In questo articolo affronto alcuni nodi problematici della complessa, poliedrica, fantasiosa filosofia di Leibniz. Pur occupandomene marginalmente, il saggio di Deleuze La piega. Leibniz e il barocco (Gilles Deleuze, Le pli. Leibniz et le baroque, Les Editions de Minuit, Paris, 1988) resta tuttavia presente sullo sfondo.
Il concetto individuale
Singolare, addirittura bizzarra all’interno di una concezione tradizionale del pensiero e della verità, è la concezione di concetto completo (o nozione completa) dell’individuo. Cerchiamo di comprendere perché prendendo in considerazione il concetto di uomo. È un luogo comune filosofico pensare all’uomo come “animale razionale”. Aristotelicamente parlando, per definire qualcosa devo indicare il genere prossimo al quale questo qualcosa appartiene, (genere prossimo vuol dire la categoria immediatamente superiore alla quale appartiene l’ente da definire: nel caso dell’uomo è l’animale; avrei potuto dire “essere vivente”, ma in questo caso avrei compreso anche le piante ed “essere vivente”, quindi, non sarebbe più stato il genere prossimo) e, all’interno di questo genere, individuare una differenza capace di caratterizzare o specificare solo alcuni enti, differenziandoli da tutti gli altri che pure sono dello stesso genere (è la differenza specifica o differenza essenziale, perché indica il “che cos’è” proprio di quell’ente: nel caso dell’uomo tale qualità caratterizzante è l’essere razionale)
È necessario introdurre alcuni concetti utili per capire la nozione leibniziana di concetto completo. Animale razionale è la definizione di uomo. È costituita da due determinazioni: “animale” e “razionale”. L’insieme delle determinazioni appartenenti a un concetto, in questo caso il concetto di uomo, si chiama la connotazione o la comprensione (anche intensione va bene) di quel concetto. Allora, la connotazione di uomo sarà costituita dalle due determinazioni “animale” e “razionale”. Poniamo di trovarci in un’aula in cui ci siano 60 persone. È corretto, allora, dire che questo concetto, applicato all’ipotetica aula, si riferisce a 60 oggetti o enti. Il numero di oggetti che cadono sotto lo stesso concetto si chiama estensione o denotazione o designazione di quel concetto.
È interessante studiare il rapporto tra connotazione e denotazione di un concetto, cioè tra il numero delle sue determinazioni e il numero degli oggetti che, grazie a esse, viene denotato. Se io elimino la determinazione “razionale” e lascio solo la determinazione “animale” e se in quest’aula, oltre agli studenti e ai docenti entrassero anche tre gatti, ecco che la connotazione “animale” denoterebbe ora 63 enti, i sessanta esseri umani e i tre gatti. Vale il seguente principio generale: diminuendo il numero delle determinazioni, ottengo subito una denotazione più larga, più estesa, come è ovvio, dal momento che meno determinazioni uso, più generico si fa il mio concetto e più oggetti ricadono sotto questo concetto. Se, invece, ad animale razionale aggiungo la determinazione “femmina”, ho subito eliminato un certo numero di enti, ai quali si addice invece la determinazione “maschio”, se poi aggiungo la determinazione “di statura inferiore a 1.65 m.”, ho ottenuto un’ulteriore restrizione della denotazione. Insomma, il rapporto mi sembra chiaro e di agevole comprensione: fra connotazione (o numero di determinazioni) e denotazione (o numero di oggetti designati dal concetto) c’è un rapporto di proporzionalità inversa; aumentando la connotazione diminuisce la denotazione, diminuendo la connotazione aumenta la denotazione. Alcune osservazioni, per approfondire quanto finora detto
Quando si parla di denotazione di un concetto, non si intende solo una denotazione hic et nunc, non si intende, in altri termini, limitare l’estensione di un concetto ai soli enti presenti qui e ora, ma a ogni ente che possa ricadere sotto tale concetto. Questo sembra ovvio, ma è molto importante non dimenticarlo mai. Più dettagliato diventa un concetto, meno enti individua, e tuttavia, in linea di principio, ci può sempre essere un numero di enti potenzialmente infinito che ancora ricadono sotto di esso. Per numerose che siano le determinazioni che io considero, essendo queste sempre un “numero finito” di determinazioni, il numero di enti ai quali tali determinazioni si addicono può essere infinito (anche se attualmente tale numero fosse finito o addirittura uguale a zero).
