Le definizioni
Leggendo le prime otto definizioni dell’Etica proviamo una sensazione mista di già visto e di spaesamento. Riconosciamo infatti la tradizione filosofica, in particolare la scolastica, ma anche Aristotele e soprattutto Cartesio, eppure sentiamo che tale paesaggio conosciuto subisce una sottile e decisiva modificazione, tale da farlo apparire in una luce del tutto nuova. È questa una costante della filosofia di Spinoza, profondamente innestata nella tradizione e radicalmente innovatrice della stessa.
L’edizione dell’Etica usata è: Baruch Spinoza, Etica, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2006, Prefazione di Giorgio Agamben, Traduzione di Gaetano Durante. Mi riservo di riportare, quando è il caso, qualche modifica alla traduzione.
Elenco di seguito alcuni fra i testi di commento a cui ho fatto (implicito ed esplicito) riferimento:
- Filippo Mignini, L’Etica di Spinoza. Introduzione alla lettura, Carocci editore, Roma, 2002
- Emanuela Scribano, Guida alla lettura dell’Etica di Spinoza, Laterza, Bari, 2008
- Baruch Spinoza, Etica. Esposizione e commento di Piero Martinetti, Castelvecchi, Roma, 2014
- Baruch Spinoza, Etica, Editori Riuniti, Roma, 1988 (a cura di Emilia Giancotti)
- Martial Gueroult, Spinoza (Tome 1: Dieu, 1968 e Tome 2: L’Ame, 1974), Aubier, Paris
- Pierre Macherey, Introduction à l’Ethique de Spinoza (in cinque volumi), Presses Universitaires de France
- Gilles Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Les éditions de minuit, Paris, 1981
- Gilles Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, Les éditions de minuit, Paris, 1968
Def. 1: La causa di sé (causa sui)
| Per causam sui intelligo id, cuius essentia involvit existentiam, sive id, cuius natura non potest concipi nisi existens. | Intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente |
Fra gli assi portanti dell’Etica c’è il principio di causalità, nozione che implica sempre la connessione fra due “fenomeni”, la causa, intesa come ciò che ha la capacità di determinare qualcosa a essere o a essere in un determinato modo, e l’effetto, ciò che è stato determinato a essere o a essere in un determinato modo. Si può discutere sulla natura di questo nesso tra “fenomeni”: si tratta di una connessione razionale, per la quale causa ed effetto stanno uniti come ragione e conseguenza (implicazione logica, accezione prevalente in Spinoza), cosicché l’effetto deve in qualche modo essere deducibile dalla causa? Oppure si tratta di una relazione più debole, una semplice connessione temporale o empirica, per cui ciò che con costanza e in modo uniforme viene sempre prima di qualcos’altro, è chiamato la causa di questo qualcosa e in tal caso l’effetto non sarebbe più deducibile ma solamente prevedibile?
Qualunque sia il significato che vogliamo dare a questo principio, ciò che resta costante e ineliminabile è il nesso indisgiungibile fra causa ed effetto, l’esigenza di una connessione duale e l’implicita postulazione di una ininterrotta catena di cause ed effetti, nella quale ogni causa è l’effetto di una qualche causa e ogni effetto è a sua volta la causa di un qualche altro effetto. Il principio di causalità, per sua natura, sembra non avere uno stato iniziale, a meno che non si forzi ad hoc la nozione di causa, intendendola non più come anello di una catena ininterrotta e non interrompibile di connessioni, ma come origine assoluta di ogni altro nesso. È ciò che fa la metafisica con il concetto di causa prima, una causa priva di causa, origine di tutti i fenomeni senza essere a sua volta originata. È l’aristotelico πρῶτον κινοῦν ἀκίνητον, primo motore immobile, che muove tutto senza essere a sua volta mosso.
Spinoza non parla di causa prima, ma si serve tuttavia di un concetto altrettanto carico di veneranda tradizione filosofica, quello di causa sui, causa di sé, dove la connessione con l’effetto, ineliminabile nel concetto di causa, assume un carattere “riflessivo”, in un certo senso “circolare”, per cui la causa ha come “effetto” se stessa. La causa sui non è causata da nient’altro che da sé ed è causa di tutto ciò che da essa segue, che da essa è deducibile, che in essa è implicato. Per Spinoza, causa sui indica l’essere che esiste per necessità della sua stessa natura e che quindi non è causato da altro e tale definizione viene articolata in due parti, per cui la causa sui è a) ciò (id) la cui natura/essenza (essentia) implica (involvit) l’esistenza o (sive) b) ciò (id) la cui natura non può essere concepita se non come esistente.
