INTRODUZIONE
Il famoso Gespräch fra Heidegger, l’interrogante, e Tezuka, il giapponese, professore di letteratura tedesca, è un testo altamente significativo non solo per i tradizionali temi filosofici che mette in campo (l’essere, il linguaggio, ecc.), ma anche perché ci permette di comprendere i limiti, i vincoli, i rischi e le possibilità di un’interrogazione dell’essere a partire da orizzonti linguistici assolutamente diversi, orizzonti linguistici che, non dimentichiamolo, per Heidegger sono “dimore dell’essere” differenti. Dalla lettura del Colloquio risulterà chiaro come non si ponga alcun problema di relativismo culturale, né specularmente di imperialismo culturale. Ancor meno, naturalmente, di composizione delle differenze in nome di un aprioristico e astratto universalismo. Non si pone, in realtà, nessun tipo di confronto culturale, anche se l’inizio del colloquio sembra orientare proprio in questa direzione.
IL GIAPPONE E L’OCCIDENTE
L’ESSENZIALE “TRADUCIBILITÀ” DELLE PAROLE FONDAMENTALI
La conversazione inizia con un ricordo del conte Kuki e delle sue mai interrotte ricerche sul concetto di iki, un concetto il cui senso Heidegger confessa di aver intuito solo molto vagamente, come da lontano.
T: Tutto il suo meditare era volto a ciò che i giapponesi chiamano iki (M. Heidegger, Da un colloquio in ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, p. 83)
Non è affatto una dichiarazione di impotenza soggettiva o di reciproca chiusura comunicativa delle culture. Che determinate parole di una cultura rimangano “intraducibili” è semmai la garanzia non solo che si tratta davvero di parole fondamentali (solo le parole tecniche e quotidiane si possono trasporre da una lingua a un’altra senza difficoltà), ma anche che a tale parola ci si è accostati nel modo giusto, senza intenzione di annettersi il suo significato ri(con)ducendolo a un termine noto della nostra lingua.
Kuki intende indagare l’essenza dell’arte giapponese con l’ausilio dell’estetica occidentale. È un programma, quello del conte giapponese, che ci sconcerta, eppure, proprio nell’enunciazione di tale tema, si dà il senso di tutto il colloquio che ci accingiamo a leggere. Possiamo immaginare quanto assurdo debba suonare alle orecchie di Heidegger un tale intento: pensare l’arte giapponese, coglierne l’essenza a partire dall’estetica occidentale! (ridondante l’aggettivo “occidentale”, perché l’estetica non può darsi se non entro questo orizzonte culturale). L’estetica, una disciplina filosofica che Heidegger non si è mai stancato di considerare come una delle vie più sicure per sottrarre all’arte la sua essenza, per mistificare la verità dell’arte. È noto come il grande saggio di Heidegger L’Origine dell’opera d’arte sia, fra le altre cose, un grande libro contro l’estetica. Non solo, l’estetica in quanto tale appartiene in modo totale all’esperienza occidentale del pensiero e non è assolutamente esportabile al di fuori dell’ambito in cui è sorta, ammesso naturalmente che l’esportabilità delle idee e delle dottrine filosofiche sia qualcosa che ha senso. E infatti Heidegger si mostra stupito da tale proposito e non lo nasconde.
È consentito rivolgersi all’estetica? […] il modo di considerare le cose proprio dell’estetica non può non rimanere sostanzialmente estraneo al pensiero orientale. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 83)
La distanza e l’incontro fra i due mondi viene mirabilmente alla luce nella replica di Tezuka. Il giapponese riconosce che l’estetica come disciplina filosofica è estranea al pensiero giapponese, eppure i giapponesi, sorprendentemente per noi, non possono farne a meno. Come è possibile tutto questo?
ARTE E PENSIERO: IL COLLOQUIO FRA HEIDEGGER E HISAMATSU
Prima di indagare le ragioni di questa inaspettata necessità, sospendiamo per il momento la lettura del Colloquio, per rivolgerci a un altro colloquio, quello avvenuto fra Heidegger e Hisamatsu, il 18 maggio del 1958 all’Università di Friburgo, nell’ambito di un seminario diretto da Heidegger stesso sul tema Arte e pensiero. (M. Heidegger-H. S. Hisamatsu, L’arte e il pensiero, in “Micromega”, 1/98, p. 181-187.)
Fin dagli anni venti i seminari di Heidegger furono frequentati da numerosi studiosi giapponesi, tutti legati alla nascente scuola di Kyoto, che tentava di comporre una sintesi epocale fra buddismo zen e filosofia, attraverso l’elaborazione di una meontologia (un’ontologia del nulla) capace di comprendere e fronteggiare l’impero della tecnica ormai divenuto planetario.
IL TERMINE GIAPPONESE PER “ARTE”
La domanda con cui Heidegger apre il colloquio con Hisamatsu, banale solo in apparenza, orienta subito in direzione del tema del linguaggio.
Dalla nostra prospettiva europea vorremmo tentare di cogliere alcuni caratteri essenziali dell’arte. La questione se l’arte abbia ancora un posto nella nostra epoca è per noi pressante. Vorremmo iniziare il colloquio chiedendo come comprende se stessa quella che chiamiamo arte est-asiatica. In concreto, presupposta la multiformità del mondo est-asiatico, vorremmo chiedere se in generale vi si possa parlare di arte e di opera d’arte nel nostro senso. Avete in Giappone un termine per “arte”? (M. Heidegger-H. S. Hisamatsu, L’arte e il pensiero, cit., p. 182)
Se in Giappone ci sono opere che noi riconosciamo come artistiche, sembra ovvio, ci viene da pensare, che un termine per “nominarle” debba esistere. Allora perché Heidegger, anziché chiedere come si dice arte in giapponese, chiede se un tale termine esista e se si possa applicare a ciò che noi chiamiamo arte? Non è poi strano, a ben pensarci. Abbiamo dedicato così tanto tempo a mostrare quanto problematico, se non addirittura fuorviante, sia intendere la techne greca come arte nel nostro senso, che non ci può stupire che proprio quella sia la domanda che Heidegger rivolge al rappresentante di una cultura ben più distante dalla nostra di quella greca, in cui, anzi, la nostra affonda le sue radici.
