Figure “metaforiche” del Nulla
Hisamatsu procede a comprendere il nulla come vuoto e, a tale scopo, fornisce dieci significati di vuoto.
In primo luogo è indisturbato, cioè per esso, nessun fenomeno, quale che sia la sua forma, costituisce un pericolo. [Significa che esso non si esaurisce, cioè non si spegne, non si nega e non si lega in (e a) nessun fenomeno. Il nulla non è qualcosa, perché semmai ogni cosa è nulla] In secondo luogo è onnipresente. Non è in nessun luogo che non possa raggiungere. In terzo luogo è privo di differenza, cioè non conosce differenza alcuna. [Questo è un punto più difficile da comprendere, ci proveremo fra poco parlando della differenza in una molteplicità attuale e in una molteplicità virtuale]. In quarto luogo è ampio e aperto, cioè non ha limiti. In quinto luogo non appare. Cioè non presenta nessuna manifestazione conoscibile dai sensi. In sesto luogo è puro, cioè è incontaminato e senza macchia [Già il venir determinato in quanto tale significa “venir sporcato e corrotto”. Ciò che viene determinato con un attributo è già in sé sporco, anche se non è sporcato da nient’altro. Non c’è alcuna condanna morale, come potrebbe sembrare, nella determinazione, ma solo l’esaurirsi della potenza d’essere in una forma determinata]. In settimo luogo è stabile e immoto, cioè non nasce né tramonta. In ottavo luogo non ha essere. Cioè è al di là di ogni misura. In nono luogo è vuoto senza essere vuoto. Cioè non è attaccato a se stesso. In decimo luogo, infine, non possiede nulla. Cioè non possiede e non può essere posseduto. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 28) (c.m.)
Hisamatsu, naturalmente, dopo questa assimilazione così puntuale e ricca da un punto di vista fenomenologico del concetto di nulla a quello di vuoto, si affretta subito a ricordare il carattere metaforico, ma non arbitrario o convenzionale, di questa “traduzione” del nulla nel vuoto, una metafora inevitabile per tutte le cose dette, ma insufficiente, dal momento che in esso manca una caratteristica fondamentale del nulla, il suo essere una realtà totalmente vivente, per cui l’altra metafora a cui ricorre, una metafora per noi più pesante e più difficile da accettare di quella che assimilava il nulla al vuoto, è quella che lo assimila al cuore.
Anche in questa caratterizzazione, tuttavia, il cuore non deve essere inteso come ciò che mi è presente alla stregua di un oggetto (questa volta nella sua forma di organo). Esso non è una realtà visibile, ma un cuore che vede, che vede attivamente, ma non è visibile passivamente.
Ed è in questa accezione di attività che il nulla si intende anche e soprattutto come libertà e imperturbabilità, accezioni queste, ma lo abbiamo già detto, assolutamente diverse dall’arbitrio (ma anche dalla kantiana libertà del dovere morale) e dall’indifferenza.
Nel buddismo zen si afferma sovente: “se vuoi andare, va; se vuoi fermarti, fermati”, oppure “se hai fame, mangia; se sei sazio, non ti resta che dormire”. Se si prendono queste espressioni alla lettera, le si può comprendere come affermazioni di libertà assoluta, come se fosse possibile fare tutto ciò che si vuole. Animali e bambini cercano di fare tutto ciò che vogliono. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 41)
Ciò che animali e bambini vogliono è la libertà sensibile, la libertà che in realtà è obbedienza alle inclinazioni personali e psicologiche. Proprio a questa libertà Kant opporrà la libertà basata sulla ragione, e tuttavia, questa non è la libertà del nulla zen, perché ancora, anzi definitivamente, dipendente dalla dualità, dal dualismo, il più forte e tenace dei dualismi, quello tra bene e male.
Nello zen, invece, non si deve discriminare il bene dal male e perciò non si deve separare il sacro dal profano, il mondo da Budda. […] se si incontra in sé un Budda, lo si deve uccidere; se si incontra un anziano maestro, lo si deve uccidere. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 43)
È la libertà del lasciar essere, quella libertà che dice del mondo “così è”, un dire assolutamente diverso, come osserva Jullien in una lettura filosofica del tao e del logos (F. Jullien, Logos e tao, in “Micromega” 1/98, p. 161-209), da quello religioso che dice “così sia”, che esprime un’accettazione del mondo, una sottomissione che trova, ad esempio nell’islam (slm, musulmano = il sottomesso), ma in ogni religione (v. l’amen ebraico-cristiano) il suo luogo proprio e, naturalmente, anche diverso e irriducibile al “perché così?”, della metafisica, della scienza, quel prometeico chiedere ragione al mondo del suo essere, un chieder conto per cui ciò che è non ha in sé la ragione del suo essere.
