L’Estetica di Hegel – 1

Introduzione

Parlare oggi di Hegel significa scegliere l’inattualità. Hegel appare, infatti, come il filosofo sistematico per antonomasia, preda di un’ambiziosa illusione, quella di scrivere la parola fine alla storia dell’uomo e delle idee e di mettere il suo pensiero a coronamento del lungo e tormentato percorso della storia della filosofia. Il filosofo che, con la dirompente forza del suo metodo dialettico e con la potenza dissolvente del negativo, ha saputo costruire un sistema onnicomprensivo e totalizzante.

Nel bene e nel male Hegel ha dominato due secoli di storia della filosofia, sia per l’indiscutibile forza del suo pensiero, sia per il suo indissolubile nesso con il marxismo, a cui ha fornito la sostanza concettuale. Il crollo del marxismo, il suo “passare” da discorso obbligato e alla moda a emblema di ogni irrigidimento dogmatico e ideologico nella lettura delle dinamiche sociali, ha trascinato con sé inevitabilmente anche Hegel e la dialettica. Quando oggi si parla di Hegel, lo si fa spesso, troppo spesso, solo per opporsi al suo pensiero, che diventa così modello negativo di ogni violenta dittatura del sistema e dell’ideologia.

La Prefazione di Differenza e ripetizione si apre proprio con una programmatica dichiarazione di ostilità verso Hegel: se Platone è il nemico per eccellenza, con il quale tuttavia Deleuze non cessa di incontrarsi segretamente, Hegel è solo il nemico e nient’altro e il suo sistema sembra essere il compendio di ciò che va combattuto, a cominciare da quello che Deleuze individua come il tema fondamentale dell’hegelismo, la contraddizione e la negazione.

L’argomento qui trattato è manifestamente nell’aria e se ne possono rilevare i segni: l’orientamento sempre più deciso di Heidegger verso una filosofia della differenza ontologica; l’esercizio dello strutturalismo fondato su una distribuzione di caratteri differenziali in uno spazio di coesistenza; l’arte del romanzo contemporaneo che gira attorno alla differenza e alla ripetizione, non soltanto nella sua riflessione più astratta, ma nelle sue tecniche effettive; la scoperta nei campi più svariati di una propria capacità di ripetizione, che sarebbe anche quella dell’inconscio, del linguaggio, dell’arte. Tutti questi segni possono essere ricondotti ad un antihegelismo generalizzato: la differenza e la ripetizione hanno preso il posto dell’identico e del negativo, dell’identità e della contraddizione. Difatti la differenza non implica il negativo e non si lascia portare fino alla contraddizione, se non nella misura in cui continua a subordinarla all’identico. (Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione,, Raffaello Cortina editore, Milano, 1997, p. 1)

In realtà, nessuna lettura della modernità, in tutti i suoi aspetti, può prescindere da una profonda comprensione del pensiero di Hegel e da un’attenta lettura dei suoi testi, non solo di quelli specificamente teoretici, ma anche di quelli, come l’Estetica, dedicati a “discipline” filosofiche particolari.

A questo proposito, sono assolutamente condivisibili le parole di Merleau-Ponty, da Senso e non senso

Hegel è all’origine di tutto quello che si è fatto di grande in filosofia da un secolo a questa parte. Per esempio del marxismo, di Nietzsche, della fenomenologia e dell’esistenzialismo tedesco, della psicanalisi … Si potrebbe dire senza paradossi che dare un’interpretazione di Hegel significa prendere posizione su tutti i problemi filosofici, politici e religiosi del nostro secolo. (cit. in G. F. W. Hegel, Arte e morte dell’arte, antologia dell’Estetica, a cura di P. Gambazzi e G. Scaramuzza, Bruno Mondadori, Milano, 1997, p. 2, d’ora in poi citato con la sigla AMA seguito dal numero della pagina)

L’Estetica di Hegel, curata da Hotho, è la raccolta dei vari cicli di lezioni che il filosofo nel corso degli anni ha dedicato all’arte. è un testo di grande fascino filosofico. Come ogni autentica opera filosofica, è un “mondo”, sovrabbondante, lussureggiante, sterminato. La cultura richiesta per leggerla e apprezzare gli esempi che in essa si trovano è davvero enciclopedica: tutte le esperienze artistiche dell’umanità, dalle più antiche a quelle contemporanee a Hegel sono presenti. Come ogni mondo, mostra gli aspetti più vari, contraddittori, luminosi, oscuri, offre squarci geniali e inattese banalità, analisi raffinate e farneticazioni irriscattabili. Presentare questo “mondo”, la sua ricchezza e la sua infinita varietà, non è compito facile. I rischi sono quelli di ridurre questa copiosità a una anodina collezione di esempi o di costringerla in schemi asfittici e mortificanti, di inaridire la vita che scorre in ogni pagina in un banale compendio.

Sono solito pensare alle forme logiche, dialettiche, spirituali di Hegel come a forme “mostruose”: forme finite che albergano l’infinito, forme razionali che si nutrono dell’irrazionale, lo metabolizzano, lo digeriscono. In Hegel l’irrazionale feconda il razionale: le grandi figure dello spirito hanno bisogno delle miserie del corpo, se non altro per negarle e da questa negazione guadagnare senso. Il suo sistema compiuto, perfetto, dove tutto si tiene e al di fuori del quale non c’è nulla, ha in sé questa “irrazionalità” indomabile, anzi, forse è questa stessa irrazionalità decantata, purificata, liberata, mediata, che è diventata forma.

Hegel, come Platone e come ogni altro grande filosofo, pensa il reale in tutta la sua ricchezza. Naturalmente, a differenza del filosofo greco, che pensava a ridosso del mito e subiva la contraddittoria pressione dell’eleatismo, da un parte, e della sofistica, dall’altra, Hegel abita un mondo maturo, giunto, come lui stesso credeva, al culmine della propria storia. Mentre Platone impone al reale un modello ideale, che diventerà principio di selezione per il reale stesso, un modello alla cui luce il reale si sdoppierà in un mondo vero, legittimo e un mondo cattivo e ribelle, senza del resto riuscire a esorcizzare i mostri contraddittori del sensibile, anzi, trovandosi costretto a elevare il sensibile, nella forma dell’ambigua ed indicibile chora, a principio “altro” rispetto all’intelligibile, l’operazione che Hegel compie è di natura più totalizzante e conclusiva.

Hegel intende catturare il reale con il concetto, senza mortificarlo in esangui generalizzazioni, perché il concetto non è affatto l’astratta copia della realtà, la sua spettrale generalizzazione.

Per i cosiddetti filosofi della differenza Hegel, come Platone, è un filosofo “nemico” e io credo che questa inimicizia la “meriti” tutta. Come Platone, Hegel è il banditore di un pensiero forte, rischioso nel senso passivo e attivo del termine. Ogni aspetto della realtà subisce l’aggressione implacabile della sua dialettica e, in questa battaglia, il pensiero continuamente rischia tutto se stesso.

