Introduzione
La Nascita della tragedia mostra chiaramente quale importanza abbia l’arte nella filosofia di Nietzsche. Basterebbero due note formule, spesso ripetute senza penetrare nel loro autentico significato, per sottolineare tale importanza. La prima afferma che l’esistenza può avere solo una giustificazione estetica (e non una giustificazione morale). Questo non ha nulla a che fare né con l’estetismo né con l’art pour l’art, mentre riguarda da vicino la vita, lo Spiel, il gioco (paradigma di creazione e distruzione), e il gioco è, nella sua essenza, riguardo all’arte, agone, Wettkampf fra Apollo e Dioniso. La seconda afferma che l’arte vale più della verità, il cui senso cercherò di mettere in evidenza ora.
La traccia che uso è il seminario di Heidegger del 1936, intitolato La volontà di potenza come arte (M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi,Milano, 1994, 1a Parte, La volontà di potenza come arte, pp. 21-215, da ora in poi citato come N. seguito dal numero di pagina), il cui testo di riferimento è la raccolta di frammenti messa assieme dalla sorella di Nietzsche e da Peter Gast, di cui possediamo due edizioni, la prima del 1901 (fr. 483), la seconda di cinque anni dopo, 1906, (fr. 1067). (F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 2001, da ora in poi citato come VP. seguito dal numero del frammento). Il titolo del testo è La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori ed è diviso in 4 libri: (Il nichilismo europeo; Critica dei valori finora supremi; Principio di una nuova posizione dei valori; Disciplina e allevamento). I frammenti che uso si trovano quasi tutti nell’ultima parte del libro terzo, intitolata La volontà di potenza come arte (VP. 794-853). È bene ricordare che per Nietzsche la volontà di potenza riguarda ogni ambito dell’ente (infatti le prime tre parti di questo terzo libro hanno per oggetto la volontà di potenza come conoscenza, la volontà di potenza nella natura e la volontà di potenza come società e individuo).
Sono cinque i temi che intendo trattare:
- La discussione delle cinque tesi sull’arte che Heidegger estrapola dai frammenti di Nietzsche, tesi che si appoggiano tutte su una convinzione capitale, quella secondo la quale l’arte è uno stimolante della vita (VP. 808).
- Tale tesi capitale è in netto e palese contrasto con la concezione platonica dell’arte, attività che, sia per ragioni ontologiche (la sua distanza dalle idee, che la rende copia di copia), sia per ragioni “psicologiche” e politiche (l’arte scatena le passioni, avvalora l’irrazionale), deve essere bandita nella Repubblica retta dai filosofi. Per Platone l’arte, lungi dall’essere uno stimolante della vita, ha un effetto negativo sia per il pensiero che per la morale. Il contrasto fra concezione nietzschiana e concezione platonica ha il suo fondamento nel diverso modo di concepire la vita da parte dei due filosofi.
- La trasvalutazione di Nietzsche si basa sulla convinzione di fondo che alla fine è il valore per la vita ciò che decide tutto. Va sottolineato in particolare il fatto che, per Platone fra arte e verità c’è la massima distanza, mentre per Nietzsche c’è discrepanza. Si tratta di uno slittamento di significato che merita di essere preso in considerazione.
- La filosofia nietzschiana dell’arte è in realtà una fisiologia dell’arte e, per essere compresa nella sua essenza, è necessario valutare lo stato fisiologico fondamentale e più propizio alla produzione dell’arte, l’ebbrezza dionisiaca, con la sua forza, il suo potere destrutturante di ogni forma e di ogni individualità. Nella Nascita della tragedia l’ebbrezza è vista in polarità con il sogno apollineo. Nell’ultimo Nietzsche questa polarità va in qualche modo ripensata, ma non rigettata.
- Infine, ed è il tema più importante, l’arte è l’attività più propizia per mettere in risalto il carattere prospettico della filosofia di Nietzsche, un prospettivismo ontologico, non psicologico.
Il concetto di Gegenbewegung, contromovimento, riveste grande importanza nell’estetica dell’ultimo Nietzsche.
La nostra religione, la nostra morale e la nostra filosofia sono forme di décadence dell’uomo [forme di vita declinante, forme di vita ostili alla vita, forme di vita che fanno della verità l’ideale]. Il contromovimento: l’arte. (VP. 794)
Tale idea non è nuova, anzi. Nietzsche è consapevole che, sia pure in forma non ancora compiuta, in forme ancora oberate da residui schopenhaueriani, essa è già presente nella Nascita della tragedia. Non a caso l’ultimo frammento di questa parte, dedicato alla trattazione dell’arte nel suo libro giovanile, dopo averne ripreso in forma concisa i principali assunti, ribadisce la necessità dell’arte per la vita, il suo valere più della verità.
L’arte e nient’altro che l’arte! È quella che più rende possibile la vita, la grande seduttrice della vita, il grande stimolante della vita… L’arte come unica forza contraria e superiore a ogni volontà di negare la vita, l’anticristiano, l’antibuddistico, l’antinichilista par excellence. (VP. 853).
Uno dei capisaldi su cui si fonda il contromovimento insito nel processo artistico consiste proprio nel vedere nell’arte il grande stimolante della vita o, secondo una formulazione che ricorre con sempre maggior frequenza, l’espressione del massimo senso di potenza, incarnato nell’ideale classico o nel grande stile. In questa prospettiva l’attenzione viene posta principalmente sul carattere orgiastico dell’arte, sull’ebbrezza, ossia sul dionisiaco, presupposto fondamentale della creazione artistica. Ma anche l’elemento apollineo continua ad agire, viene anzi considerato un momento essenziale della stessa ebbrezza ed è importante soprattutto per la definizione e la comprensione del concetto di grande stile. L’ebbrezza quindi come condizione della trasfigurazione artistica, come ciò che determina il ribaltamento estatico del negativo nell’affermativo, della malattia nella salute, del brutto nel bello, della vita declinante nella vita ascendente.
