Analisi del testo: Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino, 1986
Marcel Proust e i segni è un testo del 1964, si colloca quindi a ridosso di due importanti lavori filosofici di Deleuze, il libro su Nietzsche (G.Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano, 1992), scritto due anni prima (1962), e quello su Kant (G.Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cappelli, Bologna, 1979), scritto l’anno precedente (1963). Quattro anni dopo (1968) uscirà Differenza e ripetizione, testo fondamentale del filosofo francese. Già nel saggio su Proust si trovano gran parte dei concetti filosofici di Deleuze, a partire dal suo antiplatonismo per finire al leibnizianesimo, qui presente con il concetto di punto di vista.
Al centro dell’analisi c’è il concetto di Immagine del pensiero, trattato nella Conclusione alla Prima parte del saggio, ma ho scelto di non fermarmi su questo aspetto, pur importante, e di procedere, invece, a indicare, sia pur in modo sintetico, i numerosi problemi che incontriamo in questo libro, tra questi: il tema della letteratura moderna, quello della teoria dei segni con il connesso problema dell’interpretazione, il fondamentale concetto di essenza, per finire con il problema dell’unità e della pluralità di un’opera d’arte e, specificamente, di un’opera letteraria come la Recherche.
La lettura che Deleuze fa di Proust non è né un commento né una recensione alla Recherche, ma una lettura filosofica nel senso proprio del termine e affrontare filosoficamente uno scrittore non significa affatto svelare “ciò che l’autore ha veramente detto”, né tantomeno applicare a un’opera letteraria una filosofia che vive già bella e formata di vita propria. Interessa poco “pensare come Proust” (non ne saremmo oltretutto capaci: operazione comunque inutile, manieristica, epigonica), ma “pensare con Proust”), come scrive Deleuze nel capitolo sull’apprentissage [p. 22] (da intendere come apprendistato, tirocinio, piuttosto che nel senso più generico e scolastico di apprendimento). Proust e la sua opera non sono un pretesto che Deleuze accampa, o un espediente del quale si serve, per presentare la sua filosofia, magari avvalorandola con esempi letterari, ma un’occasione per pensare: occasione, da ob-cadere, ciò che ci cade davanti, senza che l’abbiamo cercata, e che, nostro malgrado, ci mette alla prova, svela se abbiamo la stoffa per rispondere adeguatamente o no a questa occasione.
La Recherche non ha alcun bisogno di essere spiegata, come non va spiegata la vita, in tutti i suoi aspetti: la vita mondana, la vita amorosa, la vita percettiva, (farlo sarebbe l’unico modo sicuro di perdere l’opera e di sprecare la vita), ma semmai va “interpretata”. L’incontro con la Recherche prima di essere un fatto conoscitivo, rappresenta la sfida di un duro e insostituibile apprendistato: non ci sono significati da imparare e ricordare, ma segni da interpretare e decifrare. L’opera di Proust è un geniale oggetto letterario che permette di costruire nuovi concetti di relazione, ma è anche una critica della filosofia, di una certa filosofia, ben s’intende, di un certo modo di far filosofia.
Si può individuare in tre punti la portata filosofica dell’opera di Proust.
- La Recherche è una ricerca della verità
- La verità non si consegue per buona volontà di pensare, ma solo costretti da forze involontarie, che sono i segni.
- Ciò comporta una radicale contestazione dell’immagine classica del pensiero sostenuta dalla filosofia tradizionale.
Innanzitutto la Recherche è una ricerca della verità [p. 87]. Così comincia la parte dedicata all’immagine del pensiero. È un romanzo di apprendistato, dove l’essenziale è apprendere una verità che non è data, che non esiste in una qualche dimensione trascendente o in un passato da far rivivere. La verità non si conosce, non si riconosce, non si impara usando un metodo e applicandolo con buona volontà e sufficiente rigore. All’idea filosofica di “metodo”, Proust oppone la duplice idea di “costrizione” e di “caso”. [p. 17]
All’inizio della ricerca della verità non c’è un’amnesia, come avviene con la teoria dell’anamnesi di Platone: c’è stato un tempo (tempo mitico, il tempo in cui le anime non erano ancora unite ai corpi) in cui le anime hanno visto le cose nella loro essenza e verità (la cavallinità, il cavallo in sé), poi, una volta cadute prigioniere della corporeità, hanno dimenticato le essenze e trascorrono la vita credendo per lo più che l’essere si esaurisca nelle copie sensibili di queste essenze (i cavalli nella varietà dei loro aspetti). La ricerca della verità, in questa prospettiva, significa risalire dalle copie alle essenze, superare l’amnesia e riconoscere lo splendore della verità. Il platonico dice: c’è stato un tempo in cui sapevo, in cui non avevo bisogno di capire o di ricercare, perché vedevo. Poi, a causa di una disgraziata caduta nel sensibile, ho dimenticato ciò che sapevo. Il mio impegno deve essere quello di rivedere le idee, quelle idee che eternamente risplendono nella trascendenza dell’iperuranio. Solo così posso soggiornare, finalmente appagato, nella contemplazione di queste idee. La fatica dell’ascesi intellettuale è finita, le idee, i significati, mi stanno di fronte totalmente spiegati, chiari, inequivocabili. Come appare chiaro nel Fedone, solo l’anima liberata dal corpo può godere pienamente delle idee, ma questo non è l’essenziale. L’essenziale del platonismo (e di molta parte della tradizione filosofica) è che la verità c’è, che c’è da sempre e che il luogo in cui c’è non è di questo mondo.
Molto diverse suonano invece le parole di Deleuze.
I Leitmotive della Recherche sono: non sapevo ancora, dovevo capire in seguito; e anche: non mi interessavo più, appena cessavo di apprendere. I personaggi della Recherche non hanno importanza se non in quanto emettono segni da decifrare. [p. 85].
Se questo è vero, l’opera di Proust, allora, contro un’opinione universalmente accettata, lungi dall’essere rivolta verso il passato, è interamente rivolta verso il futuro. Con questa considerazione si apre il saggio di Deleuze.
