Nietzsche e la tragedia

 

Nietzsche scrive La nascita della tragedia nel 1871 e la pubblica nel 1872, ha 27/28 anni e già da tre anni è docente di lingua e letteratura greca a Basilea. Ha già scritto saggi importanti. Al termine del liceo, nel 1864 (20 anni), si era cimentato in una difficile opera su Teognide, poeta elegiaco attivo tra il VI e il V secolo a.C., importante nella formazione del filosofo.

Il testo ha per titolo La nascita della tragedia dallo spirito della musica ovvero Grecità e pessimismo, un sottotitolo che nasce alcuni anni dopo, in seguito alla ripresa autocritica del saggio da parte di Nietzsche. Sono opportune alcune considerazioni su questo titolo e per farlo mi servo di due racconti mitici.

Nel 3° capitolo si legge dell’incontro del Re Mida con il Sileno, figlio del dio Pan, depositario di saggezza e dotato di doti divinatorie. Per carpirgli i suoi segreti, il re Mida lo insegue e, catturatolo, lo obbliga a parlare. Questo è quanto dice:

Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto. (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1979, p. 31-32, da ora in poi NDT)

È la tremenda saggezza del Sileno, da cui traspare un’atroce esperienza della vita. “Il Greco – scrive Nietzsche – conobbe e sentì i terrori dell’esistenza” (NDT, p.32). L’altro racconto viene da Omero. Odisseo scende nell’Ade e, incontrando Achille, gli rivolge queste parole:

Ma, o forte Achille, uomo più beato di te non ci fu, ne mai ci sarà. Da vivo, come un dio, ti onoravamo e ora tu regni sopra i defunti. Come puoi lamentarti di essere morto? (Omero, Odissea, libro XI)

Desolata e sorprendente è la risposta dell’eroe

Non consolarmi della morte. Preferirei piuttosto fare il servo d’un bifolco che campasse giorno per giorno di uno scarso e misero cibo, piuttosto che essere sovrano nel regno dei defunti. (ibid.)

Siamo molto lontani dalla saggezza del Sileno. Là si diceva: meglio non essere nati e, se nati, morire al più presto; troppo dolorosa è infatti la vita per poterla sopportare. Qui si dice l’esatto contrario: il più grande dei beni sarebbe non morire mai e, se si deve morire, meglio morire il più tardi possibile. È un rovesciamento clamoroso e, questa è la tesi di Nietzsche, c’è un rapporto essenziale fra queste due visioni (l’orrore immedicabile per la vita che si rovescia nell’amore incondizionato verso di essa), come essenziale è il rapporto fra la cupa sentenza del Sileno e la luminosità degli dei olimpici.

In che rapporto sta con questa saggezza popolare il mondo degli dei olimpici? … Per poter comunque vivere il Greco dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici. … Tutta la filosofia del dio silvestre fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dei. (NDT, p. 32)

Il pessimismo del Sileno (l’esperienza dolorosa della vita) riceve una risposta luminosa. Non si rovescia in facile ottimismo si placa in rassegnata sopportazione. Il mondo degli dei olimpici non è un mondo di valori, dove vige il bene contro il male di questo mondo. È un mondo creato dall’illusione, dal sogno, non dalla morale, un mondo che serve alla vita, non un mondo che la nega.

Grecità e pessimismo” dice il sottotitolo. Da quanto detto, questo sottotitolo assume ora un senso speciale. Se il mondo olimpico è una risposta alla saggezza del Sileno, la forma più compiuta di risposta è la tragedia attica, luogo proprio in cui la glorificazione della vita trova, a prima vista paradossalmente, la sua apoteosi. È evidente che, dietro a tutto ciò, c’è una nuova concezione del pessimismo, lontana sia dalla accezione comune sia da quella filosofica di Schopenhauer, a cui, comunque, Nietzsche fa riferimento, anche se la supera fin da questo scritto. Quando scrive questo libro rivoluzionario, Nietzsche sa bene di cosa parla. È un filologo di grande valore (anche se non è l’intento filologico a guidarlo). L’opera sarà anzi molto contestata negli ambienti specialistici, ma non si tratta certo né di una geniale frivolezza né di una curiosa stramberia come l’aveva bonariamente liquidata Ritschl, il maestro di filologia di Nietzsche. Negli stessi anni il suo amico Erwin Rhode studia la figura di Psyché e delle pratiche cultuali presso i Greci e, malgrado alcuni dissensi con Nietzsche (che comunque sempre difese dagli attacchi), contribuì anche lui a intaccare la visione classica, winckelmanniana della grecità, basata sulla misura, l’equilibrio, la serenità.

Il titolo del nostro testo aggiunge anche, a “Nascita della tragedia”, “dallo spirito della musica”. L’opera è dedicata a quello che, per un certo periodo,  fu un vero e proprio idolo di Nietzsche, il musicista Richard Wagner, dal quale il filosofo si attendeva la rinascita, in nuove forme, della tragedia greca. Ne verrà drammaticamente deluso, ma questa è un’altra storia. Dal Wagner a Bayreuth, fino al Nietzsche contra Wagner, dal supposto rinnovatore della tragedia attica al patetico, scomposto, incontinente rappresentante del deteriore romanticismo, si snoda tutto il percorso del pensiero di Nietzsche. La musica ha un ruolo determinante in questo testo. È l’arte dionisiaca per eccellenza, come la scultura, la modellazione di forme, è l’arte apollinea. La tragedia nasce dallo spirito della musica, dall’impulso dionisiaco, che, per un breve momento, riusce a conciliarsi in una feconda polarità con l’impulso apollineo.