È questo un punto fondamentale che possiamo sintetizzare così: ogni connotazione finita, grande a piacere, ha, in via di principio, una estensione potenzialmente infinita, anche se comunque sempre attualmente finita o addirittura nulla. Possiamo sintetizzare in una formula n/m questa nozione, mettendo al numeratore la denotazione (il numero di oggetti) e al denominatore la connotazione (il numero delle determinazioni). Questa formula è molto importante didatticamente (nel senso che aiuta a comprendere) e indica varie cose: i simboli n ed m tanto al numeratore quanto al denominatore stanno a indicare, nel rapporto tra determinazioni ed enti, l’esclusione tanto dell’unità, del numero 1, dell’individuo, quanto dell’infinito, inteso come infinito attuale. Questo illustra, in forma concisa, una cosa nota, affermata già da Aristotele: dell’individuo non c’è concetto. Ecco perché ho esordito dicendo che l’affermazione leibniziana circa la legittimità di un concetto completo dell’individuo appare bizzarra alla luce delle idee tradizionali. L’individuo, per la tradizione filosofica, è l’ineffabile, nessun concetto lo può dire, può solo essere indicato. Nessuna descrizione, per quanto dettagliata questa sia e comunque sempre finita, è in grado di esaurirne la ricchezza delle determinazioni che attengono all’individuo.
Quando una nozione si dà con un numero di determinazioni m, numero incrementabile a piacere, ma mai infinito, questa nozione, che denoterà sempre potenzialmente un numero di oggetti infinito, è chiamata da Leibniz una nozione incompleta. Una nozione è incompleta quando è costituita da un numero finito di termini. Una nozione, invece, è completa quando è costituita da un numero infinito di termini, infinito da intendersi nel senso dell’infinito attuale, nozione, questa, fortemente problematica. Come abbiamo dato la formula (n/m) del concetto generale nel suo rapporto con gli oggetti che designa, diamo ora la formula della nozione completa o individuale: 1/∞. Infinite determinazioni denotano sempre e solo un oggetto, un oggetto è sempre e solo connotato da infinite determinazioni. Questo oggetto, che sia una persona, un animale, una cosa, persino una situazione (es. l’alba di questa mattina) è ciò che chiamiamo “individuo”.
Se l’infinito potenziale indica sempre un insieme finito in ogni momento dato, ma incrementabile a piacere senza che mai si possa giungere al termine del processo che Deleuze chiama di ecceterazione (1, 2, 3, … eccetera), l’infinito attuale, invece, indica un insieme costituito da un numero infinito di elementi attualmente dati, cioè un insieme effettivamente (questo significa attuale) infinito. Tale nozione è una delle più feconde produttrici di paradossi. In un altro articolo vedremo che la stessa comprensione dell’infinito attuale non è univoca e non è agevolmente riducibile a un concetto di attualità ritagliato su quello di datità numerica. Questo non solo in filosofia, dove i concetti sono costitutivamente polisemici (equivoci, direbbe Aristotele), ma anche in matematica, dove, dopo Cantor, si distinguono infiniti di tipo numerabile (numeri naturali, interi, razionali) da infiniti non numerabili (numeri reali o il continuo).
Leibniz afferma che le nozioni complete esistono (ci sono, e non semplicemente, possono esserci) e queste nozioni complete, costituite da infinite determinazioni sono le nozioni degli individui. Il filosofo parla in più luoghi della nozione completa, ad esempio nella Corrispondenza con Arnauld o nel Discorso di metafisica, in particolare nel § 8.
La natura di una sostanza individuale, o essere perfetto, è quella di avere una nozione così perfetta, che basti a comprenderne o a farne dedurre tutti i predicati del soggetto a cui tale nozione si attribuisce (Gottfried W. Leibniz, Monadologia e Discorso di metafisica, Laterza, Bari, 1986, p. 68).
La portata filosofica di questo brano o di altri simili non è facilmente sottovalutabile. Leibniz sta dicendo che ogni individuo ha un suo concetto e che tale concetto è composto da infinite determinazioni. Detto altrimenti, il concetto di un individuo è tale che da esso è possibile dedurre tutto ciò che lo riguarda. Ripeto e sottolineo il termine “dedurre”, perché sta a indicare che per Leibniz ogni verità, anche quella che riguarda fatti contingenti o enti individuali, è analitica (verità come inerenza).
Nella concezione tradizionale del concetto è chiara la distinzione fondamentale fra determinazioni concettuali (es. nel concetto di uomo le determinazioni “animale” e “razionale” o nel concetto di triangolo l’avere in uno spazio euclideo “la somma degli angoli interni pari a 180°”) e determinazioni extraconcettuali, determinazioni che non appartengono al concetto di triangolo o di uomo, ma solo a delle istanze individuali di questi concetti. Es., il fatto che un uomo pesi 90 kg o che questo triangolo disegnato sulla lavagna abbia un’area di 35 cm2. Queste due determinazioni di fatto appartengono a Tizio o a questo triangolo, ma potrebbero essere, come di fatto sono, del tutto diverse in un altro uomo o in un altro triangolo (Caio, ad esempio, può pesare 70 kg). Non entrano nel concetto di uomo o di triangolo, dato che ogni concetto si caratterizza per la sua generalità. Chiamiamo essenziali o reali le determinazioni che appartengono in un concetto, empiriche o accidentali quelle che appartengono a istanze di un concetto.
