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I “numeri” dell’Etica |
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| Parte I | Parte II | Parte III | Parte IV | Parte V | |
| – | Introduzione | Prefazione | Prefazione | Prefazione | |
| Definizioni | 8 | 7 | 3 | 8 | – |
| Assiomi | 7 | 5 | – | 1 | 2 |
| Postulati | – | – | 2 | – | – |
| Proposizioni | 36 | 49 | 59 | 73 | 42 |
| Corollari | 15 | 18 | 14 | 17 | 8 |
| Scolii | 14 | 22 | 37 | 39 | 17 |
| Appendice | Excursus tra le Prop13 e 14 comprendente Def1, Ax5, Lem7, Post6 | [Appendice]: 48 definizioni degli affetti + 1 definizione generale | [Appendice]: capp. 1-32 concernenti le regole della vita razionale | ||
L’indebita costrizione dell’ordine geometrico nell’Etica
L’inizio dell’Etica è scoraggiante per chi non abbia messo in conto un’avventura estrema nei territori più rarefatti ed essenziali del pensiero astratto. Le otto definizioni, i sette assiomi e le trentasei proposizioni (più una fondamentale Appendice) che compongono la prima parte, il De Deo, sono quanto di più distante si possa immaginare da quello che oggi si chiamerebbe un approccio user-friendly al testo. Spinoza non vuole tendere la mano al lettore, anzi. Come sull’ingresso dell’Accademia platonica la scritta “Ἀγεωμέτρητος μηδεὶς εἰσίτω, nessuno entri se non è geometra” era un monito per tener lontani semplici curiosi e mestieranti del sapere, così il severo e perentorio esordio dell’Etica è un crivello a maglie fini utile per eliminare i lettori inadeguati e trattenere solo chi ha la stoffa del filosofo.
Ma non solo la prima parte del testo è ostica, dato che l’Etica nella sua interezza è uno dei libri più difficili dell’intera storia della filosofia. Perciò sono certo di non sbagliare se affermo che, con l’eccezione doverosa degli studiosi specialisti di Spinoza, pochissimi altri l’abbiano davvero letta tutta. Duole riconoscere che una parte non piccola di questa difficoltà è dovuta a un inutile tributo da parte di Spinoza allo spirito del tempo, a quella sciagurata veste ordine geometrico in cui il filosofo ha costretto a viva forza una materia così fluida e libera com’è il discorso filosofico.
Prima di esporre le piccole ragioni del mio “dissenso” sull’uso del metodo geometrico in filosofia, mi è d’obbligo esporre le grandi ragioni che hanno portato Spinoza a tale scelta e non c’è testo che si presti meglio a tale scopo dello scritto di Lodewijk Meyer, approvato da Spinoza, Candidi lectori (All’onesto lettore) posto come introduzione all’unico testo pubblicato da Spinoza con il proprio nome durante la sua vita, i Principi della filosofia di Cartesio (d’ora in poi PPC), in cui il filosofo olandese espone i fondamenti del cartesianesimo more geometrico. Qui troviamo una giustificazione filosofica di questo metodo, che obbedisce non solo a mere ragioni stilistiche e formali, ma anche e in primo luogo a ragioni sostanziali, tutte riconducibili all’identificazione completa delle ragioni e delle cause (causa seu ratio) che fa sì che l’ordo philosophandi e l’ordo essendi si sviluppino secondo una medesima dinamica.