Ma, assieme a Wagner, l’altro grande riferimento di Nietzsche è Schopenhauer, il filosofo del Mondo come Volontà e rappresentazione, il grande nemico di Hegel e della dialettica, dell’ottimismo teoretico, il filosofo che fa del valore della vita un problema decisivo per il pensiero. Nella Terza inattuale, Schopenhauer come educatore, il filosofo viene assunto come colui che parla con voce più chiara e netta contro il tempo dell’ottimismo, sia storicistico che positivistico, quel tempo in cui sta giungendo al trionfo più pieno il nichilismo sotteso a tutta la cultura occidentale. È necessario dire due parole sulla sua estetica e sulla sua concezione del pessimismo e lo facciamo a partire dall’autocritica di Nietzsche.

L’estetica di Schopenhauer

Perché, si chiede Nietzsche, la specie di uomini meglio riuscita ebbe bisogno della tragedia? Di una forma d’arte che sembra testimoniare un atteggiamento fortemente pessimistico verso la vita? Il saggio sulla tragedia ha l’ambizione di rispondere a questa domanda, anche se lo fa, nelle parole di Nietzsche stesso, utilizzando un linguaggio improprio, formule schopenhaueriane. Il sentire tragico dei Greci, infatti, è molto lontano da quello di Schopenhauer. Quello greco è un pessimismo della forza, non della rassegnazione come quello di Schopenhauer.

La diagnosi di Schopenhauer sul valore della vita è pessimistica, sfocia nella rinunzia e nell’annullamento di fronte al dolore, alla distruzione e alla crudeltà che la vita comporta. Per il filosofo la vita è in sé volontà insensata, irrazionale, preda del caso, priva di scopo. La domanda di senso è una domanda vana e illusoria, perché affonda le sue radici nell’indifferente e caotico ribollire di una volontà cieca. Per Nietzsche la filosofia di Schopenhauer ha il grande merito di aver posto in primo piano il rapporto fra vita e maschera, vita e illusione, volontà e rappresentazione, un rapporto di incompatibilità per il filosofo, che, con le sue analisi, contribuirà al crollo del mito della verità assoluta.

Il mondo come rappresentazione è un mondo istituito dal soggetto, un mondo fondato, dei cui fenomeni deve essere possibile dar ragione. È un mondo che ha un senso meramente soggettivo, senza fondamento nelle cose, quindi sommamente arbitrario. Il senso è costruito, imposto al mondo, umano troppo umano, direbbe Nietzsche. Perciò il mondo come rappresentazione è precario, l’illusione che lo crea è continuamente insidiata dalla cieca pulsione che ribolle alle sue spalle, e che ha nel corpo la sua sede più immediata e cogente. È proprio il corpo l’obiezione più forte, impossibile da mettere a tacere, portata contro l’autonomia della ragione, lo scoglio contro cui la verità e la sua rappresentazione, tanto più valida e universale quanto più disincarnata, viene a infrangersi. Ponendo l’accento sul corpo e sulla volontà Schopenhauer sprofonda il senso dell’essere nell’insensatezza del divenire, dove l’essere si svela non più come verità, ma come vita. La verità è una maschera che il divenire della vita non cessa di mandare in frantumi, assieme ai suoi ideali e ai suoi valori morali, gusci vuoti senza nocciolo. Su questo fondo Schopenhauer  afferma la rinuncia ascetica, grazie alla quale liberare l’uomo dal mondo. La volontà è unica, identica in tutti gli esseri e vuole sempre e dappertutto la stessa cosa, oggettivarsi nella vita in una varietà infinita di esseri e di forme. Tutto il mondo come ci appare altro non è che l’insieme delle molteplici variazioni di uno stesso tema.

Di fronte a questo quadro metafisico, dominato dall’irrazionalità della volontà e dalla lotta perenne che ha luogo all’interno delle sue diverse forme di oggettivazione, l’unico vero compito etico è quello di sottrarsi alla volontà di vivere. Fra i dispositivi efficaci contro la pressione dolorosa e insanabile della volontà c’è l’arte, la quale, per sua natura, è in grado, sia pure in modo effimero, non duraturo, di liberare l’uomo dalla propria individualità empirica per aprirlo alla contemplazione dello spettacolo del mondo. L’arte sottrae l’uomo al principio di ragione e alla sua artificiosa esigenza di senso e lo lascia, per un breve momento, in una condizione di calma disposizione puramente contemplativa, rompe la trama del mondo, è puro accadere. Fra le varie arti, se escludiamo la musica, che nella filosofia di Schopenhauer gode di uno statuto speciale (la musica non è una copia o una ripetizione degli esseri di questo mondo, come le altre arti, ma è un’idea essa stessa, una vera e propria forma di oggettivazione della volontà, non esprime il fenomeno, ma la volontà stessa, perciò è indipendente dal mondo fenomenico e potrebbe continuare a esistere anche se l’universo non fosse più), è la tragedia la forma più adatta a condurci al di là della conoscenza vincolata alle forme della rappresentazione e che ci fornisce la perfetta conoscenza dell’essere del mondo, capace, in forza di questa sua consapevolezza, di agire come lenitivo della volontà. Produce la rassegnazione, favorisce la rinuncia alla vita.

Per il complesso di tutta la nostra indagine è molto importante e da tener bene in conto, che scopo di questa altissima creazione poetica è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile; che il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti vengono qui a noi presentati: imperocché si ha in ciò un significante segno intorno alla natura del mondo e dell’essere. (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III, § 51)

Il pessimismo greco

Da questa sommaria esposizione dell’estetica di Schopenhauer non è difficile comprendere né perché il giovane Nietzsche, da un lato, ne rimanesse affascinato (il rapporto fra vita e verità, fra vita e maschera, il ruolo dell’arte, ecc.) né quali, dall’altro, potessero essere, fin dal principio, i punti di distanza, in primo luogo il ruolo assegnato all’arte e, fra le arti, alla tragedia, vista da Nietzsche come una concezione del pessimismo della forza e della creazione e non della rassegnazione e della debolezza. In Ecce homo, parlando del suo libro giovanile, Nietzsche dirà che “Proprio la tragedia è la prova che i Greci non erano pessimisti: su questo punto, come su tutto il resto, Schopenhauer si è sbagliato”.