Arte e verità in Platone
Ma prima di affrontare questi temi è utile presentare sinteticamente il problema del rapporto arte-verità in Platone e per farlo seguirò la traccia proposta da Heidegger nel suo seminario.
L’arte, in quanto affermazione esplicita del sensibile e del suo potere di seduzione, non poteva che essere vista da Platone come la peggior nemica della verità. Ora, se il pensiero di Nietzsche è un rovesciamento del platonismo, l’arte e la verità, nel filosofo tedesco, dovrebbero trovarsi in un rapporto di amicizia. Eppure, non solo questo non è vero, ma, come si legge nei frammenti postumi degli anni 1888-89, raccolti nell’VIII volume della raccolta Colli-Montinari, fra arte e verità in Nietzsche vi è di più che l’inimicizia, vi è discrepanza, cioè dissonanza, incomponibilità. Ma leggiamo per intero il frammento:
Il rapporto dell’arte con la verità è stata la prima cosa che mi ha impensierito: e ancora adesso sto, con un sacro sgomento, dinanzi a questa discrepanza. Il mio primo libro era dedicato a essa, la Nascita della tragedia crede nell’arte sullo sfondo di un’altra credenza, che non sia possibile vivere con la verità: che la volontà di verità sia già un sintomo della degenerazione (VIII, III, 289).
La volontà di verità è essenzialmente volontà del soprasensibile, del mondo vero, una volontà nichilistica, antivitale. Il soprasensibile distoglie la vita dal vigore sensibile e virtù autentiche diventano la sottomissione, l’umiltà e l’inferiorità. Perciò Nietzsche scrive che
abbiamo l’arte per non perire a causa della verità. (VP. 822)
In Platone il rapporto fra arte e verità è posto in più luoghi della sua opera, ma non c’è dubbio che fra questi La Repubblica e il Fedro (relativamente al rapporto bellezza e verità) siano tra quelli più significativi. Platone pone il fondamento sostanziale del politico nel sapere essenziale, che è posseduto in forma eminente dai filosofi. Nel V libro della Repubblica afferma in modo esplicito che è necessario che siano i filosofi a comandare “δεῖ τοὺς φιλοσόφους βασιλεύειν”. Le modalità fondamentali di comportamento che reggono e determinano le comunità devono essere fondate sul sapere della verità. Ebbene, proprio in rapporto alla verità, l’arte mostra tutta la sua radicale insufficienza. Tale distanza è posta con estrema chiarezza nel X libro della Repubblica. Qui, in riferimento ai tre letti (il letto ideale, l’idea di letto, vero in sé; il letto sensibile, costruito dal falegname guardando direttamente l’idea, assunta a modello, letto prodotto per il bene e i bisogni della comunità, del popolo, perciò si chiama δεμιουργός, colui che lavora per il popolo; e il letto dipinto dallo ζωγράφος, il pittore, la cui natura è quella della mera immagine, dell’illusione che ha la stessa consistenza dell’immagine dello specchio) viene avanzata in modo netto quella contrapposizione capitale del platonismo fra l’essere fenomenico, nelle due modalità del fenomeno iconico, quello dell’artigiano, imitazione utile e fedele dell’idea, e del fenomeno fantasmatico, quello del pittore, copia di copia, illusionismo inutile e destabilizzante, e l’essere essenziale, ideale, l’idea, il letto in sé: ὄν φαινόμενον da un lato e ὄν τῇ ἀληθεία̣ dall’altro.
Anche il produrre artigianale è un offuscarsi dell’idea, dal momento che nemmeno il falegname produce il letto in sé, bensì sempre e soltanto un letto particolare, questo o quel letto, non il letto in sé, ma un qualche letto. L’opera del pittore, però, ha tutt’altra portata e tutt’altro pericolo: è il prodotto di una μίμησις, che assume come modello la cosa sensibile e non più l’idea, è un offuscamento dell’essenza pura nel colore e nella superficie e che crea un oggetto indisponibile per l’uso. Perciò il dipinto è τὸ τρίτον γέννημα, un ente di terzo genere, distante due volte dalla verità, determinato quindi dal punto di distanza che risulta dalla successione gerarchica secondo la quale sono ordinati i modi del produrre in relazione alla loro capacità di portare alla presenza la verità. Proprio l’istituzione di questa gerarchia ontologica è l’essenziale del platonismo e tale aspetto emerge con piena evidenza, come mostra Deleuze nelle sue analisi su Platone, non tanto nel classico dualismo fra mondo sensibile o delle ombre e mondo ideale o iperuranio, quanto nel dualismo fra copia vera e disciplinata, il letto utile del falegname, e copia truffaldina e impertinente, copia che pretende di valere come vera pur essendo la più falsa, il letto dipinto.
Illuminante, e per noi importante per quanto riguarda il prospettivismo di Nietzsche, è il modo in cui Platone differenzia questi due letti. Il letto del pittore, proprio in rapporto al vedere, al punto di vista, alla veduta, si pone, rispetto all’idea di letto, in un ambiguo rapporto di simulazione. Il letto in sé è tale perché sempre identico a sé, sottratto a ogni prospettiva particolarizzante, è ciò che è senza che in esso vi sia nulla di estraneo, nulla di mutevole. Non così il letto reale del falegname, il quale offre, nel suo essere presente, diverse vedute, si dà per Abschattungen direbbe Husserl, si dà in modo prospettico, ma tali prospettive, scrive Heidegger sulla scorta di Platone, sono in sé assorbite e integrate nell’unicità del letto come oggetto d’uso. Il letto su cui mi corico, pur nella diversità delle sue prospettive, mantiene la sua unità. Non così il letto del pittore, che non è fatto per l’uso, ma per simulare l’idea, per ingannare: il pittore produce sempre e solo una veduta e in tale veduta fissa il letto, ricreando (in realtà spacciando) quella fissità e identità con sé che è propria dell’idea. Ma, mentre l’idea è tale in quanto sottratta intrinsecamente alla prospettiva (è cioè εἶδος in senso proprio), il dipinto è intrinsecamente consegnato alla prospettiva e a questa irrimediabilmente legato (simula l’idea, è quindi τοῦτο εἶδολον, un’ideuzza, un idolo, un residuo del genuino mostrarsi dell’idea, confinata in un ambito estraneo, quello del colore o di qualche altro materiale raffigurativo. Perciò l’arte sta di gran lunga al di sotto della verità: in Platone c’è distanza, ma la distanza non è discrepanza, soprattutto se l’arte viene subordinata alla filosofia (e diventa, ad esempio, arte didattica o edificante). Per Nietzsche, invece, arte e verità non possono mai accordarsi, nemmeno in una disposizione gerarchica.
