Cosa, opera e verità nell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger – 4

Opera e cosa

Premessa

Le tre parti del saggio arrivano, ognuna, a un ben determinato risultato. La prima, Cosa e opera, alla domanda “Che cos’è l’arte?” risponde che l’arte è la messa in opera della verità; la seconda, Opera e verità, definisce la messa in opera della verità come l’accadere del conflitto fra terra e mondo; infine, l’ultima parte, Verità e arte, conclude che il nesso fra la messa in opera della verità e il conflitto fra terra e mondo sta nella concezione dell’arte come creazione e poesia. Così elencati, si tratta di risultati che ci appaiono alquanto misteriosi, bisognosi di un chiarimento.

L’opera d’arte in quanto cosa

Il problema dell’origine dell’opera d’arte, inteso come il problema della provenienza dell’essenza o problema della verità dell’arte ci ha condotti al carattere di cosa come datità immediata dell’opera d’arte: prima di ogni altra considerazione, l’opera d’arte appare nella sua veste dimessa di cosa, nobilitata solo dal valore aggiunto della misteriosa qualità dell’artistico. In Opera e cosa Heidegger considera le tradizionali interpretazioni dell’ente o della cosa, che riduce a tre, ne mostra tutta l’insufficienza, perché tutte e tre sono, a suo dire, sopraffazioni dell’autentico essere della cosa.

Le tradizionali interpretazioni dell’ente

La prima (OPA, 8-11) afferma che la cosa è sostanza più accidenti. È l’interpretazione più classica e di più lunga tradizione, quella che accettiamo in modo quasi spontaneo e alla quale la stessa struttura della proposizione, formata da soggetto più predicati, sembra obbedire in modo naturale. In realtà, per Heidegger, si tratta della nozione più astratta, dal momento che riduce l’essere della cosa a un mero concetto di relazione fra un supposto e inaccessibile supporto e una congerie potenzialmente infinita di accidenti. In questa prima idea della cosa, la cosa stessa rimane troppo lontana, il suo essere appare irraggiungibile se non dal pensiero.

Un’altra famosa interpretazione (OPA, 11-12) è quella empirista, secondo la quale la cosa è un insieme di sensazioni. La cosa è ciò che percepiamo, non è più una categoria intellettuale (tale è infatti la sostanza) ma il darsi immediato nella sensazione di un oggetto esterno. È una reazione, un rovesciamento del precedente concetto. Se prima la cosa era troppo lontana, ora è troppo vicina. L’immediatezza della sensazione ci mette al riparo dall’astrazione della cosa come subjectum, ma l’immediatezza della sensazione appare, a un’attenta considerazione, altrettanto astratta del concetto di sostanza. Come si può veramente sostenere, senza il pregiudizio di una teoria della conoscenza empirico-sensistica,  che quando ho di fronte una mela ciò che percepisco non è la mela nella sua concretezza, la cosa stessa, cioè, ma il rosso della buccia, la rotondità della forma e così via, un insieme di dati sensoriali che solo a posteriori raggruppo in un oggetto? Faccio ancora un errore di prospettiva: prima perdevo la cosa perché la tenevo troppo lontana, la distoglievo dalla mia presenza sostituendola con un concetto, ora la porto troppo vicina, la oscuro e la disperdo nella congerie delle mie sensazioni.

Decisiva è la terza e ultima interpretazione presa in considerazione da Heidegger (OPA, 12-16), decisiva perché nasce da un pregiudizio fatale e proprio per questo non indifferente al nostro problema, oltre al fatto che proprio questa interpretazione sembra in grado di metterci a disposizione concetti e categorie che ben si attagliano all’opera d’arte. Inizia qui (e noi la seguiremo nel dettaglio) una formidabile analisi dell’essere della cosa che conduce alla famosa definizione dell’arte come messa in opera della verità. La cosa è sinolo di materia e forma, materia formata, materia (ὕλη, hyle) a cui necessariamente appartiene una forma (μορφή, morphé).