Compito fondamentale dell’arte greca è favorire la sopportazione e il superamento di tutto ciò che è orribile e assurdo per gli uomini. L’apollineo, uno degli impulsi artistici (l’altro è il dionisiaco), assume una funzione salvatrice, trasfigurando l’orrore della vita in immagini ideali e luminose. È questa la Sanità (Sanität) greca, a cui si richiama Nietzsche nella Filosofia nell’età tragica dei Greci, una sanità in netta antitesi con il concetto che di essa avevano i classici umanisti: dire sì alla vita, persino ai suoi lati più oscuri e più aspri. Dire sì alla vita non è un atteggiamento psicologico, non ha nulla della giocondità beota dell’uomo ottimista, il quale, di fronte a una disgrazia che gli sia capitata, anziché abbattersi, immalinconirsi o, peggio, prendersela con il mondo, si consola dicendosi: “È in effetti una bella disgrazia quella che mi è capitata, ma la saprò affrontare e sono sicuro che tutto andrà bene”. Il sì alla vita ha un solo vero senso, quello di “creare”, di aprire prospettive e porre nuovi valori, dare al mondo possibilità che prima non c’erano. Il sì alla vita è il sì della forza attiva contro ogni resistenza delle forze reattive, il sì alla trasformazione contro ogni istinto di conservazione e di adattamento. In una lettera a Erwin Rodhe del 1 luglio 1872, Nietzsche scrive:

La tesi rammollita del mondo omerico come mondo giovanile, come primavera del popolo, eccetera, mi è venuta a noia! Nel senso in cui è enunciata, essa è falsa. Che preceda una lotta enorme, selvaggia, di cupa rozzezza e crudeltà; che Omero stia come vincitore alla conclusione di questo desolato periodo: questa è per me una delle mie convinzioni più salde. I Greci sono molto più antichi di quanto si pensi. Si può parlare di primavera, a patto che si presupponga prima della primavera l’autunno: ma tutto questo mondo della purezza e della bellezza non è certo caduto dal cielo.

La saggezza del Sileno si rovescia nel lamento di Achille e gli dei olimpici, luminosi e amorali, sono edificati proprio in funzione della glorificazione della vita, in antitesi ad altre divinità e ad altri mondi trascendenti, (Nietzsche pensa qui al cristianesimo) che vigono invece contro la vita, per giudicarla e condannarla in nome di un al di là più vero e di ricompensa (o di castigo) per il comportamento tenuto in questa vita. Ma entriamo ora nel libro citando le parole conclusive del testo: “Quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel tempio delle due divinità!” Sono Apollo e Dioniso, le due divinità che incarnano in modo simbolico i due fondamentali istinti artistici, l’apollineo e il dionisiaco.

La polarità apollineo – dionisiaco

A grandi linee il testo può essere diviso in tre parti:

  • §§ 1 – 10: contengono le tesi guida elaborate da Nietzsche sulla tragedia, la presentazione dei due istinti artistici, l’evoluzione dello spirito artistico greco, a seconda del diverso predominare di uno dei due, fino alla grande sintesi, rappresentata dalla tragedia attica.
  • §§ 11 – 15: sono i paragrafi dedicati alla morte della tragedia, al venir meno dello spirito e della concezione della vita che l’ha resa possibile, all’affermarsi di quella decadenza rappresentata da Socrate, l’uomo teoretico, e dal suo esecutore, Euripide. Con loro la tragedia decade a dramma quotidiano e psicologistico e la vita cerca una giustificazione non più nelle grandi figure dell’arte apollinea, ma nelle idee, nei concetti di una ragione ottimistica e universale.
  • §§ 16 – 25: contengono varie osservazioni a complemento di quanto detto nelle due precedenti parti, ma i toni usati e i temi toccati riguardano la convinzione di Nietzsche, che ben presto si rivelerà illusoria, che la tragedia attica possa rinascere nella musica tedesca di Wagner e nella sua concezione dell’opera come opera d’arte totale, opera di musica, di parole, di scene, il Wort-Ton-Drama.

Nietzsche ha sempre considerato il concetto di opera d’arte totale decisivo per entrare nello spirito della tragedia greca. L’opera tragica, agli occhi dei greci, assume infatti caratteri tali da renderla completa sotto qualsiasi punto di vista e tali caratteri fanno sì che il popolo intero partecipi all’emozione e al pathos vissuti sulla scena; musica, gestualità, parola si intrecciano e diventano portatrici di messaggi che, accolti dalla sensibilità dello spettatore, elevano gli animi al contatto con il divino e alla pregustazione dell’ebbrezza del dionisiaco. Perciò Nietzsche sente come lesivo del fenomeno tragico antico il fatto che noi ne conosciamo solo gli aspetti letterari e ne ignoriamo tutte le altre componenti visive, musicali, ecc.. In una delle Conferenze di Basilea, quella dedicata al Dramma musicale greco, sottolinea come la nostra conoscenza di Eschilo e di Sofocle sia in realtà solo una conoscenza presunta, dal momento che i grandi tragici ci sono noti solo come librettisti che hanno redatto il testo, mentre la concreta espressione teatrale della tragedia è destinata a rimanenrci per sempre esclusa.

 

L’interpretazione nietzschiana della tragedia ruota attorno alla scoperta delle due nozioni di apollineo e dionisiaco, che rappresentano nel dominio dell’arte dei contrari stilistici, inseparabili ma quasi sempre in lotta fra loro, secondo una feconda polarità. Solo una volta, con la tragedia attica, momento culminante della volontà ellenica, appaiono fusi. Questi due istinti artistici hanno un corrispettivo fisiologico negli stati del corpo del sogno e dell’ebbrezza.

Apollo, il sogno

L’apollineo è

la bella parvenza dei mondi di sogno, nella cui produzione ogni uomo è un perfetto artista, ed è il presupposto di tutta l’arte figurativa” (NDT, p. 22).