Meyer riprende da un passo delle Risposte alle Seconde Obiezioni annesse alla pubblicazione delle Meditazioni metafisiche di Cartesio la distinzione fra due punti di vista dell’impresa conoscitiva, quello dell’analisi e quello della sintesi, ma ne rovescia la valutazione. Per il filosofo francese la conoscenza effettiva si deve alla corretta applicazione del metodo analitico, il quale procede in modo sistematico dal conosciuto all’ignoto, mentre la sintesi ha il solo scopo, una volta che le verità siano state trovate, di presentarle in modo formale e fornite di dimostrazione, andando così dal conosciuto al conosciuto. In buona sostanza, l’esposizione geometrica tratta un materiale già disponibile, già in possesso del filosofo, e a esso fornisce rigore espositivo a fini pedagogici o di trasmissione del sapere. Tutt’altra è la prospettiva di Spinoza, dettata dalla precedentemente indicata identificazione di causa e ragione e, quindi, di conseguenza ed effetto. In base a ciò, la sintesi, andando dalla conoscenza delle ragioni a quella delle loro conseguenze (dalla conoscenza delle cause a quella dei loro effetti), rispetta l’identità fra l’ordine razionale del pensiero e l’ordine reale delle cose (fra il modo in cui le verità sono dedotte e il modo in cui le cose sono prodotte), mentre l’analisi, procedendo dalla conoscenza degli effetti a quella delle loro cause, si espone a tutti i rischi e le incertezze di un metodo conoscitivo inverso rispetto all’ordine del reale. Perciò, come scrive Pierre Macherey, commentando questo passo di Meyer
… lungi dall’essere sterile, la sintesi è portatrice di una potenza razionale che esprime in modo concomitante la produttività del reale, investendo così le idee e le cose di un’identica forza il cui principio di base si trova nella natura presa in senso assoluto, cioè in Dio stesso. (Pierre Macherey, Introducion à l’Ethique de Spinoza. La première partie, la nature des choses, Presses Universitaires de France, Paris, 2001, p. 18)
Ora, l’ordine geometrico coincide con l’ordine sintetico, perciò esso rispetta tanto l’ordine razionale quanto l’ordine reale ed è il modo adeguato per l’intelletto di comprendere la natura delle cose secondo la loro intrinseca necessità,
… in opposizione a una concezione artificiosa della razionalità che fa una ricostituzione o ricostruzione della realtà, ricostituzione che, trasponendo questa realtà su un piano astratto di idealità, ne elabora delle rappresentazioni più o meno conformi, ma è impossibilitata a farla apparire mentalmente o idealmente così com’è nella sua presenza reale, quindi letteralmente a “presentarla”. (P. Macherey, ibid., p. 19)
Se questo è vero, l’ordine geometrico non può essere concepito come una mera veste formale di un pensiero esprimibile altrimenti, ma va inteso come la necessaria e adeguata espressione della concezione filosofica spinoziana, tesi radicale messa in luce da Macherey in una nota al testo citato.
Dal punto di vista di Spinoza c’è un’intrinseca intelligibilità del reale, che è accessibile alla ragione: la conoscenza non dà un’immagine più o meno conforme della realtà, ma esprime la realtà stessa così come questa si produce secondo i propri rapporti di necessità. Questa è la portata fondamentale della proposizione 7 del De Mente, secondo la quale, “ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. (P. Macherey, ibid., p. 19)
In tale senso l’ordine geometrico dell’Etica (e prima dei Principia) non può essere inteso come una gabbia dimostrativa entro cui Spinoza imprigionerebbe il reale, dal momento che realtà e razionalità non sono l’una all’altra estrinseche e la prima non ha alcun bisogno di essere validata da prove, a patto, naturalmente, che sia stata effettuata quell’intellectus emendatio indispensabile per spazzare via tutte quelle immagini obnubilanti che impediscono di cogliere il reale nella sua intrinseca necessità. Non vi è dubbio che tali ragioni a sostegno del metodo geometrico siano molto convincenti, ma solo in astratto, dal momento che, come vedremo fra poco, lo stesso Macherey mostra i limiti di un’accezione piattamente “euclidea” del metodo spinoziano.
