Strumentalità e affettività
Essere e tempo: ontologia ed esistenza
Riprendo il passo da Essere e tempo citato in conclusione dell’articolo precedente
Parlando, l’Esserci si esprime; non perché sia dapprima incapsulato in un “dentro” contrapposto a un fuori, ma perché esso, in quanto essere-nel-mondo, comprendendo, è già “fuori”. Ciò che viene espresso è proprio l’esser-fuori, il modo particolare della sua situazione emotiva (la tonalità emotiva) che, come abbiamo già chiarito, investe in pieno l’apertura dell’in-essere. L’indice linguistico della rivelazione della situazione emotiva dell’in-essere da parte del discorso è costituito dalla cadenza, dalla modulazione, dal “tempo” del discorso, dal “modo di parlare”. La comunicazione delle possibilità esistenziali della situazione emotiva, cioè l’apertura dell’esistenza, può costituire il fine specifico del discorso “poetico”. (ET, 205-206)
Se lo vogliamo intendere nel suo giusto senso, è necessario che ci interroghiamo sull’impianto teorico di base di questa opera fondamentale, in particolare sui concetti di mondo, verità e cosa, perché li ritroveremo nel saggio sull’origine dell’opera d’arte.
Porre il problema dell’essere non è mai un fatto di mera conoscenza, perché basilare e preliminare è indagare chi pone il problema dell’essere. Il problema ontologico, dunque, si intreccia profondamente con il problema esistenziale, cioè con l’analisi del modo d’essere di quell’ente che pone il problema dell’essere, il Dasein. Tale modo d’essere è quello dell’apertura all’essere.
L’uomo formatore di mondo
L’uomo, a differenza di una pietra, ma anche di un animale, ha un mondo, c’è, è sempre in situazione. Il “ci” è l’ambito in cui l’uomo è collocato e posto in “rapporto” con l’altro da sé. Mentre la pietra, e con essa tutti gli enti materiali, è senza mondo, cioè è nel mondo come ente semplicemente presente, senza rapporti con l’altro se non nell’estrinseca forma della contiguità spaziale, mentre l’animale è povero di mondo, è nella condizione che Heidegger assimila a quella del cieco (non vedere potendo vedere), la condizione di privazione, per cui il mondo si apre per l’animale come la porta di una cella per un detenuto, degradandosi, appunto, da mondo ad ambiente, dove i percorsi sono obbligati e costretti entro le vie istintuali, l’uomo è, invece, formatore di mondo. Questo significa che il rapporto dell’uomo con il mondo non è un rapporto statico, un rapporto fra enti semplicemente presenti, la cui essenza, cioè, è totalmente e compiutamente data, ma è un rapporto che possiamo chiamare di attribuzione di significato: l’altro da sé, con cui l’uomo si pone in rapporto, non è qualcosa di estraneo o di indifferente, ma è sempre qualcosa di significativo, quindi qualcosa di positivo, di negativo, di temuto, di amato, cioè sempre qualcosa che è in vista di un progetto.
Coappartenenza di Esserci e Mondo
L’esser-ci, quindi, ha con il mondo un rapporto progettuale e non oggettivo, il suo essere-nel-mondo è quello del progettarsi, perché il mondo non è un superente né una collezione di enti, di oggetti, che l’uomo passivamente contemplerebbe come uno spettacolo e che solo in seguito investirebbe di significati, che diventerebbero, pertanto, soggettivi, arbitrari. È da sempre, essenzialmente messo in prospettiva, investito di significati. Proprio per questo, Esser-ci e Mondo si fondano reciprocamente nella loro essenza: la loro relazione non è quella ontica fra due enti che possono sussistere in sé e per i quali, quindi, il mettersi in rapporto o meno non è essenziale, non tocca ciò che propriamente sono, ma è quella ontologica, per cui l’essere-in-relazione è proprio ciò che li costituisce nel loro essere.