Possiamo porre alla base della lettura che faremo di Hegel due concetti, quello di infinito e quello di immediatezza. Il primo gioca un ruolo centrale in tutto il romanticismo, ma in Hegel assume un’accezione peculiare e dirompente, in quanto è compreso in intima unione con i concetti di assoluto e di totalità. Anche l’immediatezza viene ripensata a fondo. Hegel è un filosofo ostile all’immediatezza in quanto tale, ma è anche il filosofo che recupera l’immediatezza in tutta la sua ricchezza, sottraendola all’insignificanza del mero dato e restituendocela “redenta” dallo spirito.

Per Hegel l’immediato è un concetto altamente problematico: è ciò che appare come il più ricco di determinazioni, mentre in realtà è il più povero, è ciò che si presenta come il primo concreto rapporto con il mondo, mentre in realtà è il massimo dell’astrazione, è ciò che va abbandonato e superato, ma solo per ritornarvi. Nel “ritornare” c’è tutto il segreto del concetto di spirito in Hegel. Come ogni grande filosofia, anche quella di Hegel, secondo la propria necessità interiore, non ci porta verso un altro mondo, ma ci rende intimi con il nostro mondo e radicati in esso, ci restituisce ciò che ci è più vicino, liberato dall’alienazione del naturale, del particolare, del “meramente” immediato.

In una delle più citate frasi di Hegel, “il razionale è reale, il reale è razionale”, contenuta nella Prefazione alla Filosofia del diritto, si coglie in massima sintesi il senso più vero del suo pensiero. Per Hegel, il reale, l’effettivo, la Wirklichkeit, non è l’empirico, ma nemmeno la sua intellettualizzazione, due forme astratte e unilaterali, bensì la totalità che unifica soggettivo e oggettivo, non presi nella loro meccanica opposizione o nella loro semplice giustapposizione, ma nel rapporto dialettico che li costituisce come forma spirituale compiuta. Così il razionale non è affatto l’intellettuale, essendo questo irrimediabilmente affetto dall’astrazione, ma il sommamente concreto. Il razionale è ciò che ha superato l’immediatezza e che a essa ritorna per assumerla nella piena autocoscienza.

Come abbiamo detto, in Hegel l’irrazionale feconda il razionale. Le particolarità, le miserie dell’esistenza, verso le quali Hegel tanto giustificato disprezzo mostra, fino a considerarle esistenti, ma non reali, non sono astrattamente e moralisticamente negate o respinte, ma letteralmente “tolte” (aufheben), termine che in Hegel significa, a un tempo, superate e conservate, attraversate.

La filosofia della natura

Introduciamo Hegel a partire dal suo lato più debole, più criticato, giustamente sbeffeggiato, la filosofia della natura. È ben nota l’indifferenza, se non addirittura l’ostilità, che il filosofo tedesco prova nei confronti della natura.

Nei suoi diari parla di un viaggio da lui compiuto nelle Alpi Bernesi, dove non sa trovare nell’aspetto dei ghiacciai nulla di grande e di piacevole e nelle montagne vede solo masse informi dalle quali l’occhio non può ricavare alcun piacere.

L’aspetto di queste masse eternamente morte m’ha dato solo un’impressione monotona e, alla lunga, noiosa.

Nello Zusatz (Aggiunta) all’Enciclopedia delle scienze filosofiche § 268 giunge addirittura a scrivere violente parole contro il cielo stellato, la cui infinità può interessare il sentimento, ma nulla dice alla ragione, perché è l’esterno vuoto, negativo, infinito.

Le stelle non sono che un’eruzione luminosa del cielo, così poco degna di ammirazione dello stesso fenomeno quando appare nell’uomo o di uno sciame di mosche o di un formicaio.

Che uomo è uno che può paragonare il cielo stellato a una eruzione brufolosa del cielo, quale rapporto verso la natura e quale “campanilismo” per la cultura, come scrive Bloch, può avere? Soprattutto se paragoniamo queste parole a quelle mirabili e citatissime con cui Kant apre la Conclusione della Critica della Ragion Pratica:

Due cose colmano l’animo di ammirazione (Bewunderung) e riverenza (Ehrfurcht) sempre nuova e crescente, quanto più spesso e assiduamente sono oggetto di riflessione, il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me (der bestirnte Himmel über mich und das moralischer Gesetz in mir). Entrambi non posso cercarli e meramente congetturarli come se fossero avvolti dalle tenebre oppure come se oltrepassassero il mio orizzonte. Li vedo davanti a me, e li congiungo immediatamente con la consapevolezza della mia esistenza. Il primo inizia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, e amplia la connessione in cui io mi trovo, con mondi su mondi e sistemi di sistemi, incommensurabilmente, per giunta nei tempi illimitati dei loro movimenti periodici, delle loro origini e della loro durata. La seconda inizia dal mio Sé invisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può avvertire (spüren) e con il quale (come peraltro insieme anche con tutti quei mondi visibili, con tale tramite) io riconosco di essere congiunto in una maniera non solo accidentale (come nel primo caso), bensì universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla per così dire l’importanza di me in quanto creatura animale che deve restituire la materia da cui si originò al pianeta (un mero punto nell’universo), dopo essere stata provvista di forza vitale per breve tempo (non si sa come). Invece la seconda veduta eleva infinitamente il valore di me quale intelligenza in virtù della mia personalità, in cui una legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità e persino dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può desumere dal fatto che la mia esistenza sia determinata in senso finale da questa legge, e che tale destinazione finale non sia limitata a condizioni e confini di questa vita, ma vada invece all’infinito.

Non c’è né ammirazione né riverenza in Hegel verso quell’infinito che egli considera non ancora lavorato dallo spirito. Se in Hegel non c’è nessun sentimento estetico della natura, non c’è nemmeno un atteggiamento scientifico verso di essa. Quanta è l’indifferenza per la bellezza e la sublimità della natura, altrettanta è l’ostilità per una considerazione di essa secondo criteri scientifici. Vale la pena riportare alcune “perle” della concezione hegeliana della natura, tratte dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche:

L’aria è un fuoco addormentato; per portare il fuoco a manifestarsi bisogna solo modificare la sua esistenza (§ 282); Il fuoco immerso nel cristallo della terra è una fusione in esso, un’autocombustione in cui il cristallo diventa vulcano. I vulcani non sono quindi da intendere in termini meccanici, bensì come un temporale sotterraneo con terremoto; il temporale è viceversa un vulcano nella nuvola (§ 288); La luna è un cristallo privo d’acqua che cerca, per così dire, di integrarsi al nostro mare, di spegnere la sete della sua rigidità e perciò provoca il flusso e il riflusso. Il mare si innalza, sempre in procinto di sfuggire verso la luna, e la luna è sempre in procinto di strapparlo verso di sé (§ 279).

Dietro tutte queste farneticazioni vige tuttavia la fondamentale convinzione di Hegel che la natura non possa essere scenario indifferente della vita umana. La natura è essenzialmente esteriorità e alterità, ma non mera esteriorità e alterità, non semplice estraneità, perché essa è l’altro dell’idea. È proprio il carattere dialetticamente ideale della natura a renderla incompatibile non solo con la sua riduzione al sentimento e all’inconscio com’era per i romantici, ma anche al meccanicismo, che la rende estranea alla storia.