Come è noto, in Platone la bellezza, a differenza dell’arte, ha un rapporto con la verità: nel Fedro fra bellezza e verità viene stabilita una discrepanza che rende felici. La bellezza è un’idea speciale, paradossale per certi versi, per metà sensibile e per metà ideale, essa è la più luminosa (ἐκφανέστατον) e la più amata (ἐρασμιώτατον), è ciò verso cui l’ἔρως platonico (per certi versi il corrispondente platonico dell’ebbrezza nietzschiana) ci attrae, per permettere la nostra elevazione verso l’essere, il nostro “ritorno” al sapere essenziale, finora offuscato dall’imprigionamento dell’anima nel corpo. Altro è in Nietzsche il senso del giudizio di bello e il nesso che ha con la concezione dell’arte come volontà di potenza e in particolare con l’estetica fisiologica da lui propugnata.
Le cinque tesi sull’arte
Heidegger sintetizza l’estetica di Nietzsche in cinque tesi.
- L’arte è la forma più trasparente e nota della volontà di potenza.
Il fenomeno dell’artista è ancora quello più trasparente, che si può scrutare più facilmente (VP. 797)
Per noi è il fenomeno più accessibile nella sua essenza. L’artista produce, crea, porta all’essere qualcosa che non è. Essere artista è un modo di vivere, quello di vivere creando, e
Il vivere è la forma d’essere a noi più nota (VP. 689)
Va notato che per Nietzsche la vita è il termine da lui più usato per dire l’essere:
L’essere è una generalizzazione del concetto di vivere; come può essere, infatti, qualcosa di morto? (VP. 582).
Questa tesi, quindi afferma che nell’essere artista, nel vivere artistico (nel creare) incontriamo nella sua essenza la volontà di potenza.
- L’arte deve essere concepita dalla prospettiva dell’artista. Solo dalla parte di chi crea e produce e non da quella di chi recepisce e fruisce si può concepire adeguatamente l’arte. La questione dell’arte, quindi, è la questione dell’artista, o meglio, la questione del vivere artistico. Per Heidegger invece, che in questo stesso anno 1936 scrive L’origine dell’opera d’arte, la questione dell’arte va affrontata dalla prospettiva dell’opera d’arte stessa. In quest’ottica acquistano grande importanza il cosiddetto stato estetico e il suo speciale riferimento allo stato fisiologico. A questo proposito tali parole sono molto chiare:
La nostra estetica è stata finora un’estetica femminile, in questo senso: solo gli individui ricettivi per l’arte formularono le loro esperienze di ciò che è bello. (VP. 811)
Talmente importante è l’ottica dell’artista che il concetto di arte e di artista (di creazione e di creatore) diventano il paradigma di ogni saper produrre e di ogni cosa prodotta in modo essenziale, oltre che, ovviamente, il contromovimento nei confronti di ogni sterilità e incapacità a produrre. Nel seguente frammento viene ribadito che è dal fenomeno dell’artista, espressione della volontà di potenza per eccellenza che dobbiamo partire
per guardare agli istinti fondamentali della potenza, della natura, eccetera! Anche della religione e della morale. (VP. 797)
- Secondo questo concetto lato di artista, l’arte è l’accadere fondamentale di ogni ente. In quanto forza che crea, l’arte è il carattere fondamentale dell’ente, è il creare alla massima potenza.
- La quarta tesi riguarda quel carattere dell’arte per Nietzsche già rilevato sopra: l’arte è il contromovimento per eccellenza che si oppone al nichilismo. In quanto volontà di potenza in senso essenziale, è il principio di una nuova posizione dei valori, contro il vecchio principio che li fondava nella religione, nella morale, nella conoscenza. Il vecchio principio è incarnato soprattutto da Platone, dal platonismo e dalla sua versione popolare, il cristianesimo, secondo cui questo mondo non vale niente, deve esserci un mondo migliore di questo intrappolato nella sensibilità, un mondo vero che si contrapponga a questo apparente. Per Nietzsche invece il cosiddetto mondo vero è frutto di una menzogna, della volontà di rinnegare la vita e il sensibile. Contro il moralista nichilista va posto il filosofo artista, capace di dire sì alla vita. Perciò scrive
La volontà di parvenza, di illusione, di divenire è più profonda, più metafisica della volontà di verità. (VIII, iii, 311: VP. 853)
- Infine, l’ultima tesi, che corona e sintetizza tutte le idee di Nietzsche sull’arte e di cui abbiamo già parlato è che l’arte vale più della verità.
Una fisiologia dell’arte: lo stato di ebbrezza
Non è difficile comprendere come l’idea di un’arte stimolante della vita, (v. VP. 851, ma anche VP. 809), dell’arte come funzione organica (VP. 808), che agisce come una suggestione sui muscoli e sui sensi (VP. 809) e della cui finezza, pienezza e forza, contro tutte le scomuniche pretesche e metafisiche che le hanno colpite, dovremmo essere grati (VP. 820), porti Heidegger, seguendo precise annotazioni di Nietzsche, ad affermare che l’arte “pretende” di essere capita in modo autentico solo seguendo la strada della fisiologia. Nietzsche naturalmente non intende usare il termine “fisiologia” in senso meramente metaforico, ma non intende nemmeno dissolvere l’arte negli stati nervosi o in altri processi organici o metabolici. Lasciare l’arte in balia della fisiologia, una fisiologia obiettivistica, tutta giocata nell’ambito delle scienze naturali, “sarebbe come ridurla al livello del funzionamento dei succhi gastrici”. È chiaro che tale riferimento va compreso nel suo intimo significato.
