La struttura dell’iki

Questo articolo è dedicato all’esposizione dell’interessantissimo saggio di Kuki Shuzo La struttura dell’iki, concetto essenziale dell’estetica giapponese (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano, 1992). Seguirà il commento al dialogo fra Heidegger e il filosofo giapponese Tezuka (compreso nella raccolata di saggi In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano) sul tema del linguaggio e dei rapporti fra pensiero orientale e filosofia occidentale, al cui interno tornerà lo stesso concetto di iki.

Introduzione

La traducibilità dell’iki

Questo saggio si propone di cogliere la realtà così com’è e di dare espressione logica a un’esperienza che andrebbe “assaporata”. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 41)

L’Introduzione pone al centro il problema della traduzione: l’iki, in quanto esperienza da “assaporare” piuttosto che da descrivere, è traducibile in altre lingue, ha cioè un significato universale, pur nella sua declinabilità sempre e solo entro esperienze e culture particolari, oppure è una parola confinata nei limiti etnici della cultura giapponese e, perciò, intraducibile? È una parola fondamentale della cultura giapponese oppure esprime una peculiarità accessoria di tale cultura, propria di essa, ma non fondante? Nel colloquio che leggeremo fra Heidegger e Tezuka l’iki appare certamente come una parola fondamentale: è una parola assolutamente e irriducibilmente giapponese allo stesso modo in cui logos è una parola assolutamente e irriducibilmente greca e, come la traduzione di logos ha sostanziato tutta la tradizione del pensiero occidentale, così la traduzione di iki potrebbe fare riguardo al rapporto fra Occidente e Oriente.

Qual è il rapporto fra lingua ed etnia? Fra lingua e cultura di un popolo? Kuki affronta questo problema conducendo la sua indagine in tre diversi ambiti semantici, quello dei fenomeni naturali, quello dei fenomeni sociali e, infine, quello dei significati astratti, trovando in ognuno di tali ambiti differenze e affinità, sulla base della convinzione che una parola assuma la specifica coloritura dell’esperienza che l’ha prodotta.

Prendiamo come esempio le parole che indicano fenomeni o eventi naturali. Riferendosi a ciò che è comune a tutti i popoli (il cielo, gli alberi, i monti, ecc.), sembrerebbe logico attribuire a tali termini un carattere di indiscutibile universalità e questo è vero probabilmente per l’uso quotidiano, meramente comunicativo, del linguaggio. Ma è ancora così, quando queste stesse parole sono usate da un poeta o da un filosofo? Per stare agli esempi che ci fa Kuki, il cielo (ciel) di Baudelaire è davvero lo stesso cielo (sky) di Shelley o lo stesso cielo (Himmel) di Kant?

Ancora maggiore appare l’eterogeneità di parole che dicono significati di natura sociale, anche quando tali parole hanno una stessa radice, uno stesso etimo. Non solo l’etaira greca non è la courtisane francese, ma nemmeno il Caesar romano è il Kaiser tedesco o lo czar russo.

L’eterogeneità si fa addirittura inconciliabilità quando si passi a parole che indicano significati astratti o stati d’animo. Qui, nota Kuki, può succedere che in una lingua sia presente una parola che addirittura manca in un’altra lingua o in tutte le altre lingue, una parola che indica qualcosa di proprio di quella cultura. Se il ciel di Baudelaire, pur nella sua assoluta singolarità, poteva comunque dire in altri termini il cielo-Himmel di Kant, è assolutamente certo che il Geist tedesco non può in alcun modo dire l’esprit francese, dal momento che le due parole convogliano esperienze e significati non confrontabili. Lo stesso vale, naturalmente, per il passaggio da parole greche a parole latine o di altre lingue occidentali, qualunque lingua occidentale, quella tedesca compresa, con buona pace di Heidegger che ha sciovinisticamente attribuito a tale lingua un naturale carattere filosofico che la renderebbe consonante con quella greca.