Gli scolastici avevano colto la problematicità del concetto di causa sui. La causa di sé può assumere un banale significato negativo (causa di sé in quanto non generata da altro) e un più complicato significato positivo (causa di sé in quanto genera se stesso). Perché più complicato? Perché se l’essere necessario fosse concepito come effetto positivo di sé, ci troveremmo di fronte a un sé che, in quanto causa, dovrebbe già esistere per essere tale e, allo stesso tempo, dovrebbe non esistere per essere effetto. Ebbene, Spinoza, come è ovvio, nel porre il concetto di causa sui, intende senza dubbio come implicito il significato negativo (un essere non generato da altro), ma primario è in lui proprio il significato positivo, alla cui potenziale contraddizione sfugge intendendola non come positività, come un qualcosa di dato, ma come potenza attiva assoluta che pone e conserva eternamente se stessa nell’esistenza. La natura infinita non è causa di sé in quanto non generata da altro, ma non è generata da altro in quanto è causa di sé: l’esistenza è necessariamente implicata nell’essenza o nella natura della causa di sé. È importante comprendere il significato del verbo involvere attorno al quale ruota la prima parte della definizione. Tale verbo è solitamente (e correttamente) tradotto con implicare e stabilisce una relazione necessaria e sufficiente fra essenza ed esistenza, quindi una relazione di doppia implicazione o coimplicazione o equivalenza. Se qualcosa è causa sui, allora esiste; se qualcosa esiste senza essere causato da altro, allora è causa sui o, detto altrimenti, essere causa sui è condizione sufficiente per esistere, esistere è condizione necessaria per essere causa sui.
La seconda parte della definizione ci traspone dal piano ontologico a quello gnoseologico, piani per i quali si dà piena corrispondenza. La cosa che è causa di sé non può essere concepita se non come esistente. L’identità qui affermata fra ontologia e gnoseologia affonda le proprie radici nell’accezione logico-ontologica con cui viene inteso il concetto di causa, secondo cui il nesso ontologico causa-effetto è assimilato a quello logico premessa-conclusione. Le due parti prese assieme dicono che una cosa è causa sui se ha in sé la ragione della propria esistenza ed è concepibile come causa sui se ha in sé le ragioni della propria intelligibilità.
Def. 2: La cosa finita nel suo genere (Res in suo genere finita)
| Ea res dicitur in suo genere finita, quae alia eiusdem naturae terminari potest. Ex. gr. corpus dicitur finitum, quia aliud semper maius concipimus. Sic cogitatio alia cogitatione terminatur. At corpus non terminatur cogitatione, nec cogitatio corpore. | Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere limitata da un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo è detto finito perché ne concepiamo sempre un altro più grande. Così un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è limitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo. |
In base a questa definizione, il finito non esiste di per sé, non esiste in assoluto, ma solo nel suo genere, entro un quadro comune a cui appartengono tutte le altre cose finite. Sicché ogni cosa finita non è mai concepibile per sé (cioè a partire da sé), ma sempre attraverso un’altra cosa finita, la quale a sua volta rimanda a un’altra finitezza e così via all’infinito. Dire che il finito è sempre tale entro un genere equivale a dire che esistono molteplici generi di cose. Spinoza ci propone anche due esempi: i corpi e i pensieri. Un sasso, un gatto, una nuvola, una scrivania, ecc. sono tutti corpi, la cui caratteristica è quella di occupare spazio, di essere res extensae. Essi possono essere tutti determinati nel loro trovarsi in una certa posizione, nel loro hic et nunc. La loro finitezza è tale entro il genere res extensa e la ragione di tale finitezza viene chiaramente determinata da Spinoza: in ogni momento, e in linea di principio, posso concepire sempre un corpo più grande (anche se, in linea di fatto, ci sono dei limiti intrinseci alle dimensioni dei corpi, ma non è questo il nocciolo dell’argomentazione). Un corpo è finito perché posso sempre concepire a fianco di questo corpo un altro corpo tale che assieme formino un corpo più grande, anche se tale accrescimento seriale si estendesse all’infinito. Sarebbe infatti sempre un infinito potenziale o, altrimenti detto, un finito sempre in via di accrescimento. L’altro esempio riguarda le cose finite che appartengono al genere pensiero o, con linguaggio cartesiano, al genere res cogitans. Dal momento che Spinoza, a differenza di quanto fatto con il finito corporeo, non ci dà esempi di pensieri finiti, dobbiamo provare a chiederci cosa questo possa significare. Non può più essere ora la dimensione dell’estensione il criterio per valutare la finitezza, dal momento che i pensieri non hanno dimensione né posizione. Siamo tuttavia in grado di dare degli esempi. Il mio pensiero “oggi piove” può essere unito a un altro pensiero “vado al cinema” per formare un pensiero più articolato “oggi piove, quindi vado al cinema”. Ma posso anche concepire pensieri più o meno ricchi di connotazioni, tali da riferirsi a un minore o maggiore numero di oggetti. Es. il concetto di elemento chimico si riferisce a tutti gli elementi presenti nella tavola periodica, mentre il concetto di elementi alcalini si riferisce solo a una parte di essi.
