Heidegger e il Giapponese – 2

Digressione sul teatro: il teatro .

Ezra Pound, con l’acuta sensibilità dell’artista, coglie perfettamente nel gesto l’essenza del teatro .

A differenza del nostro, questo non è un teatro in cui finezze e sottigliezze di ogni genere debbano essere accantonate, in cui ogni sfumatura della parola o della cadenza venga sacrificata all’“effetto generale”, e la vernice debba essere data, per così dire, con una scopa. Si tratta di un palcoscenico sul quale ogni arte sussidiaria è volta precisamente allo scopo di conservare fin le minime sottigliezze, in cui il poeta può aspirare al silenzio, e sono i gesti, consacrati da quattro secoli di uso, a rivelare il significato. (v. E. Pound – E. Fenollosa, The Classic Noh Theatre of Japan, citato in, Thomas Hoover, La cultura Zen, Mondadori, Milano, 1989, p. 146)

Il classico palcoscenico consiste in una piattaforma di legno ricoperta da un pesante tetto arcuato sostenuto ai quattro angoli da robusti pilastri, la scena è sempre vuota: i pochi arredi usati durante la rappresentazione vengono introdotti e portati via attraverso un ingresso secondario sullo sfondo. L’inizio della rappresentazione è annunciato dal suono acuto e lamentoso di un flauto di bambù, vi sono anche dei suonatori di tamburo i quali a volte inseriscono, tra i battiti dei tamburi, delle grida monosillabiche. Il coro interviene nel dialogo al posto degli attori nelle sequenze di danza. L’ouverture del dramma è di solito recitata da un monaco itinerante, chiamato waki, il quale comincia a narrare la vicenda da solo o con l’aiuto del coro, dopodiché si ritira in un angolo del palcoscenico mentre entra il protagonista, lo shite, spesso mascherato, che comincia a raccontare e a danzare la propria vicenda davanti al waki.

Il dramma culmina proprio nella danza dello shite, una sequenza di movimenti e gesti che a noi appaiono manierati, rigidi, stilizzati, scultorei, ma che rappresentano invece il cuore stesso della rappresentazione. Con questa apoteosi coreografica il dramma si chiude ed i personaggi escono in fila indiana come sono entrati. Il contenuto artistico del si esprime nelle maschere, nelle danze, nei gesti coreografici e nel testo poetico. Le maschere rappresentano una caratteristica unica nella storia del teatro, perché sono incredibilmente capaci di espressioni, essendo scolpite nel legno in modo tale che il gioco di luci, che può essere mutato mediante oscillazioni della testa dell’attore, comporta espressioni diverse. La particolarissima dizione è di difficilissima comprensione, al punto che oggi persino gli esperti seguono il testo sul libretto. Il lento movimento dei personaggi sul palcoscenico, quello che impropriamente va sotto il nome di danza, costituisce, per lo spettatore occidentale, uno degli aspetti più enigmatici del .

Un acuto osservatore occidentale si è espresso riguardo ad essi in un modo che ormai ci risulta familiare: la quiete non è immobilità, bensì un perfetto equilibrio di forze contrapposte (R. H. Blyth, Eastern Culture, Hokuseido, Tokio, 1949. Citato, in, Thomas Hoover, La cultura Zen, cit., p. 153). Questi gesti sono un perfetto distillato di movimento umano, nel senso che ne estraggono tutto quanto v’è in esso di significativo, esattamente come un metallo prezioso estratto dalla terra impura. La sensazione che se ne ricava è di formale intenso rigore.

Quando un attore Nô nel corso della rappresentazione lentamente leva la mano, il gesto non corrisponde soltanto al testo del dramma, ma è destinato a suggerire anche qualcosa che trascende la mera rappresentazione, qualcosa di eterno: per servirsi delle parole di T. S. Eliot, “un momento nel tempo e fuori del tempo”. Il gesto dell’attore è bello in sé e per sé, come può esserlo un brano musicale, ma in pari tempo costituisce l’accesso a qualcosa d’altro: la mano indica una regione profonda e remota, ai limiti della capacità di percezione dello spettatore. Si tratta insomma di un simbolo: non già di un oggetto particolare, bensì di una dimensione atemporale, di un eterno silenzio. (v. Th. De Bary, Sources of Japanese Tradition, citato in Thomas Hoover, La cultura Zen, cit., p. 153)

Se togliamo quell’improprio termine di “simbolo”, è questa una perfetta descrizione della gestualità , perfettamente corrispondente a ciò che dice Tezuka nel testo. A beneficio di Heidegger, Tezuka produce uno di questi famosi gesti .

L’essenza del gesto

Proprio il gesto e il corretto modo di intenderlo rappresentano un importante punto di svolta del colloquio: il criptico scambio di parole fra i due colloquianti su che cosa sia un gesto, infatti, ci avvicina all’essenza del linguaggio. Il gesto non consiste né nel movimento della mano né in un atteggiamento del corpo, la sua essenza non è nulla di esteriore.

H: Il gesto è il raccogliersi di un portare. […] è Quello che realmente porta che a noi per primo si porta.

T: Noi non facciamo che apportare, di risposta, la nostra partecipazione.

H: Quel che si porta a noi ha già incluso, nel suo portarsi, il nostro apporto responsivo.

T: Gesto Ella dice pertanto la sintesi originaria del portarsi a noi di quel che porta e del nostro, a nostra volta, portarci ad esso. […]

H: Quando ci riuscisse di pensare il gesto in questo senso, dove dovremmo cercare l’essenza del gesto che Ella mi indicava?

T: In un contemplare che per sé sfugge ad ogni percezione visiva, il quale si fissa con tanta concentrazione nel vuoto che in questo e per virtù di questo la montagna appare. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 96-97)

Il gioco ripetuto attorno al verbo portare ha, come si può intuire, lo scopo di connettere-sconnettere il significato del gesto a quello del comportamento e del portamento. Il gesto può essere visto nel suo aspetto di mera esteriorità, come indicazione, o come estrinsecazione di uno stato d’animo, espressione. In entrambi i casi il gesto è segno e la sua funzione è sussidiaria.

In connessione con la gestualità del teatro , il gesto viene qui inteso come “lasciar-apparire”: nell’esempio fatto da Tezuka il gesto non indica la montagna, per cui, una volta decifrato esso risulta inutile, superfluo, non più necessario, nemmeno rappresenta con immagini o figure corporee la montagna. Nel primo caso il gesto si estinguerebbe nella presenza raggiunta di ciò su cui ha portato, nel secondo caso opererebbe una semplice sostituzione metaforica di una presenza reale, la montagna, con una presenza in immagine, il gesto che la rappresenta, ancora il suo portare porterebbe oltre se stesso, non più alla montagna (gesto come pura indicazione), ma alla sua rappresentazione. Ricordiamo che etimologicamente metafora, che deriva da metà, oltre, al di là, e pherein portare, significa lo stesso che trasferire, trasportare. Tantomeno il gesto esprime un contenuto dell’animo che sia, per così dire, evocativo della montagna. In tutte queste accezioni usuali del gesto, questo appare sempre come un mezzo per qualcos’altro, il gesto è un terminus a quo da lasciare quando si sia raggiunto il terminus ad quem. Nel teatro , invece, il gesto ha la natura del “raccogliersi di un portare”: il gesto non porta oltre se stesso, ma raccoglie il portare nel senso di ciò che porta e del nostro portarci ad esso.

La difficoltà di questo passo sta nel cogliere propriamente il significato di portare, che indica, etimologicamente e originariamente da “porta”, il passaggio, il recare. Non vanno tematizzati, però, i termini tra i quali il passaggio avviene, bensì proprio il passaggio stesso, ecco perché Tezuka dice il “raccogliersi di un portare”. È fondamentale mantenere attivo in noi il riferimento etimologico di “porta” nel portare, che possiamo intendere come soglia, limite. Il gesto non è mezzo, ma luogo, non naturalmente nel senso di spazio ed estensione, ma in quello già più volte considerato di soglia (v. il saggio su Platone e la condanna dell’arte), di luogo inesistente di passaggio da qualcosa a qualcos’altro, dove ciò che conta non è né la sua funzione di ponte fra due luoghi (reificazione del concetto di soglia in un luogo effettivamente esistente) né i due luoghi che esso connette (irrilevanza e strumentalità del concetto di soglia), ma proprio il connettere lasciando apparire i due nella differenza e nella coappartenenza.