Diamo ora una formulazione rigorosa del concetto di completezza (non dimentichiamo mai che Leibniz era un logico di grande levatura). Chiamiamo C il concetto di un individuo e P una proprietà o determinazione di questo individuo. Diciamo che C è completo se e solo se, alla domanda “P è contenuta in C?” posso rispondere univocamente in senso affermativo o negativo. Un esempio aiuta a chiarire questa regola e aiuta anche a chiarire perché una nozione generica è incompleta. Prendiamo il concetto di “uomo cinese”, quindi un concetto già più determinato di quello generico di “uomo”. Prendiamo, poi, la proprietà o determinazione “giovane”. Alla domanda se tale proprietà appartenga o no al concetto di “uomo cinese” non sono in grado di rispondere univocamente. Infatti, potrebbe essere giovane, ma potrebbe anche essere vecchio. Poniamo che sia giovane, avremo il concetto più determinato “uomo cinese giovane”. Alla domanda se sia “alto”, mi trovo sempre immerso nell’ambiguità, ambiguità dalla quale non posso mai uscire finché mi rivolgo a un concetto con determinazioni finite, numerose fin che si vuole, ma sempre finite e quindi ulteriormente incrementabili a piacere. Una nozione che non contiene tutte le “risposte” relative alla cosa che denota è una nozione incompleta.
Per Leibniz solo Dio può vedere, osservare, le nozioni complete, nozioni, badiamo bene, che anche per Dio restano infinite (se le esaurisse, infatti, verrebbe negata proprio la loro natura di nozioni complete). L’uomo, in quanto essere finito, non dispone di una sufficiente potenza di sguardo. Questa differenza fra uomo e Dio ripropone una distinzione classica, tradizionale, quella fra determinazioni essenziali e determinazioni contingenti, ma, la ripropone in termini del tutto diversi. Se le determinazioni di un individuo sono infinite e, come tali, ineriscono tutte alla nozione completa di questo individuo, tutte le determinazioni, a rigore, dovrebbero essere essenziali o reali (in realtà, lo sono per il filosofo tedesco). È necessario, però, operare, a partire dal concetto di verità come inerenza, una distinzione fra verità di ragione e verità di fatto, distinzione che, lungi dal mettere in crisi il concetto di nozione completa, mette in crisi invece il concetto tradizionale di verità.
Per Leibniz ogni verità è analitica, cioè ogni cosa che si dice di un individuo può essere dedotta dalla nozione completa di questo individuo. Per usare esempi di Leibniz, nella proposizione “Cesare varcò il Rubicone nell’anno 49 a.C.”, l’azione di varcare il Rubicone non viene intesa da Leibniz come un accidente estrinseco al soggetto (Cesare poteva varcare il Rubicone o poteva non varcarlo), ma come una determinazione alla quale si può giungere proprio analizzando la nozione completa di Cesare, allo stesso modo (o quasi) in cui si può giungere, partendo dalla nozione completa di triangolo, ad affermare la proprietà che la somma dei suoi angoli interni è uguale a un angolo piatto. La stessa cosa possiamo dire della proposizione “Sesto stuprò Lucrezia” e così di ogni altra proposizione concernente le cosiddette verità di fatto. La differenza sta in quel “quasi” detto prima.
Il concetto di sostanza
È necessario ora, per andare più in profondità a questo concetto di inerenza (o di inclusione) mettere a fuoco il concetto di sostanza (una prima messa a fuoco, ancora parziale) e da qui porre la distinzione fra attributo e predicato.
Il termine sostanza è carico di veneranda tradizione filosofica, la quale, per quanto riguarda Leibniz, ha la sua origine in Aristotele e nell’aristotelismo medievale, anche se tale riferimento va modulato con la speculazione filosofica contemporanea a Leibniz, Cartesio in particolare. Non è scontato che, per pensare la realtà, servirsi del concetto di sostanza costituisca un passaggio obbligato. L’empirismo, ad esempio, ha condotto una serrata critica a questo concetto. Per Leibniz, invece, ancora per certi versi legato a una metafisica tradizionale, un pensiero logico e razionale della realtà non può prescindere dal concetto di sostanza, intesa come la struttura necessaria dell’essere.