Questa definizione ha il suo fulcro nell’idea di limitazione (verbo terminari). La cosa finita è quella che finisce nel momento in cui ne comincia un’altra e la limitazione, come visto sopra, ha un carattere potenziale. Il segno distintivo del finito è quello di essere sempre “determinato” in un certo modo. Come vedremo più avanti, i generi d’essere sono gli attributi della sostanza, essenze che l’intelletto percepisce.
Ma c’è un’altra parte fondamentale in questa definizione del finito, quella che sancisce che fra i diversi generi di cose non c’è influenza reciproca. Un corpo non può limitare un pensiero e un pensiero non può limitare un corpo. Un pensiero e un corpo non hanno nulla in comune, cogitatio ed extensio sono generi fra loro assolutamente eterogenei. È assurdo pensare che il pensiero di una giornata piovosa sia a sua volta bagnato o che il pensiero del voluminoso dizionario di greco sia più grande di quello di un sottile quaderno. Vedremo nel commento della seconda parte dell’Etica, dedicata alla Mente, quanto questa idea metta in crisi ogni concezione “psicosomatica” del rapporto corpo mente. Se un pensiero non può limitare un corpo né un corpo limitare un pensiero, è evidente che nessun corpo può determinare un pensiero né un pensiero può determinare un corpo.
Il finito, concepibile esclusivamente in relazione ad altro finito, cioè al termine che ciascun finito costituisce per l’altro, non si definisce mai in relazione all’infinito, dato che fra finito e infinito non c’è, per Spinoza, né proporzione né relazione. Dato che la nozione di finito implica quella di determinazione reciproca fra finiti ed essendo ogni determinazione una forma di negazione, l’ambito della finitezza è anche l’ambito della negazione. Questo, come vedremo nel corso del commento alla prima parte dell’Etica, non vuol dire che Spinoza introduca la negatività nel cuore dell’essere, dal momento che il finito è comunque essenzialmente innestato nella sostanza come un suo modo.
Def. 3: La sostanza (Substantia)
| Per substantiam intelligo id quod in se est et per se concipitur; hoc est id cuius conceptus non indiget conceptu alterius rei, a quo formari debeat. | Intendo per sostanza ciò che è in sé ed è concepito per sé: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale esso debba essere formato. |
Il termine sostanza non può che rimandare primariamente ad Aristotele, il quale, nel V capitolo delle Categorie ne dà una definizione molto precisa.
Sostanza (οὐσία) è quella detta nel senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto (καθ’ὑποκειμένου τινὸς) né è in qualche soggetto (ἐν ὑποκειμένῳ τινί): ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo. Invece sono dette sostanze seconde (δεύτεραι οὐσίαι) le specie nelle quali esistono quelle che vengono dette sostanze in senso primario; queste e i generi di queste specie. Ad esempio, un certo uomo esiste nella specie uomo, e il genere di questa specie è animale. Pertanto sono queste che sono dette sostanze seconde: ad esempio uomo e animale. (Aristotele, Categorie, 2a, 11-19)
Da questa definizione vediamo che la sostanza prima è, per lo Stagirita, sempre un ente determinato, un individuo, qualcosa a cui si può attribuire un nome proprio o che può essere indicato con un aggettivo dimostrativo. La sostanza in questo senso primo è sempre soggetto (e mai oggetto) di enunciazione, è ciò di cui si dice qualcosa, ma che non si dice di niente. Posso dire questo cane è fedele, questo sasso è ben levigato, Gianni è il più bravo della classe, ma “questo cane”, “quel sasso” o Gianni non possono essere detti di niente. Non avrebbe alcun senso dire Gianni è Francesco o “quel sasso è questo sasso”. La sostanza seconda, invece, riguarda i generi e le specie, ciò che di comune c’è fra due o più individui. Ad esempio, Gianni e Francesco hanno fra loro in comune di essere uomini, quindi la loro sostanza seconda è la specie “uomo” alla quale appartengono; così come Gianni e il cane Fido hanno in comune di essere animali, quindi la loro sostanza seconda è il genere “animale” al quale appartengono, e così via. La sostanza, allora, è ciò che si designa con un sostantivo, un nome proprio per la sostanza prima, un nome comune per la sostanza seconda. La sostanza aristotelica è una nozione complessa e mai definitivamente fissata nella stessa filosofia dello Stagirita. La stessa traduzione latina substantia forza il significato del termine greco οὐσία che forse andrebbe tradotto più correttamente con essentia, riservando la traduzione substantia a un altro termine greco filosoficamente pregnante, quello di ὑποκείμενον (subjectum; substantia). Se accogliamo questa traduzione, la sostanza è “ciò che sta sotto”, immodificato e immodificabile, a tutto ciò che si può dire di un individuo. “Fido è bello”, “Fido è affamato”, “Fido gioca con le mie pantofole”: al di sotto di tutto ciò che si può enunciare di Fido c’è qualcosa di costante, non dipendente dai modi d’essere o dagli accidenti che riguardano Fido, la sostanza Fido.