Il Nulla come fondo e come tratto insostanziale
A conclusione del saggio, Hisamatsu ricorre a due metafore assolutamente decisive per entrare nella costellazione propria del nulla zen, una straordinariamente simile a quella usata da Platone per scopi del tutto opposti, quella dello specchio. Platone paragonava l’arte del pittore all’atto di muovere uno specchio in ogni direzione per ricavare così immagini che non sono altro che illusioni. Per Hisamatsu il nulla è come uno specchio che riflette immutabilmente tutte le cose che dall’esterno vengono a lui. Ciò che si specchia nello specchio, tuttavia, non va distinto da esso, perché scaturisce dallo specchio stesso. È una metafora, come tutto ciò che riguarda il nulla, contraddittoria, eppure forse per questo profondamente significativa, per comprendere la quale, tuttavia, abbiamo bisogno dell’altra grande metafora, quella dell’acqua e delle onde.
Un’onda non cade nell’acqua dall’esterno, ma proviene dall’acqua senza separarsene: scompare e torna all’acqua da cui ha tratto origine e non lascia nell’acqua la minima traccia di sé. Come onda, essa si solleva dall’acqua e torna all’acqua; come acqua, essa è il movimento dell’acqua. L’acqua forma con l’onda un’unità, e tuttavia l’acqua non sorge e non tramonta col sorgere e tramontare dell’onda, né si alza e si abbassa. Come onda l’acqua sorge e tramonta e come acqua non sorge e non tramonta. Così l’acqua forma mille e diecimila onde e tuttavia resta in sé costante e immutata. […] L’onda che sorge e passa intesa come soggetto è simile al se stesso quotidiano dell’uomo. Il fatto che questo soggetto sempre di nuovo ritorni dall’onda all’acqua, è l’essenza del Nulla zen. (H. S. Hisamatsu, La pienezza del nulla, cit., p. 48)
La chora platonica, come differenza, traccia, scarto inassimilabile che nega la completa dispiegabilità di ogni senso, ma che anche ne protegge l’esaurirsi nella compiutezza, è un nulla che lascia essere. Abbiamo incontrato un altro nulla, in un contesto totalmente diverso, il nulla che traccia la differenza fra la hexis difettiva e quella eccessiva, e che determina la perfezione dell’opera d’arte (v. su questo sito La rivalutazione dell’arte in Aristotele). Anche questa è una soglia, non una soglia tracciata, ma il tracciarsi della differenza. Diversi, assolutamente diversi, in sé non confrontabili, eppure ognuno di essi sono tratti che fanno la differenza, soglie, margini, operatori differenziali, tali proprio in quanto non sono qualcosa di determinato, eppure presenti solo nel determinato, come ciò che in esso “si dà nascondendosi” per essere proprio ciò che è.
Per tornare ora al testo di Hisamatsu, escludiamo, nell’interpretazione delle due metafore, ogni senso parassitario di panteismo. Non c’è alcun pathos del tutto in cui ogni forma finita è destinata a ricadere per essere assorbita. Il nulla non è affatto l’acqua, di cui le onde sarebbero fenomeni transitori e caduchi, né tanto meno si identifica con le forme, in quanto determinazioni momentanee dell’indeterminata acqua. Così per lo specchio: né lo specchio in quanto “supporto” delle immagini, né le immagini nella loro molteplicità cangiante sono il nulla. Nessun panteismo, quindi, nessuna presa di posizione per la verità del tutto rispetto alla non-verità delle determinazioni. Lo specchio e le immagini dello specchio, l’acqua e le onde vanno compresi assieme, proprio per cogliere ciò li differenza.
