Il concetto di spazio nel IV libro della Fisica di Aristotele

Concetti fondamentali della fisica aristotelica

Nel primo libro della Fisica Aristotele scrive:

Poniamo come assunto di fondo della nostra indagine che le cose che esistono per natura, o tutte o alcune, sono in movimento: questo è attestato dall’esperienza. (Fisica I,2, 185 a 13-14).

Il richiamo all’esperienza, all’evidenza immediata, che emerge da questa frase costituisce il carattere fondamentale del filosofare aristotelico relativamente alla φύσις (physis).

Una fenomenologia del mondo sensibile

La struttura del mondo aristotelico rappresenta lo sviluppo in forma concettuale della nostra precomprensione del mondo, così come ci si dà nell’immediatezza del rapporto che con esso intratteniamo, con tutte le peculiarità e la ricchezza degli aspetti qualitativi con cui ci si presenta. Un mondo reale, vissuto, qualitativo. Quindi un mondo fortemente antitetico a quello della fisica matematica, inaugurata da Galileo nel XVII secolo,  basato non sull’esperienza immediata, ma sulla verifica sperimentale, non sulla considerazione delle qualità, ma sulla misura e sulla determinazione delle quantità. Un mondo, quello aristotelico, che, se la verità è misurazione e riduzione quantitativa, non può che essere falso ed illusorio.

Tuttavia, proprio la scienza postnewtoniana, con la sua teoria della curvatura dello spazio in presenza di forti campi gravitazionali, pur nell’ambito di una matematizzazione sempre più radicale della natura, riprende, per certi versi, alcune intuizioni dell’antica metafisica aristotelica, come il legame fra spazio e corpo, in antitesi alla concezione della meccanica classica di uno spazio assoluto e indifferente, l’introduzione, nell’omogeneità dello spazio assoluto, di proprietà locali e di differenze fra “regioni”, che, se non permettono certo di parlare di spazio qualitativo, nondimeno, rendono, anche sul versante scientifico, meno obsoleta la problematica dello Stagirita.

L’importanza della riflessione fisica aristotelica, comunque, non va giudicata in base a un più o meno esplicito accordo con teorie scientifiche, bensì per la qualità veramente eccezionale della problematica filosofica che mette in campo.

Il metodo del filosofare aristotelico riguardo alla physis, basato sulla convinzione che ciò che è immediatamente evidente è anche ciò che, in quanto tale, è degno di essere concettualmente giustificato, fonda una vera e propria fenomenologia del mondo sensibile. Naturalmente, con ciò, anche l’evidenza immediata viene problematizzata e messa in crisi, ma non allo scopo di ridurla ad apparenza, bensì per riportarla a quei principi primi da cui scaturisce.

Natura e divenire

Il concetto fondamentale della Fisica è quello di natura (physis), principio in virtù del quale qualcosa comincia o cessa da sé dei movimenti o dei mutamenti. Si tratta di una produzione spontanea, immanente all’essere, che ha in sé il proprio principio o causa, ἀρχὴ ἐν αὐτῷ (arche en auto), senza che ci sia bisogno di una causa distinta ed esteriore, ἀρχὴ ἐν ἄλλῳ  (arche en allo). In questo senso la produzione naturale si distingue dalla produzione artigianale, τἐχνη (techne).

In quanto movimento, in quanto venire alla presenza (produzione), il concetto di physis è strettamente connesso a quello di divenire: ed è il divenire – inteso non come movimento cieco e privo di scopo, ma come percorso orientato e diretto verso un fine determinato – o meglio la struttura del divenire e i suoi aspetti essenziali (infinito, spazio, tempo, continuo), che costituisce il campo di indagine proprio del nostro testo.

Proprio il telos che anima il divenire è ciò che lo apre all’intelligibilità. Riconoscendo alla physis dignità filosofica, Aristotele recupera, per certi versi, lo stile e i temi di ricerca dei primi filosofi, naturalmente avendo ben presente la grande “parentesi ontologica” rappresentata da Parmenide e da Platone, che avevano affidato invece tale tematica alla precarietà della doxa. Prende, tuttavia, le distanze tanto da Parmenide e da Platone, e lo fa ponendo radicalmente in discussione il loro senso dell’essere, che non permette la comprensione di ciò che è immediatamente evidente, appunto il divenire, quanto da una tradizione di pensiero, come quella presocratica, che aveva impostato la fisica su basi inadeguate o semplicemente contraddittorie.