Chiedere se ci sia un termine per “arte” in Giappone significa chiedere se c’è in Giappone un certo modo di rapportarsi con l’ente che riguardi in modo peculiare una specifica categoria di oggetti o di eventi che si possa mettere in consonanza con quello che in Occidente si chiama arte. A questa domanda, la cui “ambiguità” (domanda ambigua, perché può essere intesa in due modi opposti: c’è un tipo di esperienza soggettiva che potremmo definire come esperienza estetica? C’è un rapporto con l’essere che assume la forma della messa in opera della verità? Entrambe le accezioni sono aperte, anche se Heidegger intende certamente la seconda delle due) non sfugge a Hisamatsu, il maestro giapponese così risponde:
Arte nel senso moderno (occidental-estetico) esiste in Giappone da circa 70 anni ed è una traduzione. I giapponesi hanno adottato tutti i concetti occidentali e li hanno resi attraverso proprie antiche radici. Così Gei significa originariamente arte come capacità, come abilità. Il composto Gei-jiz invece è la resa del concetto occidentale estetico di arte. […] C’è un altro antico termine per arte, un antico termine giapponese che ha un senso più profondo, non influenzato da quello europeo. È Gei-do: la via dell’arte. Do è il cinese Tao, che non significa via come metodo; esso ha un profondo e intrinseco rapporto con la vita, con il nostro essere. Dunque l’arte ha un significato decisivo per la vita stessa. (M. Heidegger-H. S. Hisamatsu, L’arte e il pensiero, cit., p. 183)
Malgrado il termine tao, l’ambito non è propriamente quello taoista, ma quello del buddismo zen, dove la via è intesa sempre nel duplice pendolare senso di ritorno all’origine e ritorno dall’origine.
L’ARTE COME RITORNO DALL’ORIGINE
È proprio il ritorno alla realtà dall’origine il significato autentico dell’arte zen, secondo le parole di Hisamatsu. L’arte, in base al significato giapponese del termine, è quell’opera in cui appare l’origine, concetto che noi abbiamo già compreso come Nulla. L’essenza dello zen, dice Hisamatsu, non sta nella via dell’andare, ma nella via del ritorno. L’arte “traduce” il nulla originario nell’opera. Il chiarimento di questo concetto, da parte di Hisamatsu, avviene per contrapposizione al modo occidentale di comprendere l’arte come presentazione, come eidos, come opera compiuta. Il privilegio che l’Occidente assegna all’eidetico, al formale, al compiuto, comporta che il porsi in opera della verità in cui l’arte propriamente consiste sia sempre minacciato di reificazione: l’opera d’arte è sempre anche, da un lato, oggetto, che può essere collocato in un museo, ammirato, acquistato, valutato, ecc. dall’altro, segno dell’artistico come qualcosa che determina in modo trascendente l’opera stessa. Il primato dell’eidetico ostacola la comprensione del carattere proprio dell’arte, che è il movimento, il movimento di ritorno dall’origine.
Un’opera d’arte zen è bella se da essa parla in modo vivo il fondo originario. Allora, anche per l’osservatore diventa possibile che questo fondo emerga. […] Nell’azione, l’essenza di una linea segnata non sta nel suo carattere-simbolo, bensì nel movimento. […] L’opera d’arte non è un oggetto, dietro il quale ci sia un significato o un senso; è piuttosto immediato operare, movimento. […] In Occidente, l’origine è in qualche modo un ente, un eidetico. Nello zen l’origine è l’informe, il non-ente. Questo “non” non è tuttavia una mera negazione. (M. Heidegger-H. S. Hisamatsu, L’arte e il pensiero, cit., p. 184-185)
Ormai comprendiamo le parole di Hisamatsu: ciò che l’arte porta alla presenza non è un significato, ma il fondo, l’origine, il nulla, il virtuale. Platone lo aveva ben compreso: se questo fosse lo statuto dell’arte, non sarebbe caduta sotto i suoi colpi. Se questo è vero, allora non può essere l’eidos, la forma, il luogo proprio dell’arte, ma il movimento di ritorno dall’origine.
Questo dare-spazio deve essere sempre libero da ogni legame. Deve essere slegato dalla obiettività e dalla validità. Esso è il libero operare della vita, proprio della stessa verità zen. La bellezza di un’opera d’arte nello zen consiste in ciò: l’informe viene a presentarsi in qualcosa di figurale. (M. Heidegger-H. S. Hisamatsu, L’arte e il pensiero, cit., p. 185)
Opportunamente Hisamatsu sottolinea la distanza fra questa concezione e l’arte astratta occidentale, dal momento che l’arte zen non è arte informale o negazione del formale:
Con la pittura astratta il pittore va nella direzione della negazione del formale. Questo movimento che va oltre le forme è ancora legato al formale, proprio perché cerca ancora oltre. Al contrario la pittura zen si muove esattamente nella direzione opposta. Ciò di cui si tratta è l’apparire a noi dell’informe Sé. […] Quando il movimento del Sé originario appare in qualcosa di formale, questa è un’opera d’arte. Questo presentarsi non è limitato all’ambito del formale nel senso dell’arte. La più alta bellezza è piuttosto là dove non rimane alcuna forma o struttura. L’arte dello zen così non è limitata ad ambiti particolari. (M. Heidegger-H. S. Hisamatsu, L’arte e il pensiero, cit., p. 186)
RIPRESA DELL’INTERPRETAZIONE DEL “COLLOQUIO”
LA “CARENZA” CONCETTUALE DELLA LINGUA GIAPPONESE
Secondo Tezuka, la lingua giapponese ha una singolare mancanza: non “sa” definire gli oggetti, non sa rappresentarli entro un coerente quadro sistematico. Non sa classificare e così è anche riguardo a quegli oggetti particolari che sono le opere d’arte. L’estetica, con la sua consolidata concettualità, verrebbe dunque a colmare una tale lacuna. Non c’è dubbio che siamo spiazzati da queste parole di Tezuka. Lo stesso Heidegger appare fortemente perplesso e chiede se ci sia davvero bisogno di concetti per comprendere l’arte giapponese. Ma è sottinteso: l’arte in generale. Concetti occidentali, per giunta! È davvero carente una lingua che si è costruita al di fuori della struttura concettuale e categoriale, oppure manifesta una caratteristica e una ricchezza che la rende peculiare e feconda per altri aspetti? Concettualizzare, definire, fissare, non è, per certi versi, mortificare la realtà costringendola in forme statiche? Perché sentire come mancanza ciò che invece, in una luce diversa da quella metafisico-occidentale, appare come ricchezza o, comunque, come originalità profonda di una cultura?
