Il problema dell’essenza dell’arte
Premessa
Il saggio sull’origine dell’opera d’arte si compone di tre parti (Cosa e Opera – Opera e Verità – Verità e Arte) oltre a una parte introduttiva senza titolo e a una conclusione. Nel 1961 Heidegger introduce un’aggiunta molto importante, perché viene a riprendere e a chiarire alcuni punti del saggio stesso. Noi cominceremo la lettura del saggio considerando assieme la parte introduttiva e quella conclusiva. Il commento sarà per quanto possibile analitico e mirerà non solo a esplicitare il testo heideggeriano, spesso molto difficile, quasi oscuro, ma anche a far emergere, da un lato, la struttura argomentativa, sempre molto rigorosa, del saggio e, dall’altro, riferimenti a tematiche filosofiche generali, di Heidegger stesso o della tradizione filosofica in senso lato, oltre che a considerazioni estetiche in senso stretto.
L’interpretazione filosofica
In un illuminante brano delle sue lezioni su Schelling, del semestre estivo del 1936 (stesso anno, quindi, del saggio sull’opera d’arte) Heidegger sottolinea come la forza necessaria per l’interpretazione di un testo filosofico dipenda dal nostro esser-ci. In questo brano vi è una concezione dell’opera filosofica che, mutatis mutandis, potrebbe benissimo valere per l’opera d’arte.
… una interpretazione filosofica … dipende dalla forza dell’esserci di ciascuno di noi e dal suo diritto, ma ancor più dipende da presupposti che noi dobbiamo anzitutto preoccuparci di assicurare. …Ogni opera filosofica, se è davvero un’opera filosofica, spinge la filosofia al di là della posizione che nell’opera è conquistata; il senso di un’opera filosofica consiste appunto nell’aprire un nuovo ambito, nel porre nuovi inizi e nel dare nuovi impulsi, per i quali le vie e i mezzi propri dell’opera si dimostrano superati e insufficienti. I presupposti e le condizioni della genesi di un’opera filosofica non sono sufficienti per principio alla sua interpretazione, perché l’opera stessa stabilisce nuovi criteri per l’interrogazione. E poiché ogni spiegazione ricorre sempre e soltanto a ciò che è già disponibile e ben noto, non soltanto l’elemento creativo e propriamente storico rimane inaccessibile alla spiegazione storiografica, ma – il che è più funesto – il dominio creativo della spiegazione storiografica suscita l’apparenza che l’elemento creativo non esista affatto e che esso sia solo un’immaginazione romantica. Quando tuttavia si vuol salvare ciò che nella storia resta inspiegabile nella sua risoluzione in ciò che è spiegabile, si ricorre per lo più a discorsi edificanti e infervorati, anziché risalire alle condizioni di un vero sapere. (M. Heidegger, Schelling, Guida, Napoli, 1994, p. 44)
Entrare in un’opera filosofica significa cogliere ciò che la porta al di là di se stessa, disporsi non nel mondo che l’ha prodotta, che rimane, in ultima analisi, accidentale ed esteriore rispetto all’essenziale dell’opera stessa, ma nel mondo che l’opera ha aperto e al quale essa stessa appartiene.
L’enigma dell’arte
La meditazione heideggeriana è una meditazione sull’arte, anzi sull’enigma, sul mistero dell’arte, sull’essenza stessa dell’arte, ma, in quanto meditazione essenziale, per tutto ciò che abbiamo detto negli articoli precedenti sulla differenza fra “pensare filosoficamente qualcosa” e “trattare qualcosa”, il saggio non scioglie l’enigma, non dà risposte, non dice cos’è, come deve essere o come si fa o, peggio, si consuma arte. Ciononostante noi, al termine della lettura del saggio, dovremmo riuscire a vedere l’essenza dell’arte, pur senza risolverne l’enigma: sciogliere il mistero, infatti, vuol dire spiegarlo, analizzarlo, renderne conto, rappresentarlo in proposizioni e giudizi logicamente fondati. Questo è ciò che Heidegger non ha fatto e non vuole fare nel suo saggio. Non perché esso sia composto di sensazioni, impressioni soggettive, senza rigore. Anzi la sua struttura logica, come vedremo, è alquanto rigorosa, solo che non sta in essa l’essenza di ciò che il filosofo intende dire. Non sciogliere, ma vedere.