La co-appartenenza di Esser-ci e Mondo ha importanti conseguenze sulla natura dell’interrogazione ontologica: la domanda sul Mondo è già da sempre anche una domanda sull’esser-ci, per cui l’interrogare filosofico è un interrogare l’ente nella sua totalità o, meglio, l’ambito stesso di co-appartenenza di uomo e mondo. Perciò la metafisica non è inquadrabile come una disciplina scientifica fra le altre, non è un settore del sapere. I concetti di cui si serve hanno una peculiarità irriducibile:
Metafisica è un interrogare nel quale ci interroghiamo penetrando nella totalità dell’ente, e ci interroghiamo in modo tale che noi stessi, gli interroganti, siamo inclusi nella domanda, veniamo, cioè posti in questione. In conformità a ciò, i concetti fondamentali non sono degli universali, …, bensì sono concetti di un tipo peculiare. Essi afferrano sempre concettualmente in sé la totalità, sono totalità-concettuali. Ma sono totalità concettuali anche in un secondo senso, connesso al primo quanto altrettanto essenziale: sempre con-afferrano concettualmente in sé l’uomo che afferra concettualmente e il suo esser-ci: non a posteriori, bensì in modo tale che essi non siano quello senza questo e viceversa. Non esiste nessun concetto del tutto senza la totalità concettuale dell’esistenza stessa di colui che filosofa. Il pensare metafisico è pensare concettualmente totalizzante nel duplice senso di muoversi verso il tutto e di afferrare l’esistenza penetrando in essa. (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 16)
L’interrogare filosofico, allora, non si serve delle categorie proprie del pensiero scientifico e rappresentativo in genere. Heidegger distingue, infatti, le categorie, che sono i modi d’essere propri delle cose semplicemente presenti, dagli esistenziali, come il Mondo e altri che vedremo, che esprimono, invece, una relazione del tutto peculiare con l’uomo.
Essere-nel-mondo significa essere-posti nel centro mai statico di un progetto. Questo è lontanissimo, anche se può apparire il contrario, da una posizione scettico-relativistica di tipo protagoreo che fa dell’uomo la misura di tutte le cose: l’esser-ci non è donatore di senso al mondo, più di quanto non lo sia il mondo all’esser-ci. L’essenziale co-appartenenza di uomo e mondo toglie di mezzo radicalmente la questione del primato dell’uno o dell’altro ente e con ciò ogni legittimità ai classici dualismi filosofici: idealismo-realismo, soggettivismo-oggettivismo.
La cosa come fenomeno
Il mondo, quindi, come il pro-gettarsi dell’esser-ci, come l’accesso all’ente nella sua totalità. Ma il mondo a noi appare sempre fatto di cose. Che cos’è una cosa? Torniamo alla domanda sulla cosa per vedere come, alla luce dei primi passi dell’analitica esistenziale, si pone l’esser-cosa della cosa in Essere e tempo. Questa è una domanda filosofica e, come tale, non può servirsi senza fraintendimento delle categorie tradizionali del pensiero.
La cosalità delle cose ci rimarrà inaccessibile finché interroghiamo le cose fuori dal mondo in cui appaiono, cioè fuori dall’ambito di co-appartenenza di uomo e mondo. Questo significa che le cose sono sempre, per essenza, cose per noi, fenomeni. Anche la mera cosa, la cosa nella sua indifferente oggettività, è tale in quanto è per noi oggetto. Dire che le cose sono sempre per noi non significa affermare che le cose sono per noi in un determinato modo, mentre in sé sono tutt’altro, per cui essere è sempre altro dall’apparire. Essere è apparire: questa è l’istanza fenomenologica alla quale Heidegger si rifà.
L’ente intramondano: la strumentalità
Le cose sono per noi in quanto sono sempre, per essenza, dotate di un significato, sono sempre cose-per o, come le definisce Heidegger, strumenti. La strumentalità (Zu-handenheit), quindi, è un carattere originario della cosa, per cui l’essere-nel-mondo dell’uomo significa incontrare le cose in quanto strumenti, in quanto cose-per o, il che è lo stesso, essere aperti a un insieme di significati. Nello strumento è implicito un rimando e con esso il riferimento a una totalità di strumenti. Non si può accedere, allora, al significato della cosa senza intenzionare contemporaneamente la totalità (il “sistema di strumenti”) alla quale la cosa appartiene.
Proprio per questo la totalità delle cose non è mai la semplice somma di tutte le cose, ma è l’orizzonte di significato delle cose stesse, il mondo appunto. In questo senso, l’incontro con la cosa è sempre una modalità dell’essere-nel-mondo prima di essere qualunque altra cosa (compresa la conoscenza oggettiva). Intendiamoci: strumento per Heidegger non significa solo qualcosa che l’uomo ha tecnicamente costruito per sé: l’essenziale della strumentalità, infatti, sta non nell’essere prodotto dall’uomo anziché dalla natura, ma nella struttura del rimando, nell’indicare sempre un contesto di riferimenti o, in altri termini, un mondo.
È importante comprendere tale fatto: in ogni incontro con le cose vi è anche già da sempre un incontro con il mondo, con l’orizzonte a cui le cose appartengono. Anche l’incontro con l’opera d’arte è un incontro con il mondo dell’opera. Ma profondamente diverso, come vedremo, sarà il senso di questo incontro rispetto a quello con la cosa-strumento. Per ora basti fissare che l’incontro con la cosa non è mai preliminarmente un incontro oggettivo, neutro, ma sempre un incontro esistenziale.