È questo il senso proprio di sostanza che Spinoza eredita dalla tradizione filosofica e a tale accezione fa subire una sottile ma decisiva distorsione. La sostanza non è soltanto ciò che è in sé, ma anche ciò che non ha bisogno di un altro concetto per essere pensata. Filosoficamente parlando si dice che la sostanza non solo è in sé, ma è anche per sé. Questa accezione sembra più ardua da comprendere. In che senso un concetto può, anzi, deve essere pensato per sé, senza far ricorso ad altri concetti? Il concetto “cane” può essere pensato solo con l’ausilio di altri concetti, più generali (mammifero, animale, essere vivente) ma anche più specifici (zanne, pelo, coda, ecc.). È evidente che Spinoza non intende in alcun modo la sostanza come un ente determinato. Né “cane” né “montagna” né “uomo” e via dicendo, sono sostanze nel senso spinoziano del termine, pur essendolo in quello aristotelico. Per Spinoza nessun ente particolare è sostanza. Ciò che non ha bisogno di un altro concetto per essere formato è semplicemente ciò che indica tutto ciò che c’è, l’Essere, del quale non si può dire che se stesso. Orbene, i due caratteri di essere in sé (bastare completamente a sé) ed essere concepito a partire da sé (quindi senza ricorrere ad altri concetti), non possono essere separati ed esauriscono completamente il concetto di sostanza. È il concetto più generale e forse più astratto di tutta l’Etica, equivale a quello di “essere”, considerato in quanto tale (substantia sive ens, Epistola IX a De Vries).
Autonomia, indipendenza ontologica e concettuale caratterizzano insomma la sostanza spinoziana, il cui vero significato diventa, tuttavia, chiaro solo attraverso la comprensione della sua struttura interna (gli infiniti attributi che la costituiscono e la rendono intelligibile), del rapporto con i suoi modi, delle sue proprietà (l’essere causa sui, l’unicità, l’infinità, l’eternità, l’indivisibilità).
Def. 4: L’attributo (Attributum)
| Per attributum intelligo id quod intellectus de substantia percipit tanquam ejusdem essentiam constituens. | Intendo per attributo ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza. |
Nella lettera IX a Simon de Vries Spinoza, parlando del concetto di definizione, così precisa la nozione di sostanza:
Per sostanza intendo ciò che è concepito in sé e per sé, ossia ciò il cui concetto non implica il concetto di un’altra cosa. Lo stesso intendo per attributo, sennonché si dice attributo rispetto all’intelletto che attribuisce alla sostanza una certa tale natura. (s.m.)
Molto (e a sproposito) si è parlato dell’ambiguità della definizione spinoziana di attributo, in particolare sulla possibilità che esso sia una proprietà attribuita dall’intelletto alla sostanza, quindi una rappresentazione soggettiva della sostanza stessa. Le parole scritte a De Vries non lasciano margini di dubbio: sostanza e attributo sono lo stesso, con la precisazione che la sostanza si esprime per mezzo degli attributi. È come attributo che l’intelletto conosce la sostanza nella sua realtà essenziale. Si potrebbe dire, con una metafora da usare con molta cautela, che l’intelletto coglie la sostanza secondo la “dispersione prismatica” di attributi distinti, tenendo ben presente che ciò non comporta una divisione numerica interna alla sostanza.
È evidente che nel rapporto sostanza-attributi è in gioco l’antica questione ontologica dell’Uno e del Molteplice: per Spinoza il “fondo” dell’essere è “uno”, la sostanza è indubitabilmente una, ma costituita da una infinita molteplicità di essenze. Assolutamente “una” dal punto di vista dell’esistenza, assolutamente “infinita” dal punto di vista dell’essenza. L’unità della sostanza non è trascendente rispetto agli attributi, che ne sarebbero, “parti”, “divisioni”, ma è (esprime) questa stessa molteplicità, l’infinita ricchezza qualitativa ed essenziale. Ogni attributo esprime integralmente la sostanza, nel senso che complica ed esplica l’unicità senza contraddizione. Come scrive Deleuze
L’attributo espressivo mette in rapporto l’essenza con la sostanza ed è questo rapporto immanente che l’intelletto coglie. […] Gli attributi sono realmente distinti: nessuno ha bisogno di un altro, né di nient’altro, per essere concepito. […] La distinzione reale fra attributi è una distinzione formale fra “quiddità” sostanziali ultime. (G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Editions de minuit, Paris, 1981)
Gli attributi sono fra loro ontologicamente identici, ma formalmente distinti. Con gli attributi l’intelletto pensa, coglie, la cosa stessa, la sostanza, secondo un determinato aspetto, quello cui corrisponde l’essenza considerata. Perciò si può dire che la separazione dell’attributo dalla sostanza avviene solo per via astrattiva o, in altri termini, è una mera distinctio rationis. L’attributo “costituisce” la realtà della sostanza, pertanto ne è il principio ontologico e inoltre la fa conoscere in quanto tale e ne è quindi il principio gnoseologico.