L’apollineo è l’elemento classico per eccellenza, secondo la tradizionale accezione dell’arte greca. Il mondo del sogno è il mondo dell’illusione, il mondo dove ogni uomo è artista, e l’illusione, scrive Nietzsche nella Visione dionisiaca del mondo, è la madre di ogni arte figurativa e di una metà importante della poesia, la poesia epica. L’essenza dell’apollineo è la modellazione, il dar forma, il creare forme in un libero gioco creativo. Il sogno, che è lo stato fisiologico dell’apollineo, è una condizione in cui l’uomo può giocare con la realtà, libero da convenzioni e da pressioni della realtà quotidiana. Illusione e bellezza sono i tratti dominanti di questa esperienza e il suo appagamento consiste nella liberazione del creativo impulso alla modellazione, impulso che trova nell’arte la sua più profonda esplicazione. Apollinea, e quindi plastica, per eccellenza è la scultura, in cui l’artista plasma il blocco di marmo, imponendogli forma e struttura. Mentre il sogno è il gioco del singolo uomo con il reale, l’arte dello scultore è il gioco con il sogno.

Sin tanto che la statua rimane di fronte agli occhi dell’artista come immagine fantastica, egli gioca ancora con il reale, se traduce questa immagine nel marmo, egli gioca con il sogno (F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, in F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, Adelphi, Milano 1991, p. 49-50).

In questa prospettiva il dio dell’arte è Apollo, dio delle rappresentazioni di sogno. Apollo è il risplendente, il suo elemento è la bellezza, il suo dominio è anche la bella illusione del mondo del sogno, la verità superiore, la perfezione di tutti questi stati, in antitesi alla realtà diurna lacunosamente comprensibile. La sottolineatura della bellezza comporta una forte connotazione contemplativa dell’esperienza apollinea, inquadrata nella luminosità diurna e nei contorni nitidi delle figure. È in questo senso che Apollo è anche e soprattutto il dio del principium individuationis. Dio di tutte le capacità figurative, guarisce con le immagini e le illusioni; ma è anche il dio del limite, che ci difende dalla dismisura: la figura, la forma, è infatti, per un greco, sostanzialmente misura, limite, vittoria su ogni eccesso, in antitesi alle figure dell’arte orientale antica (pensiamo ad esempio all’arte mesopotamica), in cui traspare l’eccesso, il carattere abnorme delle figure, dove certi particolari sono esasperati, deformati, enfatizzati, quasi come se le forze che guidano la formazione non fossero efficacemente dominate. Nietzsche, in questa prima espressione della sua filosofia, attribuisce all’apollineo i tratti tipici della rappresentazione schopenhaueriana, esaltandone sia la forza individuante delle figure, sia la coerenza formale, unitamente alla consistenza illusoria, propria del sogno.

Dioniso, l’ebbrezza

Questo risulta complementare alla determinazione del dionisiaco, che esprime l’esperienza della rottura delle strutture rappresentative. Il dionisiaco è quello stato in cui viene meno la fiducia nell’individuazione, uno stato di eccesso, di perdita dei limiti, un estatico rapimento che sale dalle profondità dell’uomo, dal suo corpo, analogo allo stato fisiologico dell’ebbrezza, quando l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé, quando l’uomo antico, scrive Nietzsche, è preda dell’impulso primaverile o della bevanda narcotica. Ciò che viene spezzato è il principio di individuazione, l’elemento soggettivo, superficiale ed effimero, svanisce di fronte alla violenza prorompente dell’elemento naturale, di cui l’uomo è costituito. Le feste dionisiache, che la Grecia sperimenta in un certo momento della sua storia, mettono in crisi il principio di individuazione e la singola soggettività, rinsaldano il  legame tra uomo e uomo e, soprattutto, riconciliano l’uomo con la natura. Tutte le divisioni, le classificazioni, le convenzioni che l’uomo ha arbitrariamente stabilito scompaiono. “Cantando e danzando l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore” (NDT, p. 26). La trasformazione che l’uomo subisce è reale, profonda, lui stesso si sente divinizzato. Se nel sogno l’uomo è artista, ora è lui stesso opera d’arte, plasmato dalla natura, formato dall’artista Dioniso. È uno stato di ebbrezza, ma tale concetto deve essere compreso correttamente e non ridotto a una mera perdita di controllo di sé. Scrive Nietzsche:

è qualcosa di simile a quando si sogna e al tempo stesso si avverte che il sogno è appunto un sogno. Il seguace di Dioniso deve trovarsi nell’ebbrezza e al tempo stesso stare fuori di sé come un osservatore in agguato. La maestria artistica dionisiaca non si rivela in un’alternanza di assennatezza e di ebbrezza, bensì nella loro coesistenza. (F. Nietzsche, Scritti dal 1870 al 1873, in Opere, III/2, p. 53)

Sono due estasi diverse quella apollinea e quella dionisiaca:

  • la prima è un assorbimento contemplativo nella forma, nella figura (la bella parvenza),
  • la seconda è rapimento e disfacimento dell’individuazione, dove, anziché modellare si è modellati, dato che la soggettività della rappresentazione è vinta dall’unità aggregante dell’elemento naturale, ora preponderante.

L’uomo diventa parte del tutto, attraversato dall’identica vita divina. Dioniso è il dio dello smisurato, di ciò che non ha termine che lo definisca, dio del divenire che tutto travolge, dio del ritorno alla natura nel senso primordiale che infrange le barriere imposte dagli uomini, ma anche, e in senso strettamente collegato a tutto questo, dio della gioia, dell’affermazione della vita travolgente.