La cosa come semplice presenza è un modo d’essere derivato della cosa-strumento e il suo essere, lungi dall’essere originario, è il risultato di un processo di riduzione esistenziale e mondana, un processo che non investe solo la cosa in quanto tale ma anche, in forza della co-appartenenza uomo-mondo, l’uomo stesso, come ben sa la scienza che, pittorescamente, chiama tale processo rimozione dell’animale (Galileo Galilei).
Il mondo come sistema di strumenti
Finora l’appartenenza al mondo si è rivelata come un rimandare che lega le cose singole a tutte le altre cose; ci deve essere un ultimo rimando che sta alla base degli altri e che li fonda. Quest’ultimo rimando è il Worumwillen, l’in-vista-di-cui della totalità strumentale del mondo; all’opposto, il rimando di uno strumento all’altro, si caratterizza come il per (Wozu).
Le cose-strumenti non si costituiscono da sé, ma sono quel che sono solo in rapporto a un ente che ha la caratteristica di assumerle come tali e di usarle, cioè dell’esser-ci che ha come suo carattere costitutivo l’essere-nel-mondo. Non solo, allora, la cosa intramondana è tale in quanto appartiene al mondo che la precede e la fonda; ma ancora, il mondo come totalità di strumenti e di rimandi è tale solo in quanto è fondato da quell’essere che ha come carattere costitutivo l’essere-nel-mondo. Il mondo come sistema di strumenti non è il mondo come somma di oggetti: questo è chiaro. Deve essere, però, altrettanto chiaro che tale mondo non è un ente sussistente, che stia sospeso per aria e chiuso come una struttura compiuta. Facendo sempre riferimento al concetto di co-appartenenza, il mondo è un sistema aperto di significati che si regge, si radica, si fonda, fa riferimento all’esser-ci in quanto apertura.
L’esser-ci e-siste (non semplicemente sus-siste come un ente intramondano) in quanto è il riferimento dell’insieme dei significati o dell’insieme dei riferimenti. Proprio perciò l’Esserci non è un ente intramondano, non è una cosa fra le altre cose. L’Esserci, in quanto aperto al mondo, non è del mondo, ma non è nemmeno fuori dal mondo: non è un ente intramondano, ma non è nemmeno un ente extramondano. Non è nulla di sussistente, dentro o fuori dal mondo che sia.
Uomo e mondo si co-appartengono come si co-appartengono il punto di origine dello spazio prospettico e lo spazio aperto da tale punto. Tale punto non è nulla di spaziale, perché da esso si genera lo spazio: esiste non in sé ma in quanto luogo di convergenza di tutte le linee dello spazio, così come, d’altra parte, lo spazio esiste in quanto di-vergenza dal punto di fuga. Il punto di vista è sempre un punto di vista dello spazio, mai di qualcuno che stia fuori da esso, ma lo spazio è sempre lo spazio di un punto di vista, mai uno spazio in sé. Spazio e punto di vista si co-appartengono: l’uno è in quanto fondato nell’altro.
Se l’essenza della cosa è il rimandare ad altre cose in una totalità di riferimenti che costituisce l’orizzonte mondano, tale rimandare viene alla luce in modo distinto dall’utilità (il martello serve per martellare non per rimandare-a, perché tale rimando diventa esplicito solo allorché si interrompe la funzione di utilità, come quando uno strumento si guasta, ad esempio).
Il segno
Vi è, tuttavia, un particolare tipo di strumento in cui rimando e utilità coincidono, in cui, cioè, l’utilità è il rimandare stesso. Tale strumento è il segno. L’importanza del segno nel sistema degli strumenti sta nel fatto che in esso, per la prima volta si annuncia il rapporto fra mondo e linguaggio. Nel segno non solo viene alla luce in modo peculiare la rimandatività della cosa-strumento, ma anche si esplicita una funzione rivelativa: questo significa che mentre l’essenza delle cose sta nell’appartenere al mondo, nell’essere inserite in un sistema di riferimenti, per cui il significato della cosa è il suo uso, il suo a-che-serve, tale mondo resterebbe per noi inespresso, muto, meramente usato, se non disponessimo di uno “strumento” che per il suo stesso essere è in grado di dare voce, di svelare le cose stesse. Senza il linguaggio il significato del mondo si spegnerebbe, resterebbe rinchiuso nella mera utilizzabilità, per cui, in ultima analisi, il mondo non sarebbe potendo essere (è un po’ la situazione dell’animale). Il segno rende manifesta la struttura ontologica dell’utilizzabilità.