Considerare la geometria come il paradigma di tutte le imprese razionali, anche se andava molto di moda ai tempi di Spinoza (vedi Descartes, Hobbes, ecc.), è decisamente arbitrario. È un ideale di scientificità deduttivo adatto a esporre discipline matematiche già consolidate, ma che diventa, se imposto al pensiero filosofico, una gabbia intollerabile. La filosofia è una disciplina che richiede un metodo discorsivo, dialogico e lo stesso Spinoza indirettamente lo ha riconosciuto. Il lettore dell’Etica, infatti, ritrova sollievo e gusto letterario in quegli spazi (non pochi per fortuna) in cui il filosofo abbandona il “rigore” geometrico ed espone la materia con stile più disteso: mi riferisco agli scolii, alle appendici, alle introduzioni presenti in non piccolo numero nel libro.
Del resto, la pluralità di interpretazioni, spesso fra loro incompatibili, di cui l’Etica è stata fatta oggetto, cosa del tutto strana e inusitata per un testo che ha ambizioni assiomatiche e formali, è una conferma indiretta di quanto il metodo geometrico sia qui artificioso e inadeguato: è noto a tutti che la geometria euclidea rappresenta un sapere univoco, messo al riparo da interpretazioni diverse proprio dal rigore formale della sua veste. A nulla vale richiamare l’esistenza di geometrie non euclidee, dato che queste non nascono da una comprensione diversa di assiomi, postulati e teoremi, ma si fondano sull’accettazione o meno di un unico postulato della geometria euclidea, il V sulle parallele. La stessa univocità non è possibile con i marchingegni formali dell’Etica, il cui rigore è (fortunatamente) più apparente che reale. Aristotele, nell’Etica Nicomachea, ci regala una nota di sano buon senso sulla differenza dei discorsi e sulla necessità di usare per ognuno di loro, solo e non oltre, il rigore da essi richiesto. Ridurre la filosofia in teoremi non è meno sbagliato e bizzarro di esporre in versi un argomento di chimica. Ma leggiamo il filosofo greco.
E quello che diciamo sarà sufficiente se avremo fatto luce per quanto lo permette la materia trattata; infatti non si deve cercare la stessa precisione (τὸ ἀκριβές – to akribes) in tutti i discorsi, esattamente come non lo si deve fare nei lavori manuali. … è proprio di una persona che ha ricevuto un’educazione ricercare in ciascun genere di cose tanta precisione quanto lo permette la natura dell’oggetto. In effetti sarebbe pressappoco la stessa cosa accettare che un matematico faccia appello alla persuasione e aspettarsi dimostrazioni scientifiche da un retore. (Eth. Nic. I 3, 1094 b).
Tuttavia Spinoza ha usato uno stile e io, pur non divenendone schiavo, non posso e non voglio prescindere completamente da esso, anche perché, fatti salvi i limiti che ho sottolineato, permette al discorso spinoziano una coerenza e una salutare mancanza di suggestività che sarebbe ingiusto non apprezzare. Del resto, lo stesso Macherey, al termine della parte difensiva del metodo geometrico, aggiunge due riflessioni che “correggono” un’interpretazione troppo stringente di questo metodo, aprendolo a un’interpretazione più flessibile. Innanzitutto l’argomentazione spinoziana non ha la forma rigorosamente (e forzosamente) deduttiva della concatenazione lineare che, partendo da premesse generali ne inferisce per via razionale tutte le possibili conseguenze, ma assume l’aspetto di una rete potenzialmente infinita e complessa, cosicché la veste geometrica, con la sua logica strettamente e univocamente deduttiva, appare, applicata alla metafisica, irrimediabilmente irrazionale.
Tutto ciò che è permesso fare è dare un’idea giusta dell’ordine delle cose concepito nella sua infinità, infinità che proibisce proprio di rinchiudere il contenuto nei limiti di una costruzione razionale finita mirante a esaurire una a una tutte le determinazioni particolari (P. Macherey, cit., p. 21)
Ma non è solo questa osservazione a rendere del tutto peculiare e poco “euclidea” la veste dell’Etica, dal momento che
questa forma plurivoca, i cui molteplici intrecci costituiscono una sorta di tessuto argomentativo, è animata al suo interno da una dinamica razionale e causale, e si può parlare, a questo proposito, dando alle parole il loro senso più pieno, di un vero movimento di pensiero, la cui posta in gioco non è semplicemente conoscitiva o teorica, ma pratica ed etica. (P. Macherey, ibid.)