Lo scopo della filosofia della natura è quello di far sì che lo spirito ritrovi in essa la sua immagine riflessa, anche se la natura è affetta da una manchevolezza essenziale e possiede solo astrattamente le determinazioni del concetto. La natura è spirito alienato, oberato di particolarità, luogo non della libertà, ma della costrizione. L’intelletto, che tutto comprende in base all’esteriorità delle relazioni, ha necessariamente un approccio astratto alla natura, incapace di cogliere il carattere immanente dello sviluppo, secondo il quale il concetto è l’in-sé della natura e la natura è il fuori-di-sé del concetto.

Il trapasso dall’idealità alla realtà, dall’astrazione all’essere concreto determinato e qui dallo spazio e dal tempo alla realtà, che appare come materia, è incomprensibile per l’intelletto (§ 261).

Nel percorso dialettico dell’idea la natura deve “passare”, sprofondare in sé, il concetto esteriore deve diventare interiore, l’esteriore deve conformarsi al concetto e manifestare, in questo attraversamento, che la verità della natura è la coscienza. Il giorno esteriore tramonta di fronte a quello che lo spirito fa risplendere.

L’Estetica come filosofia della bella arte

L’Estetica di Hegel si apre con la critica al nome stesso della disciplina. È una questione puramente terminologica, dato che il filosofo la lascerà subito cadere, ma ha, comunque, la funzione di delimitare con estrema precisione il territorio dell’indagine: la bella arte, non il bello in generale, ma il bello dell’arte, e il nome effettivo dovrebbe essere quello di filosofia della bella arte. (AMA, 143-144) Il termine “estetica” era stato introdotto a metà del XVIII secolo dal filosofo Baumgarten e ha la sua radice etimologica nel greco “aisthesis”, che significa percezione.  È evidente che ciò che viene prioritariamente escluso è il bello naturale e questo in netta contrapposizione con Kant, per il quale è il bello di natura che dà la misura al bello artistico. Ricordiamo un passo dalla Critica del giudizio assolutamente lontano dall’impostazione hegeliana:

Che cosa viene celebrato di più dai poeti del verso incantevolmente bello dell’usignolo, in cespugli solitari, in una quieta sera d’estate, alla mite luce della luna? Ma si hanno esempi di casi in cui, non trovandosi un tal canterino, un qualche padrone di casa burlone aveva abbindolato i suoi ospiti, venuti da lui a godersi l’aria di campagna, e per loro massima contentezza aveva nascosto fra i cespugli un ragazzo furbo, capace di imitare in modo somigliantissimo alla natura quel verso (con una cannuccia o un giunco in bocca). Ma appena ci si rende conto che si tratta di un inganno, non c’è più nessuno che sopporti di ascoltare quel canto prima ritenuto tanto attraente. … Deve trattarsi di natura, o noi dobbiamo crederlo, perché possiamo prendere un interesse immediato per il bello in quanto tale. (I. Kant, Critica del giudizio, Rizzoli, Milano, 1995, p. 415)

Riguardo a questo esempio kantiano, Hegel sottolinea che il canto imitato dell’usignolo non spiace perché artificiale, ma perché si fa passare per naturale e, anziché essere l’espressione dell’anima umana, si assoggetta servilmente a un fenomeno estraneo. Poche pagine prima Kant aveva addirittura scritto che, mentre

l’interesse per il bello dell’arte non fornisce affatto la prova di un modo del pensare che si attenga al bene morale o anche solo vi tenda, per contro, il prendere un interesse immediato per la bellezza della natura è sempre il segno distintivo di un’anima buona e, se questo interesse è abituale, indica quanto meno una disposizione d’animo propizia al sentimento morale, se si collega volentieri con la contemplazione della natura. Ma bisogna ben ricordarsi che io qui intendo propriamente le belle forme della natura, mentre metto da parte le attrattive che essa è pur solita collegare abbondantemente con quelle, perché l’interesse al riguardo è sì anch’esso immediato, e tuttavia empirico. (I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 405)

Il bello artistico, afferma perentoriamente Hegel, sta più in alto di quello della natura perché nell’arte la bellezza è generata e rigenerata dallo spirito. Non solo. Con un’affermazione diventata celebre arriva a dire che

Qualsiasi cattiva idea che venga in mente all’uomo sta più in alto di qualunque prodotto della natura, poiché in essa è sempre presente la spiritualità e la libertà. (AMA, 144)

Problemi epistemologici dell’Estetica

La scelta di campo per la bellezza artistica non comporta che i problemi epistemologici dell’estetica siano con questo risolti. Anzi, Hegel affronta fin dall’inizio due obiezioni molto insidiose: a) l’arte è degna di trattazione scientifica? b) l’arte, per le sue caratteristiche, è adatta a una trattazione scientifica?

L’arte è degna di una trattazione scientifica?

L’arte appare in primo luogo come un’attività che tocca zone accessorie e piacevoli della vita, con le sue belle opere rende gradevole l’esistenza, ma non sembra riguardare davvero le finalità ultime della vita. Come scrive Hegel,

l’arte appartiene più alla remissione, al rilassamento dello spirito, del cui affaticarsi gli interessi sostanziali hanno invece bisogno. (G. F. W. Hegel, Estetica, 2 volumi, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 9. D’ora in avanti citata con la sigla E, seguita dal numero della pagina)

L’arte è un sovrappiù, un lusso dello spirito. Come può una simile attività reclamare dignità scientifica?

Hegel riconosce che l’arte può essere ridotta a una dimensione ludica e servire solo al diletto e allo svago, ma questa in realtà non è l’arte bella e libera, ma l’arte strumentale. In quanto manifestazione della libertà, l’arte appartiene allo stesso luogo della religione e della filosofia, ha lo stesso contenuto, il divino, l’assoluto. È un modo della verità: mentre la filosofia è il concetto stesso dell’assoluto e la religione ne è il sentimento e la rappresentazione interiore, l’arte ne è la percezione sensibile.

Anche quello che sembra essere il più grave handicap dell’arte, il servirsi per i suoi scopi non della realtà, ma dell’illusione e della parvenza, viene da Hegel riletto in termini affermativi. L’apparenza non è affatto contraria alla verità. Questa, anzi, se non apparisse, non avrebbe luogo. La parvenza è essenziale all’essenza: nella sua essenza la verità comporta il mostrarsi. Sull’apparire del sensibile e sull’opera d’arte come mondo di ombre, v. il fondamentale paragrafo 6 dell’Introduzione in AMA, 38-43.

Notiamo che Hegel parla di essenza, non di essere, termine questo che nel suo linguaggio indica l’immediatezza di ciò che appare. Ciò che semplicemente e immediatamente è, nella finitezza del suo essere, non coincide con ciò che essenzialmente è. Ogni cosa che è, in quanto è, appare, ma non ogni cosa appare nello stesso modo, essendo diverso il modo di apparire di ciò che semplicemente è dal modo di apparire di ciò che essenzialmente è.