Il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che rende manifesta la struttura ontologica dell’utilizzabilità, della totalità di rimandi e della mondità. (ET, 95)
Fermiamoci un momento a riflettere sul senso del rimando: vi è un primo tipo di rimando, costituito dall’uso per cui una cosa è fatta. Anche uno strumento non funzionante è essenzialmente strumento per un determinato uso: Heidegger analizza dettagliatamente la non adoperabilità, definendola come l’aspetto negativo dell’utilizzabilità costitutiva delle cose, per cui possiamo conoscerla solo nella luce dell’utilizzabilità. Vi è poi un secondo tipo di rimando, quello ai materiali di cui uno strumento è composto. Infine, oltre allo scopo e al materiale, lo strumento contiene un terzo e ultimo tipo di rimando: il chi lo usa. Nell’articolarsi di questi tre tipi di rimandi, la cosa-strumento rivela il mondo a cui appartiene e dal quale il suo essere dipende.
La rimandatività, nei suoi vari aspetti, è dunque il carattere fondamentale e costitutivo dell’ente intramondano in quanto tale. Da qui il significato filosofico di quell’ente intramondano in cui utilità e rimandatività coincidono. Il martello, abbiamo detto, serve per martellare, e se esso può anche rimandare al materiale di cui è fatto e alle persone che lo usano, il suo senso originario non è certo questo. Nel segno, invece, utilità e referenzialità coincidono, dal momento che la funzione del segno è proprio quella di rimandare ad altro. Il segno e, in senso più compiuto, il linguaggio rivela il mondo in quanto mondo, quel mondo che altrimenti rimarrebbe costretto nel mero uso. Proprio per questo il linguaggio appare come un ente che non è semplicemente cosa come gli enti intramondani. Se il linguaggio è lo svelamento del mondo, allora essere-nel-mondo significa essere nel linguaggio.
Qui è la radice del successivo sviluppo della filosofia heideggeriana e della progressiva importanza riconosciuta proprio al linguaggio. Se il linguaggio è la condizione del venire alla luce delle cose, esso non può a sua volta essere una cosa, uno strumento totalmente compiuto nella sua funzione-uso di comunicare. Se così fosse, infatti, il linguaggio sarebbe una descrizione del mondo, che sussisterebbe prima e indipendentemente da esso.
Venire alla luce e trovare voce sono la stessa cosa. Il mondo viene all’essere in quanto il linguaggio lo s-vela. La trascendentalità del mondo e del linguaggio rispetto alle cose e ai singoli significati è la stessa trascendentalità dell’essere rispetto agli enti: ogni nostro incontro con la cosa e il suo particolare significato avviene a partire dalla preliminare apertura al mondo, alla significatività, insomma all’essere.
Comprensione del mondo e gettatezza
L’Esserci si trova già da sempre nella comprensione del mondo, non è tabula rasa, come credevano gli empiristi, su cui via via l’esperienza incide le sue tracce. L’uomo non è un prodotto del mondo, né il mondo è immagine dell’uomo e delle sue operazioni mentali. L’esistenza è un fatto in cui l’uomo è gettato, anzi l’essere-nel-mondo stesso, in quanto tale, è gettatezza e l’apertura al mondo è data originariamente come pre-comprensione del mondo, per cui ogni conoscenza è interpretazione, cioè interna articolazione e chiarificazione della comprensione stessa.
L’essere già in un ambito di significatività data non è un limite (così come il circolo comprensione-interpretazione non è un vizio dell’intelletto o un ostacolo della conoscenza), ma è la condizione stessa dell’apertura all’essere, la condizione stessa dell’avere un mondo. Solo se il mondo è concepito come oggetto di conoscenza, allora il circolo è una limitazione e la condizione finita dell’uomo vissuta come inferiorità ontologica. Ma il mondo, abbiamo detto, viene alla luce con l’Esserci e trova voce con il linguaggio ed è, in quanto totalità, condizione di ogni esperienza dell’esserci stesso, compresa la conoscenza stessa. La comprensione (con l’interpretazione) è uno dei tre esistenziali, in quanto modi d’essere non dell’ente intramondano, ma dell’esserci. Non ci soffermiamo sul discorso, che è il secondo esistenziale, in quanto per esso può bastare il breve accenno che abbiamo fatto sul linguaggio. Molto più importante, ai nostri fini, è invece il terzo esistenziale, la situazione affettiva (Befindlichkeit: il fatto di trovarsi).
La situazione affettiva
Se Heidegger si fosse limitato alla comprensione come modo dell’apertura dell’esserci al mondo, pur nella radicalità della sua impostazione, non sarebbe riuscito a liberarsi da una condizione di privilegio accordata alla conoscenza. Per quanto la comprensione possa essere diversa dalla rappresentazione, essa rimane sempre entro l’ambito conoscitivo. Ma le cose non hanno solo un significato, ma anche una valenza affettiva.