Tradurre il Nous anassagoreo con “intelletto” e il logos con “ragione” o “linguaggio”, a seconda del contesto è un “errore inevitabile”. E tuttavia proprio la traduzione sottrae il logos, il nous a un destino di mera etnicità. La traduzione delle parole fondamentali è un “dovere”. Se parlo di Anassagora e lascio il Nous nella sua splendida veste greca, questo concetto rimane alla fine impensato, rimane un corpo estraneo entro una compagine linguistica straniera, non si integra, non feconda la lingua in cui viene accolto. Il mio riferimento è ancora Benjamin: la traduzione interlineare non richiede solo un compito di letteralità, di fedeltà alla lettera del testo originale, ma anche e, secondo me, soprattutto, di contemporanea presenza dei due testi, quello da tradurre e quello tradotto. Solo così i frammenti si ricompongono. Nous, non tradotto, rimane, come abbiamo già detto, un impensato, è come un apolide, senza patria, senza radici, ma anche “intelletto” da solo è un tradimento più che una traduzione, non è più un impensato, ma un già pensato, “nous-riga sopra”, “intelletto-riga sotto”, invece, non è più una traduzione che consuma un tradimento, ma una traduzione che apre tutta una tradizione di pensiero, affidando al lettore un compito da pensare. Proprio perché sky traduce ciel e “intelletto” traduce nous, invece di semplicemente riprodurli, il cielo si sottrae alla banalità del fenomeno meramente naturale e il nous a un destino di mera etnicità.

Come stanno le cose con il termine iki? Kuki inizia percorrendo la strada opposta. Anziché provare a tradurre il termine giapponese con un termine occidentale, ad esempio francese, va alla ricerca di termini francesi, se ne esistono, che vengono dai giapponesi tradotti con iki. La prima parola che entra in campo è chic: un traduttore giapponese sente di poter tradurre il termine francese chic con il termine giapponese iki. Kuki, però, mette in risalto l’inadeguatezza di questa traduzione mostrando tutto ciò che c’è di eccessivo o di carente in questo termine. Nel termine chic c’è l’eleganza, che è indubbiamente un carattere dell’iki, ma c’è anche la sua impercettibile degenerazione in leziosaggine, che è estranea all’iki, oltre alla galanteria, con la sua ombra di volgarità, che sono assolutamente estranee all’iki. Tradurre chic con iki è, perciò, una mera approssimazione, una pigra obbedienza ad analogie esteriori che pure esistono fra i due termini,  e manifesta un superficiale contatto fra due culture diverse che sono rimaste sostanzialmente indifferenti l’una all’altra.

Il metodo di indagine

Kuki espone, al termine dell’Introduzione, il metodo che seguirà nell’indagine del termine iki, un metodo che risente moltissimo di influenze occidentali. L’iki viene innanzitutto assunto come concreto fenomeno di coscienza, a partire dal quale si può procedere a una prima operazione di “distinzione intensiva” degli attributi dell’iki, a cui farà seguito un’operazione di “chiarificazione estensiva” del suo significato in rapporto ad altri significati che gravitano in campi semantici attigui. A queste indagini sono dedicati i primi due capitoli, i più concettuali del saggio, gli unici che commenteremo, perché gli altri due, dedicati alle manifestazioni concrete dell’iki sia nel mondo naturale che nelle espressioni artistiche si possono apprezzare nella loro bellezza e raffinatezza solo con la diretta lettura.

Secondo Kuki, proprio perché l’iki è un’esperienza concreta che si dà, come ogni concreta esperienza con evidenza, è necessario porre il problema del suo significato prima di quello della sua ricognizione nell’empirico. Se procedessimo in modo diverso, infatti, sarebbe compromessa la comprensione di questo termine in quanto universalità concreta. Se partissimo dalle espressioni oggettive dell’iki, da ciò che comunemente viene chiamato iki, giungeremmo necessariamente, al termine di un processo di generalizzazione, a un concetto astratto e formale. Porre preliminarmente l’iki come fenomeno di coscienza significa invece coglierlo direttamente in un’intuizione diretta e immediata.

L’iki come fenomeno di coscienza

Distinzione intensiva degli attributi dell’iki

Nel primo capitolo Kuki ci presenta il concetto di iki distinto nei suoi elementi costitutivi. Questi sono tre, ma sembra corretto pensare che in realtà solo uno di essi costituisca l’essenziale del concetto, mentre gli altri due ne rappresentino piuttosto l’articolazione. L’essenza dell’iki  è costituita dalla SEDUZIONE.