La Recherche non è semplicemente uno sforzo per ricordare, un’esplorazione della memoria: il termine ricerca va preso nel suo senso più forte, come ricerca della verità [p. 5],
perciò
la Ricerca è rivolta verso il futuro e non verso il passato [p. 6].
È un errore cercare l’unità della Recherche nella memoria, nel ricordo, fosse pure la memoria involontaria.
L’essenziale non è la memoria o il tempo, ma il segno e la verità. L’essenziale non è ricordare, ma apprendere. [p. 84]
E se il tempo c’entra qualcosa (e in effetti c’entra moltissimo) non è affatto in quanto reminiscenza involontaria del passato, ma in quanto ogni verità è una verità del tempo.
Per questa ricerca della verità Proust si serve di un’immagine del pensiero che si oppone a quella della filosofia. Questo tema dell’immagine del pensiero ritorna costantemente, anche se con accenti e modalità differenti, nell’opera di Deleuze. È già apparso e ampiamente trattato nel §15 del capitolo III del Nietzsche, dove viene respinta l’idea che pensare sia l’esercizio naturale di una facoltà. Per Proust il pensiero non pensa se non costretto
Leitmotiv del Tempo ritrovato è infatti la parola forcer, costringere. [p. 88]
L’uomo pensa, quando e se pensa, perché incontra problemi, problemi che non cerca, ma che gli si impongono suo malgrado. Non pensa perché vuol sapere, perché vuol conoscere; non c’è alcuna buona volontà nel pensiero. Perciò la ricerca della verità è un’avventura dell’involontario. Pensare non ha in primo luogo la sua origine nella spontaneità dell’Io penso, ma unicamente nella violenza delle forze involontarie che aggrediscono le nostre facoltà. Non è né un’ascesi né una fuga dal mondo, ma una battaglia, una sfida mortale, il cui rischio, quando si perde, non è l’inoffensiva ignoranza o il perdonabile errore, ma la vergognosa stupidità (bêtise) e il peso insostenibile del luogo comune e della banalità.
Quali sono queste forze che ci costringono a pensare? Sono i segni e il segno non è un’idea o una rappresentazione. È incontrato e non prodotto deliberatamente; è fortuito e inevitabile, la sua nota caratteristica non è altro che la violenza. Il segno, come impressione involontaria, è ciò che implica o complica qualcos’altro, di nascosto, di non immediatamente disponibile alla comprensione intelligente, qualcosa verso cui la costrizione del segno ci obbliga a dirigerci. Il segno è un problema, un problema che si pone per il fatto che le cose e gli oggetti che incontriamo non si esauriscono nella loro empiricità né si risolvono sussumendoli a concetti generali. Il segno, in quanto problematico, è molto vicino al concetto di virtuale. La verità risiede nei segni, si nasconde in essi, deve essere cercata nella loro oscurità e profondità, e non nelle idee chiare e manifeste.
Per la filosofia ciò ha importanti conseguenze. Se il pensiero pensa solo quando è costretto, se l’atto di pensare non discende da una semplice possibilità naturale, allora la filosofia si illude se crede di fondarsi su un amore naturale del vero, sulla buona volontà di pensare, sull’amicizia per la saggezza. Questi temi si ritrovano tutti ampiamente trattati e ulteriormente problematizzati nel capitolo III di DR, intitolato appunto L’immagine del pensiero (V. G. Deleuze, Differenza e ripetizione (rev. di Giuliano Antonello e Anna Maria Morazzoni), Raffaello Cortina, Milano, 1997. L’opera di Proust, per Deleuze, rivaleggia in senso letterale con la filosofia in quanto propone un’immagine del pensiero antagonista a quella filosofica. Già nel Nietzsche apparivano delineate con chiarezza le assunzioni dogmatiche di una certa filosofia:
- La convinzione che pensiero e verità siano fra loro affini, un’affinità derivante dal fatto che la verità è già disponibile e che il pensiero, se animato dalla buona volontà del pensatore, non possa che spontaneamente dirigersi verso di essa. Dietro questa convinzione c’è una ben precisa concezione dell’attività del pensare, un’attività fatta coincidere, in sostanza con quella del conoscere e del sapere. In effetti, se la verità già c’è, non va creata o prodotta, ma solo ritrovata e il pensatore è colui che si è proposto questo scopo: riconoscere il vero in un mondo di illusioni e di ombre.
- Certo, e questa è la seconda caratteristica, l’operazione di riconoscere il vero, in linea di principio spontaneamente affine al pensiero, diventa ardua e minacciata dall’errore (grande spauracchio del filosofo), a causa del corpo, della materialità che offusca lo sguardo. Quante volte prendiamo lucciole per lanterne, quante volte ci incamminiamo su sentieri che si rivelano vicoli ciechi, quante volte crediamo di sapere e invece scopriamo con disappunto di essere immersi fino al collo nell’ignoranza, nei pregiudizi, negli idola, di cui Bacone, uno dei numi tutelari di questa immagine del pensiero, ha fatto l’inventario!
- E tuttavia, e qui siamo alla terza caratteristica, basta elaborare un metodo corretto, basta tracciare una via diretta, una via regia, e le contingenti difficoltà, difficoltà di fatto, saranno superate e il pensatore verrà condotto alla presenza inequivocabile del vero. Non tutti i pensatori saranno concordi sul metodo, né sulla natura e il luogo della verità, ma questo è un altro discorso. L’essenziale è che tutti concordino sul carattere già dato del vero, sull’esistenza di ostacoli di varia natura (ma tutti fattuali) al conseguimento della verità e sulla possibilità di superarli per via metodica. Ecco tracciata quell’immagine del pensiero che ha costituito per secoli una via maestra della filosofia.
Possiamo sintetizzare così: secondo l’immagine classica del pensiero, la verità non può che essere scoperta, secondo l’immagine proustiano-deleuziana, la verità non può che essere creata.