Il gesto, perciò, possiamo ora propriamente comprenderlo come l’aver-luogo della montagna, non l’indicazione della montagna al di là del gesto né la rappresentazione della montagna tramite il gesto, ma la montagna e l’attore nella coappartenenza assicurata da quel nulla ontologico (differenza ontologica) che è il gesto. Il gesto non porta alla montagna, ma porta la montagna e l’attore, non passa da questo a quella, ma è il passare da questo a quella, l’aperto che li produce entrambi. Perciò Tezuka dice che l’essenza del gesto va cercata in un contemplare che sfugge a ogni percezione visiva (né il contemplante né la cosa contemplata, ma il contemplare), un contemplare che si fissa nel vuoto in virtù del quale la montagna appare.

Questo vuoto già lo abbiamo incontrato, è il nulla, il tratto, la soglia, il limite, il farsi della differenza.

H: Il vuoto è lo stesso che il Nulla, quella realtà cioè che noi tentiamo di pensare come l’Altro rispetto a tutto quello che può essere presente e assente. […]

T: Noi ci meravigliamo come gli europei siano potuti cadere nell’errore di interpretare nichilisticamente il Nulla di cui si ragiona della conferenza accennata [Was ist Metaphysik?]. Per noi il Vuoto è il nome più alto per indicare quello che Ella vorrebbe dire con la parola “Essere”. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 97) (s.m.)

Non è accettabile tradurre con “si ragiona”, il verbo erörtern qui usato, un verbo importante per Heidegger, tanto che, in un altro luogo del testo, il traduttore “colpevolmente” non lo traduce. Anziché “il Nulla di cui si ragiona” traduciamo “il Nulla qui ‘definito’.” Le ragioni di questa traduzione le vedremo fra poco.

Ecco un esempio chiarissimo di vera traduzione di due termini, quella traduzione che non porta a sostituire un termine con un suo analogo in un’altra lingua, ma a comporre due termini, magari in sé diversissimi, per provenienza e per realitas, eppure assolutamente componibili per il loro profilo. Il Nulla e il Vuoto orientale dicono lo stesso dell’Essere heideggeriano (e del virtuale deleuziano), ma non è la stessa cosa pensare a partire dal Nulla o pensare a partire dall’Essere, perché diversissime sono le provenienze dei due termini e la provenienza di un concetto fa parte della sua essenza. Nell’Essere di Heidegger c’è tutta la presenza vincolante o destinante, come direbbe Heidegger stesso, della metafisica, di cui vuol essere superamento, non come critica o rinnegamento di essa (una presunzione puerile) né come sua evoluzione progressiva, ma come evidenziazione, chiarimento, della sua essenza. Perciò il termine “essere”, con tutta la sua ambiguità e compromissione metafisica, anzi proprio per questo, non può essere abbandonato o sostituito con nuovi termini, indisponibili. Se è così, allora la lingua in cui si parla e si pensa non costituisce un condizionamento di tipo empirico o storicistico, del quale ci si può sempre liberare una volta tematizzato. L’uomo vive già da sempre nel linguaggio, il cui senso, come già abbiamo visto, non è riducibile alla mera funzione comunicativa.

L’essenza del linguaggio in Occidente e in Oriente

I due colloquianti ritornano all’espressione heideggeriana “linguaggio come dimora dell’essere” e proprio tale accezione ci avvicina all’essenza stessa del linguaggio.

H: L’espressione “dimora dell’essere” non offre un concetto all’essenza del linguaggio, con rincrescimento dei filosofi, i quali tollerano male tal genere di locuzioni e non sanno vedervi se non una caduta del pensiero.

T: Anche a me la sua espressione “dimora dell’essere” dà molto da pensare, ma per altre ragioni: perché avverto che tocca l’essenza del linguaggio senza violarla. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 99)

L’essenza del  linguaggio è il tema da pensare. Ma, per quanto detto finora, l’essenza del linguaggio, lo stesso termine o concetto di essenza sono cose alquanto diverse per un occidentale e per un orientale, dal momento che la provenienza del “da pensare” è diversissima. Heidegger, a questo punto, pone a Tezuka una domanda la cui portata filosofica dovrebbe esserci ora del tutto chiara e che giustamente impegna Tezuka in una lunga pausa di riflessione.

H: Che intende un giapponese per linguaggio? Anzi, per formulare la domanda in termini più cauti: esiste nella loro lingua una parola per indicare ciò che noi chiamiamo linguaggio? In caso negativo, come si configura, per un giapponese, l’esperienza di ciò che da noi si dice linguaggio? (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 100)

Perché rispondere a questa domanda richiede una lunga riflessione da parte di Tezuka? In fondo, da quanto sembra, Heidegger vuol solo sapere come si dice linguaggio in giapponese. Se qualcuno ci chiedesse come si dice lingua in tedesco, non avremmo difficoltà a rispondere Sprache, sempre che conosciamo il tedesco, naturalmente. È chiaro, però, da tutto ciò che abbiamo detto, che Heidegger non cerca una parola sostitutiva, ma una parola essenziale, una parola a partire dalla quale si possa giungere vicini a ciò che per i giapponesi è l’essenza del linguaggio. Per capirci, è come se un italiano avesse chiesto ad Heidegger, nel corso di una conversazione filosofica sull’essenza del linguaggio, o, come dice propriamente il titolo, nell’ascolto del linguaggio, come si dice in tedesco linguaggio. Mai avrebbe ricevuto in risposta il termine corrente Sprache. Probabilmente avrebbe avuto in risposta “dimora dell’essere” o, come vedremo nella parte conclusiva del colloquio, Sage. Tezuka, non risponde a Heidegger come farebbe un dizionario, con il termine corretto, ma va alla ricerca appunto di una parola essenziale.

T: C’è una parola giapponese che dice l’essenza del linguaggio più di quanto non si presti a essere usata come vocabolo per significare il parlare e il linguaggio.

H: È la realtà stessa delle cose che lo comporta, se è vero che l’essenza del linguaggio non è un fatto linguistico. Lo stesso vale per ciò che concerne l’espressione “dimora dell’essere”. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 100)

Non pensiamo che questa espressione giapponese che dice l’essenza del linguaggio ci venga subito svelata. Non è la curiosità, l’avidità di sapere, la fame di risposte immediate ciò che guida una conversazione filosofica.

L’essenziale digressione, ora, avviene sul termine “cenno”: ciò che attrae i due colloquianti nell’espressione giapponese in cui si fa cenno dell’essenza del linguaggio è la natura di questo far cenno, dal momento che anche l’espressione heideggeriana “dimora dell’essere” è un’espressione che dice l’essenza del linguaggio nel senso di far cenno ad essa. Quale sarà la natura di questo accennare? Tale domanda che non può non farci tornare con il pensiero alla natura del gesto nel teatro , su cui ci siamo soffermati poco fa. I cenni sono enigmatici e vanno pensati in connessione con i gesti e nella differenza dai segni, come abbiamo visto sopra. Il modo in cui l’espressione “linguaggio come dimora dell’essere” dice il linguaggio è proprio quello del cenno. Lo stesso rapporto dovrà avere il termine o l’espressione giapponese che Tezuka esita a pronunciare, con quell’esitazione che Heidegger chiama Scheu, timore, un timore che esprime non la paura per qualcosa di ostile, ma la soggezione che nasce dal rispetto per ciò che ci sovrasta. Ma è anche un’esitazione che nasce dalla consapevolezza che ogni nominazione, proprio per il fatto di essere tale, è sempre esposta al rischio, mai davvero evitabile, di irrigidirsi in immagine metaforica o in rappresentazione concettuale.

T: La sua espressione “dimora dell’essere” non deve essere presa come un’immagine casuale e approssimativa, in base a cui sarebbe consentita ogni più arbitraria immaginazione, quale ad esempio: casa sta a indicare l’abitacolo, eretto in precedenza in qualche dove, nel quale l’Essere viene sistemato, così come accade con un qualsiasi oggetto trasportabile.