Da un punto di vista generico, la sostanza indica la parte utile, fondamentale, importante di qualcosa. (Badare alla sostanza delle cose e non alla loro forma; raccontare la sostanza di un fatto; in questo libro c’è poca sostanza e tante parole, e così via). Etimologicamente la sostanza è ciò che “sta sotto” la realtà che vediamo, che percepiamo e, in questo “star sotto”, viene tacitamente inteso che la sostanza è ciò che sorregge, che sostiene l’impalcatura del reale, ciò che dà una ragione, un fondamento, al reale. Ma questo è solo un primo passo, seppure importante: pensare l’essere come sostanza significa credere che l’essere, per come si dà, abbia bisogno di una ragione sottostante al suo darsi, significa pensare che l’essere abbia bisogno di un fondamento.
Il secondo passo è quello che ci porta a interrogarci su quale sia la natura della sostanza. È noto che per Aristotele la sostanza è data dall’essere individuale, sinolo di materia e forma: non può darsi sostanza se non intesa come un “questo”, in greco un τόδε τι. In realtà, per Aristotele le cose sono ben più complicate, ma per i nostri scopi, è sufficiente fermarsi a questo livello. “Questo libro”, “questa penna” hanno carattere sostanziale, sono sostanze nel senso proprio del termine. Accettato ciò, posso procedere a ulteriori analisi, distinguendo una forma da una materia, delle determinazioni specifiche e delle determinazioni particolari, e così via. Sostanza, comunque, è sempre l’essere individuale.
Leibniz fa propria questa convinzione: la sostanza è un ente individuale, l’essere è individuale, il fondamento della realtà è l’individuo. Entro questa prospettiva, che è quella aperta dalla convinzione che l’essere abbia un fondamento e che tale fondamento abbia un carattere rigorosamente individuale (termine che per ora prendiamo in un’accezione meramente generica), pensare significa pensare la natura di questo fondamento individuale (che cos’è, se è qualcosa; come agisce, se agisce; come si rapporta ad altri individui, se si rapporta) e della realtà che costituisce: pensare l’individuo, una pluralità di individui, un mondo di individui.
Leibniz chiama l’ente individuale o sostanziale monade, ente privo di parti, inesteso, indivisibile. Dire che un ente non ha parti, che è inesteso e indivisibile significa, nella filosofia del tempo, sostenere che tale ente non ha natura materiale, dal momento che la res extensa cartesiana, cioè la materia, è appunto estensione nella sua essenza. Significa, conseguentemente, opporsi anche all’atomismo, antico o moderno (contemporaneo a Leibniz): l’indivisibilità dell’atomo materiale, infatti, è un’indivisibilità di fatto (l’atomo ha un minimo, una dimensione minima al di sotto della quale non può scendere: è un punto materiale, pendant fisico del punto matematico), l’indivisibilità della sostanza leibniziana o monade, invece, mette in risalto l’estraneità, la non pertinenza di tale proprietà alla sostanza: una monade non ha un minimo, non occupa una porzione sia pure infinitesima di spazio. Una monade non è “nello” spazio, non è in nessun luogo, non per qualche misteriosa dote di ubiquità, ma perché non c’è, nel mondo leibniziano, uno spazio dato in cui qualcosa stia, uno spazio assoluto, ricettacolo, come in Newton, degli enti. La monade, diversamente dal punto matematico, mero ens rationis, e dall’atomo fisico, mero ente empirico, è un punto metafisico, di una metafisica originale e complessa.
Se svincoliamo la natura della monade da qualunque accezione ontica (da qualunque accezione che la renda un ente determinato, un qualcosa di determinato, materiale o immateriale che sia, e per immateriale va inteso qualcosa di diverso dallo spirituale leibniziano), forse alcune delle caratteristiche più singolari e paradossali delle monadi appaiono più “comprensibili”.
Le monadi non hanno finestre, non hanno rapporti diretti fra loro, non agiscono le une sulle altre (v. Monadologia). La finestra, come la porta, è una soglia, un luogo di separazione fra un interno e un esterno, è una nozione spaziale, lecita e comprensibile solo se applicata a enti che sono in qualche modo spaziali, e tali sono sia gli enti materiali sia gli enti immateriali, intesi questi ultimi come la negazione degli enti materiali (a un ente immateriale, pensiamo a uno spirito nel senso di fantasma, pertiene la nozione di spazio allo stesso modo in cui a un cieco pertiene la nozione di vista o all’infinito nel senso potenziale del termine pertiene la nozione di finito [quanto il fantasma, come ente immateriale, sia compromesso con lo spazio, risulta evidente dal fatto che si afferma che i fantasmi passano attraverso i muri, penetrano gli oggetti materiali, si spostano da una parte all’altra dello spazio, ecc.]).