La Befindlichkeit è il nostro modo di trovarci originariamente nel mondo, ciò che ci determina propriamente nella nostra finitezza. Prima abbiamo detto che l’esistenza è un fatto: ebbene la situazione affettiva è l’incontro proprio con la nostra fatticità, con il nostro essere-gettati nel mondo e, proprio per questo, essa è ciò che propriamente costituisce il ci stesso, l’ambito di apertura in cui uomo e mondo si co-appartengono, il venire-incontro dell’essere-nel-mondo in quanto tale. Nell’essere la condizione stessa della nostra finitezza, la situazione affettiva non può certo venire fraintesa come l’insieme dei nostri sentimenti particolari: essa ha invece un radicale significato ontologico, dal momento che i singoli affetti ci si danno in quanto preliminarmente ci troviamo nel mondo. La stessa comprensione del mondo si radica in questa originaria prensione della nostra fatticità.
È alla luce di questo fondamentale senso ontologico dell’affettività che si deve leggere quel brano di Essere e tempo sulla poesia citato sopra. Al linguaggio poetico sembra affidato il compito di manifestare in modo specifico la dimensione affettiva dell’esistenza, quella dimensione che nel linguaggio comune non è mai tematizzata in quanto tale. L’arte, dunque non ha a che fare con il conoscere o con l’agire, ma è confinata nel mondo dei sentimenti e, in quanto tale, sembra riguardare solo le reazioni soggettive alle situazioni. Il linguaggio poetico esprime l’affettività, ma non come qualcosa di accidentale, di soggettivo e, in ultima analisi, di arbitrario, quasi come il significato della poesia o di qualunque opera d’arte, possa esistere anche in altra forma, alla quale il discorso poetico si applichi come abbellimento. Come scrive Vattimo:
il discorso poetico non è fatto per far sapere agli altri le mie emozioni, isolando in un discorso apposito quei caratteri di ritmo, di tempo, di tono, ecc. che nei discorsi quotidiani si danno solo insieme ad altri e prevalenti significati conoscitivi o pratici. Il discorso poetico è aprimento dell’esistenza anzitutto come manifestazione della situazione affettiva nella sua portata ontologica ed è aprimento anche nel senso di fondazione e istituzione dell’esistenza.” (G. Vattimo: Arte e verità nel pensiero di Martin Heidegger, 1966, Giappichelli, Torino)
Affettività e gettatezza
L’affettività è legata alla gettatezza, alla Geworfenheit, anzi altro non è che tale gettatezza in quanto risuona in noi, in quanto è presente in ogni nostro atteggiamento o stato d’animo. L’affettività è la stessa situazione in cui ci troviamo nel suo significato per noi, dove significato non indica assolutamente un fatto intellettuale, ma piuttosto una valenza percepita in maniera globale. Perciò non può essere una modificazione accidentale della situazione stessa che si aggiunga a una struttura in sé.
La mondità del mondo, allora, prima ancora che un fatto intellettuale che concerne la comprensione, è un fatto affettivo: la situazione affettiva ha nei confronti della comprensione e del discorso una posizione fondante, dato che essa, in quanto Stimmung (tonalità affettiva) determina (bestimmt) il nostro essere nel mondo. L’Esserci non è mai nel mondo come neutrale spettatore di un ordine di significati, ma è sempre coinvolto esistenzialmente in tale ordine. La comprensione del mondo si radica, quindi, nella Stimmung.
La finitezza dell’Esserci
Il riconoscimento del carattere ontologico della Stimmung, in quanto presa globale del mondo, di cui la stessa comprensione si rivela come una articolazione interna, porta a riconoscere che è proprio la Befindlichkeit che apre la via alla dimensione ontologica degli altri esistenziali. Se il Da-sein è gettatezza, tale gettatezza viene alla luce in modo precipuo proprio nella situazione affettiva. La Befindlichkeit è il segno della finitezza, rivelando che l’Esser-ci non dispone del proprio da-dove, del proprio principio.
Il significato ontologico dei sentimenti viene così alla luce proprio nella loro infondatezza e nell’infondatezza dell’esserci stesso, intesa come sua non fondabilità, come il suo sottrarsi a ogni schema che lo collochi in rapporto a un fondamento, a un principio di spiegazione. Alla luce della problematica di Essere e tempo si può comprendere perché Heidegger consideri il concetto di verità come adaequatio intellectus rei un senso derivato della verità.
La verità come s-velamento
La parola greca ἀλήθεια (a-létheia) come s-coprimento, far-uscire-dal-nascondimento rivela il vero significato originario di verità. La verità è il venire alla luce di ciò che prima è coperto e il venire alla luce è un accadimento, un evento dell’esserci nel suo incontro con il mondo. Senza il ci dell’esser-ci non ci sarebbe alcun venire alla luce, alcun venire alla presenza delle cose. Verità e mondo sono, dunque, strettamente connessi, perché verità si dà solo nell’ambito aperto dall’esserci che costituisce il mondo.