H: […] Quel che ho in mente con quell’espressione non è l’essere dell’essente metafisicamente rappresentato, bensì l’essenza dell’essere, più precisamente la Differenza di essere ed essente, tale differenza, tuttavia, sotto l’aspetto del suo essere degna di essere pensata. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 102-103)

Il termine “differenza” con cui il traduttore rende Zwiefalt non è forse la scelta migliore, anche se in ultima analisi non tradisce il significato tedesco. Del resto è un termine che abbiamo usato più volte in un’accezione che ormai dovrebbe essere chiara. Tuttavia Heidegger usa Zwiefalt, un termine che mette in luce il ripiegarsi, la piega, la soglia come il luogo inesistente in cui i due appaiono, per cui forse conservare almeno il falten, come piegare, non era una scelta da scartare, mentre assolutamente da rigettare è, a mio avviso, il termine “duplicità” proposto come alternativa. Un’altra traduzione, quindi, potrebbe essere la seguente: “il reciproco implicarsi di essere ed essente”. Qualche riserva ho, invece, sulla traduzione-calco “di-spiego”, non banale, in sé, ma che orienta il pensiero in una direzione divergente da quella che stiamo seguendo noi.

La traduzione di Erörterung

Nel rispetto dell’esitazione di Tezuka, ora è Heidegger che intende rispondere finalmente a un problema che si era posto qualche tempo fa e che era stato lasciato in una pensante indeterminazione, il problema di una interpretazione dell’ermeneutica, secondo il modo hedeggeriano di filosofare, che sempre risale all’etimo delle parole. Leggiamo prima queste poche controverse righe, che ci daranno l’occasione di fare alcune osservazioni sulla traduzione.

H: Il pubblico ha bisogno di denominazioni sì che a queste non si sfugge.

T: Questo non può comunque impedirle di chiarire più esattamente i termini “ermeneutica”ed ‘”ermeneutico” che pur ha abbandonato.

H: Volentieri cercherò di farlo, perché il chiarimento (Erläuterung) può trasformarsi in una Erörterung.

T: Nel senso in cui Ella intende la parola nella conferenza sull’essenza della poesia di Trakl. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 104)

Heidegger deve dire che cos’è l’ermeneutico. Ora dire il “che cos’è” di qualcosa equivale a darne la definizione, il concetto, proprio ciò che, invece, nel suo pensiero rappresenta una forma di nascondimento dell’essenza (una forma, comunque, è bene sempre ricordarlo, mai del tutto evitabile). Tuttavia egli afferma che il chiarimento di questa parola (ma Erläuterung ha in tedesco anche il senso più tecnico di interpretazione e io userei questa parola, anche perché si conserva così il riferimento a ermeneutica nel suo significato corrente di interpretazione), l’interpretazione di questa parola, può diventare una Erörterung, termine lasciato non tradotto e rimandato, per il suo significato, a un altro saggio di Heidegger presente in questo testo.

Noi, invece, ci proponiamo di tradurlo, non per un vuoto esercizio retorico, ma perché in filosofia, come nel testo sacro o nel testo poetico la traduzione deve (de jure, se non de facto), come ci insegna Benjamin, essere sempre possibile, anzi, addirittura obbligatoria. Tradurre è un compito obbligatorio al quale non ci si può sottrarre e un traduttore che non trova nella propria lingua una parola dal profilo compatibile con la parola straniera ha gravemente fallito il suo compito e lascia il testo nella sua dispersione babelica. Erörterung ha, nel tedesco corrente, il significato di discussione o dibattito e, come ben possiamo intuire, questi significati sono quanto di più lontano si possa immaginare dal pensiero di Heidegger. Non è certo credibile che Heidegger intenda trasformare l’interpretazione del termine ermeneutica in un dibattito o in una discussione su tale termine. Utilizziamo allora il riferimento che il testo stesso ci fornisce e leggiamo quella pagina con cui si apre la conferenza sulla poesia di Trakl, dove compare nel suo significato il termine erörtern, un termine che il traduttore ha lasciato anche qui non tradotto. Vediamo le sue “ragioni”:

Erörtern significa correntemente discutere, ed Erörterung discussione. Heidegger, attraverso l’evidenziazione e la valorizzazione dei monemi “er” e “Ort”, richiamati nel loro significato originario, conferisce alla parola un senso complesso che emerge più chiaro via via che ci si inoltra nella lettura del saggio. Nessuno dei termini da altri precedentemente suggeriti (situare, collocare, […]) o da noi stessi in un primo momento tentati per rendere erörtern nel significato heideggeriano, ci è risultato utilizzabile, sì che, dopo lunga riflessione, ci siamo decisi a lasciare il termine non tradotto. La “traduzione” della parola sarà, pertanto la chiarificazione che ne verrà dallo stesso discorso heideggeriano.” V. M. Heidegger, Il linguaggio della poesia, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 80 (nota del traduttore)

La radice Ort, che entra nella costruzione del termine Erörterung indica il luogo, lo spazio, ma in un senso diverso da quello di Raum. È Heidegger stesso a richiamare questa etimologia. Il traduttore giustamente accoglie questa indicazione e tenta una traduzione dove in qualche modo questo significato, diciamo così, spaziale venga restituito. Ecco perché “situare” o “collocare”. Tuttavia, dire in italiano che “l’interpretazione del termine ermeneutica può trasformarsi in una collocazione o in una situazione sembra davvero poco chiaro, poco credibile”. Giustamente perciò quei termini sono stati rigettati. È questa una buona ragione per non cercare ancora? Io credo di no.

Leggiamo allora quell’importante, densissima pagina che apre la conferenza su Trakl.

Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo (Ort). E poi significa: osservare il luogo. Ambedue le cose: indicare il luogo e osservare il luogo sono i passi preliminarmente necessari per una Erörterung. Ma il limitarci, nel corso di quanto segue, ai passi preliminari è già un osare abbastanza. L’esito di questa Erörterung è, come si addice al cammino del pensiero, una domanda. Tale domanda chiede dove si collochi quel luogo. La Erörterung parlerà di Georg Trakl null’altro di lui considerando se non il luogo della sua poesia. Tale modo di procedere resta per la nostra epoca, interessata agli aspetti storici, biografici, psicanalitici, sociologici, falsa strada. La Erörterung considera l’Ort: il luogo. (M. Heidegger, Il linguaggio della poesia, cit., p. 45)

Assolutamente centrale è il significato di Ort, luogo. Heidegger adopera l’espressione Erörtern in una conferenza che potrebbe essere assegnata, nel suo genere, alla critica letteraria o all’estetica della poesia, la conferenza, infatti, tratta di un poeta, Trakl, e della sua poesia. Ma, leggendo bene il testo, vediamo che in realtà le cose non stanno così: Heidegger non intende trattare né di Georg Trakl in quanto poeta, della sua biografia, del contesto storico sociale in cui è vissuto, né della sua poesia, non intende cioè fare della critica letteraria. Non un’esegesi del suo testo, non un commento o una guida alla lettura. L’Erörterung è una domanda e tale domanda è volta a interrogare il “luogo” proprio della poesia di Trakl. Questo termine ci evoca un significato peculiare: “guardare il luogo”, anziché ciò che occupa il luogo, è “guardare la soglia”, il limite, l’aver luogo di qualcosa, guardare il suo venir ad essere, quel nulla che lo fa essere. Ed è una direzione che ci sembra confermata da quello che Heidegger dice subito sotto.

Il termine Ort significa originariamente punta della lancia. Tutte le parti della lancia convergono nella punta. L’Ort riunisce attirando verso di sé in quanto punto più alto ed estremo. Ciò che riunisce trapassa e permea di sé tutto. L’Ort, come quel che riunisce, trae a sé, custodisce ciò che ha a sé tratto, non però al modo di uno scrigno, bensì in maniera da penetrarlo della sua propria luce, dandogli solo così la possibilità di dispiegarsi nel suo vero essere. (M. Heidegger, Il linguaggio della poesia, cit., p. 45)

L’Ort non è chiaramente lo Spazio, il Raum come estensione, è semmai, il luogo inesteso in cui lo spazio trova origine, come la punta della lancia è il luogo che la definisce, il punto in cui le sue linee dinamiche convergono e si raccolgono. Il raccogliersi e il custodire sono, anche qui, come avevamo notato parlando del “gesto”, termini essenziali. Come nel gesto il raccogliersi era il luogo in cui la montagna appariva nel suo differenziarsi implicante l’attore, così qui l’Ort non ha la natura del contenitore, dello scrigno che resta esterno a ciò che si raccoglie. Semmai del ricettacolo, luogo che non semplicemente contiene, ma pervade, compenetra ciò che contiene. Ma il ricettacolo, nella complessità dei significati che abbiamo a suo tempo indicato (v. il saggio su Platone), è uno dei termini con i quali Platone “traduce” o pensa il termine chora. Allora l’Ort è una traduzione di chora, intesa nel senso di soglia, di limite. Guardare, osservare l’Ort, significa allora non tematizzare, come oggetto della definizione, la poesia di Trakl, ma il processo stesso del determinarsi, del definirsi di tale poesia. Un compito, quello di “guardare questo luogo inesistente”, per il quale né l’intelletto né i sensi, né il pensiero né la poesia, hanno occhi sufficientemente attrezzati. E qui Heidegger ci trasporta in un circolo ermeneutico: osservare il luogo del poema di Trakl è possibile solo leggendo e spiegando le sue poesie, ma una esatta spiegazione è possibile solo alla luce di una preliminare osservazione del suo aver luogo.