Dire, allora, che la monade non ha finestre, dalle quali possa entrare o uscire qualcosa, non significa dire che le monadi sono prive di finestre, né, a mio avviso, che sono pura interiorità o, come è stato più volte detto, che sono senza interno. Pensare una monade in termini spaziali, sia pure per negarli, significa imprigionarsi in un falso problema. L’affermazione che le monadi non hanno finestre deve essere intesa in questo modo: non dobbiamo pensare alle monadi come enti immateriali, ma come sostanze spirituali. Leibniz non è solo preoccupato di distinguere le monadi dagli atomi materiali, ma anche di distinguerle da atomi immateriali, nel senso sopra indicato.
Più che dire cosa siano le monadi, finora ci siamo impegnati piuttosto a dire che cosa non sono. È necessario quindi procedere in direzione di una maggiore determinazione. A tale scopo, pensiamo al mondo leibniziano come composto da sostanze individuali spirituali e con le proprietà o modificazioni che a tali sostanze ineriscono (limitiamoci, per ora, a comprendere lo spirituale come qualcosa di a-materiale, piuttosto che di im-materiale o di non materiale). Inerire è un termine molto significativo nella filosofia di Leibniz. Inerire vuol dire essere connesso, essere unito con qualcosa (in + haerere, stare attaccato). Diciamo quindi che le modificazioni (termine preferibile a proprietà), ineriscono alle monadi. Questa distinzione non è capziosa o pignola come potrebbe sembrare a prima vista, ma attiene alla differenza fra attributo e significato. L’attributo è un aggettivo, una qualità che attiene a un sostantivo al quale si attribuisce (es. un fiore rosso, una grande casa, un suono acuto: rosso, grande, acuto, sono attributi, qualità che appartengono, che determinano nella loro particolarità enti come fiore, casa o suono che possono essere anche diverse, giallo, piccola, grave). L’essenziale dell’attribuzione è il suo carattere accidentale, estrinseco rispetto all’ente a cui la qualità appartiene. Solo impropriamente, nell’uso che ne facciamo noi, possiamo dire che un attributo inerisce a un soggetto, diciamo che appartiene a un soggetto.
Che cos’è il predicato, invece? Grammaticalmente parlando, è quella parte della proposizione che indica ciò che si dice del soggetto. Es. Giorgio cammina; Il camino fuma; L’albero è verde (quest’ultimo è un esempio di predicato nominale, mentre i primi due vengono chiamati predicati verbali e tuttavia possono venir trasformati in predicati nominali (copula + parte nominale: Giorgio è camminante, il camino è fumante). Quando Leibniz parla di modificazioni della monade, intende tali modificazioni come un “evento” che riguarda la monade stessa, un evento che inerisce alla monade. L’inerenza o la non inerenza di un predicato, di una modificazione, alla monade è espresso dal verbo essere, la copula.
Operata questa distinzione terminologica, possiamo mostrare subito quali problemi si nascondano in questa impostazione. Il primo di questi problemi, non l’unico, ma certamente il più difficile, è quello delle relazioni, che proviamo a formulare così. Se ci è relativamente facile concepire l’inerenza del predicato “giovane” nella proposizione “Giorgio è giovane”, come andrà intesa, in un mondo fatto di sostanze individuali, senza rapporti le une con le altre, come sono le monadi, la proposizione “Giorgio è più giovane di Paolo”? (ma andrebbero bene anche frasi del tipo “L’aula 2.2 è più grande dell’aula 1.5” o “Francesco è seduto fra Elisa e Paolo”, e così via). L’essere giovane di Giorgio non comporta un riferimento altro rispetto a Giorgio, è un predicato di Giorgio. Ma “l’essere più giovane” di Giorgio ha senso solo se ho in qualche modo la possibilità di riferirmi anche a Paolo, lo stesso vale dell’“esser più grande” di un’aula rispetto a un’altra o dell’ “essere tra” di Paolo. Queste proposizioni richiedono che le sostanze abbiano dei rapporti. In un mondo di sostanze individuali prive di rapporti reciproci alcuni predicati sembrano inspiegabili, inammissibili, non pertinenti. Naturalmente il problema delle relazioni è tale solo per una concezione che intende le modificazioni di una sostanza come inerenti alla sostanza stessa. Se tali modificazioni, invece, fossero meramente accidentali (appartenessero alla sostanza come qualcosa di estrinseco a essa), allora il problema non sussisterebbe.