La differenza dell’acqua dall’onda è il nulla che nella forma determinata comporta il tutto da cui proviene, comporta il determinarsi stesso come movimento. In realtà non c’è acqua, se non nella forma dell’onda e non c’è onda se non come acqua, eppure se l’una è l’altra, se c’è qualcosa come una forma, come mille forme, come infinite forme e qualcosa come un fondo, è perché un nulla li separa, un tratto non sostanziale, eppure reale. Ogni onda, ogni forma è acqua, non nel senso dell’identità fra acqua e onda, né nel senso che l’onda è fatta di acqua. Nel primo caso la forma viene compresa come una determinazione dell’informe, nel secondo come l’aspetto, il rivestimento, la sagomatura di una materia. L’onda è acqua nel senso che, nel suo essere determinata, attualizza le linee dinamiche, le direzioni intrinseche, i vettori che l’acqua “è”. In questa metafora non c’è l’acqua e le onde: ci sono solo le onde, solo, sempre e nient’altro che onde, le quali, nelle loro infinite e cangianti forme, attualizzano, esplicano, il caos dinamico che in esse si determina. Ogni onda è una determinazione della forza dell’acqua.
C’è un’immagine in Differenza e ripetizione che appartiene alla stessa costellazione di senso della metafora dell’onda di Hisamatsu, un’immagine che appare all’inizio del primo capitolo del libro, intitolato La differenza in sé.
La differenza è lo stato in cui si può parlare della determinazione. La differenza “tra” due cose è soltanto empirica, mentre estrinseche sono le determinazioni corrispondenti. Sennonché, in luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa che si distingue, eppure ciò da cui si distingue non si distingua da essa. Il lampo, per esempio si distingue dal cielo nero, ma deve portarlo con sé, come se non si distinguesse da ciò che non si distingue. Si direbbe che il fondo sale alla superficie, senza cessare di essere fondo. C’è qualcosa di crudele, e anche di mostruoso, da una parte e dall’altra, in questa lotta contro un avversario inafferrabile, in cui il distinto si oppone a qualcosa che non può da esso distinguersi e che continua a coniugarsi con ciò che da esso si separa. (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano, 1997, p. 43)
È un’immagine assolutamente congruente a quella dell’acqua e dell’onda: non la differenza fra due cose, dove le cose sono il già dato e dove la differenza diventa l’esito di un confronto che si fa prima con gli occhi e poi con l’intelletto, ma il distinguersi di una cosa da un fondo a cui appartiene e che porta in sé. Qui troviamo assolutamente pertinente il temine che avevamo usato parlando della chora, il fondo: il farsi della differenza comporta che il fondo sia forma, che nella forma emerga il fondo. Concetto, come abbiamo chiarito parlando della chora platonica, assolutamente diverso dallo sfondo su cui una figura si staglia, essendo la distinzione fra figura e sfondo totalmente consegnata alla differenza ontica. Anche qui il nulla è il tratto non sostanziale che determina il fondo come figura e che non appartiene in nessun modo a ciò che la figura dice, al suo significato, a ciò a cui fa riferimento, anche se la figura, poi, è tutta in questo riferimento. Un tratto che non appartiene alla figura, e che tanto meno le appartiene come fondamento, e che tuttavia non c’è se non in essa. Deleuze, ma anche Heidegger, per tale singolare inerenza usa il termine “insistere”. Il fondo “insiste” nella figura, la quale “esiste” solo grazie a tale insistenza: la chora, il tratto, il nulla sono questa inapparente, insostanziale insistenza del senso in ogni significato dato, un’insistenza senza la quale nessun significato avrebbe luogo (= potrebbe apparire), un’insistenza senza la quale nessuna idea esisterebbe, se non come puramente pensata.
Il concetto di virtuale
Questo nulla, questo tratto insostanziale, che è sempre movimento del differenziarsi, è ciò che Deleuze pensa riprendendo un concetto di Bergson: il virtuale. Dire che cosa sia il virtuale presenta la stessa difficoltà che abbiamo incontrato quando abbiamo provato a dire che cosa fosse la chora o il nulla zen. Possiamo ricorrere a Bergson e con lui ripetere che il virtuale è ciò che contiene allo stato di implicazione reciproca ciò che l’attuale svilupperà in parti esteriori le une alle altre. Ma non avremmo fatto molti passi in avanti, perché il virtuale appare ancora con l’aspetto di una cosa determinata, il cui modo d’essere, in opposizione a quello dell’attuale, che è caratterizzato da relazioni estrinseche fra le parti che lo compongono, sarebbe quello dell’implicazione, un termine questo carico di senso nella tradizione filosofica, soprattutto religiosa.