Tezuka avanza delle motivazioni che sono dotate della forza irresistibile dell’evidenza: l’incontro delle due civiltà, quella giapponese con quella occidentale, è un dato di fatto che rende inevitabile la reciproca apertura, tanto più che tale incontro avviene a partire da ciò che di più essenziale costituisce l’Occidente, la sua tecnica e la sua economia capitalistico-industriale. In queste parole di Tezuka non si deve cogliere solo una passiva predisposizione all’assimilazione di una cultura, quella giapponese, da parte di una cultura supposta superiore, come affrettatamente si potrebbe credere e pensare. L’intenzione di appropriarsi delle categorie occidentali è una risposta attiva, una risposta “da occidentale”: all’occidentalizzazione, Tezuka risponde adeguatamente. Non ci si può sottrarre, non è consentito farlo, a un problema, quando questo sorge e l’Occidente è un problema, un problema vero, formidabile, un problema da affrontare filosoficamente.
L’incontro con l’Occidente ha evidenziato una profonda differenza fra il modo giapponese di pensare il mondo e quello occidentale, una differenza che, nella prospettiva occidentale, è colta come una mancanza, una insufficienza del pensiero giapponese, incapace di pensare rigorosamente per categorie. Perciò, sembra dire Tezuka, su ciò i giapponesi vengono a scuola dagli occidentali. Questo tuttavia, come si leggerà subito dopo, non comporta affatto il lasciarsi passivamente penetrare dall’Occidente, fino a scalzare completamente la tradizionale cultura giapponese.
T: Resta pur sempre ancora possibile che, considerato dal nostro modo di esistere orientale, il mondo della tecnica che ci involge e trascina nel suo moto, sia destinato ad arrestarsi nei suoi aspetti più appariscenti ma superficiali e […] che […] un incontro vero non possa affatto realizzarsi. […] avverto sempre il pericolo, che neppure il conte Kuki evidentemente riuscì a dominare, […] che noi ci lasciamo traviare dalla ricchezza dell’elemento concettuale di cui lo spirito delle lingue europee dispone e svalutiamo come qualcosa di indefinito e vago ciò che rivendica sotto la sua signoria il nostro modo di esistere. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 84-85)
In questo inizio del Colloquio, chi ci sembra più rigido e dogmatico è il maestro occidentale, che si è costruito a partire dalla concettualità metafisica occidentale, o meglio in un processo continuo e indefinito di Überwindung, di superamento-decostruzione di tale concettualità, trovando proprio nel pensiero orientale lontane ma indiscutibili assonanze con il proprio pensiero, e che ora pare sorpreso davanti all’inattesa “arrendevolezza” orientale nei confronti degli aspetti più pericolosi dell’Occidente.
Questa premessa, comunque, al di là di altre considerazioni, ha messo in luce un termine che tornerà, quello di “pericolo”: il pericolo di perdere le proprie radici, il pericolo di fraintendere un concetto fondamentale che appartiene a un’altra esperienza, il pericolo che un incontro fra esperienze di pensiero radicalmente diverse non possa mai avvenire. E il luogo proprio di questo pericolo è stato individuato nel linguaggio, nella diversità delle lingue, le quali, riflettendo esperienze diverse, sembrano porre ostacoli insormontabili a ogni incontro. Heidegger, comunque, lascia subito cadere questo ambito problematico, individuando un pericolo ben più radicale, del quale la diversità delle lingue è, alla fine, un epifenomeno.
LA LINGUA COME “LUOGO” DEL POSSIBILE FRAINTENDIMENTO
H: Il pericolo dei nostri colloqui (le conversazioni con Kuki) si nascondeva nella lingua stessa, non in ciò che noi discutevamo e neppure nel modo in cui cercavamo di discuterlo. […] quello di cui si discuteva era lo iki; ora, nei nostri colloqui su questo, lo spirito della lingua giapponese rimaneva per me inaccessibile. […] quel che il colloquio cercava di dire era l’essenza dell’arte e della poesia orientale. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 85)
Da queste parole non sembra che il quadro sia poi cambiato: Heidegger, che non è giapponese e che non conosce la lingua giapponese, rimane “ottuso” al senso della parola iki, oggetto e delle conversazioni con Kuki e della riflessione estetica dello stesso Kuki. Ancora, quindi, la diversità delle lingue che pone ostacoli. Tezuka nota che Kuki padroneggiava con assoluta sicurezza il tedesco, l’inglese e il francese. Questo, tuttavia, non gli consentiva di superare l’ostacolo, perché l’iki non può essere detto in una lingua europea. Ci viene spontanea una domanda: vale anche per un giapponese l’analoga opacità nei confronti di una parola fondamentale europea, per un giapponese che padroneggia perfettamente le lingue europee, come Kuki, ma come lo stesso Tezuka, professore di letteratura tedesca? Non solo. Se Heidegger avesse conosciuto la lingua giapponese, avrebbe colto alla fine il significato di iki? Sono sullo stesso piano Heidegger e Kuki, pur in presenza di una profonda asimmetria linguistica fra i due, oppure Kuki è addirittura svantaggiato da questa sua superiore competenza, dal momento che le lingue europee rischiano di fare diaframma e oscurare la stessa comprensione “giapponese” del termine iki? Nell’ultima riga della citazione Heidegger palesa il luogo proprio del pericolo: dire l’essenza dell’arte e della poesia orientale, dire in una lingua europea ciò che essenzialmente è orientale. L’opposizione fra europeo e orientale trova il suo radicamento nel “dire” ed è proprio dell’essenza del dire che si occupa il dialogo, del dire in quanto tale, anche se tale dire sorge qui nella divaricazione apparentemente insanabile delle due lingue, il giapponese e il tedesco, l’orientale e l’occidentale. È nel dire stesso che si annida sia il problema sia la possibilità dell’incontro.