La verità, dunque, non è conformità, ma luce a partire dalla quale ogni conformità è possibile. E l’ambito in cui la luce, per così dire, accade, è l’Esserci, che si trova, per questo, originariamente nella verità. Ormai è superfluo ricordare come tale affermazione non vada intesa come una concezione relativistica della verità, per cui la verità e il significato delle cose dipende dall’esserci, dall’uomo. L’uomo è nella verità non come un punto di vista soggettivo sul mondo, ma come originariamente aperto al mondo e alla totalità.
Filosofia come nostalgia
Riflettiamo ora sulla definizione della filosofia come nostalgia, come impulso a essere a casa propria ovunque (Novalis). Tale impulso, scrive Heidegger in CFM, 11 non è desiderio di essere in qualche luogo determinato e nemmeno di essere in un qualunque luogo o in tutti insieme, uno dopo l’altro, prima qui, poi là e così via. Significa impulso a essere nella totalità o, il che è lo stesso, nel mondo. Nostalgia sta a indicare che non siamo nella totalità. Ciò sembra contraddire la caratterizzazione dell’esserci come essere-nel-mondo; in realtà dà a tale essere nel mondo la sua determinazione essenziale. L’essere-nel-mondo dell’uomo non è un fatto compiuto una volta per tutte, ma un compito, non è un semplice essere-collocati, una situazione statica, ma un essere in-cammino. Ma leggiamo quanto scrive Heidegger:
Nella nostra nostalgia siamo sospinti là, verso l’essere nella sua totalità. Il nostro essere è questo esser-sospinti. In qualche modo ci siamo già da sempre mossi verso questa totalità, o meglio siamo in cammino verso di essa. Ma siamo anche mossi in senso opposto, trascinati indietro da qualcosa o immobili in una sorta di gravità che tende a distoglierci. Siamo in cammino verso questo essere “nella totalità”. Noi stessi siamo questo essere-in-cammino, questo passaggio, questo “né l’una né l’altra cosa”. Cos’è questo oscillare qua e là tra il né-né? Non l’una e neppure l’altra, questo “sì e no e sì”. Che cos’è questa inquietudine del non? La chiamiamo la finitezza. … La finitezza non è una proprietà che semplicemente ci attribuiamo, bensì il modo fondamentale del nostro essere. (CFM, 11-12)
Finitezza, mondo e tutti gli altri concetti che Heidegger ha finora presentato sono concetti di tipo peculiare e originario, sono concetti metafisici che, in quanto tali, restano inaccessibili all’intelletto, a ogni intelletto, concetti che non si possono imparare, non perché siano misteriosi o mistici, ma perché non riguardano la conoscenza, ma il nostro stesso essere. Essi hanno il compito di cogliere la co-appartenenza di uomo e mondo, di pensiero ed essere; perciò non possiamo coglierli, comprenderli, se non siamo preliminarmente colti, compresi o afferrati, come scrive Heidegger giocando sul etimologia di Begriff (concetto) da greifen (afferrare), da essi. Questo venir-afferrati non è nulla di intellettuale: il destarlo e il fondarlo è compito della filosofia:
Questo venir-afferrati, il destarlo e il fondarlo è la fatica fondamentale del filosofare. Ma ogni venir-afferrato proviene da uno stato d’animo e permane nello stesso. Nella misura in cui il cogliere concettuale e il filosofare non sono un’occupazione qualunque accanto ad altre, bensì accadono nel fondo dell’esserci umano, gli stati d’animo dai quali hanno origine il venir-afferrati e la concettualità della filosofia sono sempre necessariamente stati d’animo fondamentali dell’esserci, tali che pervadono costantemente e in modo essenziale l’uomo, senza tuttavia che egli li debba sempre e necessariamente riconoscere come tali. La filosofia accade sempre in uno stato d’animo fondamentale. L’afferrare concettuale filosofico ha il suo fondamento in un venir-afferrati, e questo a sua volta in uno stato d’animo fondamentale. (CFM, 13)
La filosofia, dunque, è un interrogare nel quale ci interroghiamo penetrando nella totalità dell’ente, e ci interroghiamo in modo tale che noi stessi, gli interroganti, siamo inclusi nella domanda, veniamo, cioè, posti in questione.
In conformità a ciò, i concetti fondamentali non sono degli universali, né formule valide per le caratteristiche universali di un dominio di oggetti (animali, linguaggio), bensì sono concetti di un tipo peculiare. Essi afferrano sempre concettualmente in sé la totalità, sono totalità concettuali. Ma sono totalità concettuali anche in un secondo senso, connesso al primo quanto altrettanto essenziale: sempre con-afferrano concettualmente in sé l’uomo che afferra concettualmente e il suo esserci: non a posteriori, bensì in modo tale che essi non siano quello senza questo e viceversa. Non esiste nessun concetto del tutto senza la totalità concettuale dell’esistenza stessa di colui che filosofa. Il pensare metafisico è pensare concettualmente totalizzante nel duplice senso di muoversi verso il tutto e di afferrare l’esistenza penetrando in essa. (CFM, 16)
Il filosofare è, dunque, un modo d’essere fondamentale dell’esser-ci: solo con la filosofia, infatti, l’uomo diviene ciò che può essere. È qualcosa che precede ogni occuparsi-di.