Se l’arte viene dichiarata parvenza e illusione in rapporto al mondo esterno degli enti e delle cose, o al mondo interno delle sensazioni, dei sentimenti, degli stati psicologici, in rapporto cioè a quella che è riconosciuta come la realtà empirica (interiore o esteriore), allora l’arte ha, nei confronti di questo mondo un indubbio e indiscusso vantaggio ontologico, perché la sfera dell’empirico non è il mondo della vera realtà. Questa, infatti, va cercata oltre l’immediatezza del sentire e degli oggetti esterni. “Oltre” non significa affatto che ci sia una realtà che sta dietro le ingannevoli apparenze dell’essere. Per Hegel l’essenziale non è una struttura noumenica inaccessibile alla conoscenza dell’uomo come per Kant. “Oltre l’immediatezza” significa che questa ha perso la sua estraneità di oggetto esterno a cui l’uomo, con la sua interiorità, si trova semplicemente contrapposto (il mero altro), per diventare, invece, l’altro dell’uomo.  Lungi dall’essere mera parvenza alla stregua di questa realtà empirica, l’arte spazza la parvenza di questo mondo inconsistente e la realtà delle sue forme è più alta, la sua esistenza è più vera.

La parvenza degli oggetti esterni, gli oggetti del mondo umano e le cose della natura, si presenta in modo ingannevole, spacciandosi per la vera realtà. L’arte, invece, presentandosi come parvenza, una parvenza che si “oppone” alla particolarità e all’accidentalità, ha il merito, tramite se stessa, di “additare allo spirito”. Questo “additare”, però, è anche un limite.

L’arte, sia riguardo al suo contenuto che riguardo alla sua forma, non è certamente il modo supremo di portare a manifestazione lo spirito e i suoi interessi. Essa deve necessariamente limitarsi a un contenuto determinato e servirsi della forma sensibile.

Vi è invece una concezione più profonda della verità in cui questa non è più così affine e amica al sensibile da poter essere accolta ed espressa da questo materiale in maniera così adeguata. (E, 16)

Hegel cita la concezione cristiana del mondo e, dopo di essa, lo spirito dei tempi moderni, che in questa concezione affonda le sue radici. Il nostro tempo, anzi, non è favorevole all’arte, dal momento che non ci sono più le condizioni reali perché essa possa soddisfare i nostri più alti bisogni. Perciò l’arte per noi è diventata irrimediabilmente un passato. È questo il primo cenno di Hegel al famoso tema della morte dell’arte. Su questo vedi i § 7-9 dell‘Introduzione in AMA, 44-81. Hegel naturalmente non afferma che non ci saranno più grandi artisti e grandi opere d’arte, ma solo che l’arte non è più il luogo proprio in cui la verità accade. È il carattere essenziale della modernità a richiedere questo e a nulla valgono lagnanze nostalgiche, sterili e false.

Se amiamo compiacerci di lagnanze e biasimi, possiamo considerare questo fenomeno come corruzione, e attribuirlo alla preponderanza di passioni e interessi egoistici, che mettono in fuga la serietà dell’arte come la sua serenità; oppure possiamo incolpare l’indigenza del presente, l’aggrovigliata situazione della vita civile e politica che non concede all’animo, prigioniero di meschini interessi, di liberarsi verso i fini superiori dell’arte. (E, 16-17)

L’arte è adatta ad una trattazione scientifica?

Di altra natura è il secondo dei problemi epistemologici affrontati da Hegel in queste pagine introduttive all’Estetica: l’arte, per le sue caratteristiche, è adatta a essere trattata scientificamente?

La bellezza artistica, infatti, si manifesta al senso, all’intuizione e, come tutto il sensibile, ha una ricchezza inesauribile che il pensiero non può cogliere compiutamente. Per questo la scienza astrae dalla massa delle singolarità, occupandosi solo del necessario in sé e delle sue leggi,  proprio di ciò che pare mancare all’arte, la quale sembra svolgersi e svilupparsi al di fuori di qualunque legge o norma.

Questo problema, nota Hegel, nasce solo se si ha una concezione inadeguata del pensiero, quella concezione che lo riduce alle operazioni riduttive e astraenti dell’intelletto. In realtà, il pensiero vero è ragione e, in quanto tale, è concreto perché manifesta lo spirito e i suoi prodotti. Ora,

l’arte e le sue opere, in quanto scaturite e prodotte dallo spirito, sono della stessa specie spirituale, sebbene la loro manifestazione accolga in sé la parvenza della sensibilità e compenetri di spirito il sensibile. L’arte è più vicina allo spirito e al suo pensiero di quanto non lo sia la natura esterna priva di spirito. (E, 20)

La potenza dello spirito non è solo quella di comprendersi in quanto pensiero, ma anche quella di riconoscersi nella sua estraniazione in sentimento (l’interno, la religione) e realtà (l’esterno, l’arte), di concepirsi sia in sé che nell’altro da sé.

Le trattazioni precedenti dell’estetica

Dopo aver messo al riparo l’Estetica dalle più pericolose obiezioni tradizionali, volte, come abbiamo ben potuto notare, ad avvalorare il ruolo secondario e soggettivo dell’arte nella vita dell’uomo, Hegel si dedica alle trattazioni precedenti dell’Estetica.

Queste possono essere catalogate sotto due grandi categorie, quelle che empiricamente assumono le opere d’arte come date, nei confronti delle quali procedere a un’operazione di catalogazione, di sistemazione storica, mantenendo quindi un atteggiamento estrinseco, e quelle che aprioristicamente producono un’astratta filosofia del bello, senza rapporto vivente con la realtà stessa delle opere d’arte, le quali dovranno, in modo altrettanto estrinseco adeguarsi a queste elucubrazioni.

Per la prima impostazione è innanzitutto fondamentale possedere una sterminata erudizione: bisogna aver visto quante più opere possibile (come ogni approccio meramente empirico, il processo di accumulazione è in sé inesauribile), bisogna saper contestualizzare ognuna di queste opere nel suo tempo, nel suo popolo, nel suo ambiente, è necessario procedere a complicati procedimenti comparativi, e così via.

Tutto ciò, naturalmente, non è da Hegel condannato come negativo. Tuttavia può costituire un supporto, mai l’essenziale. Su questa base, poi, si costruiscono le teorie delle arti, le varie Estetiche o Poetiche (valga per tutte la Poetica di Aristotele), le quali hanno necessariamente un carattere precettistico. Si potrebbe riconoscere a queste opere un fine didattico, quello di formare il gusto, ma anche in questo si dimostrano inefficaci, perché il gusto non è qualcosa che si impara come la geometria. Come ha mirabilmente mostrato Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, il gusto è il frutto della complessa educazione estetica e coinvolge l’uomo nella totalità del suo essere sensibile e razionale. Queste teorie, invece, ricorrono a istanze eteronome quasi sempre di tipo convenzionale e, più che aprirci all’incontro con l’arte, ci imprigionano in stereotipi valutativi che mortificano l’arte e lo spettatore.

Anche riguardo al bello, che per Hegel, a differenza di Platone, è il concetto proprio dell’arte, l’approccio empirico produce solo definizioni generali incapaci di coglierne l’essenza. Queste teorie, infatti, difettano in primo luogo dell’approccio filosofico al problema. Esse, allo stesso modo delle scienze particolari, assumono come esistente il proprio oggetto di studio, senza curarsi del suo fondamento. Il bello, anziché essere pensato per sé, viene ridotto a un qualche suo aspetto determinato, come ad esempio, il caratteristico o il significativo.

Il concetto di bello artistico

Naturalmente la parte più rilevante dell’Introduzione dal punto di vista teorico si ha laddove Hegel affronta il concetto di bello artistico, tema che articola in tre sezioni: la provenienza del concetto di bello, le rappresentazioni usuali dell’arte in cui tale concetto opera e la deduzione propria del concetto di bello.