T: La lingua in cui si svolgeva il colloquio distruggeva di continuo la possibilità di dire quello intorno a cui si svolgeva il discorso. […]
H: Qualche tempo addietro chiamai il linguaggio la dimora dell’essere. Ma, se l’uomo, grazie al suo linguaggio, abita il dominio dell’essere, è da supporre che noi europei abitiamo in una dimora del tutto diversa da quella dell’uomo orientale. […] Così un colloquio da dimora a dimora rimane dunque quasi impossibile. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 85-86)
Il linguaggio come dimora dell’essere è una delle formule filosofiche più note e fortunate di Heidegger e nel corso della lettura del testo dovremo comprendere proprio il senso filosofico profondo di questa formula. Una cosa, però, va detta subito ora, per evitare equivoci interpretativi. Heidegger non sta sostenendo alcun relativismo culturale, non ci sta dicendo che ogni cultura ha la propria particolare e incomunicabile esperienza dell’essere. Se così fosse, per estensione e analogia, non solo ogni cultura ha la propria peculiarità, ma ogni uomo in quanto tale ce l’ha, per cui l’essere si ridurrebbe alla soggettività dell’esperienza.
IL PROBLEMA DELL’ERMENEUTICA
Heidegger, nell’excursus autobiografico-professionale che presenta a questo punto del Colloquio (ricorda i suoi primi passi accademici nell’ambito della fenomenologia husserliana, il privilegio accordato alle Logische Untersuchungen, l’interesse per i problemi del linguaggio, fin dal lavoro sulla libera docenza, dedicato alla Teoria delle categorie e del significato in Duns Scoto, e soprattutto l’influenza su di lui esercitata dal testo di Brentano Il molteplice significato dell’essere secondo Aristotele, suo primo filo conduttore attraverso la filosofia greca), mette in evidenza le difficoltà, le incertezze, i pericoli che il sentiero che voleva percorrere comportava, un sentiero interamente determinato dalla riflessione sul linguaggio e sull’essere. Difficoltà che gli mantengono nascosta la radice stessa del problema.
Non vedo ancora se ciò che tento di pensare come essenza del linguaggio, valga anche per l’essenza del linguaggio orientale; se alla fine – e la fine sarebbe insieme l’inizio – possa giungere all’esperienza pensante un’essenza del linguaggio, la quale offra la certezza che il dire europeo-occidentale e il dire asiatico-orientale vengano a colloquio in un modo nel quale risuoni l’eco della stessa sorgente. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 88)
Ciò che appare come divaricazione di esperienze linguistiche esterne l’una all’altra, capaci solo di contatti esteriori e non di veri incontri, divaricazione che la diversità delle lingue sancisce e che ogni riflessione sulle lingue conferma, è riconducibile a una comune origine? Dobbiamo comprendere bene questo problema. Heidegger non cerca una conciliazione della babele linguistica in una lingua originaria, empiricamente originaria, a partire dalla quale poter pensare senza differenze ogni parola. Se questo fosse il suo intento, rimarremmo in una prospettiva antropologica estranea al filosofare heideggeriano. Ogni dire avviene sempre in una lingua determinata e a questo non si può sfuggire, così come l’essere è sempre l’essere di un ente. E tuttavia ogni dire va pensato in quanto tale. Il chiedersi, da parte di Heidegger, se in ogni dire particolare risuoni l’eco della stessa sorgente, equivale a porsi il problema stesso della legittimità e della possibilità della domanda sull’essenza del linguaggio. Interrogarsi sull’essenza del linguaggio significa interrogarsi, entro una lingua, sulla sorgente stessa del dire in quanto tale. Il problema di Heidegger non è la diversità delle lingue né la sua possibile ricomposizione, il suo problema è l’essenza del linguaggio: da dove viene e come avviene ciò che si chiama linguaggio, ciò che l’uomo già da sempre ritrova nella forma particolare e storicamente data di una lingua?
Entro questo quadro viene ora avanti un altro termine, questa volta occidentale, greco per la precisione, che rimane oscuro, quasi incomprensibile, per un giapponese, per un orientale, un metatermine, possiamo quasi chiamarlo, cioè la parola “ermeneutica”, che solitamente intendiamo come interpretazione. L’occasione è fornita dai resoconti fatti da Kuki e da altri studenti di un corso tenuto da Heidegger nei suoi primi anni, nel 1921, intitolato Espressione e fenomeno. Heidegger, che si stupisce dell’attenzione portata da studenti giapponesi proprio a quel corso, chiede di ciò spiegazione a Tezuka.