Il mondo degli dei olimpici: l’epica

Nell’ottica di questi due impulsi, Nietzsche rilegge la storia della civiltà greca e reinterpreta in primo luogo quelle che sono le figure più tipiche di questa civiltà, il mondo olimpico e i suoi dei vittoriosi. La sua è una vera e propria operazione di decostruzione, un “disfare pietra per pietra il geniale edificio della cultura apollinea” (NDT, p. 30) per giungere alle sue fondamenta. Le magnifiche figure degli dei olimpici, di cui Apollo è a un tempo parte e padre, proprio per questo splendore, per questa magnificenza, per questa luminosità, costituiscono un problema e Nietzsche si chiede quale sia stato l’immenso bisogno che le ha create. Sono figure che non trovano riscontro in nessun’altra civiltà, figure incomprensibili se le interroghiamo con i nostri parametri riguardo alla religione, al mondo trascendente: in esse non c’è altezza morale, né santità, spiritualità, misericordia e compassione, tutti attributi che il cristianesimo ci ha abituati ad associare al divino. Non c’è spiritualità, non c’è ascesi, non c’è dovere, ma solo esistenze rigogliose, trionfanti: tutto ciò che esiste, senza riguardo al bene e al male, è divinizzato.

Il problema che Nietzsche pone riguardo alle figure olimpiche lo abbiamo già incontrato all’inizio: in che rapporto sta il mondo degli dei olimpici con la terribile saggezza popolare del Sileno? È l’illusione che trasfigura una realtà orribile, allo stesso modo in cui le visioni del martire si nutrono dei suoi tormenti. “La montagna incantata dell’Olimpo affonda le sue radici nell’orrore dell’esistenza” (NDT, p. 32). Qui Nietzsche mostra il suo debito nei confronti di Schopenhauer, anche se il tono e la tempra del suo pessimismo è già volto verso un’altra concezione della vita e dell’arte. La vita non ha bisogno di essere giustificata o consolata; le figure dell’arte non sono una consolazione della vita, un aiuto a sopportarla, ma espressione di forza creativa, non risarcimento alla vita, ma sua affermazione. Il Greco sperimentò, conobbe, sentì con forza piena i terrori e le atrocità dell’esistenza, mai a essi si sottrasse. A tali orrori diede anche espressione mitica, in quella che Nietzsche chiama la filosofia del dio silvestre, a tali orrori altre civiltà non seppero sopravvivere (i malinconici Etruschi perirono), ma i Greci ogni volta li superarono, li nascosero, li sottrassero alla propria vista, mediante il mondo artistico degli dei olimpici. Tale mondo non è dunque il prodotto di un’ingegnosa ma fatua fantasia, ma di una necessità profondissima, quella di poter vivere. Ed ecco come Nietzsche immagina questo evento:

Dall’originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli. (NDT, p. 32)

Le verità di Dioniso rivelano lo sfondo tragico della vita, la contraddizione irrisolta, il dolore e l’eccesso che si celano dietro alla realtà dell’individuazione e dell’esperienza quotidiana. Aspetti oscuri della mitologia e la sapienza del Sileno ne sono ancora delle evidenze. La religione olimpica, con l’arte a essa connessa, incarna la reazione a uno stato di credenze pre-elleniche, ed è il risultato della creazione apollinea, dell’istinto per la bella illusione, per l’equilibrio della rappresentazione. Il terrore richiede il superamento nella gioia (e non nel risentimento, nella colpa, in supplementi di sofferenza), per rendere sopportabile la vita. Così nel mondo greco arcaico, il mondo omerico, la tendenza apollinea risulta dominante, nell’epica ad esempio, e copre con il gusto della misura e dell’equilibrio ogni accenno di eccesso e di deformità. In quel tempo il dionisiaco è ancora appannaggio dei culti selvaggi del Vicino Oriente, tanto che la sua progressiva penetrazione in Grecia produce la reazione riscontrabile nell’irrigidimento apollineo dell’arte dorica. Ma il mondo greco, e questa è la sua specificità per Nietzsche, non può lasciare nella sua forma barbarica, quasi animalesca, il culto di Dioniso, come non può bloccarsi nelle forme sostanzialmente reattive dell’arte dorica.

L’armonia dell’uomo con la natura, quella serenità greca tanto ammirata dai classicisti di ogni epoca è quella che Schiller chiama l’ingenuo, il Naive. L’ingenuo schilleriano parla di una sincerità naturale per noi ormai inaccessibile, uno spontaneo accordo con la natura di cui gli antichi erano capaci e che noi abbiamo definitivamente perduto. Il Naive di Nietzsche ha tutt’altra stoffa. Non spontanea e immediata armonia, ma vittoria sull’orribile profondità della contemplazione del mondo: nulla di semplice, di spontaneo, di originario, come qualcosa che stia alla soglia di qualunque civiltà, come un paradiso dell’umanità. Per Nietzsche,

dove nell’arte incontriamo l’ingenuo, dobbiamo riconoscervi l’effetto più elevato della cultura apollinea: quest’ultima avrà innanzitutto dovuto abbattere un regno di Titani e uccidere mostri e, mediante potenti raffigurazioni chimeriche e ardenti illusioni, esser riuscita vittoriosa su una tremenda profondità della considerazione del mondo e una eccitabilissima capacità di dolore. (NDT, p. 33-34)

Nella natura c’è un irreprimibile desiderio di illusione. Per Nietzsche l’uno originario non è un caos indeterminato. L’uno originario soffre, è un groviglio di contraddizioni, di forze, di spinte contrastanti, è pregno di potenzialità. Simondon direbbe che si trova in uno stato metastabile. Di queste incompatibilità di cui soffre, sente la necessità di liberarsi e lo fa continuamente producendo visioni estasianti, illusioni. Nietzsche afferma la reciproca necessità del mondo della bellezza apollinea e dello sfondo della terribile saggezza del Sileno. L’affanno è necessario per la creazione della bellezza.