Il vedere a cui Heidegger si rifà è il vedere fenomenologico, quel vedere, cioè, che ha come presupposto teorico la “visibilità dell’essenza”. Non è certo mia intenzione toccare un argomento così difficile e controverso come il concetto di fenomenologia: diciamo solo che la fenomenologia, anziché esplicativa, ambisce a essere descrittiva. Non una descrizione empirica degli oggetti, nella fattispecie delle opere d’arte, ma una descrizione che deriva dall’acquisizione di un campo cosale e di una prospettiva concreta, quindi dell’ambito stesso di apparizione della cosa da descrivere. Non le cose che sono, nella loro indifferenza al proprio stesso essere, ma l’essere delle cose, l’ambito in cui e per cui sono propriamente tali. Il saggio sull’opera d’arte vuol portarci a vedere che cos’è l’arte nella sua essenza, il campo cosale dell’arte, l’ambito in cui l’arte si colloca, e la prospettiva concreta, la co-appartenenza dell’arte e dell’esser-ci.
La riduzione estetica dell’arte
Tutto ciò che riguarda l’arte tocca un campo che tradizionalmente è stato trattato dall’estetica. Ma l’estetica è una trattazione specifica dell’arte e degli artisti e lo è nel senso che assume l’opera d’arte come un oggetto ben determinato, precisamente come l’oggetto dell’aísthesis o percezione, apprensione sensibile, modalità che si è trasformata in Erlebnis o esperienza vissuta. L’arte, quindi, come oggetto di aísthesis e di Erlebnis. Quest’ultimo termine, del quale si è servito in particolare Dilthey assumendolo come strumento fondamentale della comprensione storica e in generale della comprensione interumana, designa ogni atteggiamento o espressione della coscienza soggettiva nel suo rapporto con un oggetto. Per quel che riguarda la percezione o apprensione sensibile, poi, da sempre la tradizione filosofica la considera come ciò che vi è di più soggettivo se non addirittura fallace. L’estetica, dunque, opera una duplice riduzione dell’arte: innanzitutto la riduce a oggetto di studio, poi la confina nel soggettivo, nell’arbitrario o, comunque, in un territorio in cui non ha rapporto alcuno con la verità. In poche e sintetiche parole, l’estetica riduce l’arte a un fatto puramente umano.
[Per le sigle usate nelle indicazioni bibliografiche, vedi il primo articolo]
Il modo in cui l’uomo esperisce l’arte ne decide l’essenza. L’esperienza vissuta è fatta valere come criterio originario non solo del godimento artistico (la fruizione), ma della stessa produzione (creazione) dell’opera. Tutto è esperienza vissuta. Ma, forse, l’esperienza vissuta è l’elemento in cui l’arte sta morendo. Questo morire procede così lentamente che ha bisogno di alcuni secoli. (OPA, 62-63)
Morte dell’arte
Heidegger introduce qui, in connessione alla considerazione dell’arte come esperienza vissuta, il fondamentale concetto di morte dell’arte, tema posto già nell’Estetica di Hegel, dove assume un significato centrale nella dialettica dello Spirito assoluto. Ancora una volta dobbiamo limitarci a pochi cenni, anche se l’argomento meriterebbe ben più ampia trattazione.
Per Heidegger, l’arte muore di esperienza vissuta (l’arte, ridotta ad affare umano, a fatto soggettivo si allontana dalla sua essenza, si nasconde) e questo anche o, addirittura, soprattutto, quando si parla di opere immortali o di valore eterno dell’arte. In questo “parlare” non si pensa, ci si mantiene nell’inessenziale, perché questi giudizi sono diventati dei modi di dire, chiacchiera in assenza della cosa stessa, cioè dell’arte. L’arte, affidata all’esperienza estetica, disperde in tale ambito ogni suo significato di verità, indipendentemente dal fatto che si continui a fare arte, anche grande arte. L’arte come esperienza vissuta è la morte stessa dell’incontro con l’arte. Heidegger cita un brano dall’Estetica di Hegel, dove l’arte è definita come qualcosa che è per noi passato.