L’Etica ha un obiettivo fondamentalmente liberatorio ed esso non può certo essere raggiunto fissando la realtà in un’immagine definitiva e assiomatica. Se questo è vero, l’ordine geometrico scelto da Spinoza va preso senza dogmatica rigidità. Pertanto seguirò con disciplinata libertà interpretativa il testo spinoziano, cominciando proprio da quell’esordio così respingente che sono le 8 definizioni e i 7 assiomi del De Deo. Incontreremo così, nelle definizioni, alcuni dei concetti fondamentali di tutta l’opera, sui quali, all’inizio, non potrò dire molto al di là delle parole dello stesso Spinoza, se non fornire pochi doverosi chiarimenti e brevi note storiche utili per mostrare, da un lato, il radicamento del filosofo nella tradizione, dall’altro, la portata rivoluzionaria esercitata su questa stessa tradizione dal suo pensiero.
Il concetto di “definizione” in Spinoza
La celebre affermazione aristotelica che l’essere si dice in molteplici sensi (τὸ ὄν λέγεται πολλαχῶς) (Met. Γ2, 1003b 5) è stata spesso usata come esempio di un uso spregiudicato delle parole da parte della filosofia, disciplina volutamente vaga, poco rigorosa proprio perché non definisce in modo univoco i propri concetti, a cominciare dal più fondamentale di tutti, l’essere, permettendo che essi assumano, a discrezione del filosofo e in dipendenza dal contesto, accezioni diverse e spesso fra loro incompatibili. È superfluo sottolineare quanto questa critica, spesso giustificata, sia inappropriata nei riguardi di Aristotele, uno dei pensatori che più ha fatto della coerenza logica un imperativo.
Allo Stagirita dobbiamo una delle accezioni più usate del termine definizione. Definire qualcosa significa circoscrivere qualcosa dall’ambiente circostante mettendone in evidenza le caratteristiche distintive, differenzianti rispetto all’altro da sé. È in questa prospettiva che Aristotele afferma che definire qualcosa significa dirne il genere prossimo e la differenza specifica (Topici, I 8 103b15) e l’esempio più famoso per illustrare tale idea è la definizione di uomo come animale (genere prossimo a cui l’uomo è assegnato) razionale (differenza specifica che estrae l’uomo dall’insieme degli altri animali facendone una specie). Ma ne possiamo trovare molti altri, come ad esempio le definizioni di triangolo e di equilatero: entrambi appartengono al genere delle figure geometriche piane, quindi a uno stesso insieme di caratteristiche, ma si contrassegnano per specifiche caratteristiche, quali l’avere tre lati (o meglio tre angoli) per il triangolo e averne 4 per il quadrilatero. Non è questo l’unico modo di intendere la nozione di definizione, anche se, fatte le debite e non trascurabili differenze, è quello che Spinoza quasi sempre usa. Anche per il filosofo olandese, infatti, definire qualcosa significa dirne la natura.
Spinoza nella Epistola 30 a De Vries distingue tra “definizione nominale” e “definizione reale”: la prima fissa i termini in cui si intende parlare di qualcosa, indipendentemente dal fatto che tale cosa esista o non esista; non ha nulla a che fare con la verità di qualcosa, cioè con la corrispondenza fra l’esistenza di una cosa e la sua formulazione linguistica (se io definisco l’ippogrifo, non pretendo certo che tale animale mitologico esista, ma ne fisso solo i termini per la sua “identificazione” all’interno di un universo di discorso; lo stesso se invento una storia o un gioco, dovrò definire personaggi, ruoli, regole, insomma i termini di questa invenzione), la seconda intende riferirsi a un oggetto determinato “fuori dell’intelletto” e, dunque, “deve” essere vera. Ma leggiamo interamente questa importantissima distinzione di Spinoza.