In Nietzsche la questione dell’arte fa riferimento allo stato sentimentale dell’uomo creatore (l’artista) o ricettivo (spettatore) del bello. E, propriamente, nella considerazione di questi stati sentimentali, non ci si deve limitare al cosiddetto livello psichico, ma giungere fino agli stati corporei corrispondenti. L’ambito proprio degli stati estetici è, infatti, la natura vivente dell’uomo, presa nella sua interezza psico-somatica. Un’estetica come fisiologia dell’arte deve mostrare allora, non certo la riduzione dell’arte a processi fisiologici, ma quegli stati in cui il fare e il contemplare artistici si compiono in una maniera e in una forma naturale, quegli stati cioè in cui l’uomo nella sua interezza di corpo vivente, non nelle astrazioni del puro spirito o in quella del mero corpo, è “naturalmente disposto” all’arte. A tale proposito, Heidegger cita un brano tratto dal Crepuscolo degli idoli intitolato “Per la psicologia dell’artista”.
Perché vi sia arte, perché vi sia un qualche fare e contemplare estetico, a tal fine è inevitabile una condizione fisiologica preliminare: l’ebbrezza. L’ebbrezza deve anzitutto aver potenziato l’eccitabilità dell’intera macchina: prima non si giunge ad arte alcuna. Tutte le specie di ebbrezza, per quanto diversamente condizionate, hanno la forza di realizzare ciò: in primo luogo l’ebbrezza dell’eccitazione sessuale, la forma più antica e originaria dell’ebbrezza. Del pari l’ebbrezza che viene al seguito di tutte le grandi brame, di tutti gli affetti forti; l’ebbrezza della festa, della gara, del pezzo di bravura, della vittoria, di tutti i movimenti estremi; l’ebbrezza della crudeltà, l’ebbrezza della distruzione; l’ebbrezza suscitata da certi influssi meteorologici, per esempio l’ebbrezza primaverile; oppure dall’influsso dei narcotici; infine l’ebbrezza della volontà, di una volontà turgida e sovraccarica”. (F. Nietzsche, L’anticristo. Crepuscolo degli idoli. Ecce homo. La volontà di potenza, Newton Compton, Milano, 1989, p. 162)
Concetti analoghi troviamo anche in alcuni dei frammenti di VP (800; 801, dove l’ebbrezza è una miscela di benessere e di desideri animali; 802, dove l’arte viene riportata agli stati del vigor animale; 811, dove l’ebbrezza e l’acutezza estrema dei sensi, oltre alla coazione a imitare, sono necessari stati estetici; e così in altri.
L’ebbrezza, allora, intesa nelle molteplici forme in cui si presenta, è lo stato estetico fondamentale. Non c’è un’ebbrezza specificamente estetica, una disposizione d’animo che sarebbe precipua per l’arte. Lo stato fisiologico dell’ebbrezza in quanto tale, è la condizione fisiologica preliminare perché vi sia arte. Ma è proprio a partire da questa convinzione che sorgono due problemi, uno riguardante l’essenza dell’ebbrezza: cos’è l’ebbrezza in quanto tale? È necessario rispondere a questa domanda per non cadere nel generico riconoscimento di uno stato fisiologico indeterminato o solo superficialmente presentito. Proprio il fatto che non esista un’ebbrezza specificamente estetica, produttrice di arte, impone di cercare ciò che rende l’ebbrezza in quanto tale la condizione preliminare affinché ci sia arte. L’altro problema, che non sarà certamente sfuggito a chi ha ben presente le tesi sostenute nel libro giovanile La nascita della tragedia, riguarda proprio la natura degli stati estetici o artistici fondamentali che in quel libro sono due, l’apollineo e il dionisiaco, ai quali corrispondono gli stati fisiologici del sogno e dell’ebbrezza. Nel Nietzsche del Crepuscolo sembra sparito il sogno o, almeno, sembra aver perso il suo ruolo paritetico con l’ebbrezza. Solo questa, infatti, appare essere ora lo stato fisiologico fondamentale in rapporto all’arte. Potremmo pensare a un’evoluzione del pensiero nietzschiano nella direzione di una secondarizzazione dell’apollineo rispetto al dionisiaco, ma ritroviamo ribadita tale dualità in alcuni frammenti della Volontà di potenza, in particolare nel frammento 798, dove ricompare l’apollineo (con il corrispondente stato fisiologico del sogno) e il dionisiaco (con il corrispondente stato fisiologico dell’ebbrezza). Il frammento successivo (799) mostra come anche l’apollineo sia per certi versi una forma di ebbrezza, convinzione ribadita da un altro passo del Crepuscolo, in cui viene esplicitamente affermato che dionisiaco e apollineo sono due specie di ebbrezza (F. Nietzsche, cit., p. 163).
Sempre nel Crepuscolo, infatti, viene detto con grande chiarezza che l’essenziale dell’ebbrezza è il sentimento del potenziamento della forza e della pienezza. (v. anche VP. 800). E questo, nel Nietzsche interpretato da Heidegger, ha un preciso significato, legato a quanto detto prima riguardo al corpo e allo stato fisiologico. Sentimento, infatti, indica il modo in cui noi ci troviamo presso noi stessi e presso le cose. Il sentimento non è una proprietà della psiche, un qualcosa che l’uomo può avere o non avere, non è una condizione psichica che affetta in qualche modo un corpo, ma è proprio il modo in cui noi siamo un corpo. Nella terminologia di Heidegger diciamo che il sentimento è un esistenziale. Il sentimento è insomma il modo in cui noi ci rivolgiamo a noi stessi o alle cose, tanto vero questo, e tanto importante, che l’esempio che fa Heidegger ci aiuta a cogliere ciò che intende. “Un’indisposizione di stomaco può calare un’ombra su tutte le cose”. È la disposizione d’animo, la Stimmung, in cui ci troviamo da sempre, per essenza: è il modo fondamentale, più originario di quello conoscitivo, in cui noi siamo al di fuori di noi stessi, rivolti a noi e alle cose, al mondo. Uno stato fisiologico che ci trasporta al di là di noi o che lascia che l’uomo si impigli in se stesso e si intorpidisca. È in questo senso che l’ebbrezza è un sentimento. E lo è in quanto potenziamento della forza e sentimento della pienezza. Potenziamento della forza va inteso in senso spinoziano come aumento della vis existendi, pienezza va inteso come lo stato per cui, nel rapporto con l’ente, nulla appare estraneo né pleonastico. È l’esaltazione della gioia.