È ben nota la triade dello Spirito Assoluto in Hegel, triade in cui l’arte occupa il primo posto, quello della tesi, e in cui antitesi è la religione e sintesi la filosofia. Conosciamo anche la classica definizione che Hegel dà dell’arte come manifestazione sensibile dell’idea. Quell’idea che la religione rivela nella forma del sentimento e la filosofia nella forma del concetto, l’arte la rivela nella forma sensibile. Come tale le è necessaria la materia, questa è la sua specificità, ma anche il suo limite, perché la forma sensibile non può essere la rivelazione adeguata e compiuta dell’Assoluto: attraverso le sue tre forme, simbolica, classica e romantica, l’arte realizza il suo ideale, cioè l’unità dello spirito e della natura. L’arte simbolica ricerca tale unità, l’arte classica l’ha raggiunta, ma l’arte romantica l’ha superata. L’arte, legata all’intuizione sensibile, non è la manifestazione più alta dell’Idea, che nella sua essenza propria, può essere più adeguatamente rivelata nella religione e soprattutto nell’attività razionale della filosofia. Nella nostra epoca, secondo Hegel, l’arte, che pur continua, non vede più riconosciuto il valore supremo di manifestazione della verità, essendo ormai tale manifestazione affare della filosofia.
Arte e verità
Che i tempi moderni non siano tempi favorevoli all’arte, lo dicono sia Heidegger che Hegel, ma diverso è naturalmente il senso di questa affermazione. Per Heidegger, infatti, l’arte non è certo superata nella filosofia o, se lo è, questo è l’esito di una scelta metafisica che risale alle origini del pensiero occidentale. In questo senso la domanda sull'”attualità” dell’arte, che è la domanda sul valore di verità dell’arte, perché anche per Hegel l’arte ha a che fare con la verità, è ancora valida, anzi lo è più che mai.
L’arte è ancor oggi una maniera essenziale e necessaria in cui si storicizza la verità decisiva per il nostro Esserci storico, o non lo è più? E se non lo è più resta sempre da chiedere perché non lo sia più. L’ultima parola intorno a questa affermazione di Hegel non è ancora stata detta; dietro di essa, infatti, c’è tutto il pensiero occidentale a partire dai Greci, pensiero che corrisponde a una verità dell’ente già storicizzatasi. … Proprio per questo è necessario chiederci se la verità che l’affermazione enuncia sia definitiva, e che cosa ne venga, se è tale. (OPA, 63-64)
Dietro l’affermazione di Hegel sulla morte dell’arte gioca un concetto di verità che è quello proprio della metafisica, di verità come rappresentazione e come conformità di pensiero ed essere. Sarà dunque il ripensamento di questo concetto di verità, che poi è il ripensamento del problema dell’essere, il ripercorrere la tradizione del pensiero metafisico, il modo giusto di rispondere a quella domanda.
La domanda sulla morte dell’arte è la domanda sul rapporto dell’arte con la verità. Se tale rapporto si è rotto, ciò che dobbiamo fare non è ricucirlo o ritrovarlo mettendoci all’opera con buona volontà o buona disposizione d’animo, infervorati e animati da buone intenzioni. L’uomo, per Heidegger, non ha il potere di attribuire all’arte alcun valore di verità, perché, in realtà, non dispone né della verità, né dell’arte. La domanda sull’arte non trova risposte nell’ambito del soggetto umano: essa solo impegna l’uomo in un altro interrogare, l’interrogare filosofico, quell’interrogare che chiede dell’essere dell’ente.
Queste domande, … , possono venir poste solo sul fondamento di una considerazione dell’essenza dell’arte. Ponendo il problema dell’origine dell’opera d’arte, ci siamo proposti di fare qualche passo innanzi su questa via. L’essenziale è di porre in luce il carattere di opera dell’opera. Il significato attribuito qui al termine “origine”, è pensato in base all’essenza della verità. (OPA, 64)
Prima di procedere nella lettura della conclusione, è necessario che ci rivolgiamo ora alla parte introduttiva del saggio, dove la ricerca dell’essenza dell’arte e il problema della sua origine vengono preliminarmente impostati. Faremo una lettura analitica per poter seguire in tutta la loro ricchezza le argomentazioni di Heidegger:
Essenza dell’opera d’arte
Il primo capoverso ci dice che cos’è origine, che cos’è essenza, qual è il nesso fra origine ed essenza e, a partire da tale impostazione fortemente filosofica e non estetica, ci si trova subito in contrapposizione alla comune opinione: tale contrapposizione mette in evidenza la circolarità del problema.