Che cos’è la seduzione? È l’apertura all’altro con cui il singolo, ponendo il sesso opposto in rapporto a sé, instaura fra sé e l’altro una possibile relazione duale. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 54)

La seduzione è apertura all’altro, accoglimento della sua differenza, così come si dà entro un rapporto, anzi che istituisce il rapporto stesso. La seduzione è una tensione, una polarità: ciò che la contraddistingue è il mantenimento dell’apertura, della tensione, in opposizione a due modi che invece eliminano la tensione, due modi della chiusura. Da un lato, la semplice distanza fra due persone, dove la mancata tensione è messa in carico all’indifferenza reciproca, all’estraneità, è la pura e semplice lontananza, dall’altro lato, la raggiunta e compiuta fusione, l’intimità, l’assoluta vicinanza, quando i due cuori si sono fusi in una capanna, quando la tensione si è placata nel possesso, quando insomma non c’è più apertura, ma solo coincidenza. L’assoluta indifferenza e la compiuta intimità sono due condizioni potentemente e irriscattabilmente antiseduttive.

Ciò che conta nella seduzione è il progressivo ridurre la distanza entro i limiti del possibile senza abolire la differenza che crea lo scarto. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 55)

Cosa significa questo avvicinarsi indefinitamente, asintoticamente all’altro, senza mai colmare la distanza che da esso ci separa, senza chiudere l’apertura o spegnere la tensione, anzi sperimentando che più la distanza si assottiglia (senza tuttavia annullarsi), più la tensione cresce? Significa che l’essenza della seduzione è il rapporto puro, il rapporto in sé, dove ciò che conta non sono i termini che entrano in rapporto (non lo sono nel senso tematico del termine), ma il rapporto fra i termini, anche questo, tuttavia, non assunto come qualcosa di dato, ma come il rapportarsi. Tema della seduzione, allora, non è l’altro sesso, ma la differenza fra i sessi, in quanto evanescente e incolmabile nello stesso tempo. Sedurre significa frequentare il limite inesistente a partire dal quale io non sono l’altro e l’altro non è me, significa frequentare tale limite fino al rischio estremo della perdita di sé e nel massimo potenziamento della propria identità. L’indifferenza fra due persone, invece, si dà quando queste rimangono ben lontane dal proprio limite, chiuse e protette da un’identità che non si mette in gioco nell’incontro. Una persona è indifferente a ogni seduzione, attiva o passiva (né seducente né seducibile) quando si nasconde nell’indifferenza, quando è lontana dal proprio limite e, quindi, non ha letteralmente forma, quando sta troppo al di qua del proprio limite (il conformista generico e piatto) o quando sta troppo al di là (l’eccentrico intemperante e fastidioso), due modi di ignorare il limite, cioè la differenza, che sola può metterci in tensione con l’altro.

Leggendo Kuki, sembra che la seduzione abbia la forma della “cattiva infinità”, del tipo dell’infinita divisibilità dello spazio che avvicina indefinitamente Achille alla tartaruga, senza che mai la possa raggiungere, o della ripetuta e reiterata seduzione da parte di Don Giovanni di innumerevoli donne, sempre incapace di raggiungere la Donna. Ma della cattiva infinità in realtà la seduzione ha solo la forma, non la natura, perché l’evanescenza incolmabile della distanza, più che all’infinito potenziale, ci fa pensare all’infinito attuale. Nella sua essenza, infatti, la seduzione non è tanto un indefinito procedere-verso, quanto un subitaneo installarsi e stare nella differenza evanescente con l’altro. Le strategie della seduzione non riguardano mai un metodo di avvicinamento, bensì si concretizzano nella cura rivolta alla custodia di questa differenza evanescente. Chi seduce e chi è sedotto sono fin dall’inizio nella seduzione reciproca, in quell’apertura che li costituisce come una dualità assoluta e precaria nel contempo. L’iki, allora, è, in primo luogo ed essenzialmente, seduzione in questo senso: CURA DELLA DIFFERENZA, cura dell’apertura, cura del rapporto duale.