La “fondazione” del concetto del bello

Quando si assume come tema di ricerca un determinato oggetto, nel nostro caso l’arte e il bello, bisogna dimostrarne e l’esistenza e l’essenza, bisogna cioè mostrare che tale oggetto esiste e dire che cos’è. Gli oggetti che cadono sotto i nostri sensi vengono assunti come tali dalle scienze particolari. Vi sono, poi oggetti che hanno un’esistenza meno evidente, perché non sensibili, pensiamo all’anima e a Dio. Il bello sembra essere diverso sia dagli oggetti empirici sia da quelli trascendenti-metafisici, dato che è una rappresentazione dell’uomo. Per trattarlo scientificamente, se ne deve provare la necessità.

Questo compito, tuttavia, non può appartenere a una disciplina come l’estetica, la quale, pur essendo genuinamente filosofica, è purtuttavia una disciplina particolare. Come è noto, l’arte, di cui l’estetica si occupa, è una delle forme dello spirito assoluto, per cui appartiene di pieno diritto al sistema filosofico nella sua totalità. Sarà quindi compito del sistema filosofico generale dedurre l’esistenza e l’essenza degli oggetti di studio delle discipline particolari. Il concetto del bello, quindi, di cui Hegel si occupa nelle pagine dell’Estetica, trova il suo fondamento, la sua necessità nel sistema stesso della filosofia.

Rappresentazioni usuali dell’arte

L’arte viene da Hegel analizzata secondo tre prospettive di grande interesse:

  • l’arte in quanto prodotto dell’attività umana, che in questo si differenzia dai prodotti naturali, ma che rivendica anche una propria specificità rispetto ad altre attività umane;
  • l’arte in quanto oggetto sensibile che si rivolge ai sensi dell’uomo; punto molto importante, perché permetterà a Hegel di riflettere sulla particolare natura e configurazione che il sensibile assume nell’opera d’arte: non più l’arte come prodotto fra altri prodotti, ma l’arte come cosa fra altre cose.
  • infine, l’arte, in quanto attività dell’uomo, che deve avere uno scopo, un fine, e deve rispondere a un bisogno specifico. Perché l’uomo, fra le molte attività che lo occupano, riserva anche una parte di esse alla produzione di opere d’arte? Perché cuoce il pane e perché costruisce un oggetto d’uso sembra evidente: per nutrirsi, per servirsene. Ma perché dipinge un quadro o scolpisce una statua?

L’opera d’arte in quanto prodotto dell’attività umana

Uno dei primi problemi che si presentano in tale prospettiva è il carattere tecnico di questa operazione. Ogni operazione umana è in sé anche una tecnica, un saper come fare (il know how). L’architetto che progetta una casa deve possedere delle nozioni tecniche di statica, di teoria delle costruzioni, deve conoscere le caratteristiche dei materiali di cui si serve. Non solo, esistono anche regole di composizione, di simmetria, di articolazione delle masse, di ritmo di spazi e di volumi, e così via. Il pittore non può ignorare le qualità materiali dei colori, la differenza fra acquarelli, tempere, colori a olio. Deve servirsi di nozioni di disegno. Insomma, c’è nell’opera d’arte un lato squisitamente tecnico il cui ruolo va compreso.

La domanda che Hegel si fa è questa. Dal momento che tali tecniche possono essere apprese, si può affermare che l’applicazione e la diligenza possono trasformare chiunque in un buon artista? La domanda non è banale come sembra, dal momento che Hegel non contempla una risposta facile del tipo: c’è un’ispirazione misteriosa che si impadronisce dell’artista e agisce in lui. Se rifiutiamo l’immagine romantica dell’artista visto come un genio solitario che opera nell’incoscienza, preda dell’entusiasmo e, come malignamente scrive Hegel, anche aiutato da una buona bottiglia di Champagne, che cosa ci impedisce di affermare che il grande artista è colui che padroneggia in modo insuperabile una tecnica di rappresentazione e di espressione? Dove sta davvero la differenza fra un abilissimo artigiano e un artista, differenza che, a un gusto esercitato appare subito evidente, ma che non è facilmente esprimibile in parole?

Se l’opera d’arte fosse solo una cosa, un oggetto, in effetti tale differenza non sussisterebbe: dal punto di vista della lavorazione, la grande opera è, in tutto e per tutto, un prodotto artigianale e la sua “produzione” tecnica può essere senz’altro appresa, entro certi limiti naturalmente, limiti segnati da differenze di abilità e di destrezza che fra gli uomini comunque sussistono. La prova è data dal fatto che un buon pittore sa riprodurre in modo pressoché identico una grande opera d’arte. Ma un’opera in quanto oggetto o mera cosa non è più propriamente un’opera d’arte, a essa è stato sottratto qualcosa. Hegel rifiuta una teoria romantica ed esaltata dell’artista. Questo non significa che rifiuti il genio. Solo che il genio e il talento vanno educati ed esercitati: sono fatti non solo della bella ispirazione, ma anche di sudore, fatica, ripetizioni.

E soprattutto esperienza. Il grande artista è colui che sente il materiale in tutta la sua forza e autonomia, è colui che, nel mentre sa vincere la riottosità di questo materiale, lo fa assecondandone la natura, un po’ come il domatore che comanda all’animale rispettandone fino in fondo la natura e gli istinti. È colui che sa sondare gli abissi dell’animo umano perché si è elevato al di sopra delle particolarità e delle accidentalità dell’esistenza. Il grande artista è un uomo che ha visto molto, che ha vissuto molto, che molto ha sofferto e molto ha amato, ma non nel senso dell’Erlebnis, della mera esperienza vissuta, che sarebbe semplice psicologia, ma in quello spirituale del termine, è cioè l’uomo che ha affrontato la realtà e ne ha colto il ritmo e la dialettica, senza sovrapporre a essa astratte concezioni generali o impulsi incontrollati del proprio animo. Vedi i frammenti 9, 10, 11, 12 in AMA, 146-147.

È in forza di questo viatico spirituale che l’artista sa evitare, nel suo operare, il doppio fallimento dell’approssimazione e del virtuosismo. Anzi, l’arte consiste proprio in questo doppio divieto o in questa doppia capacità: il fare dell’artista non ha l’approssimazione e la sciatteria o l’abitudinarietà del fare quotidiano e nemmeno la mera destrezza del fare artigianale e virtuosistico. L’artista non usa il sensibile, asservendolo a scopi utilitari, ma nemmeno ne abusa, riducendolo a mero pretesto per l’esibizione fine a se stessa di una abilità soggettiva.

Ma allora, qual è il posto che i prodotti dell’arte occupano rispetto a quelli della natura? Se l’opera è il prodotto di un’attività così elevata, essa, tuttavia, appare sotto molti riguardi, inferiore rispetto ai prodotti della natura. Innanzitutto la natura produce esseri viventi, mentre l’arte produce opere morte, che la vitalità la simulano solo. Non solo, la natura è opera di Dio, mentre l’arte è opera dell’uomo. Sembra quindi che, da un punto di vista gerarchico, la natura si collochi a un livello superiore a quello in cui si colloca l’arte. Già conosciamo la risposta di Hegel a questo problema: la vitalità dei prodotti della natura, che pure è reale, è transeunte e caduca, mentre quella dell’arte, che non va comunque giudicata in rapporto a una vitalità meramente naturale ed empirica, è duratura e, come prodotto spirituale, mira all’eterno. Questo perché in essa ha operato lo spirito e Dio stesso opera nell’uomo conformemente alla propria essenza.