Il problema dell’origine dell’opera d’arte non riguarda l’origine fattuale, empirica dell’opera stessa, non è risolto se analizziamo la vita e la psicologia dell’artista, il suo ambiente sociale, culturale ed economico, i mezzi e le tecniche espressive di cui si è servito né se cerchiamo a cosa serva, quale sia la sua funzione (didascalica, di puro piacere estetico, ecc.), insomma, tutto ciò che precede o segue l’opera d’arte, la sua causa materiale ed efficiente o la sua causa finale, per esprimerci con una terminologia aristotelica, il suo mondo, il mondo dal quale deriva e del quale è prodotto o gli effetti che essa stessa produce. Il problema dell’origine non è risolto perché tali risposte non riguardano l’opera d’arte nella sua essenza, ma l’opera d’arte come cosa fra le altre, come prodotto fra altri prodotti, manufatto fra altri manufatti.
Origine è “ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è ed è com’è.” (OPA, 3). Ciò che una cosa è: è ciò che propriamente appartiene a quella cosa, la sua realitas o natura, il che cos’è di una cosa. Il come una cosa è riguarda il modo in cui quella determinata cosa è. Il was e il wie, il che cos’è e il come, è ciò che Heidegger chiama l’essenza, la quale, pertanto è la considerazione dell’ente nel suo essere, di qualcosa nel modo in cui tale qualcosa è. Il problema dell’essenza, dunque, non è mai semplicemente il problema del che cosa qualcosa è, ma è sempre anche il problema del come qualcosa è; non è mai puramente il problema dell’ente, ma è sempre il problema dell’ente nel suo essere (Heidegger usa il termine Wesen per indicare essenza e tale termine in lui ha sempre un significato participiale nel senso etimologico del termine, cioè nominale e verbale assieme).
Bene, l’origine dell’opera d’arte riguarda l’essenza, così intesa, dell’opera d’arte e precisamente si chiede ciò da cui e per cui l’essenza dell’arte è, si chiede, cioè, la provenienza dell’essenza dell’arte. Questo è un punto molto importante, che è necessario capire bene per non fraintendere il saggio.
La provenienza dell’opera d’arte
Fraintenderemmo l’origine come provenienza se la pensassimo nel senso del nesso causale, di cui la successione temporale è un aspetto, dal momento che ciò ci porterebbe a cercare il fondamento dell’arte, il suo perché. Ma l’interrogazione di Heidegger è ontologica, filosofica e, come tale, più che radicale: ogni domandare causalistico (chi ha prodotto l’opera, da quale mondo proviene, ecc.), per il filosofo tedesco, rimane entro l’ambito dell’ente e ciò a cui risale, come fondamento o causa, è sempre un ente, magari più perfetto dell’ente di cui è causa, magari l’ente perfettissimo stesso, ma pur sempre un ente. L’origine di qualcosa, in quanto provenienza dell’essenza di questo qualcosa, non è mai a sua volta qualcosa.
L’origine dell’opera d’arte, allora, non va intesa come la ricerca di qualcosa da cui l’opera trae origine, ma come ricerca della provenienza della sua essenza, cioè del “senso” del venire alla presenza dell’opera d’arte o, conoscendo il senso heideggeriano di verità come alétheia (s-velamento, non-nascondimento), concerne la verità dell’opera d’arte. Il problema dell’origine dell’opera d’arte è il problema della verità dell’opera d’arte. Se così è, allora, leggendo la frase successiva, ci accorgiamo subito come il comune modo di vedere sia lontano dall’interrogazione filosofica e, nel suo domandare, si trovi invischiato in un circolo che subito appare vizioso o senza vie d’uscita. L’opera nasce dall’attività dell’artista, ma l’artista è tale in virtù della sua opera, entrambi, poi, sono ciò che sono grazie a una terza cosa, l’arte. Non ci sono dubbi che l’opera d’arte sia fatta dall’artista, come un paio di scarpe è fatto da un calzolaio o un tavolo da un falegname. Non ci sono dubbi, allora, l’origine dell’opera d’arte è l’artista. O almeno così sembra.