La natura aristotelica non è soltanto materia, ὕλη (hyle), sostrato informe e sede necessaria delle future determinazioni, ὑποκείμενον (hypokeimenon), è anche forma, εἶδος (eidos), inseparabile dalla sua materia e fine, τέλος (telos), essenza che esige e attua il proprio compimento.

Aristotele, per indicare la forma, usa talvolta la parola μορφή (morphe), quando si riferisce all’aspetto sensibile, e talvolta la parola eidos, quando si riferisce alla struttura intelligibile. In antitesi al dualismo ontologico di Platone e alla sua dottrina delle forme separate, per Aristotele l’eidos, in sé, è inesistente, dato che la forma è sempre forma di una materia (hyle), a sua volta intesa come ideale possibilità, δύναμις (dynamis) di assumere determinazioni. L’essere aristotelico, a differenza di quello platonico, è σύνολον (synolon).

Il movimento

Il divenire aristotelico porta con sé un concetto di movimento più ampio rispetto al movimento in senso locale, φορά (fora), anche se quest’ultimo è paradigma di ogni altro movimento. Movimento è, infatti, ogni mutamento, ogni passaggio naturale da uno stato all’altro, μεταβολή (metabole), quindi sarà movimento l’alterazione qualitativa, ἀλλοίωσις (alloiosis), ma anche la variazione quantitativa, αὔξησις e φθίσις (auxesis e fthisis) e, alla fine, lo stesso movimento sostanziale, γένεσις e φθορά (ghenesis e fthora). Ora, il passaggio da uno stato all’altro presuppone una materia capace di essere l’uno e l’altro di tali stati, perciò il mutamento avviene sempre da ciò che è in potenza, δυνάμει (dynamei) a ciò che è in atto, ἐνεργείᾳ (energheia).

Qui si tocca un nodo centrale della problematica aristotelica: il movimento, e con esso il divenire, è definito come atto imperfetto, l’atto di ciò che è in potenza in quanto tale (finché una casa è in corso di costruzione e non è ancora compiuta, avvengono i movimenti che tradurranno alla fine in realtà la possibilità della casa).

Il divenire, in altri termini, non può mai essere realtà semplicemente e totalmente in atto (vale a dire realtà senza potenza, senza possibilità di sviluppo, giacché in tal caso sarebbe realtà compiuta, finita nella sua perfezione), né può essere pura potenza (perché, allora, potrebbe anche non attualizzarsi mai, rimanere sempre allo stadio di mera possibilità, senza mai veramente essere). È, invece, una potenza che rimane ed è atto in quanto potenza, quindi una realtà (perché solo ciò che è in atto è, nella prospettiva aristotelica, reale) che è tale in quanto possibilità e sviluppo. Il divenire, allora, non è mai passaggio dal non essere all’essere, come aveva sostenuto l’eleatismo, ma privazione di una determinata forma in un soggetto e assunzione, da parte di questo stesso soggetto, di una nuova forma posseduta in potenza. La natura, insomma, nei suoi diversi aspetti, è sempre in atto, ma lo è come potenzialità, come realtà diveniente.

L’infinito

L’indagine sul luogo rientra in quella parte della Fisica dedicata all’analisi dei principi strutturali del divenire (tra questi l’infinito, il vuoto, il tempo, il continuo).

Per Aristotele l’infinito, ἄπειρον (apeiron) è semplicemente la possibilità di proseguire indefinitamente il processo di divisione. Rappresenta, pertanto, l’assenza del limite, ossia di una forma compiuta. Per questo non è un ente, non è qualcosa di determinato, τόδε τι (tode ti), ma è ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa: l’incompiuto e l’imperfetto, in opposizione al perfetto, che è il finito.