Il frammento 800 aggiunge un terzo aspetto allo stato di ebbrezza, quello della reciproca compenetrazione di tutti i potenziamenti di tutte le facoltà, di tutti sensi, di tutti gli stati, così che l’ebbrezza non è settoriale, specializzata, ma è uno stato totale del corpo, uno stato di potenziamento, di pienezza, di contagio incontenibile in cui ci troviamo.
L’occhio spazia su grandi moltitudini, l’organo si affina per percepire molte cose minime e fugaci… i sensi mostrano la loro intelligenza e finezza, i muscoli si fanno agili ed in essi vige sovrana e leggera la forza: la forza diventa il piacere di esibire questa forza, diventa pezzo di bravura. Tutti questi momenti alti della vita si eccitano reciprocamente… finiscono per mescolarsi stati d’animo che forse avrebbero dei motivi per rimanere estranei, la sensazione dell’ebbrezza religiosa e quella dell’eccitazione sessuale, ad esempi. (VP. 800)
È utile pensare, per comprendere appieno questo concetto di ebbrezza, al fenomeno opposto, a quegli stati non artistici propri di chi è stanco, esaurito, inaridito, impoverito, per cui, se l’ebbrezza è lo stato preliminare per la produzione e la fruizione del bello, il contrario della bellezza non è né la bruttezza, né la volgarità, ma l’assenza di energia vitale, la tristezza. I tristi, i deboli, gli stanchi, gli esauriti sono, prima di ogni altra cosa soprattutto incapaci di bellezza.
L’ebbrezza come forza, pienezza e pieno coinvolgimento di tutte le facoltà dell’uomo ci porta a pensarla come passione, la grande passione che spinge l’uomo all’azione, alla decisione. Ma il frammento 814 smentisce in modo netto questa lettura. Nessun creatore è preda di passione, anzi, proprio la creazione esige un completo dominio della passione, esige che l’artista non smetta di spiare, di osservare la propria vita, sfruttando la propria passione per trasporla nella creazione; in più, i creatori sono vittime del loro talento, che impedisce lo spreco, la dissipazione dell’energia che ogni passione comporta. L’ebbrezza è la vita nella sua sovrabbondanza, l’energia incontenibile, forza, pienezza, completezza, passione che un talento domina anziché esserne dominato. A partire da quest’ultima annotazione, l’ebbrezza appare l’inevitabile condizione dell’arte.
Il giudizio estetico di bello
A questo punto nel seminario di Heidegger si innesca una discussione sull’estetica kantiana del bello. La polemica di Nietzsche è rivolta contro l’idea che il bello sia ciò che piace senza interesse, sia piacere disinteressato. Le critiche di Nietzsche a Kant su questo tema sono viziate, secondo Heidegger, dalla guida di Schopenhauer. È indubbio che la posizione di Kant è molto più complessa e interessante di quanto appaia dalla lettura che ne fanno Schopenhauer e Nietzsche. Ma leggiamo un punto decisivo in cui Nietzsche mostra strettamente connessi i tratti dell’ebbrezza e il giudizio del bello.
È una questione di forza che si pronunci e dove si pronunci il giudizio di bello. La sensazione di pienezza, di avere accumulato energia (che permette di accettare con coraggio e serenità molte cose di cui il debole rabbrividisce), la sensazione di potenza esprime il giudizio del bello, intorno a oggetti e condizioni che l’istinto dell’impotenza può giudicare solo odiosi e brutti. … Dire questo è bello è un dire di sì. (VP. 852)
I frammenti 803 e 804 mostrano che bellezza è dominio dei dissidi e dei contrasti (ma di questo vedremo meglio a proposito del grande stile) e che il bello rientra nella categoria generale dei valori “biologici” (in Nietzsche questo significa tutt’altro, come già detto, che mera biologia).
Il sentimento del bello, cioè l’aumento della sensazione di potenza, riguarda in profondità la forma di vita di un determinato genere di uomini, tanto che l’uomo gregario proverà il sentimento del valore del bello per cose diverse da quelle per cui l’uomo eccezionale e l’oltreuomo provano quel sentimento. (VP. 804).
Così Heidegger caratterizza il bello secondo Nietzsche:
Il bello è ciò che determina noi, il nostro comportamento e le nostre facoltà nella misura in cui richiediamo a noi stessi, nella nostra essenza, il massimo, cioè ci eleviamo al di là di noi. Questo elevarci al di là di noi nella pienezza delle nostre facoltà essenziali accade, come abbiamo visto, nell’ebbrezza. Dunque, nell’ebbrezza si dischiude il bello. (N. p. 120)
Emerge in tutta chiarezza il motivo della polemica antikantiana. Se il bello disinteressato viene colto come la sospensione della volontà, il puro voler nulla, il calmarsi di ogni appetito, nulla allora può essere più lontano dall’ebbrezza, che è sempre pienezza, sovrabbondanza. A questa bellezza disincarnata, esangue, è agevole opporre il grande detto di Stendhal che la bellezza è una promessa di felicità. La bellezza è sempre correlata all’ebbrezza, alla forza, alla sovrabbondanza. E questo ultimo passo ci porta a indagare l’ebbrezza come forza creatrice di forme, forme che saranno propriamente tali solo nel grande stile.