Si comprende facilmente come una esatta spiegazione presupponga già una Erörterung. Solo dal luogo della poesia prendono luce e suono i singoli componimenti poetici. E, per contro, una Erörterung del poema è possibile solo quando si sia preliminarmente passati attraverso una prima spiegazione dei singoli componimenti poetici. Ogni colloquio del pensiero con il poema del poeta non può uscire da questo reciproco rimando tra Erörterung e spiegazione. Il colloquio autentico con il poema di un poeta è soltanto quello poetante: il colloquio poetico fra poeti. Ma è anche possibile talvolta, anzi necessario, un colloquio del pensiero con la poesia, e ciò appunto perché, proprio di entrambi, è un rapporto del tutto privilegiato, anche se in ciascuno di natura diversa, con il linguaggio. […] Il colloquio del pensiero con la poesia può servire solo indirettamente. Perciò corre sempre il rischio di turbare il dire del poema, anziché lasciare che esso canti dalla sua quiete. La Erörterung del poema è un colloquio del pensiero con la poesia. (M. Heidegger, Il linguaggio della poesia, cit., p. 46)

Il colloquio autentico con la poesia è aperto solo ad altre poesie, ad altri poeti. Al di fuori di questo modo, però, non c’è solo la critica letteraria o l’estetica. C’è uno strano discorso indiretto, un colloquio fra pensiero e poesia, un misto, che non è né poesia né un discorso sulla poesia, un misto legittimato dal comune riferimento al linguaggio di pensiero e poesia. Ecco, l’Erörterung è questa interrogazione della poesia, un’interrogazione volta a interrogare il luogo, l’Ort, l’aver luogo della poesia. È un discorso che appartiene allo stesso genere del platonico loghismos nothos, un discorso che “vede di più” di quello che appare, perché è volto all’apparire stesso.

Nota sul pensiero bastardo: L’aver-luogo non può essere pensato, perché il pensiero ha a che fare solo con significati, e non può essere percepito, perché la percezione ci offre solo e sempre materie determinate. Indagare i significati di una poesia significa ridurla a semplice conoscenza, accoglierla nella sua vivente realtà significa ridurla a sentimento. Gli occhi nothoi (bastardi) né conoscono né vedono, semmai “intravedono” nella poesia determinata il movimento del suo prodursi, la dinamica del suo apparire. Bisogna vedere-assieme la poesia e il suo prodursi, il vuoto “pregno” di differenze, di linee dinamiche, che insiste nella sublime determinata forma, immutabile nella sua purezza. E qui c’è l’enigma, il mistero di ogni autentica opera d’arte, una forma perfetta e immutabile in cui “insiste” inesauribile un caos di forze che la determinano e che non cessa di produrre, in chi l’accoglie, complessità e caos. Il pensiero bastardo vede-assieme, compone paradossalmente forza e forma: nella forma non vede solo il significato (platonicamente, l’idea), ma anche il fondo dinamico che in essa insiste (platonicamente, la chora). Quel fondo invisibile, impensabile, che può essere solo “sognato”. Il pensiero bastardo non si rapporta ai significati che la poesia rappresenta, né alla forma che presenta, ma a quel fondo che tanto più “caosmicamente” insiste quanto più la forma è perfetta e compiuta, fondo, traccia, che, nel mentre “lascia-essere” un significato, lo destituisce dalla sua dogmatica vigenza ideale, tradendolo, consegnandolo, all’incessante divenire. La tela bianca, per un pittore, il silenzio, per un musicista o un poeta, non sono solo il mero “prima”, la mera possibilità, il semplice supporto o l’indeterminato sfondo della forma, ma caos dinamico, campo potenziale, luogo virtuale, di cui la forma è “traduzione”, concrezione. Nei suoi Quaderni, Simone Weil scrive che “qualunque essere grida in silenzio per essere letto altrimenti”. Non vuole essere letto né come “rappresentante di” né come “semplice presenza”, non vuole essere letto per ciò che è, ma per ciò che può essere. Il discorso bastardo è il discorso che ascolta questo “grido silenzioso” e che, in forza di ciò, sovverte ogni tassonomia, ogni rigida classificazione. Il discorso bastardo vede nelle cose la loro potenza, piuttosto che la loro essenza. Lettura perversa, perché si rivolge proprio a ciò che la forma ha dovuto incorporare, condensare, nascondere, per essere ciò che è. Si rivolge al foglio bianco, guardando la figura in cui esso “scompare”, al silenzio, ascoltando le parole o i suoni che lo portano alla presenza. Non cerca un mondo dietro un mondo, ma la neutralità assoluta che un mondo, ogni mondo, esige per essere. Ciò che il pensiero bastardo ascolta è il grido silenzioso del fondo che abita in ogni significato dato, e che lo rende impuro e precario. E questo grido silenzioso non può che essere udito nelle parole, nelle forme, nei suoni che lo incarnano. Ogni ente vuole essere letto altrimenti da ciò che è. Non vuole essere essenza, ma potenza e, nel suo “che cos’è”, nella sua essenza, non cessa di urlare silenziosamente la sua esistenza, il fatto “che è”. Ed è questo “che”, fatto, evento, assolutamente singolare, contingente, irripetibile, a “insistere” instancabilmente nel “che cosa”, nell’essenza, rendendola, a un tempo, precaria e preziosa.

Tornando al nostro problema, io propongo di tradurre Erörterung, in modo apparentemente banale, con “definizione”, un termine fortemente compromesso con la metafisica e quindi pericoloso e per certi versi fuorviante, ma non lo è da meno l’Erörterung nella sua corrente accezione di discussione, eppure Heidegger lo usa senza problemi, anche se lo fa seguire da una doviziosa e doverosa chiarificazione. Nel termine definizione vi è l’etimo finis, che indica il limite, i confini, il luogo (il greco oron), limite e luogo, naturalmente intesi nel senso di soglia inesistente, di movimento che porta alla presenza e non di presenza stessa della differenza. Definizione è un termine che proviene dalla metafisica, ma che è stato decostruito nel suo etimo da un pensiero che della metafisica è il superamento, e che perciò, nel mentre risuona familiare e pericoloso nello stesso tempo, disloca il pensiero su un altro registro. Non è una definizione diretta, ma indiretta, obliqua, non dice che cos’è la poesia, ma ne indica il luogo, non ne specifica le determinazioni essenziali, ma accenna al suo evento. Una definizione non concettuale, potremmo dire, usando opportunamente un’espressione ossimorica.

Così intesa comprendiamo meglio, credo, ciò che Heidegger dice, quando afferma che l’interpretazione del termine ermeneutica può trasformarsi, nel pensiero interrogante, non in quello concettuale, in una “definizione”. Non corriamo nessun rischio di pensare che Heidegger si accinga a darci una definizione concettuale dell’ermeneutica, così come ci risulta più chiaro ciò che dice a proposito del discorso sulla poesia di Trakl, ma questo vale per ogni discorso (anche questo termine, naturalmente va sottratto alla sua comprensione corrente) sull’arte. Heidegger vuole “definire” la poesia di Trakl, vuole tracciarne i confini, l’orizzonte di apparizione: indicare il luogo del suo evento, interrogare il suo prodursi, in un colloquio precario ma necessario fra pensiero e poesia.

La “definizione” di ermeneutica

Erörtern la poesia di Trakl, la pittura di Cezanne, la musica di Mahler è una “definizione” in questo senso, un loghismos nothos, un discorso bastardo, indiretto, obliquo che vuol cogliere al di là dei sensi, ma anche dell’intelletto, o forse al di qua, l’annunciarsi stesso di quella poesia, di quella pittura, di quella musica, quell’annunciarsi che appartiene all’etimo originario di ermeneuein, dal dio greco hermes, il messaggero degli dei. Il linguaggio è ermeneutico non in quanto interpretazione del mondo, ma in quanto suo annunciarsi.