Eppure la definizione di Bergson, se bene interrogata, ci può essere di grande aiuto. Innanzitutto vediamo che il virtuale non si dà senza l’attuale, a differenza di ciò che accade del possibile rispetto al reale, potendo benissimo concepirsi il primo senza il secondo. Il rapporto o la differenza fra il possibile e il reale è una differenza empirica o una differenza intellettuale (non c’è fra questi due termini quella grande differenza che si crede), è quella che Heidegger chiama una differenza ontica: l’uno e l’altro possono essere pensati autonomamente, fra l’uno e l’altro c’è identità di essenza, la loro differenza è estrinseca e deriva da un atto di posizione trascendente la loro essenza. L’esempio famoso è quello già citato di Kant: io posso pensare nella loro compiuta determinatezza 100 talleri, senza comportare con ciò la loro esistenza, così come, se avessi 100 talleri in tasca, non avrei aggiunto nulla a ciò che essi sono, cioè alla loro essenza, ma solamente li avrei posti come esistenti.
Ben altra è, guardando la definizione di Bergson, la differenza tra virtuale e attuale, cominciando dal fatto che entrambi sono reali: è quindi una differenza che avviene nel reale stesso. Diciamo che l’attuale non può darsi senza il virtuale come l’onda non può darsi senza l’acqua o il cielo nero senza lampo, ma aggiungiamo subito che vale anche il reciproco. Sempre dalla definizione di Bergson vediamo che l’attuale è un’esplicazione del virtuale o che il virtuale è un’implicazione dell’attuale. Sul significato di tale rapporto implicazione-esplicazione dobbiamo ora riflettere, partendo proprio dal paradosso che il virtuale così concepito comporta: una presenza non attuale, una presenza inesistente.
La prima cosa da fare è togliere di mezzo un termine che fa da basso continuo a ogni considerazione metafisica, ma che, se usato qui, distorcerebbe in modo radicale tutto il pensiero riportandolo dentro i canoni rassicuranti, ma inadeguati, della rappresentazione. Il termine incriminato è l’Uno. Ricordiamo che tutte le grandi aporie del Parmenide platonico scaturiscono dall’ipoteca pesante che tale termine non ha mai smesso di esercitare, anche se in Platone stesso questa stessa ipoteca è stata sottoposta all’interrogare aporetico. Il virtuale non è in alcun modo l’Uno da cui scaturiscono i molti, l’Uno che comprende in sé le infinite differenze. Sia il virtuale che l’attuale vanno pensati come molteplicità ed è proprio a livello della molteplicità che virtuale e attuale differiscono per natura e non per grado. Una molteplicità attuale è costituita da una molteplicità di cose (percepite, incontrate nel mondo), raggruppabili in una molteplicità di generi (pensati, prodotti dal nostro intelletto). La natura propria di questa molteplicità è quella di essere una molteplicità numerica. Ogni cosa è una (nel senso di numero) cosa e tale molteplicità è costituita dall’insieme di tante cose singole. Le differenze entro una molteplicità attuale sono differenze di essenza che, tuttavia, trovano il loro fondamento nella differenza numerica. Un ente è diverso da un altro ente per determinazioni essenziali o accidentali, ma ognuno è un ente: la differenziazione fra gli enti non tocca la loro natura propria di ente.