L’ebbrezza come forza creatrice di forme: il grande stile
L’idealizzazione
La creazione per Nietzsche è nella sua intima essenza un atto vitale, collegato all’ebbrezza. Partendo da questo assunto, si legge nelle ultime 4 righe del frammento 800:
Gli artisti non devono vedere nessuna cosa così com’è, ma più piena, più semplice, più forte; per questo una specie di eterna gioventù, di eterna primavera, una sorta di ebbrezza abituale nella vita, deve essergli propria. (VP. 800)
È l’operazione che Nietzsche chiama di idealizzazione, che ritroviamo anche in un passo del Crepuscolo.
Di questo sentimento si fanno partecipi le cose, le si costringe a prendere da noi, le si violenta – questo processo si chiama idealizzare. (F. Nietzsche, Crepuscolo, cit., p. 162)
Appare evidente che nulla della tradizionale accezione dell’idealizzare, un’accezione vicina al concetto di astrarre, permane in Nietzsche. L’idealizzazione non è né un’operazione di impoverimento, né quell’operazione, basata su un concetto dell’ideale contrapposto al reale, di “miglioramento difensivo” (così la chiama Heidegger) consistente nel togliere al reale le sue supposte “imperfezioni”, per lasciare in modo artificioso un’immagine ripulita, elevata. Nietzsche va in cerca di tutt’altro: cerca l’ideale che solo una vita forte, ricca e sovrabbondante sa cogliere nel reale, quel reale che alle nature fiacche ed esaurite non sa presentarsi altro che nella sua confusa, inerte, datità, bisognoso di essere riscattato in una dimensione “superiore”.
L’operazione nietzschiana di idealizzazione è una violenza, una costrizione esercitata sulle cose, sul mondo, un “immane estrapolare i tratti capitali”, individuati preventivamente. Il bello non è il risultato della pulitura del reale dal brutto, non è un affare da spazzini. L’ebbrezza è quella Stimmung che ci fa vedere il reale in modo più pieno, più intenso, più semplice. Non il confuso da semplificare, il disordinato da riordinare, lo s-governato da rigovernare, un reale sfibrato. Il proprio dell’ebbrezza è di rendere l’uomo sensibile alla forza, è forza che coglie altre forze e questa è la condizione preliminare ed essenziale perché solo il potenziamento della forza, la pienezza e la ricchezza vitale ha la stoffa per vedere il bello, per sentire la forza del bello, senza farsi distruggere da esso, capace di domare tale forza senza farsi da essa soggiogare. È il terribile domato, secondo i versi citati della Prima elegia di Rilke, quel terribile che, placato dalla forza dell’ebbrezza, ammiriamo come ciò che potrebbe distruggerci, se non gli fossimo affini. Ecco allora il frammento dove Nietzsche definisce la bellezza.
La bellezza è quindi per l’artista qualcosa che sta al di fuori di ogni gerarchia, perché nella bellezza sono domati dei dissidi [non soggiogati], e questo è il più alto segno di potenza: il potere su cose opposte; inoltre è scevra di tensione, segno che non occorre più usare violenza che tutto segue e obbedisce facilmente e all’obbedienza mostra il suo volto più amabile: ciò delizia la volontà di potenza dell’artista. (VP. 803)
Forza che ci dispone ad apprezzare e venerare la forza, questa è l’ebbrezza nella sua relazione con la bellezza. Ma non dobbiamo fraintendere tutto ciò nei termini di una teoria delle emozioni. L’ebbrezza non è un’emozione, una commozione cieca, la “piacevolezza di un sentirsi bene e di un agio fluttuante che semplicemente ci colpisce e se ne va”. Non un’emozione fugace, per quanto positiva e gioiosa possa essere, che si riferisce a un’impressione altrettanto fugace ed effimera. Ebbrezza e bellezza non si esauriscono in un gioco di riflessi.
La forma
I tratti capitali del reale a cui l’ebbrezza si riferisce sono sempre una complessione, una struttura o, per usare un termine più propriamente estetico, una forma. Solo ciò che ha la forza di diventare forma ha valore per l’artista: la forma è il prodotto di forze e non mero margine che delimita un contenuto al quale non partecipa. La forma non è il semplice formale, limite esterno e indifferente di un contenuto altro da essa. È questo concetto formalistico della forma che spinge continuamente i non artisti alla insulsa domanda: “cosa vuol dire quest’opera? Quale significato ha?”. È un infallibile criterio per decretare lo status di non artista quello di cercare con petulanza un significato al di là della forma. È detto stupendamente nel seguente frammento.
I non artisti amano una forma non per quello che è, ma per quello che esprime. Sono figli di una generazione erudita, tribolata e riflessiva, lontani mille miglia dagli antichi maestri che non leggevano e pensavano soltanto a dare una festa per i loro occhi. (VP. 828)
Sulla co-appartenenza di forma ed ebbrezza in Nietzsche, Heidegger scrive:
Solo la forma determina e delimita l’ambito in cui l’ebbrezza diviene possibile come tale. Dove la forma regna come somma semplicità della più ricca legalità, lì c’è l’ebbrezza. (N. p. 125)
Ma, soprattutto, leggiamo senza commento il frammento 818:
Si è artisti al prezzo di considerare e sentire come contenuto, cioè come la cosa stessa, ciò che tutti i non artisti chiamano forma. (VP. 818)
Tali affermazioni, se comprese superficialmente, possono sconcertare chiunque ricordi come nella Nascita della tragedia all’ebbrezza fosse connessa proprio la perdita dell’individualità, della forma, dell’io. La stretta connessione di forma ed ebbrezza, ripetutamente affermata da Nietzsche e da Heidegger ripresa, non è affatto in contraddizione con l’ebbrezza come stato orgiastico dionisiaco. L’ebbrezza, infatti, non ha nulla a che fare con il caos come disordine, come mero lasciarsi andare e delirare. Per comprendere in che senso questo sia vero giova ricordare non solo la fondamentale componente dionisiaca della tragedia attica e il suo comporsi in sublime forma grazie alla polarità di dionisiaco e apollineo, ma anche, centrale nei frammenti dell’ultimo Nietzsche, il concetto di grande stile.