Da un certo punto di vista, la ricerca della verità sarebbe la cosa più naturale e più facile; basterebbe una decisione e un metodo capace di vincere le influenze esterne che distolgono il pensiero dalla sua vocazione e gli fanno prendere per vero il falso. [p. 87]
La filosofia, una certa filosofia, ben s’intende, viene radicalmente contestata, dato che persino nell’etimo nasconde la sua vocazione alla concordia, alla buona volontà, al reciproco riconoscimento fra verità e pensiero. La filosofia è amicizia per il sapere e, nota Proust, come gli amici fra loro sono concordi sul significato delle cose e delle parole, così la filosofia appare come l’espressone di un grande Spirito universale al cui interno i significati sono manifesti e comunicabili. La critica basilare a questa concezione è pronunciata con estrema chiarezza: astrazione, convenzionalità, arbitrarietà. Le verità di cui questo pensiero virtuoso va alla ricerca sono librate nel cielo della mera possibilità, verità astratte, tutte formali, indifferenti all’azione delle forze affettive e sensibili.
Alle verità della filosofia manca la necessità, e l’artiglio della necessità. Sta di fatto che la verità non si concede, si tradisce; non si comunica, s’interpreta; non è voluta, ma involontaria. [p. 88]
Necessità, interpretazione, involontarietà: in questi termini è implicito il problema dei segni e del senso. La necessità non si sceglie, ci si impone, l’interpretazione non è mai una scoperta, ma sempre un’invenzione, mai un dato, ma sempre un risultato: necessità e interpretazione, come note dominanti di una diversa immagine del pensiero, smascherano l’illusione filosofica che basti volere per pensare. Involontarietà e costrizione sono i Leitmotive del Tempo ritrovato.
La ricerca della verità è l’avventura precipua dell’involontario. [p. 88]
Ed ecco la grande dichiarazione di Deleuze, che ribadisce la sua critica alla filosofia e la sua “scelta” per la letteratura.
Più importante del pensiero è ciò che “fa pensare”; più importante del filosofo, il poeta. [p. 88]
Più importante della conoscenza è la vita; ma ancora: più importante dei dati e dei fatti, oltreché dei concetti e dei significati, sono le forze sensibili, gli eventi, i segni, il senso.
Il Leitmotiv del Tempo ritrovato è appunto la parola costringere: impressioni che ci costringono a guardare, incontri che ci costringono a interpretare, espressioni che ci costringono a pensare. [p. 88]
Segue una lunga e decisiva citazione dal Tempo ritrovato dalla quale emergono le ragioni del rilievo che Deleuze dà a Proust narratore e filosofo. (p. 89-90).
Le verità che l’intelligenza coglie direttamente, scopertamente, nel mondo della piena luce, hanno qualcosa di meno profondo, di meno necessario di quelle che la vita ci ha comunicate, nostro malgrado, in un’impressione, materiale in quanto entrata in noi attraverso i sensi, ma di cui possiamo enucleare l’intimo spirito. … Dovevo cercare di interpretare le sensazioni come segni di altrettante leggi e idee, sforzandomi di pensare, cioè di far uscire dalla penombra ciò che avevo provato, di convertirlo in un equivalente spirituale. … Si trattasse di reminiscenze sul tipo del rumore del cucchiaio, o del sapore della “maddalena”, o di quelle verità scritte con l’ausilio di figure, delle quali cercavo di cogliere il significato nel mio pensiero, in cui – campanili, erbe selvatiche – esse componevano un complicato e fiorito libro di magia, la loro prima caratteristica era che io non ero libero di sceglierle, che mi venivano date tali e quali. E intuivo che proprio questo doveva essere il segno della loro autenticità. Non ero stato io a cercare i due ciottoli ineguali del cortile, nei quali ero inciampato. Ma, per l’appunto, il modo fortuito, ineluttabile, con cui ero inciampato nella sensazione, garantiva di per sé la verità del passato che essa resuscitava, delle immagini cui dava l’avvio, poiché noi sentiamo il suo sforzo per risalire verso la luce, sentiamo in noi la gioia per la verità ritrovata. … [Il] libro interiore di tali segni sconosciuti (segni in rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente, cercava, urtava, contornava come un palombaro che scandagli), nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a decifrarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi. … Le idee formate dall’intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica, una verità possibile, e la loro scelta è arbitraria. Il libro dai caratteri figurati, non tracciati da noi, è l’unico libro nostro. Non che le idee che noi formiamo non possano essere logicamente giuste; ma non sappiamo se sono vere. Solo l’impressione, per quanto infima possa sembrare la materia e inafferrabile la traccia, è un criterio di verità; e solo essa merita perciò di essere appresa dallo spirito, come la sola capace, qualora esso sappia estrarne la verità, di condurlo a una più grande perfezione e di offrirgli una gioia veramente pura. [p. 89-90]
Qui entra in gioco in modo esplicito e ripetuto un concetto finora adombrato, quello di segno, ed entra in gioco in aperto contrasto con quello di cose, oggetti, significati, ma anche concetti, verità logiche, verità possibili. Il pensiero, per Deleuze e Proust, lungi dall’essere quella facoltà virtuosa rivolta verso la conoscenza della verità, tende a vivere in uno stato di naturale stupore, accontentandosi di possibilità astratte e di piatte convenzioni. È perché suo malgrado l’uomo incontra continuamente segni, problemi, che “deve” pensare, cercare di decifrare o interpretare questi segni, spiegarli, nel senso etimologico del termine, cioè di esplicare
L’Idea è già presente nel segno, racchiusa e avviluppata, nello stato oscuro di tutto ciò che costringe a spiegare. [p. 90]
I segni popolano il mondo della Recherche (segni mondani, segni amorosi, segni sensibili e, soprattutto, segni artistici o opere d’arte). Ma accanto a essi emerge anche inaspettata e strana (per Proust e Deleuze) l’Idea platonica, intrecciata con il concetto di essenza. Ma il “platonismo” di Proust, che pure è affermato in questo saggio e quello di Deleuze, autori intimamente antiplatonici, ha naturalmente connotati del tutto peculiari. Platone entra in gioco perché è il filosofo che ci offre in modo espressivo un’immagine del pensiero sotto il segno degli incontri e delle violenze. È fin troppo nota la sua distinzione fra oggetti che lasciano tranquillo il pensiero e oggetti che ci costringono a pensare. Sono questi ultimi i segni e la loro caratteristica è quella di sottrarsi a ogni possibilità di riconoscimento, a ogni identificazione. Una sedia non è un segno, è un oggetto che riconosco senza alcuna difficoltà, così come riconosco la lavagna che sta dietro di me, e con essa le sue qualità, durezza, colore, e così via. Questi oggetti del riconoscimento (dati, cose del mondo) sono qualcosa che solo contingentemente si danno alla percezione, ma potrebbero benissimo, come in realtà avviene, darsi anche ad altre facoltà, naturalmente secondo modalità proprie di ognuna di queste facoltà. Posso tentare di ricordare la sedia della cucina di casa mia o la lavagna che sta dietro di me, ma posso anche immaginare una sedia o una lavagna. Non solo, posso formarmi il concetto di sedia o quello di lavagna, concetti che valgono genericamente per tutte le sedie o le lavagne che riconoscerò.