La penetrazione del dionisiaco: la lirica

Il dionisiaco greco trova la sua prima e più compiuta espressione artistica nella lirica (Archiloco è il suo grande rappresentante, come Omero è il grande rappresentante della poesia apollinea, l’epica). Lo scontro fra apollineo e dionisiaco è lo scontro fra due grandi forme d’arte, la scultura e la musica, fra due grandi forme di poesia, l’epica e la lirica, fra due grandi poeti, entrambi espressione originaria dello spirito greco, Omero e Archiloco.

Archiloco è il grande lirico greco del VI secolo a. C., il “primo soggettivo” che si contrappone al grande poeta epico, il poeta “oggettivo”. È su queste categorie di soggettivo e oggettivo che Nietzsche riflette e si chiede: com’è possibile il poeta lirico, quel poeta che nella sua poesia dice sempre “io” e che sembra quindi, per il suo soggettivismo, il prototipo del cattivo artista? Dall’arte, infatti, pretendiamo il superamento del soggettivo, la liberazione dall’io e l’assenza di ogni capriccio psicologico. Il contributo particolare di Archiloco fu quello di introdurre il canto popolare nella poesia. La musica è l’arte dionisiaca per eccellenza ed è l’ambito in cui l’artista dionisiaco abbandona la propria soggettività individuale per identificarsi con la vera realtà metafisica ed esprimerla nella musica. Sotto l’influenza apollinea egli riesce a simbolizzare la musica in idee e linguaggio specifici, per cui la musica precede le idee. È importante questa identità del lirico con il musicista. In quanto artista dionisiaco, si identifica con l’uno originario e genera questa identificazione come musica. L’influsso apollineo, però, gli rende visibile questa musica in un’immagine di sogno simbolico. Nel processo dionisiaco l’artista ha annullato la sua soggettività e ora con l’immagine dà figura a questa identificazione originaria. È quindi dallo stato di alienazione di sé e di unità con la natura che il genio lirico sente sorgere un mondo di immagini. Vediamo di fissare con chiarezza queste caratteristiche del lirico in particolare nella sua contrapposizione con il poeta epico, perché la comprensione di questa relazione è necessaria per cogliere l’idea nietzschiana di tragedia.

  • Il genio epico e lo scultore vivono nelle immagini e solo in esse e in questa illusione trovano l’argine a una identificazione con le immagini stesse. Nel mondo epico “c’è” solo Apollo, anche se il dio risplendente trae la sua forza, la sua natura stessa, potremmo dire, da una risposta forte all’orrore dell’esistenza. Nell’epica Apollo “affronta” Dioniso (e non potrebbe essere diversamente, altrimenti le sue immagini sarebbero meramente formali, irrigidite, devitalizzate), affronta quindi Dioniso, ma lo “dimentica” nella bella forma eternizzata. Nell’epica Dioniso è la riserva energetica di Apollo. Nel capitolo 9 Nietzsche sottolinea come il rischio della tendenza apollinea fosse al limite l’irrigidirsi delle immagini in una “egiziana durezza e freddezza”. Solo nell’urgere della dismisura dionisiaca l’apollineo può vigere e creare (rispondere con) immagini vitali, dinamiche.
  • Diverso è il genio lirico (e il musicista). Le immagini del lirico non sono nient’altro che lui stesso. Ma l’“io” del lirico non è lo stesso di quello dell’uomo sveglio, perché riposa sul fondo delle cose, si nutre della loro energia. Archiloco è una visione del genio in quanto genio del mondo. Nella lirica c’è solo Dioniso, tanto che il lirico si identifica con il musicista, arte dionisiaca per antonomasia. Diventa una cosa sola con l’uno originario, anche se non si perde in esso, perché l’apollineo apre alla musica la possibilità di farsi visione. Nella lirica Apollo “si perde” in Dioniso e le sue immagini, le sue figure, vivono una vita oggettiva, de-individualizzata: l’artista abbandona la propria soggettività e si identifica all’unità metafisica. Nella lirica Apollo si fa strumento inconsapevole di Dioniso.

Nella lirica di Archiloco la musica è una melodia primaria e universale che genera da sé la poesia. La melodia, scrive Nietzsche nel capitolo 6, sprizza continuamente attorno a sé scintille di immagini. È la musica che si scarica in immagini. Ma non è certo una musica descrittiva, la musica non imita le immagini della natura, ma è esattamente il contrario, le immagini scaturiscono dalla musica, sono esse che cercano di imitare la musica. La musica, imitata dalle immagini, appare come volontà (qui Schopenhauer è presente in modo evidentissimo), come il fondo da cui si generano le rappresentazioni.

Il gioco di Apollo e Dioniso: la tragedia

Anche la tradizione, pensiamo ad Aristotele, ha sempre affermato una connessione della tragedia con il culto di Dioniso: allestita all’interno delle celebrazioni dionisiache ad Atene, sarebbe sorta dal ditirambo, canto corale in onore del dio Dioniso. Un ruolo centrale avrebbe avuto il coro tragico, a cui si riduceva in origine l’intera recita. In estrema sintesi, la tesi nietzschiana possiamo articolarla così. Nella loro condizione estatica i seguaci di Dioniso si vedono trasformati in satiri, e questa trasformazione è il punto di partenza del dramma tragico; il coro incarna la massa dionisiaca, ne manifesta la visione mistica e l’eccezionale esperienza di trasformazione che l’accompagna; la sua funzione primitiva è quella di esprimere nelle figure semi-bestiali dei satiri il sentimento della gioiosa potenza della vita; a differenza di quella del poeta epico, la visione del coro non implica distacco ed esteriorità, ma piena partecipazione e fusione con le figure dell’estasi; il coro, d’altra parte, nella sua originaria fisionomia, assorbiva anche coloro che poi si sarebbero chiamati spettatori. Lo spettacolo è, in fondo, quello visionario della processione del dio, a cui tutti immediatamente partecipano; tuttavia, per poter realizzare la scena originaria del dramma, tale visione dionisiaca necessita di una seconda esperienza visionaria: la rappresentazione apollinea da parte di un attore che affianca il coro, con la ulteriore frattura, nel seguito degli adoratori di Dioniso, tra coro e spettatori; il compito del coro è quello di commuovere gli spettatori, così che essi non vedano un attore in scena, ma la figura visionaria che l’attore intende rappresentare. È questo il senso secondo il quale lo spettatore deve ancora partecipare della visione del coro.