Il grande stile
L’ebbrezza, insomma, è la forza di pronunciare con sicurezza il giudizio di bellezza, un giudizio di valore che, come tutti i giudizi di valore per Nietzsche, vanno sempre valutati in rapporto alla vita. Il giudizio di valore estetico, collegato, com’è al sentimento dell’ebbrezza, nasce dal potenziamento della vita che questa rappresenta, perciò è più fondamentale del giudizio di valore morale. Dire che una cosa è bella equivale a dire che ci fa bene, che fa bene alla nostra vita. La vita potenzia la vita. L’arte, la bellezza, perviene alla sua essenza nel grande stile, un concetto complesso a cui Nietzsche fa ricorso con due scopi: caratterizzare l’arte e opporsi alla sua caricatura. Il più lontano dal grande stile è Wagner, le cui intemperanze e il carattere tronfio dei suoi mezzi artistici Nietzsche non sopportava più. Ciò che, secondo il filosofo manca alla musica di Wagner, è ciò che invece propriamente appartiene all’arte, eleganza, logica e bellezza, leggi rigorose e selettive che rendono condivisibile l’idea che “pulchrum est paucorum hominum” (la bellezza è per pochi), soprattutto non è per la massa, concetto da non interpretare in senso sociologico. La massa non artistica per Nietzsche con è composta da lavoratori o contadini, ma dai cosiddetti colti, i filistei della cultura, quelli che amano Wagner, la cui musica è un bisogno del piccolo borghese. Nel grande stile, allora, c’è pienezza del vivente, misura dominata, calma dell’anima forte (VP. 819).
Diventare padroni di quel caos che si è; costringere il proprio caos a diventare forma. (VP. 842)
Non va confuso il grande stile con lo stile classico nel senso storico del termine, anche se frequenti sono in Nietzsche i luoghi in cui stile classico e grande stile sono assimilati, come nel seguente passo.
La suprema sensazione di potenza è concentrata nello stile classico. (VP. 799)
Il classico per Nietzsche non è qualcosa di meramente storico, di passato, né tanto meno si identifica con il classicismo. Il classico è una struttura dell’esistenza e precisamente è il disporre della forza non per una mera e brutale costrizione del caos nella forma, ma per quel dominio che fa sì
che la primordialità del caos e l’originarietà della legge vadano l’una contro l’altra secondo necessità. (N. p. 134)
quell’armonia dei contrari che già aveva rilevato in Eraclito.
Soltanto l’uomo esteta riguarda in questo modo il mondo, lui che nell’artista e nel nascere dell’opera d’arte ha appreso come la contesa del molteplice porta in sé norma e diritto, come l’artista sia contemplativamente al di sopra e agisca all’interno dell’opera d’arte, come necessità e gioco, conflitto e armonia debbano coniugarsi per generare l’opera d’arte (F. Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei Greci, § 7).
Una nuova interpretazione della sensibilità: il carattere prospettico dell’essere
Abbiamo visto come per Nietzsche la comprensione dell’arte, la sua stessa realtà passi per la fisiologia. Realtà fondamentale è l’ebbrezza: in questa Stimmung emerge il fondo abissale stesso della vita con tutti i suoi contrasti, inteso tuttavia come qualcosa da affermare e non da negare o da cui ritrarsi inorriditi per contrapporgli un mondo più vero, stabile, eterno, immutabile. Ora, Heidegger osserva che
l’elemento fisiologico, sensibile e corporale ha in sé l’al di là di sé (l’essere aperti al mondo). Questa intima costituzione del sensibile è stata chiarita mettendo in risalto il riferimento dell’ebbrezza alla bellezza, e del creare e fruire alla forma”. (N. p. 207)
Il vivente, nella sua essenza, è apertura nei confronti di altre forze, un’apertura non neutrale, oggettiva, ma fortemente “interessata” a valutare queste forze in vista di impossessarsene, di incorporarle o di escluderle. Il vivente, che in sé è rapporto di forze, è in primo luogo rapporto con altre forze verso cui si dispone in modo valutativo e selettivo. La bellezza “fa bene” alla vita, è il correlativo proprio di un’energia vitale piena, sovrabbondante, ricca, l’ebbrezza appunto. Il vivente interpreta il proprio ambiente a partire dai propri interessi, dalle forze che lo costituiscono, dal proprio punto di vista.
La lucertola, per esempio, sente il più leggero fruscio d’erba, non sente il colpo di pistola sparato nella sua vicinanza più prossima. (ibid.).
Questo rapporto del vivente con l’altro da sé è ciò che Nietzsche chiama il carattere prospettico, condizione fondamentale di ogni vita. Essenziale è comprendere che, quando Nietzsche parla di vivente e di vita, non intende tali termini nel senso della biologia positivista né in un generico e romanticheggiante senso vitalistico o animistico, e, soprattutto, non intende limitare il vivente al mondo organico, dato che vita ed essere in Nietzsche coincidono. La differenza fra organico e inorganico non passa, insomma, fra vita e non vita. Se l’essenziale del vivente è il suo carattere prospettico, cioè essere punto di vista, allora, la differenza fra organico e inorganico si giocherà a questo livello, si giocherà sulla qualità e sulla natura della prospettiva di cui un ente è capace. Non può sfuggire la vicinanza di questa concezione a Leibniz, anche se di Leibniz Nietzsche rifiuta la metafisica teologica e moralistica del Dio creatore del migliore dei mondi possibili. È la moltitudine delle prospettive a differenziare l’organico dall’inorganico, essendo questo fissato in un’unica prospettiva, una prospettiva univoca, senza dinamica, senza cambiamento, senza “vita”, possiamo dire, intendendo per vita la forza di mutare, il movimento, il cambiamento. Anche l’inorganico è un punto di vista, anche la pietra è un centro di forze, un punto di forza, e ogni punto di forza è prospettico, è rimandato oltre se stesso, è aperto al fuori.