Importante è non confondere l’attributo con la proprietà, distinzione già chiara in Spinoza fin dal Breve trattato, dove l’attributo è concepito come essenza costitutiva di un ente, mentre la proprietà è solamente ciò che appartiene a un ente, nella misura in cui esso possiede una determinata essenza. Leggiamo la chiara spiegazione offertaci da Spinoza in una nota di questo testo
Quelli che seguono li chiamiamo propri, perché non sono che aggettivi, i quali non possono essere intesi senza i loro sostantivi. Cioè: Dio, senza di loro, non potrebbe essere Dio, ma egli non è Dio grazie a loro, poiché essi non significano nulla di sostanziale, a causa del quale Dio esiste. (B. Spinoza Breve trattato, I,3, nota)
Le proprietà non fanno conoscere nulla di ciò che è sostanziale e a causa soltanto del quale Dio esiste come fanno invece gli attributi.
Come vedremo, fra gli infiniti attributi della sostanza, noi ne cogliamo solo due, l’estensione e il pensiero. Perché solo questi due e perché, tuttavia, sappiamo che sono infiniti, ce lo spiega bene Deleuze
Ne conosciamo solo due perché possiamo concepire come infinite solo le qualità che inviluppiamo nella nostra essenza: il pensiero e l’estensione, dal momento che noi siamo spirito e corpo. Ma sappiamo che c’è un’infinità di attributi perché Dio ha una potenza assolutamente infinita di esistere, che non si lascia esaurire né dal pensiero né dall’estensione. (G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, cit., p. 73)
Vedremo nel seguito come gli attributi siano in perfetta sintonia con l’importante prospettiva filosofica sotto la quale va compreso il pensiero spinoziano, quello dell’univocità dell’essere. Gli attributi, infatti, sono comuni alla sostanza e ai modi: gli stessi attributi si dicono della sostanza che essi compongono e dei modi che essi contengono.
Def. 5: Il Modo (Modus)
| Per modum intelligo substantiae affectiones sive id quod in alio est, per quod etiam concipitur. | Intendo per modo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per il cui mezzo è pure concepito. |
Il modo è un primo approccio alla complessità del mondo. La sostanza è molteplicemente “affetta”, modificata. Il modo è una realtà, ma non una realtà che esiste di per sé, ma solamente in altro. Dipendenza sia ontologica che logico-gnoseologica caratterizzano pertanto il modo.
I modi spinoziani sono le cose particolari o finite, mediante le quali gli attributi della sostanza si esprimono e comprendendo le quali comprendiamo la sostanza. Ontologicamente, la sostanza è, non soltanto soggetto di inerenza rispetto ai modi, ma anche causa di essi. Questo intreccio di inerenza e di causalità, per cui la sostanza è causa immanente dei suoi modi, nei quali infinitamente si esprime senza dividersi, segna con caratteri originali il rapporto tra sostanza e modi in Spinoza.
I modi differiscono dalla sostanza in esistenza e in essenza e tuttavia sono prodotti in quegli stessi attributi che costituiscono l’essenza della sostanza. Quando nella sedicesima proposizione della prima parte dell’Etica Spinoza scrive che “dalla necessità della natura divina devono seguire infinite cose in infiniti modi”, ciò che il filosofo intende dire è che gli effetti sono delle cose, cioè esseri reali aventi un’esistenza e un’essenza propri, ma che non esistono al di fuori degli attributi entro i quali sono prodotti, cosicché
C’è una univocità dell’Essere (attributi) anche se ciò che è (ciò di cui l’Essere si dice) non è lo stesso (sostanza o modi). (G. Deleuze, Spinoza, cit., p. 119)
La nozione di modo, come del resto quella di attributo per altri versi, è molto complessa e il suo chiarimento, a cominciare dalla differenza fra modi infiniti e modi finiti, andrà fatto nel corso dell’analisi dell’Etica.
Def. 6: Dio (Deus)
| Per Deum intelligo ens absolute infinitum hoc est substantiam constantem infinitis attributis quorum unumquodque aeternam et infinitam essentiam exprimit.
EXPLICATIO : Dico absolute infinitum, non autem in suo genere; quicquid enim in suo genere tantum infinitum est, infinita de eo attributa negare possumus; quod autem absolute infinitum est, ad ejus essentiam pertinet quicquid essentiam exprimit et negationem nullam involvit. |
Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè, una sostanza costituita da un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita.