Non possiamo seguire le riflessioni leibniziane sul problema delle relazioni, ma mettiamo a fuoco quegli aspetti che ci sono utili per avvicinarci alla comprensione delle monadi e a quei particolari aggregati di monadi che costituiscono i corpi. La soluzione di Leibniz al problema delle relazioni è, in fin dei conti, tradizionale. Possiamo così sintetizzarla: solo in apparenza una relazione connette due o più sostanze; in realtà, la relazione è una consequentia, un risultato, un qualcosa che emerge dalle sostanze, che è implicato in esse, senza che tali sostanze siano realmente connesse, messe in relazione, riferite le une alle altre. Già Guglielmo d’Ockham aveva detto che, se è vero che Socrate è bianco e che Platone è bianco, nemmeno Dio può impedire che Socrate e Platone siano simili riguardo alla bianchezza. Questo, però, non comporta, aggiunge Leibniz, che “l’esser simile” sia una proprietà effettiva che leghi fra loro Socrate e Platone, come se fosse una proprietà comune condivisa da Socrate e da Platone. Leibniz rifiuta l’idea che l’esser simile sia una proprietà reale condivisa, proprio sulla base di uno dei principi cardine della logica scolastica, quello che afferma che un medesimo accidente per numero non può inerire simultaneamente a due soggetti diversi, cosa che avverrebbe se predicassimo l’esser simile simultaneamente sia a Platone, sia a Socrate.
Allora, la relazione configura non una situazione originaria, ma derivata, non una situazione semplice, ma complessa: se Socrate è bianco e se Platone è bianco, predicati che riguardano propriamente solo Socrate o solo Platone, proprietà che riguardano intrinsecamente Socrate e Platone e senza riguardo dell’uno con l’altro, allora sarà vero anche l’enunciato risultante “Socrate è simile a Platone riguardo alla bianchezza”. Le relazioni sono reali in quanto lo sono sia i soggetti sia le proprietà fondamentali che le pongono in essere, sono un’inferenza, conseguono dall’esistenza degli individui con le loro modificazioni individuali. Il loro carattere è complesso: sono enti di ragione, dato che sussistono solo come astrazioni dell’intelletto che le ricava dalla situazione complessa che abbiamo appena descritto, ma sono anche enti reali, dato che i soggetti (le sostanze individuali) che l’intelletto correla, contengono in sé tutte le condizioni del loro risultare o scaturire, indipendentemente dal fatto di essere pensate.
Detto questo, torniamo alla nozione completa di individuo e all’inerenza di tutti i suoi predicati. Riguardo agli enunciati necessari e a quelli contingenti, Leibniz ritiene che, se sono veri, lo sono in base al criterio di inerenza. Tale convinzione problematizza in senso nuovo e originale la nozione di necessità.
Che una proposizione analitica sia sempre vera e che tale verità abbia il carattere della necessità è un luogo comune filosofico. Una proposizione è analitica quando il predicato può dedursi dal soggetto, mediante una sua esplicitazione. Già abbiamo ampiamente esemplificato questo fatto: “il triangolo è una figura geometrica con tre angoli” è un esempio di proposizione analitica (aver tre angoli, ma anche aver tre lati, sono proprietà implicite nel soggetto triangolo). Così la proposizione “ogni numero naturale ha un consecutivo”.
Cosa possiamo dire, invece, di una proposizione vera di questo tipo: “Questa mattina Pietro ha fatto mezz’ora di ginnastica” (vero perché l’ha fatta), oppure “Su questa cattedra c’è un microfono” (vero perché c’è). Sembra sensato dire che l’aver fatto mezz’ora di ginnastica appartiene al soggetto Pietro solo dopo o a posteriori che effettivamente l’ha fatta la ginnastica, non prima, tanto che Pietro mezz’ora di ginnastica poteva benissimo non farla, senza con questo dire nulla di contraddittorio, come contraddittorio sarebbe invece dire che “in uno spazio euclideo la somma degli angoli interni di un triangolo è minore di 180°”. Se quest’ultima verità è una verità di ragione, analitica e necessaria (tale, cioè, che è contenuta implicitamente nel soggetto e la cui negazione implica contraddizione), le verità concernenti Pietro o la cattedra sono verità di fatto o contingenti (tali, cioè, che appartengono al soggetto solo sinteticamente, si aggiungono a esso a posteriori e la loro negazione è possibile, dato che non genera contraddizione).
Leibniz, invece, pur non negando la distinzione fra verità di ragione e verità di fatto, nega che le verità di fatto siano sintetiche. Anch’esse, come le verità di ragione, sono analitiche, solo che, a differenza delle verità di ragione, non sono necessarie. Ciò che viene indebolito è il nesso fra analiticità e necessità. Mentre per la tradizione il carattere analitico di una proposizione bastava a conferirle necessità, con Leibniz le cose non stanno più così. Il criterio di verità come inerenza mette fuori gioco la distinzione fra analitico e sintetico, il che è come dire che mette fuori gioco la concezione della verità come adaequatio intellectus et rei. Viene privilegiato un criterio intensionale o connotativo di verità rispetto ad un criterio estensionale o denotativo. Un enunciato necessario è un enunciato la cui negazione implica contraddizione, un enunciato contingente è un enunciato che può anche essere falso, senza che questo implichi contraddizione. Il problema che Leibniz deve risolvere è: come è possibile che un enunciato analitico (in cui il predicato è implicito nel soggetto) possa essere falso, senza che questo comporti una contraddizione? Dato che sia gli enunciati necessariamente veri (le verità di ragione) sia gli enunciati contingentemente veri (le verità di fatto) sono analitici (cioè il predicato, ciò che si dice del soggetto, è implicito nel soggetto) è necessario trovare un modo indipendente dall’analiticità per caratterizzare la necessità ed è necessario spiegare come sia possibile che un enunciato analitico sia contingente, cioè possa anche essere falso.