La molteplicità virtuale è tutt’altro dalla molteplicità attuale. Di fatto esiste solo la molteplicità attuale, ci sono solo le cose, diverse l’una dall’altra, classificabili in categorie, secondo concetti (il regno animale, quello vegetale, quello minerale, gli utensili, i diversi colori, e ogni altro genere di classificazione che possiamo fare). Una differenza attuale, dunque, o una differenza ontica, è una differenza fra enti, non una differenza nell’ente. Che cos’è, invece, una molteplicità virtuale? È qualcosa che si differenzia, non moltiplicandosi, diventando molti nel senso della numerosità, senza mutare la propria natura di enti, ma divenendo altro, non passando da uno a molti, ma da una molteplicità a un’altra, da una molteplicità implicata a una molteplicità esplicata. È utile leggere ciò che scrive Deleuze nel suo testo su Bergson
Si chiamerà oggetto e oggettivo non solo ciò che si divide, ma ciò che non muta la propria natura dividendosi. È ciò che si divide in differenze di grado. […] In questo senso, l’oggetto sarà una molteplicità numerica. Il numero e, prima ancora l’unità aritmetica stessa sono infatti il modello di ciò che si divide senza cambiare natura. […] Che cos’è invece una molteplicità qualitativa? […] È ciò che non si divide se non cambiando natura, ciò che dividendosi cambia natura […] c’è altro senza che ci siano molti. […] In una molteplicità numerica tutto è attuale, ci sono solo rapporti tra attuali e differenze di grado. Al contrario, una molteplicità non numerica apre un’altra dimensione, puramente temporale e non più spaziale, si attualizza creando linee di differenziazione che corrispondono alle sue differenze di natura. (G. Deleuze, Il bergsonismo, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 35-37)
La molteplicità virtuale non ha essere, forma, identità. Se essere significa essere qualcosa, la molteplicità virtuale è nulla. Solo se pensata come onda in cui ogni volta in modo diverso si dà, l’acqua ha “essere”, forma, identità. Al di fuori dell’onda l’acqua è nulla. Se essere significa determinatezza e attualità, il virtuale è nulla. La sua inessenzialità, e la conseguente inaccessibilità alla definizione, non ha però nulla del negativo. Ricordiamo tutto ciò che abbiamo detto sul nulla che si differenzia dal nulla metafisico nelle cinque accezioni in cui questo è pensato. Anzi, proprio l’inessenzialità costituisce la natura stessa del virtuale, perché il virtuale non è qualcosa, ma è il processo stesso della sua attualizzazione. Per usare un termine che è già apparso, il virtuale non ha essenza, ma potenza. Dire che il virtuale è potenza o che è lo stesso processo dell’attualizzazione e della differenziazione significa dire che non esiste come tale prima di tale processo: il virtuale è sempre e solo il suo attualizzarsi, esso coincide con lo stesso differenziarsi.
La “via” del taoismo
La passione occidentale per la verità
La domanda che ci poniamo, aiutati in questo da un grande studioso del pensiero cinese, il filosofo François Jullien (F. Jullien, Logos e tao, cit.), è la seguente: che cosa ha significato per la filosofia occidentale il fissarsi sulla verità, sia pure intesa grecamente come aletheia, opponendo a essa, contemporaneamente, la non verità come doxa?
Come sappiamo, la parola originaria della filosofia occidentale è pronunciata nel poema di Parmenide, il Perì physeos, che si apre con la dea che indica due vie, una, quella dell’opinione, che conduce a errori e ambiguità, se non addirittura a contraddizioni insolubili, l’altra la via della verità, che porta invece alla conoscenza certa, stabile, immutabile; l’una che conduce al non essere, l’altra che conduce all’essere. In questa prima solenne indicazione, nota acutamente Jullien, non è solo importante l’intenzione di opporsi alle verità ambigue, controverse, ingannevoli dei sensi o degli antichi maestri di verità, non è solo importante affermare la superiorità della verità dedotta, provata, argomentata sulla verità proclamata, ispirata o immediata, ma la cosa veramente notevole è che l’incamminarsi per tale via, la via della verità, è per l’uomo utile, opportuno, risponde a un suo profondo interesse. È opportuno dire la verità. Al di là che sia possibile farlo e in quale misura sia possibile farlo, c’è per l’uomo un interesse nel dire la verità, anzi, la verità bisogna dirla.
Il pensiero cinese e l’irrilevanza della verità
Tutto ciò si oppone in maniera radicale al modo cinese di pensare, del tutto al di fuori della dicotomia vero-falso.
“Desidererei non parlare” dice un giorno Confucio ai suoi discepoli. E poiché questi si preoccupano di non aver allora più nulla da divulgare, Confucio aggiunge: “Il cielo parla? Le stagioni seguono il loro corso, tutte le cose esistenti prosperano: che bisogno avrebbe il cielo di parlare?” […] Insomma, dice Confucio, non occorre alcun supplemento di rivelazione. Né dalla parte del cielo, né dalla parte del saggio. Né lezione, né messaggio. (F. Jullien, Logos e Tao, cit., p. 166)
Il non parlare di Confucio non è riconducibile a una mistica dell’ineffabile, né al pathos del puro mostrarsi delle cose. Non è afasia, determinata dal fatto che il saggio non avrebbe più nulla da dire davanti a ciò che trascende ogni parola. Non è afasia, è silenzio: non indica l’impotenza della parola, sempre incapace di dire, ma la sua superfluità. La parola sarebbe di troppo, essa non aggiungerebbe nulla.