Tutto il reale – scrive Heidegger – è per Nietzsche vivente, è in sé prospettico e si afferma nella sua prospettiva contro altri. (N. p. 208)
Le implicazioni filosofiche di questa posizione sono notevoli e, soprattutto, si oppongono radicalmente alla filosofia tradizionale e al suo massimo rappresentante, Platone. Il sensibile, lungi dall’essere una realtà minore, degradata, offuscata, una realtà da “salvare e giustificare”, è l’unica realtà e non ha bisogno di giustificazione alcuna. “Ciò che appare” (la parvenza) non è estraneo all’essenza del reale, anzi, come scrive Nietzsche, è parte dell’essenza. Per Platone il sensibile è travagliato dalla prospettiva, dagli scorci, non si dà mai tutto intero, identico a sé; si dà sempre preso di scorcio e, quando vuole esibire una fissità, un’identità, lungi dal sottrarsi alla prospettiva, si consegna irrimediabilmente a essa, ipostatizza un punto di vista come la cosa intera, spaccia lo scorcio per il tutto (il letto dipinto). L’indeterminatezza e la parvenza cominciano proprio con l’organico. Libero di mutare prospettiva, libero dal vincolo della prospettiva unica, l’organico è una moltitudine di forze e di impulsi in lotta fra loro, a cui l’organismo dà unità.
Con una tale moltitudine va perduta l’univocità della prospettiva unica. È data la multivalenza di ciò che si mostra in più prospettive e quindi l’indeterminato, ciò che pare ora così, ora altrimenti, e che di conseguenza fa sembrare ora una cosa ora un’altra. Questa sembianza è però una parvenza nel senso della mera parvenza soltanto quando ciò che si mostra in una prospettiva si consolida e viene fissato come unicamente determinante a scapito di altre prospettive che incalzano vicendevolmente. (ibid.)
Il rovesciamento del platonismo è spettacolare: ora è la verità a svelarsi per quello che in sé è, cioè prospettiva fissata, pretesa che uno scorcio accampa di valere per il tutto. Non il sensibile, il vivente, ma l’ideale è il fissato. Nietzsche rivolge alla verità la stessa accusa che Platone rivolge all’arte, accusa, quella platonica, che si appoggia sulla svalutazione della vita e del sensibile, riguardato come luogo di errore, di impermanenza. La parvenza è una mera parvenza, quando si fissa, quando scambia una prospettiva per tutta la realtà, quando valuta positivamente proprio ciò che è il massimo della mancanza e di povertà, l’oscurarsi delle molteplici prospettive in favore della prospettiva unica. Insomma, quando l’organismo smette di vivere e si pietrifica (è un termine di Nietzsche) in una posizione univoca e intollerante. Allora la parvenza, che nel libero gioco con le infinite altre parvenze appartiene all’essenza del reale, diventa, in quanto unica, mera parvenza.
Nel mondo organico comincia l’errore e questo è il mondo fisso che appare nell’orizzonte prospettico determinante di un essere vivente. Questo fa la logica, fissa, rende stabile e controllabile ciò che sta di fronte. Badiamo bene: l’errore (la mera parvenza) è intrinseco al vivente in quanto capace di molteplici e sempre mutevoli prospettive. L’illusorietà fa parte della realtà. La verità, ciò che l’uomo chiama “verità”, non si contrappone con questo alla parvenza, ma è nient’altro che una parvenza che ha escluso tutte le altre, mera parvenza, parvenza dominante. Perciò Nietzsche scrive nel 3° libro della Volontà di potenza, dedicato al Principio di una nuova posizione di valori, nella parte sul prospettivismo:
La verità è quel genere di errore senza di cui un determinato genere di esseri viventi non potrebbe vivere. Alla fine decide il valore per la vitalismo. (VP. 493)
È stringente, efficace e geniale l’argomentare di Nietzsche, che non contrappone parvenza a realtà, illusione a verità, mondo falso a mondo vero, ma eleva la parvenza a realtà unica, eliminando con questo il dualismo, e usa questo concetto, preso nel suo senso ricco e plurivoco, per opporsi alla dittatura di una parvenza che si crede, lei sola, reale. Non le illusioni contrapposte alla realtà, ma la ricchezza e il libero gioco delle parvenze contro la violenza e il lavoro dell’unica pietrificata parvenza.
Io non pongo parvenza in antitesi a realtà, ma prendo la parvenza come la realtà che si oppone alla trasformazione in un mondo di verità immaginario. Un nome determinato per questa realtà sarebbe la volontà di potenza, definita dall’interno e non partendo dalla sua natura proteiforme, fluente, inafferrabile.
Ora, l’arte, proprio l’arte, è intimamente connessa con l’apparire e il far apparire prospettico. E l’arte è connessa all’apparire prospettico perché essa porta al potere la vita stessa che cresce. A differenza della verità, che è parvenza che nega la parvenza, l’arte è la più autentica volontà di parvenza perché lascia apparire della vita proprio ciò che per la vita è l’essenziale, l’intrecciarsi e il moltiplicarsi delle parvenze, delle prospettive. L’arte è vita, movimento, la verità è stasi. Ecco quindi, fulminante, la conclusione di Nietzsche:
Abbiamo l’arte per non perire a causa della verità. (VP. 822)
E diventa chiaro anche il senso dell’ultima delle cinque tesi sull’arte: l’arte vale più della verità. E si comprende anche quella discrepanza che Nietzsche rivela fra arte e verità. Discrepanza perché tutte e due appartengono allo stesso, tutte e due sono infatti modi dell’apparire prospettico.
Arte e verità sono due modi dell’apparire prospettico. Il valore del reale si misura però a seconda di come esso soddisfi l’essenza della realtà, di come attui l’apparire e potenzi la realtà. L’arte come trasfigurazione potenzia la vita più di quanto non faccia la verità come fissazione di una sembianza. (N. p. 211)
Anzi, la verità rovina la vita, la spegne, la imprigiona nel mero istinto di conservazione.