SPIEGAZIONE: Dico assolutamente infinito, e non infinito nel suo genere; perché di tutto ciò che è infinito soltanto nel suo genere possiamo negare un’infinità di attributi; ma appartiene invece all’essenza di ciò che è assolutamente infinito tutto ciò che esprime un’essenza e non implica alcuna negazione. |
La definizione di Dio è composta a partire dalle definizioni precedenti: sostanza, infinitezza assoluta e non finitezza nel proprio genere, infiniti attributi.
Nella spiegazione Spinoza oppone l’assolutamente infinito all’infinito nel suo genere. Un essere assolutamente infinito non racchiude nessuna negazione e questo è proprio solo di Dio (o della sostanza). L’attributo, invece, è infinito nel genere e questo significa che ogni attributo, in sé considerato, esprime, senza riserve, la piena perfezione dell’essenza che lo costituisce e solo di essa. Il pensiero (cogitatio) è uno degli infiniti attributi di Dio e, preso in sé, potrebbe far rientrare la definizione spinoziana di Dio nella tradizione (Dio come puro spirito), ma anche l’estensione (extensio) o materia appartiene all’essenza di Dio e questo rende il Dio spinoziano del tutto estraneo alla tradizione teologica. Vedremo nelle proposizioni della prima parte dell’Etica che questo Dio non ha i caratteri della persona, la sua attività non è creatrice, ma di produzione causale regolata da leggi necessarie, sì che tutto ciò che è, è necessariamente e non avrebbe potuto essere in modo diverso. Nulla di ciò che è, è dovuto alla volontà di Dio, secondo i tradizionali canoni teologici.
In questa definizione emergono due problemi di cui si renderà conto nell’analisi delle prime proposizioni del De Deo. Come è possibile concepire la coesistenza nella medesima sostanza di infiniti attributi, realmente (ma non numericamente) differenti l’uno dall’altro, senza che tale differenza implichi alcuna negazione reciproca? Come va intesa la compossibilità di infinite essenze, realmente diverse e infinite nel loro genere, con l’essenza assolutamente infinita di Dio?
Def. 7: Cosa libera e cosa coatta (Res libera et res coacta)
| Ea res libera dicitur quae ex sola suae naturae necessitate existit et a se sola ad agendum determinatur. Necessaria autem vel potius coacta quae ab alio determinatur ad existendum et operandum certa ac determinata ratione. | Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata da sé sola ad agire : si dice, invece, necessaria, o meglio coatta, la cosa che è determinata da altro a esistere e ad agire in una certa e determinata maniera. |
Questa definizione mette in campo la problematica essenziale dell’Etica nella misura in cui essa si occupa delle regole da seguire per raggiungere la beatitudine, cioè il sommo bene. Si tratta di una definizione della libertà in apparenza paradossale, ma la cui potenza si paleserà nelle parti IV e V dell’opera. Essere liberi non significa fare ciò che si vuole, andare indifferentemente a destra o a sinistra o scegliere di dire no quando invece si dovrebbe dire sì. La libertà di agire male o di distruggere se stessi non è affatto una libertà per Spinoza. Essere liberi è in primo luogo essere determinati ad agire per la sola necessità della propria natura. In tal senso solo chi è causa di sé è libero, dal momento che la sua essenza implica la sua esistenza. Di conseguenza, tutto ciò che non è causa di sé non è libero. Si può tuttavia intendere l’espressione in un senso più ristretto: esistere secondo la propria natura ed essere determinato ad agire solo da sé è semplicemente agire in conformità al principio della conservazione della propria esistenza (parte III il conatus). Essere invece costretti significa essere determinati da altro a esistere e ad agire in funzione delle azioni che si subiscono.
La cosa libera e la cosa coatta hanno un punto in comune, l’esistenza necessaria, cioè determinata causalmente, mentre si oppongono dal punto di vista della determinazione, essendo interna nella cosa libera ed esterna nella cosa coatta. Questa considerazione porta a ritenere improprio l’uso del termine “necessario”, fatto da Spinoza nella seconda parte della definizione, come sinonimo di coatto. Da un punto di vista ontologico, tutte le cose finite, in quanto sono ciascuna determinata da un’altra ad esistere e ad agire, sono coatte. Ciò pone il problema della natura della “libertà” delle cose finite, in particolare degli uomini: come si può essere liberi se le cose finite sono intrinsecamente determinate a essere e ad agire da altro? Anche la “libertà” di Dio va radicalmente ripensata e soprattutto sottratta a ogni accezione che la avvicini all’arbitrio: l’onnipotenza di Dio non può mai essere intesa come esercizio di libera volontà, termine inappropriato applicato alla natura divina. Libertà non significa mai essere (o fare) ciò che si può, ma potere ciò che si è. Libertà non è libero arbitrio, ma libera necessità.
Def. 8: L’Eternità (Aeternitas)
| Per aeternitatem intelligo ipsam existentiam quatenus ex sola rei aeternae definitione necessario sequi concipitur.