Fino a che si esercitano volontariamente, la percezione, la memoria, l’immaginazione, lo stesso pensiero hanno solo un esercizio contingente [sentiamo in questo termine l’opposto di necessario]: in tal caso, ciò che percepiamo potremmo ugualmente ricordarlo, immaginarlo, pensarlo e viceversa. Né la percezione, né la memoria volontaria, né il pensiero volontario sono capaci di darci una verità profonda [da non intendersi come una verità che starebbe in un recesso misterioso, o, peggio, trascendente la cosa stessa; nulla di misterioso: la verità profonda è la verità reale, concreta, opposta alla verità astratta, possibile, e infatti, continua Deleuze] non ci danno nient’altro che verità possibili. Qui nulla ci costringe a interpretare qualche cosa, a decifrare la natura di un segno, nulla ci spinge a tuffarci come un “sommozzatore che operi un sondaggio”. Tutte le facoltà si esercitano armoniosamente, ma sostituendosi a vicenda nell’arbitrario e nell’astratto. (c.m.) [p. 91-92]
Gli oggetti platonici che ci fanno pensare, invece, quali sono? I segni. A differenza dei dati sensibili od oggetti, che in Platone non sono altro che luoghi accidentali della manifestazione dell’idea, un’idea che ha la sede propria nell’intelligibile (il quale viene sempre prima di ogni incontro), oggetti, quindi che non ci creano problemi, dal momento che sono già abitati da un significato, i segni, invece, non hanno logos, lo reclamano, ma si sottraggono a ogni identificazione o risoluzione. Per Platone, segno per eccellenza è il sensibile in sé e l’arte in particolare, che ne rappresenta l’apoteosi con la sua inaudita pretesa di verità. Il sensibile in sé non è il dato sensibile, in cui la differenza è già placata e identificata nel suo status di qualità. Per capirci, non la durezza di questa lavagna, ma la durezza in sé, sempre diversa da sé (dura rispetto a ciò che è più molle, molle rispetto a ciò che è più duro), una durezza senza identità. Un problema per ogni filosofia dell’identità. Tutto il pensiero platonico è segnato dalla pericolosità di questi incontri e infatti, scrive Deleuze, il demone socratico opera nel prevenire gli incontri o nel provocarli volontariamente per organizzarli e disarmarli.
I segni, dunque. Il saggio di Deleuze si apre proprio con la distinzione dei tipi di segni che troviamo nella Recherche. Ci sono segni mondani (pensiamo agli incontri dai Guermantes o, a un livello più basso, dai Verdurin), amorosi (l’amore di Swann per Odette, di Marcel per Gilberte, o per Albertine), sensibili (e qui gli esempi sono molteplici) e artistici, diversi nel loro modo di presentarsi, diversi per ciò che implicano, ma identici per la loro forma: il segno è sempre ciò che implica un senso, che lo racchiude, e che perciò deve essere decifrato o interpretato, operazioni attraverso le quali si sviluppa o si esplica questo senso. Nell’universo di Proust non ci sono cose od oggetti, ma solo segni: non contano i fatti, i dati, le cose, gli oggetti, non contano in questa loro veste di immediata disponibilità e fruibilità; contano invece i segni che emettono, cioè la problematicità del loro essere, delle loro relazioni. Valga per tutti come esempio il mondo dell’amore.
Innamorarsi vuol dire individualizzare qualcuno attraverso i segni che porta o che emette. Vuol dire diventare sensibile a questi segni, iniziarsi a essi (come nella lenta individualizzazione di Albertine, entro il gruppo delle fanciulle). … L’amato implica, include, imprigiona un mondo che occorre decifrare, e cioè interpretare. [p. 8]
E dell’amore la sua legge profonda: la gelosia. La gelosia è quel sentimento, quello stato d’animo proprio di chi, a torto o a ragione, dubita dell’amore o della fedeltà della persona amata. Il geloso è uno zelota dell’interpretazione di ogni segno che possa emettere la persona amata, un fanatico osservatore di ogni più piccolo indizio (nell’etimo di gelosia c’è infatti lo zelo). Per Proust è più profonda dell’amore, ne contiene la verità.
E questo perché la gelosia va più lontano nel cogliere e nell’interpretare i segni. … I segni amorosi … sono segni ingannevoli che possono rivolgersi a noi solo nascondendo ciò che esprimono, cioè l’origine dei mondi sconosciuti, dei pensieri e delle azioni a noi ignoti da cui prendono senso. … Tutti i segni ingannevoli emessi da una donna amata convergono verso il medesimo mondo segreto: il mondo di Gomorra, che, a sua volta, non dipende da questa o da quella donna. … Il mondo espresso dalla donna amata è sempre un mondo che ci esclude. [p. 10-11]
Le cose, le persone amate, sono come delle scatole o dei vasi che contengono dell’altro: cioè il significato nascosto da decifrare. Il senso è implicato nel segno, come una cosa avvolta in un’altra. L’accesso al senso, cioè l’interpretazione, non è altro che lo spiegamento o lo svolgimento del segno. Nel rapporto di segno e senso come piega e dispiegamento, implicazione ed esplicazione, va respinta l’interpretazione che ciò che è nascosto in quelle scatole e vasi, che sono gli oggetti, le cose e le persone, sia da intendere come un significato dato che non aspetta altro che essere portato alla luce. Il senso a cui il segno allude non è un significato più profondo nascosto dietro significati superficiali: è la vita stessa dei significati, degli oggetti, delle cose, la virtualità che li anima e li libera dalla condizione di mera datità.