È nell’infinito che si esprime con maggiore evidenza il concetto stesso di potenza e questo, per molti versi, lo rende affine al movimento ed al divenire. Con il movimento l’infinito condivide il carattere di energheia ateles, di essere atto imperfetto, carattere a cui aggiunge quello dell’indeterminatezza, ἀόριστος (aóristos). A differenza del movimento, tuttavia, il quale tende a un suo termine, l’infinito è potenza che si caratterizza per il fatto di non poter mai passare all’atto.

Il tempo

Anche il tempo, χρόνος (chronos) non può essere adeguatamente colto sostanzializzandone l’essere, considerandolo un ente fra gli altri enti: il tempo ha il suo essere nella successione, per cui non potremo mai pervenire ad esso partendo dall’istante (nunc stans), come la natura dello spazio non può mai essere compresa a partire dall’inesteso e adimensionale punto. Tanto l’istante quanto il punto costituiscono il limite del tempo e dello spazio, soste virtuali entro il flusso del tempo o la continuità dello spazio.

La realtà del tempo è individuata attraverso un’analisi fenomenologica della nostra esperienza del tempo. Tale analisi mostra che il tempo deve essere visto come un qualcosa che concerne il movimento. Questo, infatti, ha luogo tra due punti distinti come indietro e avanti, i quali, se vengono considerati nella loro successione come un prima e un dopo, danno il tempo.

In questo senso il tempo non è il movimento, ma qualcosa del movimento e questo qualcosa ha una natura nettamente soggettiva. Nell’esperienza del mutare qualitativo di un corpo o del suo dislocarsi nello spazio, nell’esperienza, quindi, dell’istituirsi di una differenza, acquistiamo coscienza della temporalità. Senza l’anima, che effettua il computo dei momenti successivi del movimento, non ci sarebbe la nostra conoscenza del tempo. Aristotele lo definisce come “il numero di un movimento rispetto al prima e al poi”.

Il continuo

Fra i principi fondamentali del divenire ve n’è uno che costituisce una sorta di metastruttura di tutta la riflessione aristotelica su questo punto ed è il concetto di continuo.

Esso è presente, infatti, in modo essenziale in tutti gli altri elementi del divenire (spazio, tempo, movimento).

Il carattere che definisce la continuità fra due parti è l’avere un confine comune, ed è tale carattere che dà l’ente come intero.  Il concetto di continuo è definito con riferimento alle nozioni di “consecutivo” e di “contiguo”. Si dice consecutivo ciò che non ha alcun intermedio dello stesso suo genere tra se stesso e quello di cui è consecutivo; contiguo è ciò che oltre a essere consecutivo è anche in contatto, ossia ciò le cui estremità si toccano; il continuo, infine, è una determinazione particolare del contiguo e si ha allorché i limiti di due cose, mediante i quali l’una e l’altra si toccano, diventano uno solo e medesimo. Il continuo è, per sua stessa natura, unico.

Lo spazio

Lo spazio, preso in quanto tale, è una quantità continua. Fra un punto e l’altro dello spazio vi è sempre e solo spazio e un punto dello spazio può essere isolato solo come virtualità, come limite inesistente fra due regioni spaziali: un punto su una linea, ad esempio, può essere determinato solo come limite fra due segmenti, un limite che in sé, astratto dalla linea, non esiste, essendo infatti quel confine comune fra i due segmenti, che, solo virtualmente, posso considerare determinato in quanto sussistente; il rapporto fra il luogo di un corpo e il corpo nel luogo sarà, invece, un rapporto di contiguità, dato che i limiti coincidono, ma non si confondono. L’avere posizione l’una rispetto all’altra definisce, infine, la condizione di cui godono le parti dello spazio ed è ciò che distingue lo spazio dal tempo: la continuità temporale si configura, infatti, secondo determinazioni diverse da quelle dello spazio, essendo continuità nella successione e non continuità nell’estensione, che è il modo dell’esteriorità, del rapporto estrinseco – o posizione reciproca – fra i corpi.