L’altro carattere dell’iki che Kuki considera è lo spirito o l’ENERGIA SPIRITUALE, la tensione nel senso proprio del termine che, inaspettatamente, ma non contraddittoriamente, assume la caratteristica di riluttanza per l’altro sesso, un ben strano carattere questo. La tensione seduttiva ha nel proprio fondo la riluttanza per l’altro sesso. L’attrazione riluttante è un ossimoro, ma la sua paradossalità ha un’immagine, prosaica ma efficace, in quella speciale attrazione che si istituisce fra poli opposti: per natura si attraggono, ma non possono proprio, non devono assolutamente toccarsi, annullarsi l’uno nell’altro (fare corto circuito), pena la fine di ogni attrazione. La riluttanza che tiene accesa la seduzione, allora, non ha affatto la natura del respingere, azione che si esercita fra medesimi, anzi ne è semmai proprio l’opposto. Riluttare non significa respingere ma resistere. Solo due forze che si attraggono possono resistere alla catastrofe dell’identità per curare l’evento della differenza.

Terza paradossale caratteristica della seduzione, paradossale sono in apparenza, dato che è assolutamente coerente con le altre due, è la RINUMCIA, da non intendersi nei termini negativi del rifiuto, ma in quelli positivi di liberazione dall’attaccamento. Kuki ci presenta questa rinuncia all’attaccamento come il disincanto di chi ha sperimentato la fragilità di ogni legame, di chi ha provato la facilità con cui i legami si logorano e si spezzano, tanto che l’iki sembra essere una qualità che appartiene più a una persona vissuta che a una giovane e inesperta.

La “rinuncia” e quindi anche la “noncuranza”, implicite nell’iki rappresentano la perfetta sprezzatura dell’anima che si è affinata attraversando la gelida spietatezza del mondo instabile e il distacco di quest’anima che, con eleganza e senza rimpianti, si è affrancata dall’infondato attaccamento alla realtà. Ed è appunto questo ciò che lascia intendere il detto: “Sballottato dalla vita, lo zotico diventa iki”. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 59)

L’iki, in realtà, non è il disincanto dovuto alla delusione ripetuta, sarebbe cinismo, e il cinico non è mai seducente, semmai respinge e inquieta, l’iki è esattamente il contrario del cinismo, dato che è la capacità di mantenere l’incanto, malgrado la delusione ripetuta, di frequentare la differenza, malgrado il suo naturale e continuo negarsi nell’indifferenza o nella confusione. E questo è detto bene subito dopo le righe sopra riportate.

Ma quando dietro un sorriso leggiadro e seducente si sarà scorta la traccia quasi impercettibile di lacrime cocenti e sincere, solo allora si sarà riusciti a comprendere la verità dell’iki. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 59)

La seduzione, quindi, è la caratteristica dominante dell’iki, mentre l’energia spirituale e la rinuncia ne rappresentano, come scrive Kuki, la caratteristica etnica e storica. Tuttavia, proseguendo la lettura, ci accorgiamo che, in realtà, sono ben più di questo. L’energia spirituale, la tensione, è ciò che garantisce durata all’apertura all’altro, perché è la tensione, in quanto riluttanza, che “accentua lo splendore della seduzione e ne aguzza gli strali”. È la tensione, questa tensione, che è paradossalmente un’attrazione riluttante, a garantire la libertà della seduzione, mentre è la rinuncia che ne permette il dispiegarsi dell’essenza originaria. L’iki, insomma, è seduzione per la seduzione, perciò è libertà, possibilità assoluta che nessuna realizzazione può esaurire, ed è l’esatto contrario dello stendhaliano amour-passion.

La serietà e l’ossessione amorosa sono contrarie all’essenza dell’iki a causa della loro realtà e della mancanza di possibilità. L’iki esige un’anima disponibile al mutamento e libera, che abbia trasceso i vincoli dell’amore. Quella che dice “preferisco il buio a una luce incerta” è l’anima obnubilata dalla passione. Quella che invece dichiara di preferire la luna, seppure incerta, è l’anima iki. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 62)

Il capitolo termina con la definizione di iki.

L’iki è l’attrattiva erotica (seduzione) capace di sprezzatura (rinuncia) e dotata di tensione (energia spirituale). (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 64)

Heidegger e Tezuka, nel loro colloquio, daranno invece una diversa accezione a tale termine, intendendo l’iki come grazia, nel senso greco di charis o tedesco di Huld, ben distinto da quello estetico schilleriano di Anmut, e l’iki come “soffio della quiete che luminosamente rapisce”. Vedremo come le due definizioni formeranno fra loro una feconda costellazione concettuale.