EXPLICATIO : Talis enim existentia ut aeterna veritas sicut rei essentia concipitur proptereaque per durationem aut tempus explicari non potest tametsi duratio principio et fine carere concipiatur. |
Intendo per eternità l’esistenza stessa, in quanto è concepita come conseguenza necessaria della sola definizione di una cosa eterna.
SPIEGAZIONE: Una tale esistenza, infatti, è concepita come una verità eterna alla stessa maniera dell’essenza della cosa, e perciò non si può spiegare per mezzo della durata o del tempo, anche se la durata sia concepita senza principio e senza fine. |
L’eternità è una forma di esistenza che va compresa senza riferimento alla durata. È l’esistenza pensata in sé come necessaria e infinita. Nulla a che vedere, quindi, né con la durata illimitata né con l’immortalità. La durata è un concetto che riguarda esclusivamente le cose finite, perché implica il mutare, lo scorrere, il divenire, un’esistenza quindi che è definita da un inizio e una fine. Affermare che eterna è solo l’esistenza che segue dalla definizione della cosa non significa confondere l’eternità con l’universalità o la validità in ogni tempo, ma semplicemente attestare che l’esistenza e la verità della cosa eterna va definita e compresa senza alcun riferimento al tempo. Forma esemplare delle verità eterne sono le verità matematiche.
Vedremo nel seguito che è l’immaginazione a cogliere le cose sotto l’aspetto della durata e del tempo, mentre l’intelletto le concepisce sub specie aeternitatis, in quanto sa che la loro essenza è implicata dall’essenza della sostanza. L’importanza del concetto di eternità nella filosofia spinoziana è difficilmente esagerabile tanto che nello scolio della proposizione XXIII della quinta parte Spinoza afferma che noi sentiamo e sperimentiamo di essere eterni.
La nozione di assioma
Gli assiomi precisano le condizioni che permettono di pensare le cose in generale e le forme di relazione fra le cose. Sono dotati di universalità e assumono la natura di enti di ragione, pur non potendo ridursi a mere astrazioni, essendo queste (come vedremo nella seconda parte dell’Etica), esseri di immaginazione. Le astrazioni non sono nozioni comuni, come erroneamente si tende a credere, ma il “residuo confuso di una molteplicità di impressioni”.
Ass. 1: L’essere o è sostanza o è modo
| Omnia quae sunt vel in se vel in alio sunt. | Tutto ciò che è, è o in sé o in altro. |
Ass. 2: Ripresa gnoseologica dell’Assioma 1
| Id quod per aliud non potest concipi, per se concipi debet. | Ciò che non può essere concepito per mezzo d’altro, dev’essere concepito per sé. |
I primi due assiomi rispecchiano la struttura della realtà e quella della sua conoscibilità secondo Spinoza. Tutto ciò che è o è la sostanza o è un modo, cioè una determinazione della sostanza, mentre viene messo definitivamente fuori gioco il confuso concetto cartesiano di sostanza creata e, assieme a esso, perde pregnanza ontologica e gnoseologica il non essere.
Ass. 3: Il principio di causalità
| Ex data causa determinata necessario sequitur effectus et contra si nulla detur determinata causa, impossibile est ut effectus sequatur. | Da una determinata causa data segue necessariamente un effetto e, al contrario, se non è data nessuna causa determinata, è impossibile che segua un effetto. |
Ass. 4: L’effetto è implicato nella causa
| Effectus cognitio a cognitione causae dependet et eandem involvit. | La conoscenza dell’effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica. |
Ass. 5: Incommensurabilità fra gli attributi e i rispettivi modi
| Quae nihil commune cum se invicem habent, etiam per se invicem intelligi non possunt sive conceptus unius alterius conceptum non involvit. | Le cose che non hanno nulla in comune tra di loro, non possono neanche essere concepite l’una per mezzo dell’altra, ossia il concetto dell’una non implica il concetto dell’altra. |
Gli assiomi 3-5 riguardano il rapporto causale, forma esclusiva di relazione necessaria che permette di pensare un ordine e una connessione nelle cose e fra le cose. La causa è prioritaria rispetto ai suoi effetti. Sono gli assiomi che “fondano” il determinismo spinoziano: se si dà una causa, l’effetto ne segue necessariamente, essendo esclusi eventi contingenti o incausati.
Del tutto errato è il procedimento che risale dall’effetto alla causa, dal momento che questa, anziché apparire nel suo ruolo determinante e produttivo, è costretta a presentarsi solo entro lo spazio che l’effetto le apre e le concede.
Il termine causa viene spesso usato da Spinoza come sinonimo di ratio (ragione), asserendo intrinseca convertibilità fra accezione logica e accezione causale del concetto. Il legame tra la causa e l’effetto è un legame di implicazione logica, dello stesso tipo del rapporto che lega la premessa alla conseguenza, per cui, pensare che una determinata causa non produca un determinato effetto è contraddittorio.