Il luogo proprio di un ente

Per entrare in maniera più diretta nella tematica aristotelica dello spazio, va notato come lo Stagirita non sia interessato al problema della localizzazione indeterminata dell’essere in quel luogo comune o universale che è il mondo considerato nel suo complesso: ciò di cui va alla ricerca è, invece, la determinazione del luogo proprio di ogni ente.

Nel luogo universale del mondo esistono luoghi naturali: un alto e un basso e, in relazione ad essi, una destra e una sinistra. Tali luoghi non hanno nulla di relativo, non sono affatto le parti indifferenti di uno spazio omogeneo caratterizzato da direzioni valide solo rispetto alla nostra presenza in esso, ma rappresentano proprietà locali specifiche, la cui essenza formale è, per i due estremi, di ospitare il fuoco e la terra e, per la zona intermedia, l’aria e l’acqua.

Ogni cosa, nel cosmo aristotelico ha una sua dimora, una sua casa, un posto assegnato, sicché non di spazio si tratta, ma appunto di luogo, di posto. È questa la convinzione che guida l’analisi filosofica del τόπος (topos) condotta nel IV libro della Fisica.

Aporie filosofiche sullo spazio

L’esperienza del luogo è un’esperienza talmente originaria, da rendere indubitabile la convinzione che il luogo esista. Questa precomprensione, tuttavia, si mostra, se interrogata filosoficamente, gravata da una grande quantità di aporie, che Aristotele esamina con scrupolosa accuratezza, cogliendone la ragione di fondo nel fatto che il luogo viene abitualmente concepito come un ente determinato, come un qualcosa dotato di una propria sostanzialità.

Ma ciò non può essere, dato che, se è pensato come qualcosa di corporeo, allora dovrebbe esserci un luogo del luogo, e così via all’infinito, ricadendo nelle antinomie di Zenone; se è pensato, invece, come qualcosa di intelligibile, verrebbe a essere del tutto privo di quantità e, quindi, di estensione. Lo spazio, insomma, non può essere una cosa, anche se è strettamente connesso alle cose.

Aristotele, tuttavia, se toglie allo spazio quel carattere di determinatezza ontica che lo rende aporetico e contraddittorio, non lo fa con l’intento di ridurlo a materia informe, a sede recettiva di ogni determinazione, ricettacolo amorfo di tutte le forme, perché esso è, al contrario, ciò che delimita e quindi ciò che definisce e determina ogni cosa.

Lo spazio come determinazione essenziale dell’ente esistente

Il luogo ha una duplice determinazione: da un lato è un aspetto comune nel quale stanno tutti i corpi (ogni corpo è strutturalmente nello spazio; proprio in quanto corpo, non può non essere in un dove, non può, cioè, non occupare una posizione rispetto a qualcos’altro: il corpo è corpo se ha un fuori, se il suo esser-qui comporta necessariamente non solo il suo non-esser-là, ma anche l’esser-là di qualcos’altro), dall’altro è quella determinazione particolare in cui un corpo immediatamente è.

Ad esempio, io dico: tu ora sei nel cielo in quanto che tu sei nell’aria – quest’aria è infatti nel cielo – e sei nell’aria in quanto che sei sulla terra, ed allo stesso modo sei su quest’ultima perché sei in questo luogo, il quale contiene null’altro che te. (209 a 34-35).

Il luogo, allora, è ciò che immediatamente contiene ciascun corpo, limite e, perciò, “determinazione” della cosa stessa. Proprio in quanto determinazione essenziale dell’ente esistente, il luogo è ciò per cui l’essere dell’ente è un essere-nel-mondo. Mentre nello spazio omogeneo della teoria fisico-matematica tutti i punti del luogo sono assolutamente indistinguibili e perciò intercambiabili, il luogo aristotelico esprime la collocazione qualitativamente determinata dell’ente nel mondo.

La definizione di spazio

La definizione del luogo come

limite immobile del corpo contenente, immediatamente contiguo al corpo contenuto e non costituente con esso un continuo, τὸ τοῦ πριέχοντος σόματος πέρας (to tou periechontos somatos peras) (212 a 20)

deve essere attentamente interpretata.