La chiarificazione estensiva dell’iki

Ora Kuki compie il secondo passo della sua indagine e punta nella direzione di un chiarimento estensivo dell’iki, cercandone una collocazione entro un determinato contesto semantico.

[Si tratta ora di] rendere chiaro estensivamente tale significato, analizzando ciò che lo differenzia dai significati simili che stanno in rapporto con esso. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 65)

Dopo la scomposizione prismatica del significato dell’iki, Kuki procede all’individuazione di una costellazione semantica entro la quale l’iki si colloca, presentandoci una complessa conformazione terminologico-concettuale del gusto, costituita da quattro coppie opposte di termini, a loro volta divise in due coppie di concetti appartenenti all’essere umano in generale e due proprie dell’essere umano in quanto sessualmente determinato, cioè diviso in maschio e femmina. Tali coppie, inoltre, si organizzano secondo altri criteri che è più agevole vedere in uno schema, schema che fornirà la base per l’organizzazione di tali significati in un solido a sei facce (v. Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 78) capace, secondo Kuki, di rappresentare con efficacia la complessità del sistema del gusto giapponese.

CuboIkiLa faccia superiore del solido indica i caratteri che appartengono all’uomo in quanto sessualmente determinato, caratteri che hanno una manifestazione diversa se sono espressi da uomini o da donne. Questi caratteri stanno in un rapporto diretto, direi tematico, con la seduzione. Abbiamo, allora, la coppia seduttiva iki – amami e la coppia antiseduttiva yabo – shibumi. La faccia inferiore del solido, invece, indica i caratteri che appartengono all’essere umano in quanto tale. Questi hanno un rapporto indiretto, non tematico, con la seduzione. L’essere o no seduttivi è, per questi caratteri, qualcosa di accidentale. Abbiamo, allora, una coppia a-seduttiva, cioè indifferente alla seduzione, johin – hade e una coppia dis-seduttiva, che, riguardo alla seduzione, è sempre inadeguata, nel senso dell’eccesso o del difetto, gehin – jimi. Questi schemi ci aiutano a visualizzare questa complessa topologia concettuale. I colori indicano il modo in cui i diversi caratteri si dispongono riguardo alla seduzione. Colori uguali indicano un’uguale disposizione.

 

Valori Disvalori Determinazione sessuale
Iki (grazia) Yabo (goffaggine)
Johin (distinzione) Gehin (volgarità) No

Tabella 1: Caratteri che appartengono all’uomo in quanto sessualmente determinato

 

Passività Attività Determinazione sessuale
Jimi (modestia) Hade (vistosità) No
Shibumi (asprezza) Amami (dolcezza)

Tabella 2: Caratteri che appartengono all’uomo in quanto tale

 

Seduzione Antiseduzione Indifferenza alla seduzione Inadeguatezza alla seduzione
Iki

(grazia)

Yabo

(goffaggine)

Johin

(distinzione)

Gehin

(volgarità)

Amami

(dolcezza)

Shibumi

(asprezza)

Hade

(vistosità)

Jimi

(modestia)

Tabella 3:La topologia concettuale del gusto giapponese

Vediamo più da vicino i rapporti fra questi caratteri.

Johin – Iki – Gehin: Johin, la distinzione, non ha rapporti con la seduzione. È una raffinatezza non seduttiva e rappresenta quella che si potrebbe chiamare una fredda eleganza, una raffinatezza senza tensione, senza energia spirituale. Johin e Iki sono due qualità, due valori, due modi di essere raffinati, l’uno privo di seduzione, l’altro volto alla seduzione. Dal johin si procede verso l’iki, non perdendo raffinatezza o distinzione, ma volgendola verso la seduzione. Al johin si contrappone il gehin, la volgarità. Nel gehin, dice Kuki, c’è seduzione, ma ciò che manca è il gusto, la raffinatezza, la distinzione. È tensione priva di rinuncia, tensione volta all’annullamento della distanza, piuttosto che alla sua cura. Se il johin è mera lontananza, che porta all’indifferenza e può irrigidirsi nel formalismo, il gehin è, invece, la grossolanità, l’eccessiva vicinanza che ottunde le differenze. L’iki è termine medio fra questi due caratteri. Questo non significa che sia la giusta distanza, una virtù da ragionieri dei sentimenti e dei rapporti umani, una virtù da cortigiani educati. Semmai è la mesotes, l’hexis perfetta, dove la vicinanza e la lontananza si alimentano a vicenda, dove tensione-verso e rinuncia-a si coappartengono in un equilibrio prezioso e perfetto.