Leggiamo a questo proposito una parte del già citato § 8 del Discorso di metafisica. Abbiamo innanzitutto una definizione (nominale) di sostanza individuale:
È ben vero che, quando si attribuiscono più predicati a uno stesso soggetto, e questo non viene attribuito più a nessun altro, il soggetto si chiama sostanza individuale. (G. W. Leibniz, cit., p. 68)
È una definizione tradizionale. Mentre il generale è ciò che si predica di un qualche soggetto, es. il genere animale si predica del gatto, della scimmia, dell’uomo, ecc., o la specie uomo si predica di Paolo, Giovanni, Francesca, ecc., l’individuale è ciò di cui si dice “più” cose (infinite, per Leibniz), ma che non si dice di nessun altro soggetto. Paolo o Francesca non possono dirsi di alcun altro soggetto, infatti. Per arrivare a una definizione reale dobbiamo mostrare la possibilità di un concetto, dobbiamo mostrare come possa esistere una nozione completa di individuo.
Ora è patente che ogni predicazione vera ha qualche fondamento nella natura delle cose; e quando una proposizione non è identica, cioè quando il predicato non è compreso espressamente nel soggetto, occorre che vi sia compreso virtualmente: questo i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. (Leibniz, ibid.)
Ogni predicazione vera non viene attribuita accidentalmente a un soggetto, come qualcosa che il soggetto può o non può avere. Questo è sorprendente, dato che siamo abituati a pensare a certe proprietà delle cose come a proprietà accidentali, proprietà, cioè che la cosa può avere, ma che, se non le ha, nulla cambia di essenziale per essa. Se Paolo ha capelli lunghi, rimane sempre lo stesso Paolo anche se se li taglia cortissimi. Leibniz, invece, ci dice che, se una predicazione è vera, allora ha un fondamento nella natura del soggetto del quale si dice: è nella natura di Paolo avere ora i capelli lunghi e ora i capelli corti. Tradotto secondo il principio di ragion sufficiente: perché una cosa sia questa cosa ci deve essere una ragione che la determini (inversamente, e qui, sempre di sfuggita, tocchiamo il principio degli indiscernibili: se due soggetti hanno gli stessi predicati, allora non c’è alcuna ragione perché debbano essere due).
Vi è poi una distinzione fra proposizioni identiche e proposizioni non identiche. Nelle prime il predicato è compreso espressamente (sono le proposizioni analitiche tradizionali, quelle della matematica, per intenderci: il predicato deriva da uno svolgimento, da un’esplicazione del soggetto e tale esplicazione comporta un numero finito di passi per essere svolta), nelle seconde, che sembrano essere le verità di fatto, il predicato in-est, è nel soggetto virtualmente, termine, questo, di non univoco senso in Leibniz. Proviamo a suggerire un’accezione, in diretta connessione (e opposizione) con le proposizioni identiche. In queste la comprensione del soggetto può essere intesa come la possibilità di svolgere tutte le determinazioni di un soggetto con un numero finito di passi. Per le proposizioni non identiche o verità di fatto, invece, la comprensione o inerenza virtuale di un predicato nel soggetto è virtuale perché non è “data” nel senso precedentemente inteso del termine (esplicitabile con un numero finito di passi), non è disponibile a un’analisi finita, ma richiede, per essere dimostrata, un numero di passi infinito. Questo vale anche per Dio, se volesse dimostrare l’infinità delle determinazioni che riguardano una sostanza individuale. Dio, naturalmente, a differenza dell’uomo, può tuttavia “vedere l’infinito”, perciò la sostanza individuale, tutti gli eventi che la riguardano e il mondo in cui si trova a esistere, gli sono a priori noti. È questo che viene detto nel seguito del paragrafo.
Occorre quindi che il termine del soggetto includa sempre quello del predicato, in modo che chi intendesse perfettamente la nozione del soggetto, sarebbe anche in grado di giudicare che il predicato gli appartiene. (Leibniz, ibid.)
E viene ora un punto fondamentale, che ci riporta alla distinzione fatta sopra tra nozione completa e nozione incompleta: la nozione individuale è completa, non così i concetti astratti, le nozioni generiche, che da Leibniz sono chiamati “accidenti”. Leggiamo.