[rimanete invischiati in questioni perché] non distinguete tra i generi delle definizioni: tra la definizione che serve a spiegare la cosa della quale si cerca soltanto l’essenza (…) e la definizione che viene proposta per essere soltanto esaminata. Quella, infatti, poiché ha un oggetto determinato deve essere vera, questa, invece, non richiede la verità. Ad esempio: se qualcuno mi chiede la descrizione del tempio di Salomone, devo dargli la vera descrizione del tempio, a meno che non desideri parlare a vuoto con lui. Ma se nella mia mente ho dato forma a un tempio che desidero costruire e dalla cui descrizione concludo che devo acquistare un certo terreno, tante migliaia di pietre e altri materiali, qualcuno sano di mente mi dirà che ho tratto una cattiva conclusione perché forse mi sono servito di una falsa definizione? O qualcuno esigerà da me che dimostri la mia definizione? Costui di certo non mi dice se non di concepire ciò che ho concepito, ossia esige da me che io dimostri di aver concepito quel che ho concepito, il che è davvero scherzare. Perciò la definizione o spiega la cosa in quanto è fuori dall’intelletto – e allora deve essere vera e non differire dalla proposizione o dall’assioma se non perché quella riguarda soltanto le essenze delle cose o delle affezioni delle cose questo invece si estende più ampiamente anche alle verità eterne – oppure spiega la cosa in quanto è concepita o può da noi essere concepita, e anche in tal caso differisce dall’assioma e dalla proposizione, perché non esige se non di essere concepita in assoluto e non, come l’assioma, sotto la forma del vero. Perciò cattiva definizione è quella che non si concepisce. [Altro non è che la contraddizione] (c.m.)
(…)
Se dico che una certa sostanza ha un solo attributo, tale enunciato è una pura proposizione ed esige dimostrazione. Se invece dico che per sostanza intendo ciò che consta unicamente di un solo attributo, sarà una buona definizione, purché in seguito gli enti che constano di più attributi vengano designati con un termine diverso da quello di “sostanza”. (Spinoza, Opere (a cura di Filippo Mignini, Mondadori – I Meridiani, Milano, 2007, p. 1318-19: d’ora in poi OM)
La definizione nominale, insomma, serve a precisare i termini, non a risolvere una questione: quando io definisco che cosa intendo per “libertà”, non decido ancora con questo se vi siano o non vi siano esseri liberi. Le definizioni dell’Etica sono sia nominali che reali in quanto, prese isolatamente e immediatamente, valgono nominalmente come avvio dell’indagine razionale ma, alla luce dell’intera trattazione, risultano definenti oggetti esterni all’intelletto e, dunque, veri.
Nel prossimo articolo esaminerò le 8 definizioni preposte alla prima parte dell’Etica, tutte basate, come ogni altra definizione presente nel testo, sul fondamentale concetto, proprio di Spinoza, dell’idea vera data, di cui il filosofo aveva già parlato nel Tractatus de intellectus emendatione (d’ora in poi TIE). L’idea vera data è l’idea di per sé feconda, capace cioè, per le proprie caratteristiche interne, di generare per via deduttiva una quantità potenzialmente infinita di altre idee. Per questo la deduzione delle proprietà dalla definizione data è, nel pensiero, quel che in natura è la produzione di un effetto dalla causa. In tal senso le definizioni dell’Etica sono “vere” e da esse derivano in modo “oggettivo” tutte le proprietà degli enti di cui parlano. La verità non ha bisogno di prove a essa estrinseche ed è immediatamente conoscibile. Ciò che Spinoza mette qui fuori gioco è la certezza soggettiva come garanzia di verità, in quanto tale esigenza non nasce dall’idea vera, ma dalle operazioni dell’immaginazione, facoltà che procede dagli effetti per risalire, senza necessità intrinseca, alle supposte cause, generando in tal modo non la verità ma il suo illusorio vagheggiamento.