L’esser-ci in questione non sa ciò che l’esser-ci dell’uomo può essere nelle singole epoche; le sue possibilità si formano proprio e soltanto nell’esser-ci. Queste possibilità seno quelle dell’esser-ci effettivo, cioè del confronto che deve compiere con l’ente nella sua totalità. (CFM, 33)
Se il filosofare è un impegno esistenziale, esso non può mai essere ridotto a un bagaglio di conoscenze, a una quantità di sapere, ma deve scaturire dal destarsi di uno stato d’animo fondamentale. Senza che questo abbia minimamente a che fare con condizioni psichiche o con accadimenti del soggetto. La psicologia, con la teoria delle facoltà, distingue tra pensare, volere e sentire e quasi sempre riduce i sentimenti a un mero abbellimento del nostro pensare e del nostro volere, se non a un limite vero e proprio, in quanto li oscura e li ostacola. La mutevolezza e la molteplicità degli stati d’animo li rendono inconsistenti.
Fenomenologia degli stati d’animo
Il § 17 di CFM presenta delle interessanti descrizioni fenomenologiche di stati d’animo, mostrando che lo stato d’animo è proprio ciò che dà all’esser-ci consistenza e possibilità. Vediamo ad es. il diventar triste di una persona che si trova in compagnia con altre persone.
Che cosa accade? Si tratta di una semplice esperienza vissuta che tocca l’interiorità di quella persona lasciando tutto il resto come prima, nell’indifferenza? Oppure se qualcosa capita, questo accadere è leggibile solo come l’effetto prodotto dallo stato d’animo in cui si trova quella persona? Oppure il modificarsi della situazione è parte dell’esser-triste della persona? La persona divenuta triste … diviene inaccessibile. Eppure stiamo insieme a lei come al solito, magari ancora più di frequente, e siamo nei suoi confronti ancor più gentili; anche lei non cambia nulla nel suo comportamento verso le cose e verso di noi. Tutto è come sempre, eppure diverso, e non soltanto sotto questo o quel punto di vista, bensì, ferma restando l’identità di ciò che facciamo e per cui ci adoperiamo, il come stiamo insieme è diverso. Ma ciò non è un fenomeno provocato dallo stato d’animo della tristezza che è presente in lei, bensì è parte del suo esser-triste. (CFM, 90)
Il modo d’essere della tristezza che si esprime nell’inaccessibilità tocca nel profondo l’essere-assieme, senza che con questo lo stato d’animo della persona triste diventi necessariamente anche il nostro. Che cosa muta? Abbiamo subito l’effetto della tristezza dell’altro, il quale ha prodotto intorno a sé la tristezza, un’esperienza psichica vissuta, e poi l’ha trasmessa agli altri contagiando l’ambiente come un’infezione che trasmette i germi da un organismo all’altro? No, dice Heidegger, perché io non muto in ciò che sono, ma nel mio esser-disposto.
Lo stato d’animo non è dentro qualche anima dell’altro e tantomeno lì accanto alla nostra, tanto che dobbiamo piuttosto dire e diciamo: questo stato d’animo si posa su tutto, non è affatto “dentro” un’interiorità, per apparire soltanto nello sguardo degli occhi, ma proprio per questo è altrettanto poco al di fuori. Dove e com’è allora? Questo stato d’animo, la tristezza, è qualcosa in riferimento al quale possiamo domandarci dov’è e com’è? Lo stato d’animo non è un ente che si presenta nell’anima come esperienza vissuta, bensì è il modo del nostro esser-ci assieme. (CFM, 90)
Se questo è vero, allora gli stati d’animo toccano profondamente l’esser-ci perché sono le maniere fondamentali nelle quali ci troviamo-situati in un modo oppure nell’altro. Questo anche e soprattutto quando prendiamo l’essere-situati in un modo oppure nell’altro come qualcosa di indifferente nei confronti di ciò che abbiamo in mente o di ciò di cui ci stiamo occupando, oppure come una conseguenza di ciò che stiamo pensando o facendo. Ne è, invece, il presupposto, il medium in cui il pensare e l’agire accadono.