T: Le posso soltanto riferire le spiegazioni che ne dava il conte Kuki. Per la verità, non mi riuscirono mai del tutto chiare; egli infatti si richiamava spesso, per caratterizzare il Suo pensiero, ai termini “ermeneutica” ed “ermeneutico”. […] Sottolineava soltanto che la parola doveva designare una nuova direzione della fenomenologia. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 89)
Heidegger riprende subito quest’ultima osservazione: non una nuova linea interessa, perché in filosofia non si tratta di novità o di visioni del mondo da rinnovare di quando in quando, ma di un tentativo di pensare la fenomenologia in modo più originario, in modo da sottolinearne l’appartenenza piena alla filosofia occidentale. Il pensare la fenomenologia come ermeneutica, un termine che nasce e prende il suo senso determinato nella teologia, in particolare nell’interpretazione della parola della Sacra Scrittura nel suo rapporto con il pensiero teologico-speculativo, significa pensare la fenomenologia non come una corrente della filosofia, una corrente fra le altre, ma come la filosofia stessa.
L’ermeneutica, sia in generale nell’interpretazione della Sacra Scrittura sia in particolare nell’opera di Schleiermacher, si è venuta precisando come una teoria e una tecnica dell’interpretazione. Non è questo il senso in cui va pensata la fenomenologia come ermeneutica. Heidegger non intende ridurre la fenomenologia né a una particolare tecnica di interpretazione né tantomeno a interpretazione stessa. Non si tratta di sostituire l’intuizione eidetica con l’ermeneutica. Ermeneutica ha un significato più originario di quello di interpretazione, un significato che Heidegger recupererà nel corso del Colloquio e che sarà profondamente collegato all’essenza stessa del linguaggio.
Tezuka accenna alla “svolta” del pensiero di Heidegger rivolgendogli la meno heideggeriana delle osservazioni:
T: Si dice, (man sagt), che Ella avrebbe cambiato la sua posizione.
H: Ho lasciato una posizione non per sostituirla con un’altra, ma perché anche quella era solo stazione di un cammino. E i sentieri del pensiero nascondono in sé un aspetto di mistero: noi li possiamo percorrere in un senso e nell’altro; anzi, proprio solo il percorrerli a ritroso consente di avanzare.
T: Avanzare non nel senso del progredire.
H : Avanti verso quel massimamente Vicino di fronte a cui continuamente passiamo frettolosi e distratti, e che sempre di nuovo ci spaura ogni qualvolta lo scorgiamo. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 91)
È una via che ci fa avanzare riportandoci verso l’inizio, quell’inizio che Heidegger chiama il Vicino, perché non è rappresentato da una meta che sta alla fine delle cose, non è il punto terminale di una teleologia, una meta trascendente al di fuori del mondo. È il Vicino perché è il mondo stesso colto sotto un altro riguardo, non più come ente, ma come differenza fra essere ed ente, oppure, se vogliamo usare la metaforologia zen, non più rivolto alle onde nella loro molteplice dispersione, ma a quel Nulla che è la differenza fra l’acqua e l’onda.
SULLA DIGRESSIONE FILOSOFICA
Il colloquio procede lentamente, non presenta definizioni, argomentazioni di tipo inferenziale. Ha l’andamento di una conversazione, piuttosto che di un dialogo dialettico, è ricco di digressioni che non sono divagazioni, ma appartengono mirabilmente al conversare filosofico. Vi è infatti a questo punto una vera e propria digressione sul ritmo e i tempi del conversare, oltreché sui contenuti, che restano sullo sfondo, non necessariamente definiti. Non è oziosa divagazione come avviene nella chiacchiera, o incapacità di stare al tema, come richiederebbe invece un dialogo che ha lo scopo di giungere a una conclusione.
Lo stile del conversare è quello che Platone stesso ha indicato nel Teeteto come proprio degli uomini liberi, in un punto del suo dialogo, che è una vera e propria digressione o intermezzo, perché viene a interrompere proficuamente l’argomentare serrato dei protagonisti. È una pagina dedicata all’otium, alla scholé del filosofo contrapposto al negotium, proprio di chi è preso dalla quotidianità. Nel caso specifico c’è l’allusione non casuale al processo che Socrate dovrà affrontare fra poco e i “non liberi” che si agitano e si danno da fare senza sosta sono i causidici e gli avvocati dei tribunali.
Quei che nei tribunali e in luoghi simili s’aggirano fin da giovani, rispetto a quelli allevati nella filosofia e in simili conversazioni, rischiano d’essere stati allevati come schiavi rispetto a uomini liberi. […] Ai liberi, quel che tu dicesti è sempre presente, l’ozio, e fanno in pace, per l’ozio, i loro ragionamenti: e come noi, ora già per la terza volta, cambiamo discorso con discorso, così anch’essi, se il discorso che sopravviene piaccia a loro, come a noi, più di quello presente: e per vie lunghe o brevi, non importa niente di parlare, sol che raggiungano l’essere. Ma gli altri sempre parlano senz’agio, che li incalza l’acqua che scorre, e non è loro possibile, su quel che desiderino, conversare, che l’avversario sta loro addosso, […] sicché per tutto questo abili e scaltri diventano, e sanno lusingare il padrone con le parole e con le maniere: piccini e non retti nell’anima. Il miglioramento, la rettitudine, la libertà, fin da giovani la schiavitù toglie via. (Teet., 172c-173b)
Fin dal Fedro platonico la conversazione avviene in una cornice che esclude il mondo degli affari e degli interessi politici, i negotia. Essa è il luogo di una comunità possibile che si costituisce nel disinteresse e nella contemplazione, che non vuole produrre risultati o giungere a conclusioni, ma, si può dire, è pura praxis, basta a se stessa: come la filosofia, non è un insieme di contenuti teorici da comunicare, ma praxis. Per Platone libertà significa aver tempo per sé, schiavitù, invece, essere sempre impiegati per altro. Ecco perché solo l’uomo libero ama le digressioni, il lusso che esse rappresentano. La conversazione filosofica non è un mezzo per comunicare contenuti, i conversanti non sono esperti o specialisti che parlano in vista di un risultato e in nome di un sapere. Il nostro dialogo ha questo andamento rigorosamente libero. E queste parole che i due colloquianti si scambiano confermano il carattere e lo stile filosofico del loro dialogo:
T: Noi giapponesi non restiamo né sorpresi né urtati, quando un colloquio lascia quello che ne costituisce il vero termine intenzionale nell’indeterminato, anzi, lo riconduce, inviolato, nell’indefinibile.