Jimi – Iki – Hade: Il termine “vistosità” in italiano è colorato con una tonalità ineliminabilmente negativa e, a causa di ciò, fin dall’inizio è piegato inesorabilmente verso la volgarità. In realtà il termine giapponese hade ha a che fare originariamente con il germogliare, il prorompere irrefrenabile nella presenza, nell’apparire. Il termine “modestia”, al contrario, soprattutto a causa della cultura cristiana, che lo avvicina al campo semantico dell’umiltà, assume fin dall’inizio una colorazione positiva. In giapponese jimi ha il significato proprio del gusto della terra assaporato dalla radice. Mentre il contrasto johingehin si fondava sul valore, l’uno positivo e l’altro negativo, ora invece l’opposizione avviene sulla base dell’attività o della passività. Ancora una volta l’iki è un equilibrio prezioso e perfetto fra questi due caratteri: apparenza non ostentata, rinuncia non arcigna.

Iki – Yabo: Qui il termine yabo, goffo, non deve essere inteso in modo immediatamente negativo, dato che in esso abita anche, sia pure in modo non esplicito, il significato di ingenuo. In questo senso Kuki scrive (p. 72) che preferire l’iki o optare per lo yabo dipende dalla differenza dei gusti. Yabo, ad esempio, è detto anche l’amore schietto, goffo per la sua ingenuità, per la totalità della sua dedizione, non ancora ammaestrata dall’esperienza della vita. Tuttavia, quando viene contrapposto al carattere iki, il suo significato è sempre da intendersi come negativo ed è significativo l’esempio che fa Kuki, il trucco pesante su una donna brutta. È sempre brutto il trucco pesante, ma diventa particolarmente sgradevole, se non addirittura grottesco, quando accompagna lineamenti brutti, perché ne accentua, anziché correggerne, le deformità.

Amami – Iki – Shibumi: Shibumi è il sapore allappante del cachi e il suo carattere è respingente (anche la carta impermeabilizzata che protegge le cose da infiltrazioni di acqua si chiama shibugami). Amami, invece, è ciò che attira (gli apprezzamenti lusinghieri si chiamano amaikoto, il tè dolce amacha). Il giudizio di valore dipende dal contesto. Il rapporto di questi due termini con l’iki viene così illustrato:

Non c’è dubbio che la donna dall’aria scostante, di cui parla Nagai Kafu, sia passata da amami a shibumi, attraversando l’iki. Si può anche arrivare a pensare che entro questo rapporto lineare iki retroceda verso amami. Ovverosia che, svanite l’energia spirituale e la rinuncia presenti nell’iki, non resti altro che la dolcezza zuccherosa tipica delle persone sdolcinate. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 76)

Se, a conclusione di questo capitolo, guardiamo il solido a p. 78, possiamo notare che c’è una linea, il segmento PO, che congiunge il centro della faccia superiore del cubo, i quattro caratteri relativi all’essere umano sessualmente determinato, con il centro della faccia inferiore, i quattro caratteri dell’essere umano in generale. Tale linea rappresenterebbe, secondo Kuki, l’universale concreto entro il sistema del gusto.

Le manifestazioni oggettive dell’iki

Espressioni naturali

Nell’ambito delle espressioni naturali dell’iki, ciò che Kuki prende in considerazione sono soprattutto le manifestazioni che riguardano il corpo umano. Le osservazioni di Kuki, che noi non commenteremo, sono di grandissimo interesse per penetrare nell’ambito dell’estetica e del gusto orientale e, in particolare per apprezzarne la distanza da quello occidentale.