H: Quello che si trattava e si tratta era di evidenziare l’essere dell’essente: certamente non più alla maniera della metafisica, ma in modo che l’Essere stesso si manifesti. L’Essere stesso, ciò significa: la presenza di ciò che può farsi presente, vale a dire la Differenza dei due momenti sulla base dell’unità. È questa Differenza che esige l’uomo per la propria essenza.

T: L’uomo è pertanto uomo in quanto corrisponde alla parola della Differenza e la annuncia nel messaggio che ad essa la Differenza ha affidato.

H: Ciò che predomina e regge nel rapporto dell’essenza dell’uomo con la Differenza è perciò il Linguaggio. È questo che determina il rapporto ermeneutico. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 105)

Il punto fondamentale è la frase: “è questa Differenza (Zwiefalt: reciproco implicarsi) che esige l’uomo per la propria essenza”. L’essere, in quanto venire alla presenza, in quanto annunciarsi di ciò che è presente e della presenza, esige, ha bisogno di un corrispondere a questo annuncio, e questo è il linguaggio. La parola, prima di essere funzione segnica, comunicativa, denotativa, è un cenno che accoglie l’annuncio, senza il quale le cose sarebbero mere cose, il mondo mera oggettività. Al di là dell’irritante stile auratico, non c’è nulla di mistico o di misterioso in quanto detto qui. O meglio, forse il misterioso sta proprio in questa funzione disvelante del linguaggio, nel paradosso per cui un pezzo di mondo, perché tale è la parola in quanto suono fonetico o grafema, ha il compito di annunciare e accogliere il farsi stesso del mondo. In questo paradosso, che solo un discorso bastardo può “definire”, si annida il destino metafisico del linguaggio stesso, la sua reificazione concettuale, la storia dell’essere come oblio della differenza fra essere ed ente. Ma in questo paradosso si custodisce anche la differenza, a pensare la quale tanto più si è vicini quanto più la metafisica si è compiuta.

L’uomo, quindi, è uomo in quanto sta nel rapporto ermeneutico con la Differenza. C’è qui un pericolo, quel pericolo di fraintendimento concettuale che mai smette di insidiare il pensiero, ed è il modo in cui viene inteso il termine rapporto.

H: Il pericolo è la parola “rapporto”. Noi siamo soliti pensare il rapporto nel senso di relazione. Noi possiamo determinare tale concetto in senso meramente formale e usarlo come simbolo matematico. Pensi al modo di procedere della logistica. Ma nella frase: l’uomo sta nel rapporto ermeneutico con la Differenza possiamo però anche sentire la parola “rapporto” in senso totalmente diverso. Siamo anzi costretti a sentirla così, se veramente pensiamo quel che veniamo dicendo. Questo esser costretti e insieme capaci non è, verosimilmente, immediato, ma vi si giunge col tempo, dopo lungo meditare. (M. Heidegger, Da un colloquio …, p. 107)

Vero, lo stesso vale per il termine “definizione”, che abbiamo scelto per tradurre Erörterung. Dopo il lungo meditare e interrogare che abbiamo fatto, siamo costretti a pensare quel termine in un senso diverso da quello solito proprio della metafisica. Così vale per “rapporto”, in tedesco Bezug. La traduzione è un esercizio difficile e rigoroso, una disciplina del pensiero che non ammette né sciatterie né protagonismi. Con il termine rapporto, ad esempio, potremmo essere spinti da un realismo più realista del re a cercare nella nostra lingua un termine che lo dica diversamente da quel senso così metafisicamente compromesso. E allora, vedendo che in tedesco il significato primario di Bezug è quello di guarnizione, provare a pensare l’uomo, o meglio il suo linguaggio, come la “guarnizione” che tiene uniti la presenza e ciò che è presente, poco preoccupati della prosaicità del termine, dal momento che lo stesso Heidegger non ha esitato a prendere alcune delle parole fondamentali della sua filosofia dal linguaggio degli oggetti più umili, ripensandoli profondamente nel loro significato. Valga per tutti, ad esempio, il termine Gestell, che significa correntemente scaffale. Ma, se scegliessimo questa via, faremmo solo un vano esercizio di imitazione esteriore, cercando parole senza necessità alcuna, ancora una volta moltiplicheremmo la dispersione babelica della lingua anziché ricomporla. Saremmo ridicoli, obbedienti a estrinseche analogie, a epidermiche assonanze semantiche, preda di protagonismo, scimmie, non pensatori. Per cui rapporto va benissimo, anche perché, come dice bene Heidegger, nel corso di una meditazione, di un pensiero interrogante, siamo costretti a pensarlo in un modo diverso da quello corrente.

Subito dopo aver colto e nello stesso tempo scongiurato nella parola Bezug, rapporto, un pericolo, il colloquio, tuttavia, esige l’abbandono di tale termine, non in favore di un termine più preciso, ma più disvelante, un termine, un’espressione, che comunque, avrà bisogno di Erläuterung, di interpretazione per trasformarsi in una definizione, Erörterung.

H: Non ci è più lecito dire rapporto o relazione con la Differenza, perché questa non è un oggetto del nostro conoscere rappresentativo, bensì l’affermarsi dell’assoggettamento liberante.

T: Affermarsi, che noi non siamo tuttavia mai in grado di esperire immediatamente, finché ci raffiguriamo la Differenza come un di-stacco, possibile a evidenziarsi in un processo comparativo che si sforzi di tenere contrapposte cosa presente e presenza di essa. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 108)

Heidegger ora traduce Bezug con “affermarsi di un assoggettamento liberante”. Ciò che nel termine “rapporto” è insufficiente non è tanto la considerazione ontica in cui i differenti rischiavano di essere colti, quanto l’onticizzazione della stessa differenza. La differenza non è qualcosa di essente, qualcosa che viene posto dall’osservatore, bensì il lasciar essere, l’accogliere il farsi stesso della differenza. La differenza non è oggetto che si dia a un soggetto, ma quel nulla al quale i differenti, proprio nel loro essere tali, sono soggetti. Come viene detto più sotto in questa stessa pagina, il linguaggio è rapporto (Heidegger riprende il termine, che può tornare a essere usato dopo la precisazione fatta sopra. Poco prima lo stesso filosofo aveva ribadito la necessità di soppesare con cura ogni parola, non per pignoleria linguistica, ma per lasciare che in questa oscillazione semantico-etimologica si liberi la sua essenza) con il potere della differenza e questo termine, potere, da intendersi come potenza di far essere è il termine decisivo. La differenza non è, non ha essenza, perché essa è potenza, non è il tratto distintivo, ma il tracciarsi della distinzione. Nel rapporto ermeneutico con la differenza ciò che viene superato è la posizione stessa della soggettività, in quanto momento culminante della metafisica e delle connesse manifestazioni allora dominanti nel panorama filosofico, come i concetti di espressione, di Erlebnis, tradotto con esperienza vissuta, indicante la relazione del vissuto a un io.

Il “superamento” della metafisica

Nessuno può sottrarsi d’un balzo alla cerchia delle idee dominanti, tanto meno lo può, quando si tratta di strade che il pensiero si trova a battere da lungo tempo, e che, parendo perciò naturali, non richiamano l’attenzione. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 110)

Sottrarsi alle idee dominanti  non ha un significato necessariamente progressista. Heidegger, qui, non sta preconizzando il nuovo, un superamento della metafisica nella scienza, ad esempio, à la Carnap, ma, al contrario, invita a ripensare in modo più originario ciò che è stato, a “ripetere” la storia del pensiero, a ritornare a quelle tracce che rimandano il pensiero alla sua sorgente e qui il termine fondamentale è traccia (Spur), già trovato e da noi contrapposto a segno e indizio.

L’Überwindung della metafisica da parte di Heidegger si gioca sul concetto di traccia. Nel pensiero metafisico si conservano tracce della sorgente stessa da cui la metafisica proviene, tracce che non appartengono alla soggettività del pensatore, che non sono quindi arcaismi che possono declinare il suo pensiero in una direzione regressiva anziché progressiva. La traccia non rimanda all’altro come un segno, ma in essa vige l’altro. È ancora una volta il linguaggio, la parola a costituire la chiave di volta del discorso: essa, lasciata impensata e assunta nel ridotto ruolo segnico-comunicativo in cui vige nel pensiero metafisico, ci oscura la sorgente stessa del nostro pensiero, mentre ripresa, ripetuta nel suo etimo, qualcosa di più e di diverso, come abbiamo visto, di un fatto puramente linguistico, pensata e “soppesata nella pienezza del suo per lo più nascosto significato”, ci rimette, come un’eco lontana, in presenza del da-pensare.