Non essendo mai stato posseduto, il contenuto è perso a tal punto che la sua riconquista è una creazione. [p. 110]
È così che l’essere amato ha valore solo per ciò che avvolge, che implica, per il senso che esprime.
L’amore e la gelosia sono intimamente caratterizzati da questa attività esplicativa. [p. 111]
Chi cerca la verità? Si chiede Deleuze a pagina 16
Il geloso sotto la pressione delle menzogne dell’amato. È sempre la violenza di un segno, che ci costringe a cercare, togliendoci la pace. Alla verità non si arriva per affinità o a forza di buon volere: essa si tradisce attraverso segni involontari. [p. 16]
Ciò che è essenziale in Proust, e che Deleuze porta in primo piano nella sua analisi della Recherche, è la convinzione che c’è un’unità di tutti i segni nella verità implicata nell’opera d’arte. C’è una supremazia dei segni artistici su tutti gli altri, perché è solo in essi che tutti gli altri si uniscono e trovano la verità che corrisponde a loro. Questa superiorità dell’arte e dei suoi segni si nota chiaramente dalla delusione, ogni volta di natura particolare, che suscita l’impotenza degli altri segni a rivelare il segreto che ci si attende da loro, quello di farci cogliere la verità ultima, tanto che sembra legittimo parlare di impotenza, o meglio, di insufficienza ontologica dei mondi non artistici. È questo un punto importante sul quale vale la pena spendere qualche parola, perché la delusione è un momento essenziale del tirocinio o apprendistato, quello che ci porta a presentire l’insufficienza di un approccio, diciamo così, volontario e logico al mondo. Il mondo dei fatti, degli oggetti, inevitabilmente ci delude. La sua opacità, la sua grana grossa, fatta di presenza, semplice presenza, nasconde il senso che gli oggetti portano in sé. È l’approccio empirico, oggettivo, al mondo, un approccio a cui poco serve una correzione più razionale, più esperta, più soggettiva, perché sempre si mantiene sul piano della volontarietà, del voler sapere, del voler conoscere. Gli oggetti, nell’imporre se stessi, nascondono i segni che “portano”, impongono un percorso di conoscenza che resta tuttavia incapace di andare oltre la loro presenza: la delusione oggettiva (nell’oggetto non trovo il senso) genera una compensazione soggettiva, che resta tuttavia insufficiente, gravata com’è anch’essa dall’esercizio volontario delle facoltà. L’ultima parte del III capitolo mette a fuoco questa problematica, servendosi dell’esempio del teatro.
Il meccanismo della delusione oggettiva e della compensazione soggettiva è particolarmente analizzato nell’esempio del teatro. Il protagonista desidera con tutte le forze di sentire la Berma. Ma quando raggiunge lo scopo, cerca dapprima di riconoscere il talento della Berma, di circoscrivere questo talento, di isolarlo in modo da poterlo designare. È la Berma, “ascolto finalmente la Berma”. Percepisce un’intonazione particolarmente intelligente, di una mirabile pertinenza. All’improvviso ecco Fedra, fedra in persona. Eppure nulla può impedirgli di sentirsi deluso. Perché quell’intonazione ha solo un valore intelligibile, un senso perfettamente definito, non è frutto che dell’intelligenza e del lavoro. Forse bisognava ascoltarla in altro modo, la Berma. Quei segni che non abbiamo saputo gustare né interpretare finché li abbiamo collegati alla persona della Berma, dobbiamo cercarne il senso altrove: in associazioni che non risiedono né in Fedra né nella Berma. Così Bergotte fa notare al protagonista che un certo gesto della Berma rievoca quello di una statuetta arcaica, mai vista dall’attrice, e a cui non ha certo pensato neppure Racine. [p. 34-35]
La Berma è una attrice celebre che dà molte rappresentazioni di Phèdre di Racine in cui interpreta il ruolo della protagonista, nel quale eccelle. Il Narratore si interessa al suo modo di recitare per capire in che cosa consiste il suo genio e che cos’è il genio. Per molto tempo il Narratore ragazzino desidera ardentemente andare ad assistere a un suo spettacolo, e finalmente i genitori glielo permettono. Rimane molto deluso, e lo dice a suo padre e a Norpois. Il suo giudizio però si modifica durante la soirée di gala all’Opera, in cui vede la Berma nella grande scena della dichiarazione di Fedra e in un altro brano: ne riconosce allora il genio.
Perché i segni artistici sfuggono a questo esito frustrante, a questa pendolarità delusione oggettiva – compensazione soggettiva? Cosa c’è oltre l’oggetto e il soggetto, si chiede Deleuze nella parte finale di questo III capitolo? Ancora l’esempio del teatro ci aiuta.