L’incantesimo è il presupposto di ogni arte drammatica. In questo incantesimo chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come satiro, e come Satiro guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di sé una nuova visione, come compimento apollineo del nuovo stato. Con questa nuova visione il dramma è completo. (NDT, p. 60)

Da quanto detto appaiono chiare queste parole di Nietzsche:

Il dramma è la rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci, ed è quindi separato dall’epos da un immenso abisso”. (NDT, p. 61)

La tragedia è una complessa esperienza visionaria: è gioco con l’ebbrezza dionisiaca, ma non implica la completa dissoluzione in essa; l’attore è in tutto e per tutto l’uomo dionisiaco, ma lo è in quanto messo in scena e quindi sottratto a quel rischio assoluto, totale, di dissoluzione del sé nell’orgia e nella turba dei satiri. Lo spettatore, quindi, assiste allo spettacolo della trasformazione del coro nella processione dei seguaci di Dioniso e alla rappresentazione della sua visione; il coro stesso si vede trasformato nel seguito satiresco e in tale veste comprende il dio e le sue vicende rappresentate in scena. C’è quindi l’esperienza della perdita della propria individuazione, esperienza a cui corrisponde la proiezione nelle forme del sogno, nella simbolizzazione apollinea, entro la quale si fa luce un messaggio dionisiaco. La funzione dell’apollineo nella struttura tragica non è affatto quella di reprimere o di soggiogare l’istanza dionisiaca, bensì di trasfigurarla, di sublimarla, di elevarla, trasformando le sensazioni di nausea e di orrore per l’assurdità dell’esistenza umana in rappresentazione con cui sia possibile convivere.

La tragedia è una sublime sintesi di apollineo e dionisiaco, la forma d’arte tipica del popolo greco, di un popolo che ha fatto del pessimismo della forza la sua caratteristica unica, una forma d’arte alla cui base sta la dottrina misterica dell’unità fondamentale di tutte le cose, della individuazione come sofferenza e rottura di questa unità e della speranza della reintegrazione nell’unità. La tragedia è uno stato dionisiaco che si oggettiva in un universo di immagini apollinee, ma in questo equilibrio fra il dionisiaco e l’apollineo è il dionisiaco che ha il sopravvento. Lo abbiamo già ricordato sopra: il dionisiaco mantiene viva la forma apollinea, impedendole di irrigidirsi in immagine formale e convenzionale. La tragedia è il luogo della fratellanza di Apollo e di Dioniso, dove “Dioniso parla la lingua di Apollo (sono le immagini e il testo che costituiscono la tragedia), ma dove alla fine è in realtà Apollo che parla la lingua di Dioniso (perché le immagini traducono in visione, in rappresentazione, l’estasi dionisiaca, l’unione dell’individuo con l’uno-tutto).

Nel rapporto forma-fondo, Apollo-Dioniso, individuazione-unità originaria, Nietzsche è ancora sotto l’influsso di Schopenhauer e di Wagner, l’affermazione della vita è ancora concepita soltanto attraverso la risoluzione della sofferenza nel seno dell’universale e di un piacere che oltrepassa l’individuo. L’individuazione è ancora concepita come una colpa. Nietzsche si libererà nello sviluppo del suo pensiero di questa ipoteca e l’arte giocherà un ruolo ben più importante di quello di consolazione dell’esistenza e dei suoi affanni. Già qui, comunque, Schopenhauer è sostanzialmente superato e la sottolineatura posta sulla luce e la gioia delle immagini apollinee appartiene a un altro modus di pensiero. Lungi dal decidere l’uomo alla rinuncia e all’ascesi, lungi dallo spegnere la sua volontà di vita, la tragedia si mostra già come uno stimolante della vita.

La morte della tragedia

La tragedia, secondo il filosofo, muore tragicamente e gli assassini (mandante ed esecutore) sono ben noti. Sono due grandi nomi della cultura greca: Socrate è il mandante, Euripide l’esecutore. Alla tragedia segue la commedia attica nuova, una sua forma degenerata: questa porta alla perfezione l’infausta innovazione introdotta da Euripide, quella di aver portato lo spettatore, cioè l’uomo della realtà quotidiana, sulla scena.

Prima i personaggi erano uomini eroicamente stilizzati, in cui si riconosceva subito la derivazione dagli dei e dai semidei. Lo spettatore vedeva in essi un passato ideale della grecità e insieme la realtà di tutto ciò che viveva anche nella propria anima nei momenti più elevati. (F. Nietzsche, Seconda conferenza di Basilea. Socrate e la tragedia, Newton Compton, Roma, 1988, p. 51-52)

I momenti alti del fenomeno tragico, per Nietzsche, sono rappresentati da Eschilo e Sofocle, mentre il terzo grande tragico, Euripide, se si escludono le Baccanti, sta all’inizio della degenerazione: portando lo spettatore sulla scena l’azione drammatica scade nella rappresentazione di vicende banali, quotidiane, l’arte tragica viene costretta a riprodurre la mediocrità del quotidiano e ad abbandonare le profondità del mito. L’uomo della realtà quotidiana balza sulla scena, e lo specchio, che in precedenza aveva riflesso solo i caratteri grandi e nobili, si fa più realistico e più volgare, nasce la commedia dell’intrigo. In realtà Euripide ha stravolto la tragedia, questo Nietzsche glielo riconosce, per tentare di opporsi al declino del dramma musicale, consapevole dell’abisso che si era spalancato nel suo tempo fra la tragedia e il pubblico ateniese, un pubblico decaduto, privo della tempra di un tempo, pubblico in grado ormai di comprendere solo una forma d’arte la cui regola sia la seguente: “tutto deve essere ragionevole, in modo che tutto possa essere compreso” (F. Nietzsche, ibid., p. 54). Il mito, ormai oscuro nel suo senso profondo, decade a mera narrazione di vicende concatenate. Fin dalla loro entrata in scena, gli eroi si esprimono totalmente attraverso le parole, all’inizio dello spettacolo soddisfano la fame di trama dello spettatore raccontando chi sono, di che cosa tratta l’azione, che cosa è già successo e che cosa sarebbe successo nel corso della rappresentazione.