Qual è, allora, il bisogno che spinge l’uomo a produrre opere d’arte? È una domanda che non ha una facile risposta, dal momento che la produzione artistica, da un lato, appare come un capriccio, un’attività accessoria, e dall’altro, è innegabilmente legata alle più grandi e generali concezioni di un popolo, legata, quindi, a fini sostanziali. Hegel mostra con grande efficacia come l’arte sia, a pieno titolo, un’espressione propria della spiritualità dell’uomo. Se lo spirito altro non è che la conquista dell’autocoscienza da parte dell’idea, che non rimane meramente in sé, ma si estrinseca nell’altro da sé per riconoscere in questo se stessa, per togliere all’esterno la sua estraneità, allora l’arte è uno dei modi in cui lo spirito opera.

Il bisogno universale dell’arte è dunque il bisogno razionale che l’uomo elevi alla coscienza spirituale il mondo esterno ed interno come un oggetto, in cui egli riconosce il proprio io. (E, 46)

L’opera d’arte in quanto “oggetto” sensibile

L’indagine prosegue con la considerazione dell’opera d’arte in quanto oggetto sensibile che si rivolge peculiarmente all’uomo in quanto ente sensibile. Quali sono le corde che l’opera d’arte tocca? La prima, la più immediata, sembra quella sentimentale: l’arte si rivolgerebbe al sentimento di piacere e dispiacere e susciterebbe nell’uomo il sentimento del gradevole, del piacevole. Ma Hegel rigetta subito questa idea, perché il sentimento, gravato com’è dagli aspetti psicologici e soggettivi è in realtà “l’ottusa regione dello spirito”, espressione dell’astrattissima singola soggettività. Lo stesso vale per ogni enfasi posta sull’immediatezza, sulla piacevolezza esteriore. Insomma, tutta quella sensibilità minuziosa, rococò, fatta di una raffinatezza che in realtà è ricercatezza, quindi una sensibilità che si rivolge a un gusto estenuato e senza profondità.

Colà, dove si dischiudono grandi passioni e commozioni di un’anima profonda, non c’è più posto per le sottili distinzioni del gusto e il suo piccolo commercio con delle minuzie; esso sente su tutto questo terreno avanzare il genio. (E, 49)

L’opera d’arte, in quanto tale, si offre al sensibile (questa per essa è una dimensione irrinunciabile), ma non è solo per il sensibile. Perché per Hegel il sensibile di per sé, come del resto l’intellettuale, costituisce una dimensione astratta e unilaterale. A tale proposito Hegel mostra due modi astratti di rivolgersi alle cose sensibili (astratti e purtuttavia in sé giustificati, purché non pretendano di valere come assoluti).

Il primo è quello dell’apprensione solo sensibile delle cose esteriori, sotto la spinta del desiderio, dell’impulso di consumare, di soddisfare un bisogno. È chiaro che questo modo, dal momento che nasce governato da impulsi, toglie anche libertà e autonomia allo stesso oggetto del desiderio, che diventa semplicemente qualcosa da consumare. L’altro è l’apprensione solo intellettuale delle cose sensibili. Questo è il modo di procedere della scienza, che si rivolge al mondo concretamente esistente, ma gli sovrappone una concezione metodica riduttivistica che trasforma questo sensibile empirico in un pensato astratto.

L’opera d’arte, invece, si rivolge all’uomo “elevando il sensibile, di cui consiste, a parvenza”. L’arte affranca il sensibile dall’impalcatura della sua semplice materialità e ne mette in risalto la forma, spiritualizza il sensibile, operazione che “sta in mezzo” fra l’immediato accoglimento empirico, che lascia il sensibile nella sua estranea particolarità ed esteriorità, e  l’astratta considerazione intellettuale, che lo mortifica riducendolo alla mera ratio quantitativa.

In questa ottica trova fondamento la distinzione hegeliana fra sensi pratici e sensi teoretici. La spiritualizzazione del sensibile ha per conseguenza, come abbiamo visto, tanto l’esclusione dell’intelletto (astrazione) quanto quella di quei sensi che comportano una qualche forma di consumazione e distruzione dell’oggetto o un rapporto con esso di assoluta prossimità. Questi sensi, che Hegel chiama pratici, sono il gusto, l’olfatto e il tatto. Gli oggetti che, per la loro costituzione sensibile, si rivolgono a questi sensi non sono, non possono essere opere d’arte. Solo la vista e l’udito, che del sensibile apprendono la forma, la parvenza, o il risuonare, sono sensi artistici. Si può dire che l’arte è il modo propriamente umano di approccio al sensibile. Non solo per quanto riguarda lo spettatore dell’opera d’arte, ma anche per chi la produce: lo spirituale e il sensibile devono essere una cosa sola, in questo consiste la fantasia artistica. Con una bella metafora Hegel chiarisce il carattere di sublime medietà e di concretezza proprio dell’opera d’arte.

Ciò [l’operare artistico] può esser paragonato al comportamento di un uomo navigato, e anche intelligente, acuto, che sebbene sappia perfettamente quali siano le contingenze della vita, di che cosa sono fatti gli uomini, cosa li muove e cosa li domina, tuttavia né ha stabilito a se stesso questo contenuto in regole generali, né sa spiegarlo ad altri con riflessioni generali, ma illustra a sé e agli altri quel che gli riempie la coscienza sempre con casi particolari, reali o inventati, con esempi adeguati, ecc. Infatti, alla sua rappresentazione ogni cosa si configura in immagini concrete, determinate secondo il tempo e il luogo, a cui non debbono mancare neanche nomi e altre circostanze esteriori. (E. 57)

Il fine dell’arte

La parte dedicata alle rappresentazioni usuali dell’arte si chiude con una ricerca sul fine che tali rappresentazioni riconoscono all’arte. Perché un artista crea un’opera d’arte? Le risposte più frequenti, qui, sono due. Per imitare la natura o per destare l’animo.

L’imitazione della natura è la più antica e autorevole delle interpretazioni. C’è chi l’ha assunta per condannare l’arte (Platone) e chi invece ne ha fatto un’operazione meritoria, positiva (Aristotele: l’imitazione è un istinto propriamente umano e ci dà piacere e conoscenza). Hegel su questo non lascia adito a dubbi. L’imitazione della natura fine a se stessa è, in ultima analisi, un’operazione superflua, priva di reale necessità, che tutt’al più può evidenziare l’abilità, la destrezza nel rifare ciò che già esiste, ma che, su questo, non potrà mai uguagliare la produttività propria della natura. Peggio ancora, proprio su questa pratica mimetica si fonda una certa considerazione positiva dell’inganno come valore. Siamo comunque nel campo della vuota abilità che non porta all’uomo alcun effettivo arricchimento. Non solo. Anche il bello, in quanto valore oggettivo, perde la sua ragione d’essere. Se l’arte, infatti, avesse come fine quello di imitare la natura, il suo valore risiederebbe non tanto nel rifare le cose belle, quanto nel rifare le cose complicate, quello che per la sua intrinseca difficoltà suscita ammirazione se correttamente riprodotto, oppure semplicemente quello che ci piace e basta. Come ultima cosa, l’arte che trova il suo principio nell’imitazione lascia fuori proprio quelle arti che non sono immediatamente imitative, pensiamo all’architettura e alla musica.