Reciproca implicazione di opera e artista
Ma perché Tizio è un falegname? Perché costruisce tavoli e sedie; perché Mozart è un musicista? Perché ha composto opere musicali; perché Rembrandt è un pittore? Perché ha dipinto quadri e tele. Opera e artista si implicano a vicenda: ognuno è ciò che è in forza dell’altro, nessuno, né l’opera né l’artista, ha in sé il proprio fondamento. Tale fondamento, dunque, deve essere qualcos’altro, al quale entrambi possano essere ricondotti. Questo qualcos’altro è l’arte, il comune fondamento di opera e artista. Quest’opera d’arte è stata composta da questo artista, questo artista è tale perché ha composto quest’opera d’arte, ma entrambi sono ciò che sono perché fondano l’una la propria cosalità, l’altro la propria attività nell’arte. Il quadro, allora, è una cosa a cui appartiene, come determinazione, l’arte, l’artista è un uomo che si caratterizza e si specifica rispetto agli altri uomini perché la sua attività consiste nel fare arte.
Sembra che abbiamo risolto il nostro problema e che abbiamo trovato non solo l’origine dell’opera d’arte, ma anche dell’artista. Ora basta dire che cos’è arte e siamo a posto. Ma c’è un problema. L’opera d’arte io la vedo, la tocco, l’ammiro, l’artista pure è qualcosa di ben determinato. Ma l’arte, dov’è?
Il luogo dell’arte
Se deve essere l’origine sia dell’opera che dell’artista, l’arte deve pur stare da qualche parte. La domanda che concerne l’origine come provenienza di qualcosa da qualcos’altro non può esimersi dal cercare questo qualcosa in qualche dove o in qualche quando, qualsiasi sia lo statuto ontologico di questo qualcosa. Dov’è l’arte, quel qualcosa ben determinato in forza del quale l’artista e l’opera d’arte sono ciò che sono?
Potrei dire che l’arte c’è ma non si vede in quanto tale, ma solo in quella cosa che è l’opera d’arte e in quel fare che è l’attività dell’artista. Se è così, allora l’arte si riduce a un puro concetto, a una rappresentazione unitaria di due insiemi reali, le opere d’arte e gli artisti. Pura astrazione. Io cerco qualcosa che possa riconoscere come arte, arte in sé, arte in quanto tale, ma non la trovo se non in quanto opera (cosa prodotta che fra le altre determinazioni ha anche, preminente, un valore artistico) o in quanto creazione (attività produttiva che si caratterizza come capacità di produrre opere d’arte).
L’origine dell’opera d’arte, la provenienza della sua essenza, il suo essere, la trovo sempre reificata in qualcosa. Se l’arte non è un vuoto concetto, ma qualcosa di concreto seppur invisibile in sé, io posso risalire a essa a partire dall’esame dei prodotti dell’arte (le opere, ma, volendolo, anche dallo studio dei produttori di arte, gli artisti e, finanche, dei consumatori d’arte, i fruitori, gli esteti). L’arte, infatti, si trova nell’opera d’arte. Basta saperla vedere o saperla fare per poter dire che cos’è davvero un’opera d’arte.
Ci accorgiamo, a questo punto, che non procediamo: siamo partiti dall’opera d’arte (e dall’artista), abbiamo stabilito nell’arte il fondamento comune di entrambi, e ora, per sapere che cos’è l’arte ci troviamo riportati all’opera d’arte, quindi al punto di partenza. È un vero e proprio circolo vizioso, quel circolo che, a ragione, l’intelletto comune teme e chiede di evitare se vogliamo andare avanti. E in effetti le cose stanno proprio così. La domanda sull’origine in quanto provenienza dell’essenza è una domanda filosofica e, in quanto tale, pone in un circolo. Già sappiamo perché: essa è una domanda totalizzante che, afferrando l’interrogato, afferra assieme l’interrogante stesso. Ogni movimento verso l’interrogato coinvolge l’interrogante stesso che si sposta assieme, l’orizzonte avanza con l’avanzare della domanda.
Ma procedere nel circolo con lo sguardo volto in avanti significa percorrere la circonferenza e quindi ritrovarsi al punto di partenza (fuor di metafora, significa filosofare con l’intelletto comune): è un’attività frustrante e inconcludente. Questo sia che il circolo lo percorriamo in un senso come nell’altro: se noi partiamo da un’analisi comparativa delle opere d’arte empiriche (ma come facciamo a scegliere fra tutte le cose quelle cose che sono opere d’arte se non sappiamo ancora cos’è arte?) come se partiamo dal concetto generale di arte (ma già dobbiamo possedere le determinazioni costitutive dell’arte per poterne avere il concetto) sempre giriamo in tondo.