Proprio quegli stati d’animo che non notiamo e tantomeno osserviamo, quegli stati d’animo che ci dispongono in modo tale per cui ci sembra che non ci sia stato d’animo alcuno, e che noi non siamo da essi determinati, proprio questi sono i più potenti. … l’esser-ci in quanto esser-ci è già da sempre radicalmente determinato. (CFM, 92)
Negli stati d’animo ci troviamo già da sempre, in essi incontriamo noi stessi in quanto esser-ci. Filosofare come destare lo stato d’animo fondamentale non può allora significare portarlo alla coscienza, farlo emergere da un supposto inconscio e rendercene consapevoli, ma è un lasciar-essere l’esser-ci così com’è, senza pre-giudicarlo in occupazioni o negozi: una difficile, fondamentale decisione di abbandono (Gelassenheit), l’esatto contrario dell’inerzia, che è il consegnarsi all’effettività dell’ente.
Non possiamo dilungarci oltre sullo stato d’animo fondamentale della filosofia: ciò che abbiamo detto, tuttavia, ci permette di comprendere perché tali stati d’animo si articolino nell’angoscia, che ci pone nel nulla, nel nostro proprio esser-ci, e nella noia, che ci dispone davanti al tutto, alla totalità, al mondo, senza che tali stati d’animo abbiano nulla a che vedere con il loro senso comune.
Non possiamo constatare quella noia profonda nell’esser-ci dell’uomo di oggi, possiamo soltanto domandarci se l’uomo di oggi, proprio in tutte le sue odierne forme di umanità e per mezzo loro, non tenga a freno quella noia profonda, vale a dire se non si nasconda il suo esser-ci in quanto tale, nonostante tutta la psicologia e la psicoanalisi, anzi, proprio per mezzo della psicologia, che oggi si spaccia persino per psicologia del profondo. Possiamo comprendere quella noia profonda, e procurarle spazio soltanto all’interno di tale interrogarci. Ma, interrogarci intorno a questo stato d’animo fondamentale, non significa continuare a legittimare e praticare gli odierni modi di esser-uomo dell’uomo, bensì significa liberare nell’uomo l’esser-uomo, liberare l’esser-uomo dell’uomo, cioè l’essenza dell’uomo, far sì che l’esser-ci in lui divenga essenziale. Questa liberazione dell’esser-ci nell’uomo non significa porlo alla mercé di un arbitrio, bensì significa caricare l’uomo dell’esser-ci come del peso da portare che gli è più proprio. Solo chi sa veramente dare a se stesso un peso da portare, è libero. Interrogarsi intorno a questo stato d’animo fondamentale significa: interrogarsi intorno a ciò che lo stato d’animo fondamentale in quanto tale pone in questione. Solamente in tale interrogare possiamo portarci al punto in cui si decide se riusciremo a trovare il coraggio per ciò che questo stato d’animo fondamentale ci dà a conoscere. Dunque dobbiamo interrogarci davvero su ciò che pone in questione, informarci su quanto, in questo stato d’animo fondamentale, ci opprime e forse al tempo stesso svanisce come possibilità decisiva normale. Questo dobbiamo comprendere: far sì che divenga parola ciò su cui l’esser-ci, in questo stato d’animo fondamentale, vuole esprimersi, quella parola con la quale non facciamo chiacchiere, la parola che ci chiama ad agire e a essere. Dobbiamo comprendere questa parola, cioè progettare la verità dello stato d’animo fondamentale su questo contenuto essenziale. (CFM, 220)
Fatticità del Mondo ed effettività dell’Esserci
L’analitica esistenziale porta allo scoperto due modi d’essere: la fatticità propria dell’ente intramondano e l’effettività propria dell’esserci. L’effettività dell’esserci è definita dal concetto di gettatezza: l’Esserci è già sempre come aprente e, in questo senso, come originario illuminarsi della verità. La cosa intramondana, invece, ricade entro la sfera della verità (apertura) come inserimento in un ambito di significatività. Ciò vuol dire che le cose non sono mai aprenti, ma sempre solo aperte. Il loro rimandare, che le costituisce nell’ambito della significatività, è sempre e solo un segno di un ordine storico che esse non fondano, ma dal quale sono fondate. Le cose, quindi, sembrano costrette a una funzione di puro segno di un ordine che le costituisce, ma che esse non costituiscono.
Il problema dell’opera d’arte nasce proprio dal venire alla luce di un particolare ente intramondano, irriducibile alla funzione di segno, non risolvibile nella mera significatività, che poi altro non è che la strumentalità evidenziata in quanto tale. Questo ente intramondano è proprio l’opera d’arte, per definire la quale, come vedremo, Heidegger comincerà proprio con il cercare di definire la cosa, dal momento che l’opera si presenta genericamente come cosa. La cosa-strumento, però, si rivelerà del tutto inadeguata a fornire un paradigma dell’opera d’arte, mentre sarà questa a mettere in luce la cosa stessa nel suo essere.