“…Questa era entrata in scena. E allora, o miracolo! (….) il genio della Berma, che mi era sfuggito quando cercavo così avidamente di coglierne l’essenza, adesso, dopo quegli anni di oblio, in quel momento di indifferenza, si imponeva con la forza dell’evidenza alla mia ammirazione. Prima, per cercare di isolare il suo talento, io sottraevo in certo modo da quel che intendevo la “parte” in sé, quella parte comune a tutte le attrici che recitavano Phèdre e che avevo studiata a memoria per riuscire a cancellarla dalle miei impressioni, per cogliere come un residuo il talento della Berma. Ma quel talento che cercavo di scorgere fuori della parte recitata faceva in realtà tutt’uno con essa. (…) …voce, atteggiamento, gesti, veli, intorno a quella carne delle idee che sono i versi (una carne che, al contrario dei corpi umani, non sta fra noi e l’anima come un ostacolo opaco, ma come un rivestimento spiritualizzato), non erano più che degli abiti supplementari, i quali, invece di nasconderla, manifestavano più splendidamente quell’anima che se li era assimilati e vi si era diffusa: strati di sostanze diverse, perfettamnte trasparenti, la cui sovrapposizione otteneva l’effetto di rifrangere con maggior ricchezza il raggio centrale e imprigionato che li attraversa, e rendere maggiormente estesa, più preziosa e più bella la materia impregnata di luce in cui esso è inguainato. Così l’interpretazione della Berma stava intorno all’opera, come una seconda opera vivificata anch’essa dal genio.” [I Guermantes]
Allora,
al di là degli oggetti designati, al di là delle verità intelligibili e formulate, ma anche al di là delle catene delle associazioni soggettive e delle resurrezioni per somiglianza o continuità, vi sono le essenze, che sono a-logiche o sopra-logiche. Esse oltrepassano gli stati della soggettività non meno che le proprietà dell’oggetto. L’essenza costituisce la vera unità del segno e del senso: essa costituisce il segno, in quanto irriducibile all’oggetto che lo emette; esso costituisce il senso, in quanto irriducibile al soggetto che l’afferra. … I segni mondani, i segni amorosi, perfino i segni sensibili, sono incapaci di darci l’essenza: ci avvicinano a essa, ma sempre ricadiamo nella trappola dell’oggetto, nella rete della soggettività. Solo al livello dell’arte si rivelano le essenze. Ma una volta che si sono manifestate nell’opera d’arte, reagiscono su tutti gli altri campi; e ci accorgiamo che già si incarnavano, che erano già presenti in ogni specie di segni, in ogni tipo di apprendimento. [p. 36-37]
È il problema dell’essenza e della sua attualizzazione. I segni artistici inviluppano, implicano un’essenza, nel senso proprio del termine, cioè non solo un modo, una maniera, di concepire l’essere, una verità, ma anche una realtà indipendente, l’essere stesso. È l’Essenza la meta finale dell’apprendistato, la rivelazione finale. Il privilegio dell’arte è quello di farci scoprire che esistono delle essenze. Dotate di realtà indipendente, le essenze permettono di affermare che esiste un platonismo di Proust. “Proust tratta le essenze come idee platoniche, conferendo loro una realtà indipendente.”[p. 41] Non solo, come in Platone con la dialettica ascendente e discendente, c’è una conquista dell’essenza nella sua realtà spirituale e, a partire da questa “presa”, uno svelamento di ritorno del senso del sensibile. L’essenza è dapprima e soltanto rivelata nell’opera d’arte, ma, una volta che si è manifestata nell’arte, reagisce su tutti gli altri segni, scoprendo che essa era già là, in tutte le altre specie di segni. È questo quello che il narratore non sapeva, quello che aveva ignorato durante tutta la sua vita e che scopre soltanto alla fine: l’idea capitale che i segni materiali e sensibili non sono niente senza l’essenza ideale che incarnano.
Alla fine della Ricerca, l’interprete comprende ciò che gli era sfuggito nel caso della “madeleine” o anche dei campanili: il senso materiale non è nulla senza l’essenza ideale che esso incarna. [p. 14]
Con la nozione di essenza, punto supremo della meditazione proustiana, incontriamo tutta la difficoltà e tutto l’interesse della sua opera (opera di straordinaria importanza, come vedremo nella conclusione del nostro percorso, per una filosofia della differenza). Come pensare, come tenere assieme l’Essenza in quanto realtà ontologica e i segni artistici, sempre radicati in una dimensione soggettiva e sensibile? Come tenere assieme una verità oggettiva con l’unicità di una creazione artistica singolare? Ma, se Proust è a più di un titolo platonico, questo platonismo è stranamente incrociato con un’influenza leibniziana. Di Platone Proust ha bisogno per affermare la realtà dell’essenza; ma Platone deve essere corretto con Leibniz per due ragioni.
- Il mondo espresso dai segni senza confondersi con il soggetto, non esiste tuttavia fuori dal soggetto che l’esprime, distinto e indipendente, ma non esterno o fuori di esso.
Il mondo espresso non si confonde col soggetto: se ne distingue, precisamente come l’essenza si distingue dall’esistenza. … Non esiste al di fuori del soggetto che lo esprime, ma è espresso come essenza, non già dello stesso soggetto, ma dell’Essere. [p. 42]
- L’essenza non è qualcosa di “visto”, qualcosa che si vede, ma un punto di vista, un luogo da cui si vede
Proust è un seguace di Leibniz: le essenze sono vere monadi, ognuna delle quali si definisce secondo il punto di vista dal quale esprime il mondo, mentre ogni punto di vista ci rimanda a una qualità ultima nel fondo della monade. [p. 40]
Questo punto di vista, che sta nel fondo della sostanza di ogni essere (cioè la monade) e che lo caratterizza in modo ultimo o proprio, esprime sia una qualità dell’essere che una qualità della visione, una qualità del mondo e delle cose assolutamente unica e singolare, differente da tutte le altre. Perciò Deleuze afferma che la monade è una differenza. L’opera d’arte rivela un’essenza in quanto differenza. L’essenza non è un medesimo, un’identità, è la differenza. Non è ciò a cui il sensibile va ricondotto, per renderlo comprensibile, quindi non è una struttura intelligibile, ma è la moltiplicazione infinita dei sensi del sensibile, la vera potenza del sensibile. Non solo. Il punto di vista è qualcosa di individuale, ma è anche qualcosa che individualizza e sarebbe un controsenso totale ridurre questo punto di vista, o questa qualità, a uno stato psicologico o a qualcosa di soggettivo, o appartenente a una qualche forma di soggettività trascendentale. Il punto di vista è superiore al soggetto, indipendente da lui, perciò merita la qualità di essenza platonica.
Tiriamo le conclusioni di questa parte così densa e complessa.