Ordine delle cose e ordine delle idee sono espressioni differenti di un’unica e medesima necessità. Perciò la vera scienza è scire per causas, secondo l’accezione tradizionale del termine. Nessun saper è acquisito o adeguato finché tutte le cause non siano conosciute. Dal momento che una cosa singolare è tale per l’infinità delle cause che implica (v. per un confronto il concetto di “nozione completa di un individuo” in Leibniz), qualunque modo di coglierla che non colga anche tale infinita catena, sarà sempre e necessariamente inadeguato. È questo il caso delle idee immaginative, le quali, ignorando le cause o postulando cause fantasiose, sono intrinsecamente inadeguate e testimoniano non la verità della cosa, ma le affezioni del corpo (v. la seconda parte dell’Etica).
Il quinto assioma vieta di instaurare un qualunque rapporto causale fra enti che non abbiano uguale natura: pensiero e materia non possono determinarsi reciprocamente. Dal momento che gli attributi non si conoscono che per sé e non per altro, essi non hanno fra loro nulla in comune, sono cioè incommensurabili.
Un’ultima osservazione riguardante il rapporto causale porta all’affermazione del carattere necessariamente immanente dell’effetto alla causa: se la causa è l’essere assolutamente infinito (la sostanza), alla sua essenza appartiene tutto ciò che appartiene all’essenza dell’effetto e quindi è insostenibile una differenza sostanziale fra causa ed effetto.
Ass. 6: Rapporto fra idea vera e ideato
| Idea vera debet cum suo ideato convenire. | L’idea vera deve accordarsi col suo ideato. |
Questo sembra coincidere con la teoria tomista dell’adaequatio (V. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 26, a1: veritas consistit in adaequatione intellectus et rei). La conoscenza vera deve rispecchiare il reale. Ma si tratta di una vicinanza apparente. Un’idea, infatti, non è vera “a causa” del suo accordo con l’ideato, dal momento che tutte le idee dell’intelletto sono vere, dato che esso non può che riflettere contenuti reali.
Come bene spiega Gueroult, il debet ha un duplice carattere: da un lato (v. il tedesco muss) esprime la necessità teorica che deriva dalla natura dell’idea, dall’altro (v. il tedesco soll) esprime un obbligo normativo, indicando la condizione che l’uomo deve realizzare per pervenire a un’idea vera.
L’accordo dell’idea con l’ideato indica che l’idea vera implica certezza, è indice di sé e del falso e non richiede segni esteriori.
Ass. 7: Definizione dell’essere finito
| Quicquid ut non existens potest concipi, ejus essentia non involvit existentiam. | L’essenza di tutto ciò che si può concepire come non esistente non implica l’esistenza. |
È l’assioma della fatticità, nozione da non confondere in nessun modo con quella di contingenza, dal momento che Spinoza non sta parlando della possibilità del non essere. In Spinoza non c’è il possibile. Ogni cosa che è, è necessariamente (esclusa ogni contingenza), in quanto è rigorosamente determinata dalla catena causale, ma, anziché determinarsi da sé all’esistenza, come la sostanza, è determinata da altro. Quindi la distinzione fra modi e sostanza non sta nel fatto che i modi possono anche non essere, ma che il loro fatto di essere è dovuto a una causalità ad essi estrinseca.
Un riassunto
Cosa possiamo trarre in modo molto generale da queste prime definizioni e assiomi? Ci aiuta un’utile sintesi tratta dal commento all’Etica di Piero Martinetti (cit.)
Che per Spinoza la realtà ultima è un essere unico, fondamento di ogni realtà finita (def. 1), che è per sé e ha in sé la ragione del suo essere, la sostanza (def. 3). In quanto suprema realtà, comprende in sé tutti gli aspetti irriducibili della realtà (attributi), sia quelli che conosciamo sia quelli che non conosciamo (def. 4 e 6), è l’essere veramente libero (def. 7) ed eterno (def. 8). Ciascuno dei suoi aspetti o attributi si specifica in innumerevoli determinazioni finite o modi (def. 5), come esistenze che si limitano reciprocamente (def. 2), realtà periture la cui essenza non implica l’esistenza (ass. 7). I modi procedono con rigorosa necessità, mediatamente o immediatamente, dagli attributi, perciò dipendono da essi, hanno in essi la loro ragione, debbono essere pensati per mezzo di essi (ass. 1-4) e non contengono in sé nulla che non sia già nel loro principio (ass. 5). La conoscenza vera è quella che abbraccia la totalità delle cose in questa sua unità e verità (ASS. 6).
Un pensiero riguardo “2 – Analisi dell’Etica di Spinoza. Etica I: I Fondamenti – (Le Definizioni e gli Assiomi)”