Il luogo, in quanto limite, è ciò che è immediatamente in contatto con il corpo, inseparabile da esso, e che, tuttavia, non può essere confuso con la cosa. Aristotele ricorre ad un’analogia: il corpo è nel luogo come l’acqua è in un vaso. Questa analogia è molto significativa perché ci permette di evidenziare alcune caratteristiche del luogo: permane la distinzione fra contenente e contenuto (il vaso e l’acqua sono fra loro distinti, così come il corpo e il luogo), anche se il luogo, a differenza del vaso, non può sussistere senza il corpo (il luogo, che pure esiste, non è un ente sussistente, ma la condizione, l’ambito dell’apparire, cioè dell’essere, dell’ente).

Luogo e corpo sono in un rapporto di reciproca implicazione ed è, questo, un rapporto di contiguità, non di continuità, che identificherebbe l’uno e l’altro, rendendo ogni differenza meramente virtuale. Vi è un brano di fondamentale importanza per la comprensione della nozione di luogo in Aristotele:

Quando ciò che avvolge, τὸ περιέχον (to periechon) non è scisso dal corpo, ma è continuo, συνεχής (syneches) con esso, non si dice che la cosa è in ciò che la contiene come nel luogo, ma che essa è in esso come una parte nel tutto, ὡς μέρος ἐν ὅλῳ (hos meros en holo). Ma quando una cosa è distinta, διῃρημένον (dieremenon) e in contatto, ἁπτόμενον (haptomenon), essa è primariamente nel limite estremo di ciò che è contenente, έν πρώτῳ ἐστὶ τῷ ἐσχάτῳ τοῦ περιέχοντος (en proto esti to eschato tou periechontos), e questo non è né parte del contenuto che esiste in esso, né maggiore della sua estensione, ma uguale, poiché i limiti estremi dei corpi in contatto sono in esso, ἐν τῷ αὐτῷ τὰ ἔσχατα τῶν ἁπτομένων (en to auto ta eschata ton haptomenon). (211 a 30-34) … Sulla base di quanto esposto, è chiaro che cos’è lo spazio. (211 b 5)

Le due modalità dell’avvolgere

Si distinguono, qui, due modi dell’avvolgere, del circondare, περιέχειν (periechein): l’avvolgere in modo tale che il circondato sia una parte nel tutto e l’avvolgere in modo che il circondato sia un corpo nel luogo.

Nel primo caso la parte non ha un’esistenza in sé, staccata dal tutto a cui appartiene. Comunque una parte venga considerata, essa non ha confini o limiti propri, perché i suoi limiti li condivide con ciò di cui è parte. Pensiamo a una superficie: se prendiamo un sottoinsieme di essa, ciò che la circonda non è il luogo dove tale sottoinsieme si trova, ma è l’intero in cui è contenuta, nel senso proprio ed etimologico del verbo contenere (continere = tenere unito; synechein), che significa fondere in un tutt’uno. Le parti in cui un intero può essere diviso non si trovano in luoghi diversi, ma tutte nello stesso luogo: una parte è tale proprio in quanto non è mai in sé determinata, ma sempre virtualmente determinabile.

Il limite: forma ed esistenza dell’ente

È chiaro che il concetto di limite (peras) gioca, qui, un ruolo fondamentale: Aristotele definisce il limite come il termine estremo di ciascuna cosa, vale a dire come quel termine primo al di là del quale non si può più trovare nulla della cosa e al di qua del quale c’è tutta la cosa. (Metaf. V, 17 4-5). Ebbene, nel concetto di parte ciò che manca è proprio una determinazione ‘spaziale’: il limite che determina una parte rispetto al tutto è lo stesso limite che determina il tutto rispetto alla parte: la parte è tale in quanto è continua con il tutto, in quanto al di qua e al di là del limite c’è ancora e sempre la stessa cosa.

Il limite, come è stato definito da Aristotele, è ciò che determina il dentro e il fuori, ciò che definisce una cosa, non nel senso del che cos’è (essenza), ma in quello del dove (posizione = esistenza). Una cosa è una cosa solo se la sua realitas può consistere, collocarsi, prendere posto, determinarsi in quanto compiuta in sé e altra rispetto a ciò che la circonda. Il limite è ciò che assicura la distinzione, διαίρεσις (diairesis) della cosa, ciò che consente l’apparire della cosa, condizione necessaria all’essere dell’ente.