Il circolo ermeneutico
Se non cediamo alla tentazione di fare un bel salto fuori dal circolo, lasciando le domande fondamentali (le cause prime o ultime) per dedicarci all’esame dei fatti nella loro empiricità (le cause seconde) o non ci culliamo nell’illusione di rispondere alle domande fondamentali con certezze e metodologie scientifiche, forse possiamo trovare un altro modo, quello giusto, festivo di stare e muoverci nel circolo. Stare e non uscire, per l’uno ci vuole forza, la forza del pensiero, per l’altro si ottiene una ricompensa. Stare nel circolo è guardare al centro, non allontanarsi dall’origine per consegnarsi all’originato. La forza del pensiero è la forza centripeta che contrasta la forza centrifuga che spinge a uscire per la tangente dal circolo e a incamminarsi lungo la retta via del senso comune. La festa del pensiero sta nel non allontanarsi dalla sua origine.
Noi domandiamo l’origine dell’opera d’arte, la domanda apre un circolo dove opera e artista si rincorrono fra loro lungo un’orbita che ruota attorno a un centro comune, l’arte: l’origine di entrambi. Ma se cerchiamo di raggiungere tale origine, ci ritroviamo sempre fra le mani un’illusione. Come procedere dall’opera all’arte? Qual è il cammino che porta dall’iniziato all’origine? C’è una strada che possiamo percorrere, un metodo di cui servirci, grazie al quale poter finalmente disporre di questa origine? O, forse, la via da percorrere è un sentiero interrotto? Uno di quei sentieri che partono al limitare del bosco e poi sempre più ricoperti di erba si confondono a un certo punto con il bosco stesso? Un interrompersi che è anche uno sviare e un errare per chi crede che si debba solo camminare. Un sentiero che non ci porta da nessuna parte, ma che ci colloca proprio dove già siamo.
L’opera d’arte in quanto tale
Forse non c’è nessuna strada che ci porta dall’opera d’arte all’arte, perché l’arte è già, in qualche modo, nell’opera, un modo che non è quello dell’inerire di qualcosa in qualcos’altro. L’arte è quindi un qualcosa che in realtà non è qualcosa, è, in altri termini, ni-ente: non guardare, quindi, l’opera d’arte per cercare nascosta in essa l’arte, ma guardare l’opera d’arte in quanto tale, così com’è. Non andare, allora, dall’opera d’arte all’arte, ma incamminarsi verso l’arte, verso la sua essenza, il suo essere, nel lasciare che l’opera d’arte sia così com’è.
Allora interrogare l’opera d’arte è cosa ben diversa da prima: non si vuole più andare al di là di essa, oltre la sua presenza, la sua fisicità, il suo essere proprio questa opera d’arte e non un’altra, per cercare l’arte, per disporre di un metro comune che mi permetta di misurare tutte le altre opere che potrò in seguito incontrare con la certezza di non sbagliare e poter dire “ah! questa è arte”. Si vuole proprio permanere nell’opera d’arte. Nell’opera d’arte così com’è, in questa opera d’arte, io cerco l’essenza dell’arte. Interrogo quest’opera d’arte concreta sulla sua origine e nel far questo non mi allontano da essa ma la interrogo proprio così com’è.
Se non pregiudichiamo il nostro interrogare con rappresentazioni generali dell’essenza dell’arte, partendo cioè da un ben determinato concetto di arte, ma volgendoci alle opere d’arte come innanzitutto e per lo più ci si danno a conoscere, cioè alle opere d’arte così come noi tutti le conosciamo, le vediamo, le indichiamo: edifici e monumenti nelle piazze, quadri e sculture nei musei, ecc., non ci sono dubbi che tutte queste opere d’arte sono delle cose presenti nel mondo, allo stesso modo di tutte le altre cose che opere d’arte non sono.
La cosalità dell’opera d’arte
L’opera d’arte, al di fuori di ogni intenzione estetica, innanzitutto e per lo più è una cosa.