La provocazione erotica delle Sirene “che si dondolano sui bianchi rami dei pioppi” e le sfrenatezze delle Baccanti “che tanto piacciono ai loro amici Satiri”, ossia la seduzione di stile occidentale che dà spettacolo di sé ancheggiando nella platealità del reale, è quanto di più distante vi sia dall’iki. Il quale all’altro sesso rivolge appena un cenno allusivo. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, p. 86)

Lo sguardo ammaliatore da solo non è ancora iki. Perché lo sia, gli occhi devono anche assumere quella specie di bagliore che solo sa evocare la dolcezza del passato, e le pupille devono narrare con tacita eloquenza una rinuncia senza sforzo e un inflessibile rigore. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, p. 89)

Da queste due citazioni, ma il tono è lo stesso in tutto il capitolo, appare confermata la definizione vista nei primi due capitoli, e in particolare nel primo, dell’iki come seduzione, intesa come instaurazione di un rapporto duale con l’altro sesso, mentre il punto chiave della forma naturale dell’iki, viene da Kuki individuata in una forma particolare di equilibrio precario, instabile, eppure perfetto.

Assumere un aspetto che, rompendo leggermente l’equilibrio unitario, suggerisce la dualità. Laddove, rompendosi l’equilibrio, si è instaurata la dualità, è venuta alla luce la seduzione, causa materiale dell’iki, e nella qualità tutta particolare di questa rottura è stata riconosciuta l’essenza irreale dell’ideale etico, causa formale dell’iki. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, p. 95)

L’iki, quindi, come seduzione spirituale, attrazione che nasce dall’apparire dei “due”, custodita da quell’Irrealtà buddista o zen, che noi abbiamo già incontrato come Nulla e che abbiamo pensato assieme all’essere heideggeriano nella sua identità e differenza.

Espressioni artistiche

Per ciò che riguarda l’analisi delle espressioni artistiche dell’iki, Kuki inizia con una distinzione fra arti oggettive, quelle il cui contenuto artistico viene determinato da un modello concreto “in carne e ossa”, come la pittura, la scultura e la poesia, e arti soggettive, non determinate da modelli concreti, come l’architettura e la musica. Le prime sono arti imitative, le seconde arti libere. L’iki come espressione artistica andrà prevalentemente cercato nell’ambito delle arti soggettive, o meglio, nei loro principi formativi e, nell’ambito delle arti libere, nelle cosiddette arti decorative. Anche qui, naturalmente, ritroveremo i tratti essenziali dell’iki, la dualità della seduzione, l’espressione di tale dualità in termini di energia spirituale e di rinuncia. Tali caratteri, secondo Kuki, trovano un’espressione pressoché perfetta nelle rette parallele, le quali procedono eternamente senza mai incontrarsi. E fra le righe, sono più iki le righe verticali di quelle orizzontali, dato che:

nelle righe orizzontali si sente lo spessore di uno strato che, giacendo immobile, oppone resistenza alla gravità. Nelle righe verticali, invece, si avverte la leggerezza della pioggerellina e delle fronde di salice che cadono assecondando la gravità. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, p. 101)

Il testo prosegue con raffinatissime analisi sulla combinazione di righe verticali e orizzontali, sull’emergere di motivi decorativi non più lineari, ma arrotondati, si sposta poi dai motivi decorativi geometrici a quelli figurati, per passare infine dal disegno decorativo al colore. Nell’ambito cromatico l’esclusione è perentoria per i colori sgargianti, data la loro vistosità. Sui colori si possono leggere folgoranti intuizioni, mentre una sensibilità orientale si manifesta in tutta la sua distanza da quella occidentale. Vale la pena leggere un brano per apprezzare le “gemme” che si possono trovare in questa parte.

Il colore iki è, per così dire, l’immagine persistente passiva che segue un’esperienza di luminosità. L’iki vive nel futuro stringendo a sé il passato. Una conoscenza fredda e distaccata, frutto di esperienza individuale o sociale, governa l’iki in quanto possibilità. L’anima che abbia assaporato a fondo l’eccitazione del colore caldo, attinge calma nel colore freddo, in quanto immagine persistente complementare. Inoltre l’iki nasconde nel suo fascino erotico il grigio del daltonismo. Iki è il restare immacolati pur tingendosi di colore. Nella seducente affermazione dell’iki si cela una cupa disperazione. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, p. 112)

Kuki passa poi alla ricognizione dell’iki nell’architettura e qui, in primo luogo prende in considerazione la casa da tè, nell’articolazione del suo spazio interno ed esterno, nella scelta dei materiali, guidata dalla dualità generata dal contrasto di legno e bambù, fra pavimento e soffitto. Anche la scelta dell’illuminazione, il suo alternarsi in naturale e artificiale, deve seguire gli stessi criteri di gusto che guidano la scelta dei materiali. Naturalmente anche nell’architettura, come in ogni espressione iki, la dualità, che è il tema proprio, non deve mai apparire enfatizzata e raggiunta con composizioni eccessivamente complicate.