Ma la determinazione in quanto diairesis non è sufficiente perché l’ente possa consistere: l’essere compiuto è ciò che l’ente, in quanto synolon, deve all’eidos, la forma. Tale carattere, tuttavia, non porta ancora l’ente fuori dalla propria inseità.

Il limite in quanto forma è una determinazione propria dell’ente, necessaria, ma non sufficiente perché l’ente sia posto. Solo se il distinto è anche connesso, ἅπτειν (haptein: attaccare, connettere; hapton: tangibile) con un altro distinto, cioè solo se implica l’alterità in quanto esteriorità, il distinto può apparire, diventare visibile. Allora un ente è nello spazio se è distinto e in contatto, se non si confonde con ciò che lo circonda, ma ne emerge implicandolo. In quanto limite, il luogo non è qualcosa, ma una delle condizioni necessarie perché il qualcosa sia.

Tuttavia, un limite è sempre limite di qualcosa. Ora, Aristotele esclude che lo spazio sia limite del corpo contenuto, perché, se così fosse, coinciderebbe con la forma di tale cosa. Perciò egli precisa che:

Entrambi, forma e luogo, sono limiti (perata), ma non della stessa cosa: la forma lo è della cosa, πράγμα (pragma), mentre il luogo lo è del corpo, σῶμα (soma) avvolgente. (211 b 14)

Ma che cosa significa, alla fine, essere limite del corpo avvolgente? Se il limite di un corpo è la forma di quel corpo, e se si esclude che il luogo sia la forma della cosa di cui ci occupiamo, della cosa posta o, se vogliamo, della cosa che sta in primo piano, dobbiamo necessariamente concludere che esso è la forma di ciò che non è la cosa, ma che circonda, avvolge, la cosa. Nell’accezione aristotelica la forma di una cosa è l’attualità della cosa, per cui definire il luogo come limite del corpo avvolgente significa comprendere simultaneamente la cosa e il mondo circostante, la figura e lo sfondo.

Allora,

il luogo è uno con le cose, ἅμα τῷ πράγματι ὁ τόπος (hama to pragmati ho topos), perché i limiti sono uno con il limitato. (212 a 30)

Qui la traduzione può essere fuorviante: forse è meglio usare il termine ‘assieme’, oppure ‘simultaneo’, per non confondere tale modalità dell’essere-con (essere in contatto), con quella dell’essere-con della continuità.

I limiti della cosa e quelli del luogo, pur distinti, sono assieme, simultanei: la natura del luogo non sta assolutamente nell’essere qualcosa di determinato. Anche se sopra si è detto che il luogo è limite, e perciò forma, del corpo avvolgente, non bisogna fraintendere tale affermazione. Ciò che determina realmente il concetto di luogo, ciò che rende peculiare il suo essere limite, non sta tanto nell’essere forma o attualità di qualcosa, ma nell’essere simultanea distinzione (posizione) della cosa e del suo mondo.

Contiguità e non continuità dei limiti significa definirsi rispetto all’altro da sé, ma non riguardo all’essenza, bensì rispetto al dove, riguardo alla reciproca posizione. E questo è il fondamento stesso dell’esteriorità, per cui

quel corpo, al di fuori, ἐκτός (ektos) del quale esiste un corpo che lo contiene, è in un luogo, altrimenti non lo è. (212 a 31)

ma è anche il fondamento stesso dell’esistenza del mondo.

Ciò che è in un luogo, που (pou), è qualcosa, τι (ti), e qualcos’altro, ἄλλο τι (állo ti) deve esistere, oltre a ciò, che lo contiene. (212 b 15).

In conclusione, dire che il luogo è il limite del corpo avvolgente significa dire che il luogo è il distinguersi tangibile, sensibile, delle cose. La cosa non è considerata in quanto tale – distinzione formale, intelligibile – ma in quanto cosa in un mondo: non cosa determinata nella sua essenza, ma cosa determinata nella sua effettiva, concreta, presenza. Si può dire, con questo, che la teoria aristotelica costituisce la fondazione filosofica dell’esperienza qualitativa del luogo, in quanto dialettica figura (primo piano), sfondo.