Il quadro pende dalla parete allo stesso modo di un fucile da caccia o di un cappello. Un quadro, ad esempio quello di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da un’esposizione all’altra. Le opere sono spedite come il carbone della Ruhr e il legname della Selva Nera. Durante la guerra gli inni di Hölderlin erano impacchettati negli zaini accanto agli oggetti da pulizia. I quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina. Tutte le opere hanno questo carattere di cosa (dinghhaft) (OPA, 5)
Che l’opera d’arte sia una cosa è un dato di fatto incontrovertibile, che ciò, tuttavia, tocchi l’essenziale dell’opera d’arte non è altrettanto scontato. Anzi, forse l’opera d’arte appare come cosa solo a chi non si pone davanti a essa secondo l’atteggiamento estetico, solo per chi con l’opera d’arte intrattiene rapporti diversi da quelli del godimento e dell’immedesimazione. L’opera d’arte si impone come cosa. Tuttavia questo vale solo per chi non sa andare al di là di questo carattere primario così grossolano. Chi si immedesima esteticamente nell’opera d’arte sa cogliere anche qualcosa di più. Anche per il fruitore estetico l’opera è una cosa, ma è una cosa dotata di valore artistico.
Allora è questa qualità misteriosa, l’artistico, che rende il quadro non una semplice cosa, com’è per il facchino che lo deve trasportare da una stanza a un’altra, ma una cosa artistica, per chi sa cogliere tale qualità. E l’artistico è un carattere così misterioso che non solo differenzia un quadro da un qualunque altro oggetto non dotato di tale qualità, ma lo differenzia anche da un altro quadro, semplice crosta, o dalla riproduzione fotografica dello stesso quadro.
… l’opera è qualcos’altro, al di sopra e al di là della cosalità? Quest’altro è ciò che costituisce l’artistico. L’opera d’arte è, sì, una cosa fabbricata, ma dice anche qualcos’altro oltre la pura cosa: allogoreúei. L’opera d’arte rende noto qualcos’altro, rivela qualcos’altro: è allegoria. Alla cosa fabbricata l’opera d’arte riunisce anche qualcos’altro. Riunire si dice in greco symbállein. L’opera d’arte è simbolo. Allegoria e simbolo costituiscono il campo entro cui si muove, già da tempo, la caratterizzazione dell’opera d’arte. Ma questo qualcosa che manifesta nell’opera qualcos’altro, che si riunisce a qualcos’altro, è proprio la cosalità dell’opera d’arte. (OPA, 5-6)
Prima di tutto, comunque, l’opera è cosa, e questo vale anche per l’esteta. La cosalità come base per l’artisticità. Tuttavia, cosa sarebbe l’artisticità senza la cosalità? Qualcosa di puramente spirituale o di puramente mentale già definito, che attende di materializzarsi per poter apparire, per cui la cosa sarebbe veramente solo un supporto, un rivelatore e niente più di qualcosa che sussiste altrimenti? La crociana estrinsecazione tecnica di un’intuizione artistica già tutta compiuta prima? Come considerare, allora, il fare dell’artista, che è tutto esaurito nel “fabbricare”, nel produrre la cosa che solo in seguito a tale operare diventa cosa artistica?
Comunque la mettiamo, la cosalità dell’opera d’arte non può essere ridotta a qualcosa di indifferente all’opera stessa. Solo chiarendo la cosalità dell’opera d’arte sembra che si possa incontrare la realtà immediata e piena dell’opera d’arte. Tale compito, però, si spinge a una domanda più radicale, una domanda che, in un altro contesto, avevamo già incontrato: che cos’è una cosa? Questa è la domanda fondamentale, perché non dalla risposta a questa domanda (come già sappiamo le risposte alle domande fondamentali sono altre domande) ma dal nostro disporci davanti a essa possiamo giungere alla verità dell’opera, possiamo cioè vedere se l’opera d’arte è una cosa artistica o è tutt’altro che cosa, se è a partire dalla cosa che possiamo incontrare l’opera d’arte o se l’incontro con l’opera d’arte è l’incontro che ci apre la verità delle cose stesse.
La verità delle cose; la verità dell’opera d’arte. Verità è una parola che ricorre spesso in questo saggio, come in tutti gli altri scritti di Heidegger e il senso che tale parola ha non è certo quello comune.
La verità di cui qui si discorre non fa tutt’uno con ciò che è comunemente inteso con questo termine, cioè con ciò che è attribuito al conoscere e alla scienza come loro proprietà, in contrapposizione al bello e al buono, intesi come i valori propri del comportamento non teoretico. (OPA, 64)
Nell’ultimo capoverso della conclusione, straordinario per sintesi e pregnanza filosofica, Heidegger parla della verità, della sua connessione con la bellezza e lo fa inquadrando storicamente il problema in una fulminea quanto incisiva storia della metafisica in sette righe. Verità è alétheia, s-velamento dell’ente nel suo essere, venire alla presenza dell’ente in quanto tale. Se la verità è questo uscire dal nascondimento, questo apparire, questo fenomeno nel senso fenomenologico del termine, allora la bellezza non è un qualcosa che si aggiunga senza necessità alla verità.