Va colta in tutto il suo spessore teorico la peculiarità di questa posizione: è ben diverso il ritrarsi afasico della parola perché non può dire la realtà, dal silenzio di chi non dice nulla perché la realtà basta a se stessa. Nel primo caso il rapporto con il reale è empatico e la parola si prepara, nella sua impari lotta con il reale, ad assumere le vesti del verbo rivelatore ed ermetico a un tempo, nel secondo caso, invece, la parola si fa modesta, non reticente, ma discreta. Parla, se c’è da parlare, tace, se non c’è nulla da dire. Per cui, dice Jullien, la lezione è molto chiara: delle cose non si deve parlare necessariamente, come sembra credere la filosofia nella sua instancabile e ossessiva ricerca dell’aletheia.
Delle cose si può anche tacere, anzi, quasi sempre le cose bastano a sé. L’ossessione della verità, come necessità di parlare delle cose, è ciò che distingue la filosofia, almeno in una sua certa espressione, dalla saggezza, quella saggezza, quel silenzio discreto sulle cose, a cui pure la filosofia dichiara di aspirare.
La filosofia come pathos della verità
Tale concezione trova una perfetta illustrazione in una famosissima storia zen: tutte le volte che Gutei veniva interrogato sul senso della realtà, sulla verità dello zen o delle cose ultime, rispondeva alzando in silenzio un dito. Il filosofo Suzuki commenta: se il dito di Gutei venisse preso come un simbolo o un concetto, allora non vale niente; solo se è una realtà, contiene il cielo, la terra e le diecimila cose. Lo zen vuole vedere il dito-realtà e non il dito-simbolo. Il dito, insomma, non è un segno, non indica una realtà posta di fronte, separata; è piuttosto la realtà stessa che nel dito si leva e viene alla luce. Nessuna parola, nessun segno, qualcosa invece come un’apparizione della realtà, che riuscirebbe immediatamente a dirsi, pur rimanendo fuori dalla lingua e dalla mediazione opaca dei linguaggi o dei segni.
Secondo Jullien, il terreno su cui è sorto il pathos della verità è quello tipicamente greco della polis.
La struttura sociale e politica della città, che in Grecia costituì la base per la laicizzazione della parola, ha segnato la nozione di verità e ne ha favorito l’accesso almeno in due modi: secondo un modo antagonista, perché la verità si afferma per opposizione, […]; e secondo un modo che si potrebbe dire dialogico, dove la verità si sottomette al giudizio altrui e richiede il suo assenso. Nonostante la loro apparente contraddizione i due modi si completano: nel suo istituirsi la verità è strutturata in modo congiunto dall’agon e dall’agorà. (F. Jullien, Logos e Tao, cit., p. 171)
Come nota in più luoghi della sua opera Deleuze, la verità è una preda alla quale molti e diversi pretendenti aspirano. Tra questi il filosofo, che, per merito o per colpa di Platone, avrà partita vinta. È in questa battaglia per la verità che la filosofia platonica annovera fra le vittime illustri l’arte.
In quanto disputa che ha ragione dell’avversario attraverso l’argomentazione, poco importa che tali argomenti siano quelli supposti fallaci della retorica e della sofistica o quelli supposti certi della dialettica e della filosofia, è certo che la verità, così intesa, consiste essenzialmente in un prendere posizione, un prender partito, assolutamente dipendente dal riconoscimento ottenuto da parte dell’altro. Non c’è verità, eterna e universale o transeunte e particolare che sia, che non pretenda di essere riconosciuta come tale. Non c’è verità che non pretenda, per il fatto stesso di essere tale, di aver ragione, una ragione che le deve essere riconosciuta. La filosofia in quanto ricerca della verità postula come condizione preliminare e insostituibile l’altro, non semplicemente l’altro, ma l’altro che la riconosca. La filosofia è per essenza democratica, dialettica, pubblica. Può sembrare paradossale, perché contrasta con una retorica universalistica e ideologica della filosofia, ma filosofare, nell’accezione greca e occidentale del termine, significa: prendere posizione. Prendere posizione per la verità contro l’opinione, per l’autentico contro l’inautentico e così via.
L’”imparzialità” del saggio
Il saggio, invece, non aspira alla verità, al bene, al bello, o a ogni altra sorta di valori. Secondo Jullien il saggio si rifiuta in primo luogo di dissentire, quindi si sottrae all’atto di nascita stesso della filosofia, perché ciò che maggiormente rifugge è proprio il “prendere posizione”, cosa che, nella sua prospettiva, significa lasciarsi ridurre a una posizione particolare. Il saggio non “de-cide” come il filosofo, non opera tagli, anzi, “com-pone”. Per mostrare la differenza fra saggezza orientale e filosofia occidentale Jullien ci porta un esempio molto interessante.