Rivolgersi nel pensiero metafisico alle tracce in esso presenti non significa ripensare l’antico, nel caso della filosofia occidentale ripensare la sua origine greca, dal momento che questo sarebbe uno sguardo retrospettivo, storico solo in apparenza, in realtà storicistico. Non significa riscoprire l’attualità di Platone o dei presocratici nel mondo moderno, in una nostalgica e alla fine dei conti reazionaria operazione di rifiuto della modernità. Per quanto tutto in Heidegger, il suo stile, la sua figura fisica, le sue preferenze, le sue idee politiche, fossero intrise di autentico spirito reazionario, questo tuttavia appartiene all’uomo e nulla ha a che fare con quanto sta dicendo qui. Le tracce non sono vestigia o reliquie, il ripetere la filosofia greca non nasce da un atteggiamento da storico antiquario nel senso in cui Nietzsche adopera il termine nella Terza Inattuale. Ciò che Heidegger propone è un pensiero radicale. E pensare radicale significa pensare, non il pensiero greco, come è improvvidamente tradotto, ma il grecamente pensato, ciò che il pensiero greco ha pensato, in modo ancora più greco. Perché non va bene la traduzione “pensiero greco”? Perché porta con sé l’irrigidirsi del filosofare in un corpus di dottrine elaborate in un determinato periodo storico, che sarebbe il nostro presupposto culturale a cui dovremmo ritornare. Ancora una volta un atteggiamento antiquario anziché radicale. Non si tratta di ripensare, magari migliorandole o approfondendole, se ne siamo capaci, le dottrine di Eraclito o di Parmenide, ma di pensare lo stesso che hanno pensato loro, lo stesso che ha guidato la nascita del loro pensiero, non di pensare come loro o meglio di loro.

La verità come aletheia, come dis-velamento e non come correttezza ed esattezza, è ciò che i greci hanno pensato, è quel da-pensare che già custodiva la sua storia come oblio di tale disvelatezza. La ripetizione del pensiero metafisico, che è anche il suo superamento, esige da noi un linguaggio, delle parole, che sappiano corrispondere a tale appello, come corrispondevano quelle greche, tuttavia parole che devono essere altre da quelle greche. La ripetizione della metafisica a partire dal suo inizio greco è una “traduzione” di tale inizio nelle parole della fine della metafisica. Quindi deve essere un colloquio con i pensatori antichi che si svolga allo stesso modo di quello fra Heidegger e Tezuka, dove, solo se entrambi pensano lo stesso, l’essenza del linguaggio, a partire da provenienze diverse, il linguaggio come dimora dell’essere potrà essere “tradotto” in giapponese.

T: Qual è il suo rapporto con il pensiero dei greci?

H: Il compito che si pone al nostro pensiero odierno è quello di pensare il grecamente pensato ancora più grecamente.

T: E di capire così i greci meglio di quanto essi non abbiano capito se stessi.

H: Questo non direi, ché ogni grande pensiero comprende sempre benissimo se stesso, cioè comprende sé nei limiti che gli sono assegnati.

T: Che può allora voler dire pensare il grecamente pensato più grecamente?

H: Non è difficile chiarirlo, se si ha l’occhio all’essenza dell’apparire. Se lo stesso esser presente è pensato come apparire, allora domina nell’esser presente un emergere all’aperto nel senso del non esser nascosto. Tale non esser nascosto si realizza in un disoccultare inteso come rischiarare, sennonché proprio questo rischiarare resta, come evento, sotto ogni riguardo non pensato. Impegnarsi a pensare tale non-pensato: questo significa perseguire il pensiero greco in modo più originario, scoprirlo nell’origine del suo autentico essere. Lo sguardo che consente tale scoprimento è a suo modo greco ma, considerato in rapporto a ciò di cui consente lo scoprimento, non è più né mai più potrà essere greco. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 112-113)

Pensare più grecamente viene clamorosamente e inaspettatamente frainteso da Tezuka nel senso di più chiaramente. Pensare più grecamente significherebbe pensare e capire la filosofia greca meglio e più chiaramente di quanto i greci stessi abbiano fatto. È il modo più sbagliato di intendere la famosa espressione “pensare il non detto, il non pensato di un autore”. Interpretare un autore significa chiarire il suo pensiero. Questo non avviene quando tale pensiero assume la veste di una dottrina, perché ogni dottrina è un sistema di risposte, di soluzioni, che nasconde, nel suo carattere definitivo, i problemi, le domande. Il modo di interpretare un autore esponendone il pensiero come una dottrina, mostrandone le articolazioni logico-argomentative, i presupposti storico-sociali-biografici, le conseguenze su altri pensatori successivi è un’utile attività informativa, per certi versi anche necessaria, per evitare di lasciar volteggiare i pensatori  in un astratto vuoto, ma costituisce semmai un appoggio all’interpretazione, ma con l’interpretazione non ha nulla a che fare. Né tantomeno ha a che fare con l’interpretazione assumere il pensatore e le sue idee come pretesto su cui appoggiare il “vero testo”, che sarebbe quello costituito dalle nostre teorie, dalle teorie dell’interprete o sedicente tale, con la giustificazione che il nostro testo sarebbe in qualche modo implicito nel pretesto dell’autore.

È il senso greco della verità come dis-occultamento che deve essere pensato, non più, però, in quanto semplice presenza, ma in quanto venire alla presenza. Pensare la verità al di là della sua declinazione metafisica come esattezza, ma anche al di là della sua provenienza greca come presenza, di cui la verità come esattezza è una modalità. Al di là non significa “meglio” o “più profondamente”, ma “più originario”. Ed è a questa maggiore originarietà che la nostra provenienza, la nostra storia, ci invita. E allora “più grecamente” vuol dire: pensiamo ciò che i greci hanno pensato (il nostro sguardo è greco) in un modo in cui i greci non potevano assolutamente pensarlo (il nostro sguardo è irriducibile, riguardo all’essenza di ciò che deve essere pensato, allo sguardo greco). Ogni pensiero, qualunque pensiero, pensa sempre entro dei limiti e, in tali limiti, pensa propriamente il da-pensare. Ciò che i greci non potevano pensare non indica pertanto una loro limitazione, nel senso di una imperfezione del loro pensiero, che noi finalmente possiamo colmare, ma al contrario una loro perfezione, che noi dobbiamo imitare, nel senso in cui il genio kantiano suscita imitatori, che non sono epigoni che ripetono più o meno virtuosisticamente le sue forme, ma altri geni, dotati della stessa forza creativa e che, pertanto, fanno lo stesso solo creando forme nuove. Seguire le tracce, allora, è il senso autentico della ripetizione della metafisica e significa corrispondere a un’eco che vale la pena ascoltare. Un’eco che è, come dice Tezuka, un’affinità segreta che stringe l’uno all’altro ogni autentico pensiero, proprio nell’apparire di una distanza incolmabile, irriducibile.

L’iki come grazia

T: A questo punto, dopo quanto si è detto, io temo, più ancora di prima, che ogni interpretazione dello iki finisca col cadere nei lacci del pensiero rappresentativo estetico.

H: Si tratta di provare.

T: Lo iki è la grazia. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 116)

Singolare in Tezuka il contrasto fra l’esitazione e il timore di definire esteticamente l’iki e il carattere perentorio e davvero esteticistico della sua definizione: l’iki è la grazia, Anmut. Grazia, uno dei termini più “compromessi” con l’estetica, come Heidegger pone subito in rilievo, richiamando il celebre saggio di Schiller, Grazia e dignità, un saggio del 1793 che non ha mancato di influenzare tutto il pensiero estetico dell’epoca, compreso, naturalmente quello di Hegel. In questo saggio Schiller assegna la dignità al sentimento del sublime e la grazia alla bellezza. L’uomo nel quale si realizza l’armonia tra ragione e istinto e che perciò agisce moralmente per istinto è l’anima bella, la cui espressione naturale è la grazia, cioè la bellezza in movimento. Sarebbe ben strano se l’iki, di cui si è tanto discusso, finisse i suoi giorni “intrappolato” in questo concetto così occidentale, così tedesco, così preromantico. Per questa sua vincolante determinazione, grazia non sembra nemmeno un termine capace di essere accolto, pur dopo una profonda meditazione, con un’accezione diversa da quella in cui l’estetica l’ha prodotto. A seguito di questo richiamo da parte di Heidegger, Tezuka giunge infine alla traduzione vera.