Conclusione

Spazio e luogo esistono, ἔστιν ὁ τόπος καὶ πού (estin ho topos kai pou), ma non come in un luogo, bensì come il limite esiste in ciò che è limitato. Non tutto ciò che esiste è pertanto in un luogo, οὐ πᾶν τὸ ὂν ἐν τόπῳ (ou pan to on en topo) ma solo il corpo che si muove, ἀλλὰ τὸ κινητὸν σῶμα (alla to kineton soma). (212 b 28-30a).

La stretta correlazione fra corpo e luogo viene alla luce, infatti, a causa del movimento. Solo grazie a esso è possibile distinguere fra il luogo nel quale il corpo si muove e il corpo che nel luogo si muove. In rapporto allo spazio, il movimento è un fenomeno di sostituzione, ἀντιπερίστασις (antiperistasis): il pesce e l’acqua dov’esso si muove prendono a volta a volta il posto l’uno dell’altro.

Questo sta a significare due cose: da un lato, il luogo si viene a determinare solo nel movimento (divenire), dall’altro tale determinazione non può prescindere dal rapporto del corpo in movimento con gli altri corpi. In sostanza il luogo si determina tanto in rapporto al corpo contenuto, di cui esso è limite contenente, quanto come relazione reciproca che un corpo in movimento assume rispetto a tutti gli altri corpi. Se, in base a tale caratterizzazione relazionale, il luogo è sempre, oltre che luogo di un corpo, anche luogo di un corpo in rapporto ad altri corpi, allora appare chiara l’affermazione di Aristotele riguardo al non luogo dell’universo. Esso, inteso come totalità, non ha niente al di fuori di sé.

Secondo questa prospettiva, il vuoto non è, come credevano gli Atomisti, la condizione fondamentale del movimento e del cambiamento, anzi, li renderebbe addirittura incomprensibili.

Il finalismo e i luoghi naturali

Essendo il vuoto privo di qualsiasi proprietà locale naturale, quale ragione ci sarebbe, infatti, per determinare il movimento di un corpo in una qualsiasi direzione? Come si potrebbe spiegare quell’accelerazione del suo movimento in vicinanza del suo luogo naturale? Senza il finalismo (che è anche un dinamismo), il meccanicismo puro non riuscirebbe neppure a costituirsi nell’ordine dei movimenti violenti: questi, infatti, si possono comprendere solo come snaturamento dei moti naturali. Il vuoto, infine, essendo definito dall’assenza di qualunque contenuto, contraddice alla stessa natura del luogo: limite determinato di un contenuto reale.

L’universo, τὸ πᾶν (tò pân) è il luogo comune degli esseri naturali e dei loro movimenti ed è il primo dei motori mossi. Nulla avendo fuori di sé, è perfetto e, come tale, finito e muoventesi col moto che più si addice alla sua perfezione, quello circolare. In esso sono comprese tutte le direzioni del moto rettilineo, perciò nell’universo si manifesta una prima diversità qualitativa, quella dei luoghi naturali, connessa a opposizioni qualitative fondamentali: l’alto è il luogo del leggero assoluto, il basso il luogo del pesante assoluto. Donde quattro corpi semplici elementari, le quattro materie.

Anche il movimento eterno circolare ha un elemento corrispondente, la quinta materia o quintessenza (l’etere). L’universo è così diviso in due grandi regioni profondamente diverse l’una dall’altra, altro aspetto che evidenzia il carattere qualitativo della fisica aristotelica: ogni regione dell’universo è caratterizzata da un proprio elemento (o insieme di elementi) e ognuno di essi è dotato di uno specifico movimento, obbediente al principio generale secondo il quale ogni elemento si muove verso il suo luogo, se non è impedito (Fis. IV,1, 208b 10). È tale principio che stabilisce l’esistenza dei luoghi assoluti, sede naturale degli elementi, ai quali essi ritornano quando ne sono allontanati.

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