Il destare l’animo è l’altra idea convenzionale assegnata all’arte come suo scopo. Hegel liquida questa idea molto velocemente con le consuete accuse di astrattezza e genericità.

Il superiore fine sostanziale dell’arte verrà alla luce nel corso dell’intero ciclo delle lezioni. Hegel tuttavia accoglie alcune idee che attribuiscono all’arte effetti, se così possiamo dire, civilizzatori. L’arte, scrive, ha la capacità di addolcire la ferinità dei desideri e di eliminare la rozzezza che sempre insidia l’uomo in quanto animale. Che cos’è la ferinità, la ferocia, la bestialità che talvolta si impossessa dell’uomo come di un’ossessione? È una limitatezza a cui l’uomo si assoggetta. Quando un desiderio singolo si impadronisce dell’intero animo dell’uomo, subordinando ogni sua espressione agli imperativi di questo desiderio, allora l’uomo assomiglia più all’animale che all’uomo. Nessun uomo è al riparo da questo rischio di unilateralità. Ebbene, l’arte, permettendo l’estrinsecazione di queste passioni in un’opera, libera l’uomo dall’ossessione. Hegel rintraccia in questo bisogno la pratica antica delle prefiche, che accompagnavano il lutto con pianti e lamenti, permettendo, attraverso questa manifestazione esteriore del dolore, di lenire il dolore stesso. Naturalmente tutto ciò va preso come un effetto aggiunto dell’arte, non come il suo fine sostanziale: la purificazione delle passioni, il perfezionamento morale, l’ammaestramento (il fabula docet, per capirci), l’arte maestra dei popoli, e così via, è certamente qualcosa che appartiene all’arte, ma che non ne rappresenta in alcun modo la ragione sostanziale. Non ci è difficile comprendere perché. Se così fosse, la forma sensibile diventerebbe un mero involucro strumentale, un qualcosa di cui servirsi per dire un contenuto che potrebbe essere detto altrimenti (“il vero condito in molli versi” del Tasso). L’arte, insomma, diventerebbe uno strumento didattico fra i tanti. E l’uomo, ancora una volta sarebbe colto come un essere anfibio, che vive in due mondi, consegnato all’astratta separazione dell’essere e del dover essere.

L’arte, invece, è insostituibile perché è un modo di manifestazione della verità, e la verità, nella sua concreta espressione, non può essere solo la verità al suo punto d’arrivo, la verità del concetto che la filosofia esprime, ma è altresì necessariamente la storia, il percorso della verità stessa, perciò essa “deve” essere espressa anche nel sensibile e nella rappresentazione.

L’ideale

Lo Spirito assoluto per Hegel è la verità in sé e per sé, il termine del lungo percorso che la coscienza ha compiuto a partire dall’immediata certezza sensibile, passando per la sua estraniazione nell’oggettività della natura, per tornare infine a sé come raggiunta autocoscienza dell’unità di soggettivo e oggettivo. Questo regno, questo territorio, questa infinita totalità ha un portale d’ingresso sopra il quale è scritto: bellezza. (V. Ernst Bloch, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 285)  L’arte, infatti, è la prima forma con cui lo Spirito assoluto si presenta. Già con Platone abbiamo incontrato la bellezza in un ruolo chiave, quello di mediatrice fra il mondo dei sensi e quello delle idee. Ben diverso era naturalmente il mondo filosofico in cui tale concezione si ambientava. Innanzitutto, questo non comportava affatto un recupero dell’arte al territorio della verità, perché bellezza e arte rimanevano, per Platone, non solo disgiunte, ma addirittura ostili. In Platone la bellezza è un’idea che introduce alla verità ed eleva al bene, affascinandoci dapprima con le seduzioni del sensibile, ma invitandoci poi ad abbandonare queste per elevarci alla più alta e vera bellezza ideale.

Forma e contenuto

Per Hegel, invece, la bellezza non è un’esortazione alla verità, ma la verità stessa in un suo modo di apparizione, quello sensibile. Il bello è l’idea al livello dell’intuizione, l’apparire dell’idea attraverso un medium sensibile (pietra, colore, suono, parola). L’affermata identità di bellezza e verità porta Hegel a elaborare un concetto di arte meno formale rispetto all’idea che ne aveva Kant o lo stesso Schiller, da Hegel pur tanto ammirato. Schiller, ad esempio, definisce la bellezza come “libertà nel fenomeno”, formula famosa che sempre accompagna l’atteggiamento estetico di fronte al mondo, inteso come mera contemplazione del libero gioco delle forme, indipendentemente dal contenuto rappresentato.

Per Hegel, invece, l’arte non è finzione, non è un “come se” privo di conoscenza. In quanto pensatore concreto, egli cerca sempre nella forma, nella bellezza, un contenuto. Anche per lui, naturalmente, vale la concezione dell’arte come libertà nel fenomeno, come innalzamento al di sopra dei rapporti condizionati e limitati che costituiscono il mondo quotidiano. Ma non è un innalzarsi che trasporta l’arte nel mero gioco e nel lusso fine a se stesso. Voglio dire che, se è vero che anche per Hegel l’arte è contemplazione pura, è altrettanto vero che questa contemplazione non si rivolge a illusioni, a riflessi, a giochi formali, ma a essenze, all’essenza che di volta in volta si realizza di ogni cosa.  Non la forma della rappresentazione, che pure nell’Estetica ha tanta importanza, viene posta da Hegel in primo piano, ma lo stesso oggetto artistico nella sua completezza e nella sua concretezza. Nell’arte “aleggia” non la parvenza in generale, ma quella parvenza essenziale all’essenza di cui abbiamo già parlato, quella maniera particolare di apparire in cui l’arte dà realtà al vero in sé. Quindi, pur con tutta l’attenzione che Hegel rivolge alla forma artistica e le raffinate analisi che di essa ci offre, la sua non è un’estetica della forma.

E tuttavia sarebbe sbagliato definirla tout court come un’estetica del contenuto. Come ormai sappiamo, in Hegel non vale questa astratta separazione di forma e contenuto, di interno ed esterno. La sua estetica assume a proprio tema i diversi modi in cui un contenuto, che non è mai qualcosa di meramente dato, ma è sempre anche la sua stessa storia, ha di apparire nel sensibile. Potremmo dire che il grande tema è costituito dai rapporti tra forma e contenuto, purché mai dimentichiamo che tale rapporto è sempre caratterizzato da un’intima, intrinseca, necessaria adeguatezza. Non ogni manifestazione sensibile di un contenuto è artistica, ma solo quella che obbedisce a due condizioni:

  • che il contenuto sia costituito dallo spirito nella sua infinità, sia cioè la verità in sé e per sé, pur nei diversi stadi del suo sviluppo,
  • e che tale contenuto si dia nel sensibile secondo il suo concetto.