H: Questo è proprio, ritengo, di ogni colloquio tra persone che pensano, il quale possa dirsi felicemente riuscito. È ovvio che quell’indefinibile non solo non sfugge, ma viene, nel corso del colloquio sempre più dispiegando la sua forza concentrante.
T: Proprio questa felice riuscita mancava nelle nostre discussioni con il conte Kuki. Noi giovani pretendevamo troppo immediatamente da lui che soddisfacesse il nostro voler sapere con risposte “maneggevoli”.
H: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare pensante. Nel voler sapere si cela già sempre la presunzione di un’autocoscienza che si appella a una ragione autofondata e alla sua razionalità. Il voler sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di essere pensato.
T: Volevamo solo sapere in che misura l’estetica europea sia atta a meglio chiarire ciò da cui la nostra arte e la nostra poesia traggono la loro essenza. L’iki. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 92)
CONTRO IL METODO CONCETTUALE DELLA METAFISICA
E così siamo tornati all’inizio del nostro colloquio, apparentemente non abbiamo percorso alcuna strada. È così, se, come abbiamo ricordato, ciò che si vuole è arrivare a definizioni maneggevoli, di pronto uso. È così se ciò che guida il colloquio è un voler-sapere, ma non è più così se il colloquio è guidato dal pensiero di ciò che è massimamente degno di essere pensato. Lasciare ciò di cui si parla nell’indeterminato e nell’indefinibile non costituisce uno scacco, ma la vera ragione per cui si pensa. È chiaro che qui ciò che viene messo sotto accusa è il metodo definitorio della razionalità strumentale e metafisica occidentale. Che cos’è l’iki? Qual è l’essenza dell’arte orientale? Che cosa significa ermeneutica? Nessuna delle domande che abbiamo incontrato finora ha avuto risposta, eppure la conversazione fra i due filosofi “cammina” e meglio cammina più lascia insoddisfatta quella che Heidegger chiama l’avida richiesta di spiegazioni. È un cammino che riporta i due dialoganti al punto di partenza, ma non per questo è stato sterile e vuoto.
Se gettiamo uno sguardo retrospettivo, da un punto di vista dei contenuti, molte sono le cose di cui i due hanno parlato: la diversità delle lingue, l’incontro fra culture, la concettualità europea di fronte all’Oriente, uno scorcio sul percorso filosofico di Heidegger, sui suoi studi, sulla sua posizione all’interno della corrente fenomenologica, sul suo proporre nuove prospettive, sul senso dell’opzione ermeneutica entro la fenomenologia e sull’abbandono di tale opzione. Mentre enumeriamo gli argomenti, ci accorgiamo, però, che ci stiamo addentrando sempre più nell’inessenziale. In realtà i due dialoganti hanno letteralmente girato intorno a questi argomenti, mostrandone proprio l’inessenzialità e l’irrilevanza, argomenti che avrebbero reso ciarlieri senza ritegno interi studi di esperti. Ogni opinion maker avrebbe avuto qualcosa da dire su di essi. Proprio come i giovani che incalzavano, con il loro voler sapere, il nostro Kuki.
Naturalmente il girare attorno non significa affatto girare a vuoto: è diversa la disposizione, non più un voler sapere, quindi un interrogare inquisitorio, ma un ascoltare, perciò un interrogare pensante, senza fretta. Questo interrogare pensante ci ha riportato nei pressi della domanda iniziale e, proprio ora che abbiamo appreso l’irrilevanza del domandare per sapere, ci viene data la risposta che non ci aspettavamo più. Ora, finalmente, Heidegger ci dice perché Kuki doveva necessariamente fallire la comprensione dell’iki servendosi delle categorie estetiche occidentali.
L’IKI COME APPARIRE SENSIBILE DEL SOPRASENSIBILE
Inaspettatamente Tezuka accoglie positivamente la definizione di iki proposta dal conte Kuki.
H: Egli parlava [riguardo all’iki] di un apparire sensibile attraverso il cui vivente incanto traluce il soprasensibile.
T: Con questa spiegazione Kuki ha colto veramente, io penso, quel che noi esperiamo nell’arte giapponese.
H: La Loro esperienza si muove allora nella distinzione tra un mondo sensibile e un mondo ultrasensibile. Su questa distinzione riposa quel che da lungo tempo si chiama la metafisica occidentale. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 93)
Nella formula qui usata per definire l’iki risuona familiare alle nostre orecchie la concezione hegeliana dell’arte come apparire sensibile dell’idea, cioè di quella definizione che sta, possiamo ben dire, a coronamento di tutta la riflessione estetica occidentale. Non può che sorprenderci, allora, l’assenso subito dato da Tezuka a questa definizione, anche se la sorpresa, in fondo, non è poi davvero tale. Lo stesso Tezuka, all’inizio del dialogo, aveva riconosciuto la necessità, pur problematica, della concettualità estetica occidentale per comprendere l’essenza dell’arte giapponese, quasi come la metafisica occidentale fosse un destino ineludibile, che accomuna l’uomo in quanto tale. Una concettualità, badiamo bene, che Heidegger non rifiuta, non respinge come errata: la metafisica non è un errore, come sappiamo, essa appartiene al destino dell’essere e al suo nascondersi per lasciar essere l’ente. Possiamo dire, semplificando molto, senza con questo compromettere il senso, che il lavoro filosofico come Heidegger lo concepisce non consiste nella confutazione dei concetti metafisici, ma nel loro superamento, un superamento che è una sorta di processo di decostruzione a partire dal quale pensare l’essenza. Non solo: una definizione estetica di un concetto fondamentale come l’iki, quindi di un concetto profondamente non estetico, non può che produrre quella risposta affrettata che lo stesso Tezuka aveva poco prima stigmatizzato come caratterizzante i suoi colloqui con Kuki. Quello che ci viene detto qui è molto chiaro: quando un concetto fondamentale viene definito, esso si trasforma immediatamente in un concetto metafisico e tale trasformazione si basa su quel dualismo fra sensibile e soprasensibile con cui si inaugura la metafisica occidentale.
