mio me stesso è nulla non in contrapposizione all’altro da me, che invece sarebbe tutto, o comunque qualcosa, ma in identità con l’altro da me. L’io, dice Hisamatsu, è il non esserci qualcosa in nessun luogo; ecco, i termini al di là dei quali e, ciò malgrado, solo tramite i quali, dobbiamo comprendere il nulla: tali termini sono proprio il qualcosa (l’ente determinato, sia generale e particolare) e il luogo (lo spazio, le coordinate entro il quale l’ente si dà, o, in altri termini, l’esteriorità e la sua correlativa dimensione, quella dell’interiorità, dimensione temporale). Leggiamo dalla citazione di un saggio cinese:

Solo il cuore in cui non vi è qualcosa può penetrare nel mondo dei colori e tuttavia non ricevere da essi nessuno stimolo, entrare nel mondo delle voci e, tuttavia, non venirne sedotto; penetrare nel bene e non esserne fuorviato [non è un lapsus: dice proprio non essere fuorviato dal bene], può realmente sprofondare nel Samadhi del non essere toccato dalle cose del mondo, nel Samadhi della libertà da tutto il fango, o nel Samadhi del gioco che compie miracoli. Quest’ultimo vero sprofondare è essenzialmente distinto da altri modi in cui, prigionieri delle cose, ci si precipita nell’entusiasmo o nella confusione. […] è un cuore quello che non è nessuna cosa, poiché rappresenta un unicum, senza interno e senza esterno, senza confini e senza limiti, al di là della dualità di soggetto ed oggetto. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 26) [È importante non fraintendere queste affermazioni nel senso di unio mystica o di estasi, concetti che richiedono forme aperte o mascherate di dualismo]

Questo brano, una perifrasi dell’affermazione “l’io come il non essere qualcosa”, è sulla via della comprensione dell’io, del mondo, dell’essere, non come essenza, cioè determinazione, ma come potenza (tutt’altro che potere: potenza d’essere, non potere sull’essere). La compiuta indeterminabilità che dà il titolo al paragrafo che sto commentando, significa il non irrigidirsi in alcuna forma, pur essendo sempre una forma compiuta. C’è qui una polarità fra “potenza d’essere” ed “essere sempre qualcosa di determinato” che va compresa, perché in ciò consiste il nulla zen.

Nota sulla traduzione delle parole fondamentali. Come mostrerò in prossimi articoli, leggendo il saggio di Kuki Shuzo e il dialogo fra Heidegger e Tezuka, i concetti giapponesi di iki o di gei bo (“linguaggio”) non saranno spiegati, decifrati, decodificati, ma pensati, tradotti, chiariti. Pensare il tao con il logos non è ridurre l’uno all’altro, ma tenere assieme l’uno e l’altro. Tradurre, infatti, non significa rendere irrilevante il termine originale, ma, come mostra mirabilmente Benjamin (v. il già pubblicato saggio sulla traduzione), creare una costellazione, oppure mettere assieme i frammenti di un vaso rotto, splendida definizione di traduzione. Tradurre non significa trovare un frammento uguale a un altro, ma trovare un frammento che si componga con un altro, per ricostruire la figura. Il tao non è il logos, anzi, per certi versi è quanto di più lontano da esso si possa pensare e, tuttavia, in quanto parole fondamentali, che esprimono due punti di vista dell’essere (appartenenti all’essere), una volta pensate assieme, una volta che l’una è stata tradotta nell’altra, non è più possibile pensarle separatamente se non attraverso un’operazione di analisi che letteralmente “sfigura” la comprensione. Così è per il concetto di nulla zen (o vuoto), che può essere “tradotto”, ad esempio con “essere” come fa Heidegger, o con “virtuale”, nel senso bergsoniano-deleuziano del termine, traduzione che va intesa nel modo in cui ho appena detto. Il virtuale non è il nulla dello zen, così come non lo è l’essere di Heidegger. E tuttavia vanno pensati assieme non arbitrariamente, come assieme vanno tenuti i pezzi di un puzzle o di una brocca rotta che si adattano l’uno al profilo dell’altro, strana mimesis, fedele solo in quanto non sovrapponibile e insostituibile con ciò che imita.

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