La nozione di “giusto mezzo”: non è un mezzo che sia equidistante dagli opposti, perché questa sarebbe ancora una posizione particolare (il coraggio, che è il giusto mezzo fra temerarietà e pavidità, è sempre una particolarità dell’animo, perciò il saggio non si dirà coraggioso, allo stesso modo in cui non si dirà pavido o temerario), e come tale altrettanto limitata delle altre, ma sarà invece un mezzo che permette di corrispondere all’uno e all’altro degli opposti. […] Nel momento in cui si arresta nel mezzo, sceglie una sola possibilità (il luogo di mezzo equidistante) e per questo ne perde altre cento. […] L’autentico mezzo è il mezzo variabile che, potendo oscillare dall’uno all’altro opposto, non smette di coincidere con il caso trovato. (F. Jullien, Logos e Tao, cit., p. 174)
L’ideale del saggio non consiste nel fissarsi in un punto, nella determinazione di una posizione, ma nel processo, non nella verità, che per istituirsi in un punto saldo, stabile e immutabile sacrifica il molteplice e la sua variazione, ma nella congruenza, nel percorrere la via da un opposto all’altro, oscillando finché non si coglie l’equilibrio.
Saggezza versus filosofia
Se la filosofia teme il falso, la saggezza, invece, ha il suo contrario nel parziale, nell’unilaterale, essendo il parziale l’attaccarsi a qualcosa come qualcosa, anche se questo qualcosa assume le vesti apparentemente opposte del tutto. Il saggio non ha idee, dice Confucio, il saggio non si attacca alle cose. Ripensando al testo di Hisamatsu, questo equivale a dire che il saggio non si attacca alle onde dimenticando l’acqua né all’acqua disprezzando le onde, né afferma l’unio mystica di entrambe, perché sarebbero comunque forme di parziale adesione all’essere, il saggio cerca di pensare la differenza fra l’acqua e l’onda in ogni onda. Leggiamo su questo il testo di un saggio confuciano del III secolo avanti Cristo, Xunzi.
In generale l’infelicità degli uomini dipende dal fatto che essi hanno lo spirito accecato da un aspetto particolare e lasciano nell’ombra la logica d’insieme. Concentrandosi su un punto, essi perdono la dimensione globale della realtà. Non che si sbaglino in senso proprio, perché anche quel punto è vero: ma si lasciano obnubilare da esso. Di qui scaturiscono il dissensi della società e il disordine del pensiero. Ora, da dove viene tale parzialità? Dal fatto che ciascuno, attaccandosi personalmente a quello che ha accumulato (in quanto esperienza che, come tale, è concreta) e da quel momento poggiandovisi sopra, non ha più altra preoccupazione che di udire gli altri parlar male e senza più arrestarsi dar ragione a se stesso. A quel punto si è attenti a un unico aspetto delle cose a discapito degli altri: si guarda solamente al proprio desiderio o alla propria avversione. […] Osservando una cosa non si vede più l’altra; e poiché tutto differisce dal resto, tutto reciprocamente si occulta. (F. Jullien, Logos e Tao, cit., p. 176)
Non siamo davanti ad un’esaltazione dello sguardo panottico, panoramico, o sinottico. Il parziale non si contrappone al totale, come può sembrare. Se leggiamo bene queste righe, infatti, vediamo che il vizio della parzialità ci nasconde la differenza fra le cose, perché in ogni momento abbiamo una cosa sola sotto lo sguardo e lo stesso sarebbe anche se avessimo tutte le cose sotto lo sguardo. Tanto lo sguardo percettivo quanto quello intellettivo, due sguardi che vedono le cose nella loro determinatezza, come “questo tavolo” o come il concetto di tavolo, vanno compresi sotto la categoria della parzialità. La parzialità dello sguardo è lo sguardo che coglie i differenti, i già differenziati, le cose o le essenze determinate. Lo sguardo parziale, insomma, è lo sguardo che non sa fare la differenza perché, in quanto determinante, si spegne nella propria particolarità o si disperde nella vuota generalità.