IL DUALISMO METAFISICO SENSIBILE – SOVRASENSIBILE E L’ESPERIENZA ORIENTALE
Ed allora siamo giunti nel cuore stesso della metafisica, quindi nel cuore stesso dell’Occidente, la distinzione fra sensibile e soprasensibile. È possibile che anche l’esperienza orientale si radichi su tale dualismo? La domanda è davvero pertinente, tuttavia, il suo stesso porsi è possibile solo entro una cornice metafisica condivisa. Tezuka in parte riconosce il vigere di una tale distinzione anche nell’esperienza giapponese, tuttavia essa, più che una veste concettuale assume, possiamo dire, ma solo impropriamente, una veste metaforica, metafora che subito dopo Heidegger tenterà di ricondurre correttamente al concetto. Leggiamo questo importante passo.
T: Il nostro pensiero, se così posso chiamarlo, conosce in verità qualcosa che ricorda molto da vicino la distinzione metafisica; tuttavia con i concetti della metafisica occidentale non è possibile cogliere né la distinzione in sé né quel che ne risulta distinto. Noi diciamo Iro, cioè colore e diciamo Ku, cioè il vuoto, l’aperto, il cielo. Noi diciamo, senza Iro non c’è Ku.
H: Ciò par corrispondere esattamente a quanto la filosofia europea, cioè, metafisica, dice dell’arte, quando concepisce l’arte esteticamente. Lo aistheton, il sensibile, colto dalla percezione, lascia trasparire il noeton, il non sensibile. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 93)
Questo ricordare la metafisica molto da vicino non è un’approssimazione alla metafisica da parte di un pensiero e di una lingua carenti proprio dal punto di vista della metafisica. Ora Tezuka ha lasciato quello strato superficiale, quella patina che, come lui stesso ha ricordato, ricopre le parole fondamentali della tradizione metafisica. E infatti la distinzione metafisica coglie solo i distinti, sensibile e soprasensibile, e nemmeno essi in quanto tali, ma solo come realtà separate, mentre non coglie la distinzione (l’heideggeriana differenza ontologica, il farsi della differenza) e, alla luce della distinzione, i distinti nella loro coappartenenza. Questo ricordare la metafisica significa che è una distinzione che può sempre cadere nella metafisica, ma che nella sua essenza non è metafisica. Può cadere nella metafisica e diventare terreno fertile per la sua riduzione concettuale (ciò che fa Heidegger leggendo in Iro, colore, un’immagine metaforica che sta per il sensibile in generale, l’aistheton, e Ku, il cielo e il vuoto, come un’altra immagine, indicante questa volta il soprasensibile. Del resto una tale sostituzione della coppia Iro-Ku con quella sensibile-soprasensibile, sembra autorizzata dalla stessa riconosciuta insufficienza concettuale della lingua giapponese, che procede per immagini e non per concetti.
Ma la metafora è già un pensiero che abita all’interno di un dualismo: qui l’immagine, che funge da segno e da rimando, là il significato, ciò a cui l’immagine si riferisce e alla quale può sempre essere ricondotta. Ciò che Tezuka dice, in seguito alla riduzione concettuale operata da Heidegger, è che i due termini giapponesi non sono difettivi rispetto al concetto, non sono imprecisi e metafisicamente approssimati, ma esattamente il contrario: dicono di più e diversamente rispetto a ciò che dice la metafisica. Iro non è il colore, come semplice qualità sensibile, come mero dato della sensibilità, Ku non è il vuoto come ciò che meramente è al di là della percezione.
Qui emerge il vero nodo problematico dell’intero colloquio e qui si svela anche il pericolo che la lingua comporta, non la lingua giapponese o quella europea, non la diversità irriducibile delle lingue, ma la lingua in quanto tale, la lingua come è correntemente intesa nel mondo occidentale. Non le lingue, quindi, ostacolano, fanno velo alla comprensione, ma una certa concezione della lingua, una concezione assolutamente solidale con la metafisica da cui proviene e in cui si colloca, una concezione che ne riproduce l’essenziale dualismo sensibile-soprasensibile.
La lingua stessa poggia sulla distinzione metafisica di sensibile e non sensibile, in quanto a reggere l’edificio della lingua stanno, da un lato, suono e scrittura, dall’altro, significato e senso. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 94)
È la concezione semiotica della lingua, concezione che Heidegger rifiuterà, come vedremo nel corso del colloquio.
DIGRESSIONE SUL CINEMA: RASHÔMON DI AKIRA KUROSAWA
A questo punto, per esemplificare quanto la concettualità metafisica si sia globalizzata fino a minacciare alla fonte stessa ciò che è essenziale non solo in Occidente, ma anche in Oriente, c’è una importantissima e interessantissima “digressione” sul cinema. Tezuka cita il grande film di Akira Kurosawa, Rashômon, apparso nel 1950, un film celebre che lo stesso Heidegger mostra di aver apprezzato e nel quale ritiene di aver colto l’incanto e il mistero del mondo giapponese. È sorprendente che Tezuka si richiami proprio a questo film come esempio di europeizzazione: la reciproca incomprensione fra le culture sembra che continui operare, a dispetto della superficiale omogeneizzazione operata dall’imperante ragione occidentale, ma anche a dispetto di quella presentita, indeterminata eppure vicina, comune sorgente.