Platone è necessario per porre il punto di vista singolare come Essenza, e Leibniz per la Singolarità delle essenze. Questa è la Differenza, non la differenza empirica fra due cose, ma la Differenza in sé, in quanto principio e cominciamento di un mondo, ogni volta unico e di numero infinito. Questo aspetto dell’essenza proustiana (come principio ultimo di singolarità individuante) fa integralmente parte dell’essenza deleuziana come Idea (v. su questo tutto il capitolo IV di Differenza e ripetizione). Ora, dal momento che questa definizione è anche quella dell’arte, si comprende la ragione delle proposizioni che assegnano all’arte la destinazione suprema del pensiero e fanno letteralmente comunicare, nell’opera di Deleuze, l’ispirazione a un tempo nietzscheana e proustiana: essere = differenza = essenza singolare = opera d’arte.
Se l’essenza esiste sempre in una virtualità ideale, essa riceve attualità solo dai segni che l’incarnano, innanzitutto dai segni sensibili.
Reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti [scrive Proust nel Tempo ritrovato]. In questo reale ideale, in questo virtuale consiste l’essenza. [p. 58]
Se l’essenza è sempre un’essenza artistica, essa non si attualizza solo nei segni smaterializzati dell’arte, anche se è in essi che risiede per eccellenza. Discende anche nei mezzi più opachi, nei segni più materiali, più ribelli, che sono i segni sensibili, amorosi, mondani. Smaterializzato non significa “sottratto al sensibile”, come spirituale non significa “elevato a una dimensione superiore”, ultramondana. Significa, invece, concreto, reale, in opposizione a ciò che è meramente empirico o semplicemente intellettuale. I segni artistici sono immateriali perché, a differenza di ogni altro segno, imprigionato nell’oggetto che lo porta, appesantito dalla sua semplice presenza, quindi costretto ad alludere all’altro da sé, manifestano invece in se stessi il senso: anziché essere segni che implicano un senso, sono veri e propri segni-senso. È per questo che l’arte, direbbe Heidegger, ha una portata ontologica.
La difficoltà di questo apprendistato sta nel fatto che, spontaneamente e secondo due orientamenti simmetrici e inversi, noi cerchiamo, senza successo, il segreto o il senso delle cose, alternativamente nell’oggetto o nel soggetto, ignorando che risiede, invece, nell’indipendenza dell’essenza. È questo ciò che il narratore non sa all’inizio della sua ricerca e scopre solo alla fine, prendendo coscienza della doppia illusione che l’ha guidato durante tutta la sua vita. I segni, o le impressioni, le sollecitazioni che le opere ci danno, hanno due metà: l’una si radica nell’oggetto, e il segno designa allora questo oggetto, l’altra si prolunga in noi stessi, e il segno allora, ci significa qualcosa di diverso da quello che designa.
La lettura del saggio di Deleuze è anche un importante esercizio di critica letteraria e filosofica, perché illumina di nuova luce quest’opera, la Recherche, su cui si è scritto moltissimo, e, contemporaneamente, mette in campo una riflessione di grande importanza sulla letteratura moderna, su ciò che rende “moderna” la letteratura. Punta all’analisi del funzionamento interno dei suoi elementi significanti, sottolinea il fatto che la produzione di senso è più di tipo macchinico che narrativo nel senso tradizionale del termine (dove la fabula, la trama, rivestiva un ruolo decisivo, anche se, ovviamente, non esaustivo). Si incontra questo problema nella seconda parte del saggio e, in particolare, nel capitolo IV, intitolato Le tre macchine.
Macchine a oggetti parziali (pulsioni); Macchine da risonanza (Eros); Macchine a movimento forzato (Thanatos). Ognuna di esse produce verità, perché lo specifico della verità è di essere prodotta, ed essere prodotta come un effetto di tempo. [p. 148]
L’opera d’arte non ha la sua ragione in un mondo oggettivo, fattuale, che essa rappresenterebbe, o in significati universali, trascendentali, che essa porterebbe alla presenza, non obbedisce a istanze eteronome. Anzi, è il luogo proprio dell’oggettività.
L’oggettività può esistere soltanto nell’opera d’arte: non esiste più in contenuti significativi, come stati del mondo, né in significati ideali, come essenze stabili, ma unicamente nella struttura formale significante dell’opera, cioè nello stile. [p. 102]
Proprio perché, come si legge a p. 102, manifesta l’essenza, un punto di vista superiore, capace di superare gli stati d’animo soggettivi (v. l’esempio di Swann a p. 101), l’arte è la vera oggettività. Questa non va confusa, naturalmente, con l’oggettività scientifica, dove al contrario ciò che viene negato è proprio il concetto di punto di vista, in nome di una generale visione universale. Una struttura formale che, avendo il proprio fine in se stessa, lascia nell’irrilevanza la questione della significazione o se la subordina interamente. Perdiamo l’opera se, anziché sintonizzarci sul suo funzionamento, la oberiamo di domande sul suo significato: cosa vuol dire? Questa è la domanda più inutile da fare a un’opera d’arte: l’opera d’arte non vuol dire null’altro se non ciò che dice e ciò che dice coincide assolutamente con il suo funzionamento. Concetto espresso con mirabile sintesi e chiara determinazione in queste parole:
La Ricerca non è solo uno strumento, è una macchina. L’opera d’arte moderna è tutto ciò che si vuole, …, dal momento che funziona: l’opera d’arte moderna è una macchina e funziona in tal modo. [p. 135]
Questo primato della struttura formale, del macchinico, è imposto dal fatto che il mondo moderno è un “mondo a pezzi, che non può essere riunito da alcuna totalizzazione, né da alcuna unificazione” [p. 161], un mondo che è diventato “frammenti e caos” [p. 102]. Il mondo è moderno in quanto non può più essere riferito a Idealità che permetterebbero di ordinarlo, né a una Soggettività, per diritto universale o no, che potrebbe dargli una coesione o un’unità, sia pure parziali.
In un mondo di molteplicità e di caos solo la struttura formale dell’opera d’arte, in quanto rinvia solo a se stessa, può servire da unità, a posteriori [p. 155].
Infatti,
il problema dell’opera d’arte è quello di una unità e di una totalità, che non siano né logiche, né organiche, che cioè non siano presupposte dalle parti in quanto unità perduta o totalità frammentata, né formate o prefigurate da esse lungo uno sviluppo logico o un’evoluzione organica. … L’unità è un risultato ed è scoperta da Balzac come un effetto dei suoi libri. Un effetto non è un’illusione. [p. 152].