Ciò posto, possiamo dire che la natura di una sostanza individuale, o essere completo, è di avere una nozione così perfetta, che basti a comprenderne e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto a cui tale nozione di attribuisce. Per contro, “accidente” è un essere la cui nozione non include tutto ciò che si può attribuire al soggetto a cui la nozione stessa si attribuisce. Ad esempio, la qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza determinata per un individuo, e non racchiude la altre qualità dello stesso soggetto, né tutto ciò che è compreso nella nozione di quel principe; per contro Dio, vedendo la nozione individuale o “ecceità” di Alessandro, vi vede al tempo stesso il fondamento e la ragione di tutti i predicati che gli si possono attribuire con verità (ad esempio che vincerà Dario e Poro): al punto da conoscervi a priori (e non per esperienza) se è morto di morte naturale o di veleno, cosa che noi possiamo sapere solo dalla storia. Inoltre, quando si consideri bene la connessione delle cose, si può dire che in ogni tempo si trovano nell’anima di Alessandro i resti di tutto ciò che gli è accaduto, e i segni di tutto ciò che gli accadrà, e perfino tracce di tutto ciò che avviene nell’universo: sebbene Dio solo sia in grado di riconoscerle tutte, (Leibniz, ibid.) (s.m.)
La sostanza individuale è un essere così completo la cui nozione basta a rendere ragione di tutti, proprio tutti (anche i capelli corti ora e lunghi prima), i predicati che riguardano tale soggetto o sostanza individuale. Un accidente è invece un essere la cui nozione è carente, dal momento che i predicati che la determinano sono insufficienti a renderla qualcosa di esistente, di concreto, di reale. L’essere accidentale, nella filosofia di Leibniz, non significa più qualcosa che appartiene a una sostanza in modo estrinseco, un attributo, una qualità che, presente o assente, non tocca l’essenza di una sostanza. Significa, invece, un essere generico, meramente possibile, ma non esistente in sé, un ente di ragione. L’esempio di Leibniz è illuminante: la distinzione fra Alessandro Magno e la regalità di Alessandro Magno. La regalità di un uomo (come la cinesità di un uomo, seguendo l’esempio fatto sopra) è un accidente, una nozione incompleta, incapace, da sola, di rendere conto degli individui a cui può attribuirsi. Diverso è il caso di Alessandro, la cui ecceità Dio solo vede. In questa ecceità si può leggere non solo ogni evento che riguarda direttamente Alessandro Magno (o meglio, la nozione completa di Alessandro Magno, perché ricordiamo che per Leibniz la verità ha sempre un carattere intenzionale), ma anche, per la connessione di tutte le cose, l’intero universo.
Il problema adombrato sta in una differenza (che Leibniz qui semplicemente accenna con l’espediente linguistico del “perfino”, ma che in altri luoghi tratta diversamente, a volte accentuando la differenza, a volte sfumandola fino a farla scomparire) fra ciò che appartiene ad Alessandro in quanto sostanza individuale (Alessandro, solo lui) e quanto appartiene ad Alessandro in quanto “in relazione” con altre sostanze individuali, in un mondo, come quello leibniziano, dove una sostanza individuale è un atomo spirituale, per il quale, il concetto di relazione, se lo intendiamo in un senso tradizionale, non ha alcuna pertinenza. Già abbiamo parlato di relazioni. Ora il problema si ripresenta in connessione con il concetto di inerenza. Dei paradossi che tale concetto implica Leibniz si occupa, semplicemente elencandoli, nel § 9, ma di essi qui non ci occupiamo.
In conclusione, facciamo brevemente il punto della situazione. La ragione della verità di una proposizione va trovata sempre e solo all’interno della proposizione stessa, cioè nell’inclusione del predicato nel soggetto. Questa inclusione può essere o evidente o soltanto virtuale, in questo caso è necessaria un’analisi completa del soggetto per mostrare la presenza del predicato. Questa analisi risulta di fatto impossibile per la mente limitata dell’uomo. Tutte le proposizioni vere hanno dunque di per sé la loro evidenza a priori, cioè indipendentemente dall’esperienza, anche se la maggior parte vengono conosciute dall’uomo solo a posteriori. Per quanto riguarda le proposizioni che per l’uomo sono a posteriori, sembra legittimo distinguere fra due modi di inclusione (dico sembra, anche se l’universale connessione di tutte le cose rende problematico procedere in questo senso): l’inclusione di predicati che riguardano la sostanza indipendentemente da altre sostanze (Alessandro ha il mal di pancia) e l’inclusione di predicati che riguardano la sostanza in relazione con altre sostanze (Alessandro vincerà Dario e Poro). In successivi articoli approfondiremo questi temi dell’ontologia leibniziana.