T: Senza pretendere di uscire dall’approssimazione, posso nondimeno tentare di sottrarre lo iki, tradotto ora con “grazia”, al dominio dell’estetica, vale a dire della relazione soggetto-oggetto. Io intendo in questo momento grazia non come fascinazione […]

H: Non dunque come qualcosa che rientra nel dominio del piacevole, delle impressioni, della aisthesis, bensì? […]

T: Bensì piuttosto nella direzione opposta; ma capisco, con questa indicazione rimango ancora irretito nell’ambito dell’esteticità. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 116)

La direzione opposta a quella dell’esteticità, proprio in quanto opposta e speculare, è ancora determinata dall’esteticità. Heidegger, tuttavia, decide che tale proponimento antiestetico, inserito naturalmente in un colloquio che si è costituito proprio sul rigetto dell’estetica in quanto tale, basti e possa consentire a Tezuka di tentare finalmente una “definizione”, una traduzione vera di questo termine fondamentale del mondo giapponese.

H: Tenendo presente questa riserva, Ella può nondimeno tentare quel chiarimento.

T: Lo iki è il soffio della quiete che luminosamente rapisce.

H: Ella intende allora il rapimento nel significato proprio della parola, come un sottrarre e un trascinare: trascinare appunto nella quiete.

T: In tutto questo non c’è ombra di  fascinamzione o di impressione.

H: Il rapimento è della specie di un accennare che distoglie, addita e invita. [Distogliere, additare, invitare (fort-, hin-, her-, winken)]

T: Ma il cenno è il messaggio di quel rischiarante occultamento.

H: Ogni esser presente avrebbe così la sua origine nella grazia, intesa come il puro rapimento della quiete che chiama. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 116)

La definizione di iki può a prima vista sconcertare, non solo perché in essa rientrano parole come soffio, quiete, rapimento, che vengono a costituire una costellazione dal vago sapore poetico, ma anche per il fatto, anzi, soprattutto per questo, che l’iki sarebbe ciò da cui ogni cosa presente trova la sua origine. Osserviamo, per ora, che il rapimento dell’iki è della stessa natura del cenno che distoglie, come viene detto più sotto, ciò che in termini heideggeriani significa un “distogliere” dal rapporto ontico con il mondo, per “invitare” al rapporto ontologico.

La traduzione giapponese di linguaggio

E finalmente, dopo una serie di digressioni essenziali, in risonanza con la traduzione di iki, Tezuka sente di poter dare anche la traduzione di linguaggio in giapponese, una traduzione che svelerà quelle segrete affinità per le quali ogni autentica tradizione richiama l’altra.

T: Quella parola [la parola che dice “linguaggio”] è koto ba.

H: E che significa questo?

T: Ba indica le foglie o anche, e specialmente, i petali. Pensi alla fioritura di un ciliegio o di un susino.

H: E che significa koto?

T: Rispondere a questa domanda è estremamente difficile. Cionondimeno il tentativo di rispondervi resta facilitato dal fatto che abbiamo osato chiamare lo iki come il puro rapimento della quiete che chiama. Il respiro della quiete, dalla quale nasce questo rapimento appellante, è la forza che fa che quel rapimento avvenga. Ma koto indica sempre al tempo stesso quel che di volta in volta rapisce, ciò che si manifesta con la pienezza del suo incanto, di volta in volta unico, nell’attimo irripetibile.

H: Koto sarebbe allora l’evento del messaggio rischiarante della grazia. (M. Heidegger, Sa un colloquio …, p. 117)

Con queste parole di Tezuka Heidegger si sente in immediato accordo e coglie una vera risonanza, una profonda corrispondenza, fra il proprio modo di pensare l’enigma del linguaggio e la via orientale verso questo problema. Koto ba: koto è il messaggio, o meglio, l’evento del messaggio; se ba sono le parole, koto è allora il portarsi avanti di queste parole, il loro costituirsi in invito-a, in messaggio, appunto. Ma proprio in quanto si fa messaggio, per ciò stesso koto vigila, custodisce il linguaggio che fiorisce. L’espressione va colta proprio nella sua letteralità, senza alcun significato metaforico. Tezuka non intende dire che il linguaggio, il prodursi delle parole, è come una fioritura: il fiore non è una metafora della parola. Qui, con buona pace di Heidegger, l’italiano ci aiuta: la parola e il fiore hanno lo stesso movimento, quell’uscire all’aperto, quel portarsi alla luce e apparire, che è indicato dall’italiano “affiorare”. Perché Heidegger sente questa espressione koto ba, il linguaggio come il fiorire di un messaggio, consonante con l’essenza del linguaggio che lui stesso ha pensato? In un saggio compreso in questo testo, L’essenza del linguaggio, commentando una strofa, la quinta, della lirica di Hölderlin Germanien, Heidegger incontra la “definizione” di linguaggio come “fiore della bocca”, ed egli commenta:

Il linguaggio è il fiore della bocca. In esso fiorisce la terra di rimando alla fioritura del cielo. […] Resteremmo impigliati nella metafisica, se prendessimo l’espressione hölderliniana “parole come fiori” per una metafora. (M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 162-163)

La metafora, infatti, come abbiamo già notato, è di per sé una frattura, una separazione: il mondo di là e di qui le parole che lo indicano.

Le cose, i fiori, vengono fuori, si aprono all’Aperto, portate dal suono di una parola che le chiama a essere quello che sono, facendoci così sentire tutto il loro sapore di cose. Come se la parola, qui, non più metafora, si facesse simile al dito di Gutei, di cui abbiamo già parlato: parola che recede dal parlare-su, dal dire-di, per farsi realtà che appare, mondo che fiorisce, come se il mondo riuscisse a essere finalmente, pienamente mondo, solo grazie a questa parola-fiore, a “quel dito” che tacendo si solleva.

Ogni affiorare è un venire alla presenza. Donde viene questo fiore, da dove il linguaggio? È l’iki la provenienza, la quiete, o meglio, la grazia che ci invita alla quiete. Grazia, naturalmente, sottratta a ogni accezione estetica e riportata all’etimo greco di charis, una grazia generante che guida lo scaturire del messaggio del disvelarsi della differenza. Siamo in un punto del colloquio, dove il linguaggio immaginifico, che non vuole tuttavia essere tale, rischia di compromettere la comprensione affidandola piuttosto a un sentire e a un sentimento. C’è in Heidegger, particolarmente accentuato nelle ultime opere, una caduta nello stile ieratico e criptico che non è solo modo linguistico, ma condiziona profondamente la sua stessa filosofia, dandone e il tono e la sostanza. Tuttavia questo non ci deve impedire di leggere, non “oltre” questo stile, ma “in” esso. Il linguaggio è il fiore della bocca, sono petali che fioriscono dalla quiete, quiete alla quale ci richiama la grazia, non come ciò che attrae o affascina per la piacevolezza del suo aspetto (il tedesco Anmut, il verbo anmuten indica il far effetto), ma nel senso greco-sofocleo del termine, charis, la generante (il tedesco Huld), come ciò che merita rispetto, ciò a cui si rende omaggio (il verbo huldigen indica appunto il rendere omaggio).

In questo articolato e intricato plesso semantico l’attenzione va rivolta al movimento dell’affiorare. Il linguaggio, sottratto a quella funzione comunicativa e denominativa, che consiste nel dire le cose presenti e la presenza delle cose, funzione mondana in cui già da sempre il linguaggio si aliena nel clamore delle cose, è invece accenno che nel suo affiorare accoglie la forza che traccia il mondo. Dire originario, dunque, non derivato, nominazione originaria. Un affiorare che corrisponde al rapimento della quiete e che non ha nulla del fascino generato da ciò che è, perché è la forza del fondo che in ogni ente si dona. L’iki, allora, è questa forza quieta, silenziosa, la grazia generante che traccia il mondo, è ciò che fa fiorire il linguaggio, ciò che ne guida il movimento stesso, in forza del quale le cose e le parole che le nominano “sono”.

Alla luce di queste nuove definizioni-traduzioni, il linguaggio come koto ba può essere ulteriormente chiarito ripensando, ridefinendo, traducendo la coppia iroku, che avevamo visto all’inizio del colloquio, intendendola non più come una riproduzione giapponese della coppia metafisica fondamentale aisthetonnoeton, ma in un modo assolutamente diverso.