Comprendiamo allora perché la rappresentazione di una figura geometrica, pur essendo formalmente adeguata al suo concetto, non può mai essere un’opera d’arte: ciò che essa porta alla presenza non è un contenuto spirituale, ma una legge generale, una definizione astratta che la figura semplicemente illustra. Ma possiamo anche capire perché non lo sia un oggetto d’uso, pur perfetto e assolutamente funzionale: ancora una volta ciò che si concretizza non è un contenuto spirituale, ma un’istanza di utilità, un bisogno.

Riguardo al bello artistico o l’ideale, Hegel scrive:

l’idea, come realtà configurata conformemente al suo concetto, è l’ideale. Il compito che questa corrispondenza ha potrebbe essere inteso in modo del tutto formale, nel senso che l’idea potrebbe essere questa o quella, purché la forma reale, qualsiasi essa sia, manifesti proprio questa idea determinata. In tal caso però si scambia la richiesta verità dell’ideale con la semplice esattezza, che consiste nell’esprimere un significato qualsiasi in modo appropriato e ritrovarne perciò immediatamente nella forma il senso. Non è così che va inteso l’ideale. Infatti un contenuto qualsiasi può essere reso manifesto in modo completamente adeguato al criterio della sua essenza, senza dover fare ricorso alla bellezza artistica dell’ideale. Anzi, nel confronto con la bellezza ideale, la raffigurazione apparirà addirittura manchevole. Notiamo in proposito, preliminarmente, ciò che solo più tardi potrà essere provato, ossia che la manchevolezza dell’opera d’arte non è da considerare soltanto e sempre come incapacità soggettiva, ma che la manchevolezza della forma proviene anche dalla manchevolezza del contenuto. (…) non si deve pensare solo a una maggiore o minore abilità di concepire e riprodurre le forme naturali quali esistono nella realtà esterna. Infatti, a un certo grado della coscienza e della rappresentazione artistiche, il trascurare e deformare le rappresentazioni di natura non è una casuale mancanza di esperienza e di abilità tecniche, ma è un’intenzionale alterazione che nasce dal contenuto che è nella coscienza. (E, 100-101)

Il criterio di base che guida la considerazione dell’opera d’arte nell’Estetica hegeliana è espresso da queste parole: “configurata secondo il suo concetto”. Eppure, come vedremo nella parte dedicata allo sviluppo delle forme del bello artistico, anche l’opera d’arte manifesta un’inadeguatezza intrinseca. Anzi, se si esclude il breve periodo della forma classica del bello, del resto anch’esso intrinsecamente manchevole, i lunghi periodi dell’arte simbolica e dell’arte romantica, sono manchevoli e inadeguati in senso esplicito e strutturale, proprio riguardo ai rapporti fra contenuto e forma.

All’inizio l’idea è indeterminata, oscura, confusa. Tale indeterminatezza o cattiva determinatezza fa sì che l’idea non abbia ancora quell’individualità che l’ideale esige: essa si presenta astratta, unilaterale. La manchevolezza dell’idea comporta necessariamente una manchevolezza della forma, che appare accidentale, non elaborata, senza misura. È questa la forma d’arte simbolica, più che una configurazione artistica è una ricerca di configurazione. L’idea, non ancora giunta alla propria verità, rimane astratta e l’esterno rimane a essa estraneo. Quando se ne serve per esprimersi, la relazione fra idea e forma è enigmatica,

gonfia le forme naturali e i fenomeni della realtà stessa nell’indeterminato e nello smisurato; barcolla dall’uno all’altro, freme e ribolle in essi, fa loro violenza, li deforma e li esagera in modo innaturale, cercando di elevare il fenomeno all’idea con la dispersione, la smisuratezza e lo sfarzo delle immagini. (E, 104)

L’insufficienza della forma d’arte simbolica viene cancellata dall’arte classica, che è la libera impressione adeguata dell’idea nella forma peculiarmente appropriata all’idea stessa. Come vedremo, è la figura umana che compendia in modo esemplare tale raggiunta appropriatezza. Per Hegel l’arte è l’intuizione sensibile dell’assoluto ed è il corpo umano che può essere a un tempo sensibilità e spiritualità perfettamente compenetrate. A differenza del corpo animale, infatti, esso non è solo sensibile, non è semplicemente animato, ma è esistenza e forma naturale dello spirito. Naturalmente non il corpo umano nella sua naturalità, ma in quella che Hegel chiama la sua forma purificata, un corpo, quindi, che deve essere sottratto ai bisogni di tutto ciò che è solo sensibile e alla finitezza accidentale dell’apparire.

E tuttavia l’assoluto, che appare sensibilmente in modo appropriato solo con l’arte classica, non si dà in tale manifestazione nel suo senso proprio: lo spirito si dà determinato come particolare, come umano, e non come eterno, quale esso propriamente è. Questa è l’insufficienza della forma d’arte classica ed è l’insufficienza stessa dell’arte, ciò che la spinge a superarsi nella forma d’arte romantica. Non c’è contraddizione fra insufficienza dell’arte e perfezione della forma classica. La forma d’arte classica è perfetta in quanto ha raggiunto il massimo a cui la sensibilizzazione dello spirito può pervenire. Leggiamo in cosa consiste la limitatezza propria dell’arte:

l’arte in generale prende a proprio oggetto, sotto forma sensibilmente concreta, l’universale concreto infinito secondo il suo concetto, lo spirito, e nella forma classica colloca il compiuto uniformarsi dell’esistenza spirituale e di quella sensibile come corrispondenza di entrambe. Ma in effetti, in questo amalgama, lo spirito non viene a manifestazione secondo il suo vero concetto. Infatti lo spirito è la soggettività infinita dell’idea, che in quanto assoluta interiorità non può liberamente configurarsi per sé, se deve restare effusa nel corporeo come esistenza a lei conforme. (E, 107)

È l’arte romantica che si incarica di distruggere l’intima unità della forma d’arte classica, avendo acquistato un contenuto che va oltre la forma classica e il suo genere di espressione. Tale contenuto superiore è l’autocoscienza, che non ha più la propria adeguata manifestazione nell’immediata esistenza sensibile dello spirituale, il corpo umano e il dio greco, ma trova nel cristianesimo i suoi contenuti propri. Questo sciogliersi del nesso contenuto-forma rende nuovamente l’esteriorità sensibile inessenziale e caduca come nella forma d’arte simbolica: il lato dell’esistenza esterna è rimesso all’accidentalità ed è abbandonato alle avventure della fantasia, ma con una differenza essenziale:

nella forma romantica l’idea, la cui manchevolezza arrecava nel simbolo le insufficienze del configurare, deve ora apparire come spirito e animo, in sé compiuta, e sulla base di questa superiore compiutezza si sottrae all’unificazione corrispondente con l’esterno, potendo cercare e realizzare la sua vera realtà e apparenza solo in se stessa. (E, 110)

Con la forma d’arte romantica viene alla luce l’insufficienza dell’arte come modo di manifestazione dello spirito (l’arte è un’epoca dello spirito) e l’arte va oltre se stessa, ma non nel senso di accedere ad altri modi di manifestazione (questi saranno propri della religione e della filosofia), perché questo andare oltre se stessa dell’arte romantica avviene comunque sempre entro il proprio ambito e nella forma stessa dell’arte.

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