Occidente e taoismo: il metodo e la “via”
Il concetto di via, applicato alla conoscenza, appartiene sia alla filosofia occidentale, in quanto metodo, sia alla saggezza orientale, in quanto tao. La parola metodo deriva dal gr. metà (oltre, dopo) e hodòs (strada, via). Etimologicamente, quindi, significa strada da percorrere per raggiungere qualcosa (il sapere). Come abbiamo visto, il poema di Parmenide si apre con due vie, ognuna delle quali conduce a una meta, desiderabile l’una, quella che porta verso la verità, da evitare l’altra, quella che porta verso il non essere. Proprio il fatto che nell’ambito della filosofia occidentale si sia sentita periodicamente l’esigenza di marcare la differenza o, all’opposto, di segnalare l’identità, fra verità e metodo, testimonia del carattere strutturalmente costitutivo di questo concetto nella filosofia stessa.
La via filosofica, come quella religiosa (io sono la via, la verità, la vita, Giov. 14) è sempre una via che conduce-a, è cioè mezzo per arrivare a una verità che l’uomo non possiede in modo immediato. Secondo il pensiero occidentale, filosofico o religioso, la via da percorrere misura la distanza dell’uomo dalla verità e da dio. Anche la via non metodica e disvelante di Heidegger non si sottrae, alla fine, a un percorso diretto verso qualcosa, la vera differenza rispetto al metodo è che tale percorso non è tracciato dall’uomo, ma dall’essere. Un altro modo di intendere la via, sicuramente diverso da quello che la considera metodo, lo ritroviamo sempre in Heidegger. I titoli di testi heideggeriani abbondano di vie: Holzwege, Sentieri interrotti, Unterwegs zur Sprache, In cammino verso il linguaggio, Wegmarke, Segnavia, la stessa Kehre, Svolta, ha a che fare con la via. È evidente, in tutti questi titoli, l’intenzione heideggeriana di contrapporsi alla via come metodo: gli Holzwege sono quei sentieri di campagna che iniziano ben disegnati e poi improvvisamente si perdono nell’addentrarsi nel bosco, l’Unterwegs indica un incamminarsi che richiama quello del pellegrinaggio, i Wegmarke, ma anche la Kehre, parlano contro il metodo in quanto affare del soggetto che ritaglia nel corpo del reale una via verso una verità ridotta ai suoi parametri. La Kehre non è una svolta che Heidegger impone al proprio pensiero in forza di una decisione soggettiva, ma appartiene allo stesso percorso dell’essere.
Tutt’altro è, invece, il senso della via orientale, il tao. Tale via non conduce a nulla, non ha alcuna meta, non conduce a un termine. Ciò che la rende “via” è solo il suo carattere percorribile, il suo essere transito o meglio transitare, il suo lasciarsi percorrere senza vincoli direzionali. Ciò che in essa conta non è la meta e nemmeno il percorso, che sarebbe ancora qualcosa di fissato, ma la percorribilità. Il tao, allora, è il passare, non il divenire, che si definisce sempre in rapporto all’essere, ma il passare e, ciò che propriamente è il passare, non si lascia pensare se non come la differenza fra lo stare e l’andare: passare è il non-esserci-più nel mentre si è o l’esserci-ancora mentre non si è più, passare è l’effetto di quella “differenza-nulla” che è dall’inizio delle lezioni il tema del nostro discorso. Questa via, allora, non ci conduce alla verità, per cui il passare sarebbe un andare-a, ma alla congruenza, che ha la sua immagine nella bilancia.
La bilancia non ha una posizione fissa, essa varia a seconda di ciò che deve pesare, l’equilibrio è sempre particolare (così come la congruenza è un’adeguazione immanente alla situazione, non oltrepassa il proprio orizzonte); e d’altra parte, la bilancia pende in un senso o nell’altro, non ha posizione stabile, può sempre oscillare dall’uno come dall’altro lato: la sua ampiezza resta integra, ed è quella a far sì che la congruenza possa ogni volta aver luogo. Allo stesso modo la via della saggezza è quella che non immobilizzandosi da nessun lato lascia sempre aperte tutte le possibilità, mantenendole su una base di uguaglianza. Attraverso di essa, tutto rimane aperto. Di qui la domanda che resta da porre alla saggezza: come mantenere questa apertura totale, del comportamento così come del pensiero, apertura e non più verità, che permette di non eliminare nessun aspetto delle cose, di non essere chiusi a niente?