Verità e bellezza
La bellezza è l’apparire stesso, la bellezza è la verità stessa. Se la tradizione filosofica ha quasi sempre accompagnato bellezza a piacere, Heidegger lega invece verità a bellezza e il legame, che è, in realtà, identità, è nel porsi in opera della verità, nel suo istituirsi come qualcosa, nel suo “assumere” una forma. Il farsi opera della verità è evento della verità, il suo apparire, la bellezza. La bellezza che è la verità stessa dell’apparire è tutta in questo apparire, nella forma che l’essere illumina.
Il bello riposa, sì, nella forma (Form), ma solo perché la forma prese luce dall’essere come “entità” dell’ente. L’essere si attua allora come eídos. L’idéa si ordina nella morphé. Il synolon, il tutto unitario di morphé e hyle, cioè l’érgon, è (ist) nel modo della enérgheia. Questo modo dell’esser-presente diviene l’actualitas dell’ens actu. L’attualità diviene realtà (Wirklichkeit). La realtà diviene oggettività (Gegenständlichkeit). L’oggettività diviene esperienza vissuta (Erlebnis). (OPA, 64)
Non è necessario che ripercorriamo le tappe del pensiero occidentale che Heidegger ha qui icasticamente citato e che si possono trovare in molti altri suoi saggi considerate con maggior ampiezza (dalle pagine di Introduzione alla metafisica a quasi tutta l’opera dedicata a Nietzsche).
La tradizione metafisica
L’epoca metafisica, iniziatasi con la massima rivelazione dell’essere nella physis, si conclude con il massimo occultamento della physis a opera del soggettivismo moderno, che ha raggiunto il proprio apice nel volontarismo di Nietzsche. Heidegger ricostruisce la storia della metafisica a partire da Platone che per primo ha posto la verità, l’alétheia, cioè il manifestarsi dell’essere, sotto il giogo dell’idea, dando avvio a quell’oblio dell’essere che è la prima radice del nichilismo dell’Occidente. La dimenticanza dell’essere ha determinato la dominazione dell’ente. L’ente è grazie all’essere, ma là dove l’essere è obliato si rende necessaria la ricerca di un ente superiore in grado di garantire la dominazione dell’ente sul nulla. È Dio, come causa e garante dell’essere della totalità degli enti, il mondo.
L’introduzione del rapporto causale muta la prospettiva ontologica: l’essere non è più inteso come l’incondizionato accadere degli enti, ma come il fondamento necessario. La metafisica aristotelica non muta il carattere ontico della metafisica platonica: lo studio dell’ente in quanto ente è inteso come la determinazione dei caratteri generali dell’ente e come determinazione dell’ente supremo (nasce l’onto-teologia). L’alétheia diventa orthótes, esatta corrispondenza tra il vedere (ideín) e ciò che è visto (eídon). Da qui il passaggio all’adaequatio tomista è breve. La verità cessa di essere proprietà dell’essere (libero accadere degli enti) e diventa proprietà dell’uomo, come suo corretto rapportarsi all’ente.
Con l’età moderna, la centralità dell’uomo si fa conclamata. L’ente è tale solo se è oggetto, ossia se è posto di fronte a un soggetto, per il quale la verità consiste nel rappresentare correttamente l’oggetto. La verità abbandona anche il “realismo” dell’adaequatio e si consegna totalmente alla certezza, ossia all’assorbimento soggettivo dell’ente (Cartesio). Si apre l’epoca della riduzione del mondo a immagine soggettiva: l’immagine del mondo, infatti, è l’essenza dell’epoca moderna.
Ciò che conta, ai fini della comprensione del saggio sull’opera d’arte, è che la considerazione dell’arte come regno della bellezza, di quella bellezza che ha un suo territorio separato da quello della verità e del bene, è strettamente connessa a questa storia. La comprensione dell’ente (della cosa nel suo esser tale) che la tradizione ci ha consegnato ha fatto da guida alla comprensione dell’opera d’arte, così come il mutamento del senso originario della verità ha tolto verità alla bellezza e bellezza alla verità.