Rashômon è uno splendido film ambientato nel Giappone medievale. Attraverso una serie di flashback racconta dell’uccisione di un samurai per il possesso della sua donna. Di tale delitto vengono presentate quattro testimonianze, quella di Tajomaru, il bandito, supposto assassino, quella della sposa del samurai, quella dello spettro del samurai stesso, evocato da una strega. Ognuna di queste testimonianze dà una versione diversa dei fatti e ha lo scopo di salvare l’onore di chi, di volta in volta, produce la testimonianza. La quarta è quella di un boscaiolo, il quale, di nascosto, avrebbe visto tutto. Il suo racconto toglie dignità ai tre protagonisti, ridotti a figure meschine. Il film termina senza l’accertamento della verità, mentre il boscaiolo decide di adottare un piccolo bambino, che inaspettatamente appare sulla scena.
La trama raccontata mostra che il film è poco più che una favola medievale, mentre le interpretazioni si sono sbizzarrite a trovarvi i significati metaforici più diversi: il ciclo eterno della morte (l’uccisione del samurai che apre il film) e della vita (il vagito del bambino e la sua successiva adozione, al termine del film); il relativismo della verità, sacrificata all’amor proprio e all’egoismo dei protagonisti, ecc. Eppure, al di fuori di queste letture, Rashômon è davvero un grande film. Chi l’ha visto sente di condividere il giudizio positivo di Heidegger. Tezuka, tuttavia, ha delle riserve.
T: Noi giapponesi troviamo la rappresentazione spesso troppo realistica, per esempio, nelle scene dei duelli. […] I tratti composti ed essenziali sono i meno appariscenti, ma ce ne sono parecchi nel film, forse difficilmente avvertibili all’occhio europeo. Penso a una mano posata nella quale si fa presente, come tutta addensandovisi, la realtà di uno sfiorare che rimane infinitamente lontano da ogni toccare, e che nemmeno si può dire gesto nel senso che mi par di cogliere nella parola così come viene da Loro usata. Quella mano è percorsa e sorretta da una voce che chiama da lontano: è dal regno della quiete che viene porta. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 95)
È un film troppo realistico, dice Tezuka, anche se riconosce che è ricco di tratti genuinamente orientali, soprattutto in gesti apparentemente semplici e banali e tuttavia colmi di quella particolare pregnanza e raffinatezza, quasi sempre incomprensibile agli occhi razionali dell’europeo, che li rende oltremodo significativi. E allora ecco uno sfiorare che è infinitamente lontano da ogni toccare, uno sfiorare che non è un toccare appena, un toccare di sfuggita, ma proprio quel nulla che distingue il toccare dal non toccare, quel tratto, quella soglia di cui abbiamo parlato diffusamente nel saggio su Platone. Proprio ciò che il realismo nasconde e sovrasta sotto la flagranza delle forme, ciò che non può ritrarre, perché la sua essenza non appartiene né all’esteriorità né all’interiorità, un gesto che non è né gestualità corporea né espressione di un moto dell’anima, ma proprio ciò che disegna e determina nella loro reciproca appartenenza la mano che sfiora e il corpo che è sfiorato. Tezuka usa per questo un’espressione che ritroveremo fra poco: la mano che sfiora viene porta dal regno della quiete.
Ma allora, se tutto questo è vero e se il film è ricco di questi gesti che disegnano lo spazio, perché portarlo come un esempio di globalizzazione? Bastano poche scene di realismo, quella patina di occidentalità che ricopre tutti i prodotti del Giappone, per sottrarre al film il suo fascino e la sua verità? È il concetto stesso di realismo che va ripensato.
T: Con l’accenno al realistico io non intendevo alludere a quella certa materialità rappresentativa che s’insinua in questo o quel punto, materialità che, avuto riguardo degli spettatori non-giapponesi, rimane del resto inevitabile. Con l’accenno al realistico del film io intendevo in fondo qualcosa del tutto diverso, cioè che il mondo giapponese in generale resta preso nella oggettività della fotografia e atteggiato secondo le esigenze di questa.
H: Ella vorrebbe dire, se ho ben capito, che il mondo orientale e il prodotto tecnico estetico dell’industria cinematografica sono tra loro inconciliabili.
T: Proprio questo intendo. Per quanto un film giapponese possa risultare riuscito sotto l’aspetto estetico, già il fatto che il nostro mondo venga trasposto in film sforza questo mondo nel cerchio di quel che Ella chiama l’oggettivo. L’oggettivazione filmica è già una conseguenza del sempre più invadente processo di europeizzazione. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 95)
Non possono che farci sorridere queste parole di Tezuka. Noi, abituati a frotte di giapponesi dotati di macchina fotografica, intenti a fotografare ogni cosa che incontrano sul loro passaggio, cogliamo con una nota di umorismo questa incompatibilità fra Giappone e fotografia o industria cinematografica in generale.
Ciò che dice Tezuka è di grande importanza e investe in pieno lo statuto artistico delle nuove arti tecniche, come la fotografia, il cinema, oggi la grafica digitale. Heidegger stesso, che tutto può essere considerato tranne che un “modernista” in campo tecnico, apprezzando il film di Kurosawa non aveva colto questa incompatibilità. Che cosa sottrae un film, una fotografia, al mondo giapponese? O, ma è la stessa cosa, che cosa aggiunge ad esso sovraccaricandolo fino a sfigurarlo? Chi ha letto Benjamin (v. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966) potrebbe subito pensare all’aura: in un film, come in generale in ogni arte fondamentalmente tecnica e riproducibile nel suo stesso darsi, ciò che viene sottratto è l’unicità dell’hic et nunc, l’esistenza unica, originale, autentica dell’opera, il suo carattere auratico, insomma. Per certi versi questo è vero, tuttavia così non si coglie fino in fondo il senso proprio dell’ingabbiamento oggettivo che un film provoca al mondo giapponese. Per mostrarlo, Tezuka si richiama a una delle più straordinarie e caratteristiche forme d’arte giapponese, il teatro Nô.