La tragedia, quindi, muore suicida per mano di Euripide, ma questi, come già anticipato è solo l’esecutore, una maschera che, anziché rivelare il dionisiaco e l’apollineo, rivela un nuovo demone, Socrate e il socratico. Alla sapienza mitica, ormai incomprensibile, Euripide oppone la sapienza socratica. Il socratismo è il formidabile nemico di ogni forma d’arte tragica, forse di ogni forma d’arte come tale, perché Socrate, afferma Nietzsche, disprezza l’istinto, quindi l’arte, nega la sapienza che affonda le sue radici nella vita. Fa di peggio, stravolge la natura stessa dell’istinto, che anche Socrate possedeva, che anche in lui si manifesta (il famoso demone socratico), ma che gioca in lui un ruolo paradossale, contro-natura. Ma leggiamo Nietzsche stesso nella già citata Conferenza.

Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La sapienza inconscia, in quest’uomo del tutto abnorme, leva la sua voce per contrastare qua e là, ostacolandolo, l’oggetto della coscienza. Anche qui si manifesta in che misura appartenesse Socrate ad un mondo assurdo e rovesciato. In tutte le nature produttive l’inconscio opera appunto creativamente e affermativamente, mentre la coscienza si comporta criticamente e in modo dissuasivo. In lui l’istinto diventa critico, la coscienza diventa creativa. (F. Nietzsche, ibid. p. 58)

Per Nietzsche, insomma, la tragedia muore quando il pensiero greco pretende di racchiudere in concetti l’esistenza, imponendo così alla vita il primato della ragione. Il razionalismo socratico, infatti, si basa sulla convinzione che la saggezza sia sapere. Da qui il disprezzo socratico per l’istinto e quindi per l’arte, la quale si nutre di irrazionale, di ciò che non può essere spiegato, di ciò che non può essere comunicato. Con Socrate tende a imporsi nella civiltà un nuovo tipo umano: all’uomo tragico si sostituisce l’uomo teoretico, il quale, con la potenza della ragione, si dedica a costruire un imponente mondo delle apparenze per affermare il suo dominio tecnico sulla vita. Nella tragedia questo si traduce nella degenerazione del dialogo, per cui gli attori competono fra loro con parole ed argomenti, l’eroe difende il suo operato con ragioni e contro-ragioni, diventando insomma eroe della parola e della dialettica. Con Socrate si chiude l’epoca di Dioniso e il dionisiaco è espulso definitivamente dall’orizzonte della cultura occidentale.

Nella visione della civiltà greca di Nietzsche coesistono due diverse antitesi. Innanzitutto l’antitesi del dionisiaco e dell’apollineo, della volontà e della rappresentazione, dello spirito della musica e delle belle immagini. In questa antitesi il dionisiaco assume una posizione primaria rispetto all’apollineo, perché in esso sta ciò che è originario, essenziale (la volontà, il sostrato noumenico dell’esistenza) mentre l’apollineo è l’universo delle forme e dei fenomeni in cui tale sostrato trova limite e si rende oggettivo. L’essere, la volontà, tende comunque a riassorbire le apparenze molteplici nel proprio fondo primitivo. Lo scopo ultimo dell’arte è quello di restaurare l’unità originaria spezzando il dominio dell’individuazione. Vi è poi una seconda antitesi che divide, da un lato, l’apollineo e il dionisiaco, come istinti artistici che trovano la loro apoteosi e conciliazione nella tragedia, e dall’altro il socratismo, lo spirito teoretico, raziocinante e dialettico, che alla tragedia mette fine. Socrate ed Euripide rompono la fratellanza di Dioniso e Apollo, la tragedia, con Euripide viene separata da quella tensione che le aveva dato vita. La forma apollinea diventa fredda critica razionale, la volontà dionisiaca effetto patetico di scena. Nel raziocinio socratico-euripideo lo schema logico è l’involucro in cui viene chiusa la forma apollinea, mentre l’elemento dionisiaco è tradotto in un pathos naturalistico e fine a se stesso.

Se la tensione di apollineo e dionisiaco aveva dato luogo alla visione tragica del mondo, la razionalità socratica ed euripidea è invece fondamentalmente ottimistica. L’eroe socratico-euripideo è un dialettico, nel quale virtù e sapere, fede e morale, sono uniti da un legame necessario e manifesto. Così la dialettica distrugge l’essenza della tragedia, scacciando da questa la musica con la sferza dei sillogismi. L’opposizione schopenhaueriana  del fondo dionisiaco e delle apparenze apollinee rischia di celare la più profonda opposizione di Dioniso, il dio affermatore di vita, sovrabbondante di forza, e di Socrate, l’asceta, l’uomo teoretico e negatore della vita. Eppure sarà proprio questa dicotomia, la distinzione tra forze attive e forze reattive, quella centrale del maturo pensiero nietzschiano, quando sarà definitivamente caduta l’eredità di Schopenhauer. In realtà, e Deleuze lo sottolinea con chiarezza nel suo testo del 1962 dedicato a Nietzsche, l’opposizione vera a cui arriverà nella fase matura del suo pensiero sarà quella fra Dioniso e il Crocifisso, fra l’arte e la negazione della vita, fra l’arte e la morale.

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