Sul piano dell’architettura l’iki mostra, da un lato, la dualità, che è la sua causa materiale, nella diversità dei materiali e nel modo di ripartire lo spazio, e dall’altra manifesta la tensione ideale e l’irrealtà o rinuncia, che sono sue cause formali, soprattutto nel colore dei materiali e nei criteri di illuminazione. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, p. 118)

Interessantissime sono, infine, le note dedicate alla musica, che chiudono il capitolo.

Conclusione

Nella Conclusione Kuki ribadisce che l’iki, in quanto esperienza concreta, è qualcosa che non può che essere assaporato: solo chi ha incontrato l’iki può provare a scomporlo nelle sue componenti concettuali. Kuki enuncia con lucidità, a p. 126, il compito di un intellettuale: l’intellettuale è colui che sa condurre l’esperienza del significato alla consapevolezza concettuale e che persegue senza sosta l’attualizzazione dell’espressione logica nella lucida consapevolezza dell’irriducibile incommensurabilità esistente fra l’esperienza del significato e la sua espressione concettuale.

L’iki, scrive con enfasi Kuki, è qualcosa di irriducibilmente giapponese. (V. Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, p. 134). In questa rivendicazione non c’è la minima traccia di sterile e gretto sciovinismo. “È qualcosa di nostro” significa che è una parola fondamentale della cultura giapponese e le parole fondamentali sono tali non perché particolarizzano una cultura rinchiudendola in un improduttivo spazio etnico, ma perché dicono il modo insostituibile in cui un mondo ha pensato ciò che è degno di essere pensato. La rivendicazione giapponese dell’iki, quindi, suona altrettanto universale della rivendicazione greca del logos o dell’aletheia. L’iki è la declinazione giapponese, della verità: ciò che i greci hanno pensato come presenza e disvelamento, ciò che la metafisica ha pensato, nel solco dell’apertura greca, come adeguazione e certezza, il Giappone l’ha pensato come iki, come apertura che lascia apparire nella tensione quel nulla in cui consiste l’essere, quell’apertura che consegna l’essere all’Irrealtà.

Ma cosa significa, poi, declinazione giapponese della verità? Si possono trovare in Occidente espressioni oggettive, naturali o artistiche, definibili come iki? No, secondo Kuki. Se ciò avvenisse, è perché, chi già possiede l’esperienza dell’iki, tende a proiettare questa esperienza su fenomeni che in realtà sono tutt’altro.

Una volta riconosciuto che non sempre le espressioni oggettive sono capaci di rappresentare esaurientemente le complesse sfumature dell’iki, se anche capitasse di trovare nell’arte occidentale qualcosa che assomigli alla sua forma artistica, non lo si potrebbe immediatamente considerare un’espressione oggettiva dell’iki in quanto esperienza, né quindi presumere l’esistenza dell’iki stesso all’interno della cultura occidentale. E anche se in quella forma artistica riuscissimo a sentire effettivamente la presenza dell’iki, si tratterebbe comunque di una proiezione della nostra soggettività, che già possiede una ben precisa coloritura etnica. (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, cit., p. 131)

L’analisi di concetti simili a quello di iki avvalora la tesi del carattere strutturalmente e fondamentalmente giapponese dell’iki.

E allora non è poca cosa per il senso di una civiltà, di un mondo, che una delle sue parole fondamentali, quella che dice la verità, l’aletheia, abbia come caratteristica essenziale, come efficacemente si esprime Kuki, di “alitare nel sesso femminile”, di nascere e acclimatarsi, poi, nel mondo della prostituzione. Se l’iki brilla fra le geishe, questo mondo si combina in modo strano e inaspettato con la parmenidea via della verità, il mondo dei sensi per antonomasia “traduce” paradossalmente proprio il mondo dell’essere immutabile e i due mondi si rimandano vicendevolmente una luce che li accomuna.

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