T: Ella ricorda certo il punto del nostro colloquio in cui io le indicavo le parole giapponesi che si presume corrispondano alla distinzione aisthetonnoeton: iro e ku. []

H: A che cosa accennano queste parole?

T: A ciò donde si genera la reciproca contrapposizione delle due.

H: E questo è?

T: Il koto, l’evento del messaggio rischiarante della grazia generatrice.

H: Che dice allora koto ba come nome del linguaggio?

T: Ascoltato sull’indicazione di questa parola, il linguaggio è: petali che fioriscono da koto. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 118)

La sintonia, che non significa identità ma consonanza, fra Heidegger e Tezuka, fra Occidente e Oriente, non potrebbe essere più completa, una sintonia che si svela non ad analisi scientifiche e comparative, ma nell’ascolto del linguaggio e di ciò a cui esso accenna. Il koto è l’aprirsi, il divaricarsi, il luogo inesistente che traccia l’apparire del mondo e delle sue articolazioni. E così Heidegger giunge a una nuova parola originaria per dire il linguaggio, una parola ancora una volta presa dal linguaggio corrente, ma spostata di significato, o meglio, ripensata nel suo significato originario e posta in connessione a un’altra parola che appartiene alla galassia semantica legata al mostrare, all’accennare, all’indicare.

H: “Die Sage”. Essa indica il Dire originario, quel che è detto da questo dire, quel che ha da esser detto.

T: Ma che significa sagen?

H: Probabilmente lo stesso che zeigen nel senso del lasciar apparire, lasciar risplendere; tutto questo, però, nella forma dell’accennare. […] Volgendo la sguardo all’essenza del dire originario, il pensiero inizia quel cammino che ci sottrae al pensare puramente rappresentativo della metafisica, per farci attenti ai cenni di quel messaggio, di cui vorremmo diventar messaggeri. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 118-119)

La differenza fra Occidente e Oriente

In Heidegger l’ontologico, l’essere, è colto nella parola, nel linguaggio, mentre per il Tao l’ontologico, che è il nulla, il vuoto, si coglie nel silenzio, nella quiete. Entrambi i movimenti sono un “passare” da un “luogo”, dove “ci sarebbe” l’essere o il nulla, a un altro, dove ci sarebbero gli enti, le cose. Né l’essere né il nulla, in realtà, ci sono, perché solo gli enti determinati, le cose, gli enti reali ci sono. E tuttavia questi ci sono solo grazie al movimento del nulla o dell’essere. È sulla natura di questo movimento che ci dobbiamo interrogare.

Per Heidegger si tratta di un movimento di donazione e nascondimento. Ogni ente determinato è ciò che è in quanto, nelle proprie determinazioni, per così dire, “si cristallizzano” i movimenti, le dinamiche determinanti. L’ente viene alla presenza appropriandosi dell’essere, il quale si dà come “ciò che è”, come semplice presenza, nell’oblio, nel nascondimento, del movimento stesso dell’affiorare. In quanto semplice presenza, l’ente è il modo in cui la metafisica intende l’essere. Il superamento della metafisica, allora, sarà quel pensiero che pensa, con l’essenza di un ente, anche la sua provenienza.

Per il Tao si tratta di un movimento di inversione. Le cose sono ciò che sono perché il nulla si è rovesciato in essere. Se gli enti sono la metamorfosi del nulla, pensare non significa più pensare l’essere nella sua differenza dall’ente, tenendoli comunque assieme nella co-appartenenza, ma svuotare l’ente, per ritrovare il nulla che ogni ente determinato è. È solo in forza di questo “svuotamento” dell’ente che il mondo può apparire come ciò che proviene dal vuoto. Ricordiamo le parole del Colloquio:

un contemplare che per sé sfugge ad ogni percezione visiva, il quale si fissa con tanta concentrazione nel vuoto che in questo e per virtù di questo la montagna appare. (M. Heidegger, Da un colloquio …, cit., p. 97)

In quanto Zwiefalt, reciproco implicarsi di essere ed ente (“traduzione” heideggeriana della parmenidea identità di pensiero ed essere), il movimento ontologico può essere “detto” dal logos, dal linguaggio. Anzi, sussiste sempre e solo in quanto logos. È il pensiero, infatti, che accoglie la differenza fra essere ed ente (non si dà essere, se non in quanto presenza al pensiero) e il modo in cui l’accoglie è quello del linguaggio. È questo il senso dell’espressione heideggeriana: linguaggio come dimora dell’essere: non c’è verità (a-letheia), se non nel logos. Il vuoto orientale, invece, è inversione di presenza in assenza, “co-incidenza” che nessun linguaggio può accogliere. Lo zen propone, come “esercizio di svuotamento” i koan, enigmi insolubili, per i quali non c’è parola o linguaggio. Lo sprofondare del linguaggio nell’insensato com-porta l’apparire della verità. Perciò il pensiero orientale si congeda da ogni linguaggio, nei cui confronti opera un movimento inverso rispetto a quello heideggeriano: non più in-cammino-verso, ma in-cammino-via-da. Se verità e realtà co-incidono, infatti, non c’è più bisogno di un “luogo” in cui accogliere la differenza e il vuoto, diversamente dall’essere, può apparire solo fuori da ogni logos. Pensiero ed essere non si co-appartengono, ma co-incidono, uomo e mondo cessano di essere due, sia pure nella reciproca transpropriazione in cui Heidegger li intende, per diventare lo stesso, senza tuttavia alcuna fusione di tipo mistico. Il pensiero che perde la parola, infatti, non si consegna all’oscuramento della confusione, ma a una diversa illuminazione, quella che gli garantisce il corpo, trasformato in corporeità pensante. Al rapporto “ermeneutico” con l’essere si sostituisce il rapporto “somatico” con il nulla, che viene sentito, visto, percepito. Mentre Heidegger, nel silenzio degli enti, ascolta la voce dell’essere, l’Oriente, nel tacere di ogni linguaggio, vede la co-incidenza di sé e mondo nel vuoto che entrambi sono.

Nell’ultimo Heidegger la parola originaria è quella del poeta, il quale non cerca la parola che serve, la parola della comunicazione che serve per dire gli enti, ma quella che dice il linguaggio stesso, cioè l’apertura all’essere e la provenienza dell’ente. La parola poetica non si serve del linguaggio, ma, nell’ascolto, lo lascia essere e in questo ascoltare vige la differenza di uomo e mondo, quella differenza per cui ogni parola non è mai parola piena dell’essere, ma accenno all’essere.

In Heidegger la parola, il linguaggio, che pure è la dimora dell’essere, è sempre difettiva: o semplicemente definisce l’ente, irrigidendosi nella funzione meramente segnica del “nome comune” in cui l’ontologico svanisce e si oblia, o ascolta (e “definisce” nel senso di erörtern) l’essere, ma può farlo solo negli enti in cui si dà. Perciò la parola poetica è quel suono che, nella sua strutturale “mancanza”, porta con sé il silenzio “da cui” proviene.

Lo svuotamento in cui consiste la corporeità pensante, invece, è in primo luogo un mettere a tacere la parola. Se tutto è vuoto, anche la parola, come ogni altra cosa, è vuota. Ma il silenzio in cui il vuoto si dà non è, come già abbiamo ricordato, il silenzio mistico. Pensiamo agli haiku giapponesi, componimenti poetici di straordinaria concisione (diciassette sillabe). Sono poesie, quindi sono “fatti” di parole, ma la parola non è più ascolto della differenza, ma co-incidenza con la cosa, fatta della sua stessa materia, quindi parola vuota. Ed è come parola vuota, fatta della stessa sostanza della montagna, della farfalla, dello stagno e del corvo, che è parola poetica. In questa parola, che non è solo detta, ma forse, prima ancora, dipinta, il vuoto che essa porta, si lascia cogliere sensualmente, come il vuoto delle cose che essa “indica”.

Alcuni esempi famosi di haiku, purtroppo penalizzati dalla mancanza del testo giapponese, in cui propriamente si danno: 1) Un’unica farfalla svolazzante e aleggiante nel vento; 2) Con il profumo di susini sulla strada montana, all’improvviso viene l’aurora; 3) Tumulo, trema pure! La mia voce gemente, il vento d’autunno; 4) Un antico stagno, vi salta una rana, il suono dell’acqua; 5) Su un ramo calcinato s’è posato un corvo, crepuscolo autunnale; 6) Bacche di pepe rosso! Date loro ali e sono libellule.

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