Viene ribadito che l’opera d’arte non trova la sua unità fuori di sé, ma, ed è ancora più importante comprenderlo e sottolinearlo, non ha nemmeno in se stessa un’unità, come quella che ha un organismo o un sistema. Se l’unità esterna a essa toglierebbe autonomia all’opera d’arte, anche un’unità interna, realizzata, come l’unità organica o l’unità logico-sistematica a spese delle parti e degli elementi costitutivi, toglierebbe a essa il fondamentale carattere della molteplicità, della pluralità, che la costituisce. L’insistenza di Deleuze sul tema dell’unità di un’opera è molto importante, perché fa piazza pulita di una vulgata secondo la quale i pensatori della differenza lascerebbero il mondo in frantumi, in pezzi dispersi. I filosofi della differenza non sono contro l’unità; sono contro l’unità o l’identità metafisica, in base alla quale c’è un essere vero, identico, unico, eterno, trascendente, e le sue copie, differenti, particolari, molteplici, transeunti, perciò, in ultima istanza, false.
Si domanda Deleuze:
Che cosa costituisce l’unità di un’opera? Che cosa ci fa comunicare con un’opera? Che cosa costituisce l’unità dell’arte, ammesso che esista? Si è rinunciato a cercare un’unità che unifichi le parti, un tutto che totalizzi i frammenti. La proprietà e la natura delle parti e dei frammenti è infatti quella di escludere il Logos, tanto come unità logica, quanto come totalità organica. Ma c’è, deve esserci un’unità che sia l’unità di quel molteplice, di quella molteplicità, come un tutto di quei frammenti, un Uno e un Tutto che non siano principio, bensì l’effetto di quel molteplice e delle sue parti scucite. Uno e Tutto che funzionino come effetto, effetto di macchine, invece di agire come principi. [p. 151].
Compito prioritario di un artista, allora, ma anche di un filosofo (ecco il pensare con e non come), è quello di pensare una nuova forma di unità. Uno degli interessi maggiori di questo saggio è quello di specificare questi modi di unità secondo i termini e le tappe messi in campo ai diversi livelli della Recherche, dunque di mostrare in modo concreto come si fa del molteplice. La questione, il problema, che l’opera di Proust ci pone filosoficamente, è allora quella di sapere su cosa riposa l’unità della Recherche. In che senso la Ricerca è un’opera? Questione che tanto più si impone, quanto meno le essenze singolari, come differenze ultime, sono integrabili in una forma d’ordine comune, platonico o leibniziano che questo ordine sia.
Questi punti di vista sul mondo, vere e proprie essenze, non formano a loro volta né un’unità, né una totalità: si direbbe piuttosto che ad ognuno di essi corrisponda un universo, il quale non comunica con gli altri, la cui irriducibile differenza è profonda quanto quella che esiste tra mondi astronomici. [p. 149-150]
Rifiutata l’unità di tipo organico o logico, è necessario trovare un modo di messa in comunicazione che non faccia ricorso a un’unità preliminare e trascendente. La comunicazione deve risultare dalle parti, dai frammenti, in quanto tali e non riferita a una totalità infranta, deve essere un effetto del gioco di queste parti, e non qualcosa di già dato che queste parti tenderebbero a ricostituire. Il romanzo non deve alterare la frammentazione o la disparità degli elementi in questione. Non deve sanare la frammentazione, anzi, l’unità dell’opera dovrà proprio salvaguardare la pluralità delle sue parti, dovrà ribadirne l’irriducibilità a un significato unitario. Tutta la seconda parte, dedicata alla Macchina letteraria, affronta questo problema e per rintracciare i modi concreti di legame, di unificazione, al di là della risposta formale, articola il problema stesso in vari capitoli. Così vediamo affrontare il problema dell’unità ai differenti livelli dell’opera: quello delle parti (Le scatole e i vasi), della legge (I livelli della Ricerca), del funzionamento (Le tre macchine) e infine dell’unità d’insieme e dello stile (Lo stile). Viene in gioco, per cogliere nella sua essenza questa forma “moderna” di unità, un concetto che Deleuze prende da Guattari, il concetto di trasversalità,
Dimensione supplementare che si aggiunge a quelle occupate dai personaggi, fatti e parti della Ricerca. [p. 156]
Dimensione supplementare può far pensare a una qualche forma di trascendenza, come la società organica in cui inserire il personaggio in formazione nel romanzo classico era qualcosa che precedeva e organizzava lo sviluppo e il senso stesso del romanzo. Naturalmente non va intesa in questo modo: la trasversalità non rappresenta in nessun caso un modo di trascendenza perché essa non viene né prima, né sopra, né sta sotto gli elementi del romanzo, ma a lato, adiacente agli elementi che mette in comunicazione. Aggiungendosi a essi, essa non li ricapitola, non li totalizza, non annulla la loro frammentazione, ma la conferma; il tutto, l’opera, è ancora essa stessa una parte eterogenea ed eteroclita che avvicina le altre parti: il suo ruolo è farle risuonare o comunicare tra loro. Per comprendere il tipo di unità di un’opera letteraria, assieme al concetto di trasversalità, e strettamente connesso a esso, è utile il concetto di rizoma, usato da D&G in Mille plateaux. In un universo frammentato, la trasversale universale che afferma e mantiene tutti i disparati e tutte le frammentazioni non può essere che il Tempo, il quale fa sì che il tutto non sia già dato. Questo è il senso ultimo che la Recherche scopre.
Il tempo significa che tutto non è dato: il Tutto non può essere dato. Il che non significa che il tutto “si fa” in un’altra dimensione, quella temporale, così come la concepisce Bergson o come la concepiscono i dialettici sostenitori di un processo di totalizzazione. Il tempo, infatti, … ha il potere singolare di affermare simultaneamente pezzi che non formano un punto nello spazio, più di quanto non formino un tutto per successione nel tempo. [p. 120]
E ancora,
il tempo, la dimensione del narratore, ha il potere di costituire il tutto di queste parti, senza totalizzarle, l’unità di tutte queste parti senza unificarle. [p. 156]