Analisi della cosa in quanto materia formata

Questa nozione ha le sue radici nella concezione dell’ente inaugurata da Platone, che guarda la cosa puntando al suo aspetto (εἴδος, eídos). Quando un ente viene distinto dagli altri enti secondo il suo aspetto, i confini e la struttura dell’ente vengono visti come limitazione esterna e interna. Ciò che delimita è la forma e ciò che è delimitato è la materia. Proviamo allora a ripartire da quella generica definizione di opera d’arte che avevamo dato nell’articolo precedente:

 COSA ARTISTICA
Materia formata

Secondo questa prospettiva, la cosalità dell’opera appartiene alla sua materialità (il contenuto), mentre l’artisticità è affare della forma.

Origine del plesso materia-forma

Dov’è che il plesso materia-forma trova la sua origine? Qual è il motore concettuale che lo genera, il carattere di cosa della cosa o il carattere di opera dell’opera? Chiediamoci se noi percepiamo le cose innanzitutto e per lo più come materia formata e soprattutto se tale interpretazione trae origine da una ben determinata esperienza dell’ente che si colloca in un ambito diverso da quello delle cose in quanto tali. Qual è la relazione tra forma e materia? Ad esempio, la relazione che un blocco (forma) di granito intrattiene con la materia granito è analoga a quella che una brocca (forma) di creta intrattiene con la materia creta?

Forma Materia
Blocco di granito
Brocca di creta

Entrambe le cose sono materia dotata di forma; ciò che le differenzia (oggetto naturale e oggetto artificiale) è il diverso rapporto fra la forma e la materia, rapporto che nel secondo caso è determinato da un processo che si chiama fabbricazione.

Il processo di fabbricazione

Un blocco di granito riposante in se stesso è qualcosa di materiale, con una forma determinata, benché non predisposta. In questo caso “forma” significa una disposizione spazio-locale e un ordinamento delle particelle di materia da cui consegue un determinato contorno, e precisamente quello del blocco. È però materia che possiede una forma anche la brocca, anche la scure, anche la scarpa. Ma qui la forma, in quanto contorno, non consegue da una disposizione della materia. È la forma, al contrario, che determina l’ordinamento della materia. Non solo, ma la forma implica anche la qualità e la scelta della materia: impermeabile per la brocca, sufficientemente dura per la scure, resistente e tuttavia morbida per le scarpe. L’unione di materia e forma che qui si riscontra è, sin dal principio, regolata da ciò a cui brocca, scure e scarpe debbono servire (OPA, 14)

Nel blocco di granito la forma è una “conseguenza” della materia, tanto che, richiestoci che cos’è, possiamo benissimo rispondere “granito”: l’aggiunta “blocco di”, o “lastra di”, o “pezzo di”, cioè l’indicazione formale è, appunto, un’aggiunta, che non tocca l’essere della cosa. La forma soggiace alla materia come intrinseca disposizione di essa. Che la forma intrattenga con la materia un rapporto che non è di coartazione, di imposizione, o, meglio ancora, di strumentalizzazione, non è indifferente, come vedremo, all’essere dell’opera d’arte e al suo “somigliare” a cosa della natura.

Ma la brocca? Difficilmente alla domanda che cos’è risponderei “creta”. Dirò “è una brocca”. Se poi voglio sottolineare di che cosa è fatta, aggiungerò “di creta”. Qui è la materia a essere un’aggiunta, mentre la forma esaurisce quasi l’essenziale. Il linguaggio stesso ci aiuta. Mai dirò, a meno che il mio linguaggio non sia altamente approssimativo, un blocco fatto di granito. La connessione di una forma con una materia è, nella cosa della natura, nella cosa in quanto tale, una forzatura, il frutto di un’interpretazione dell’ente che ha la sua origine in un’altra regione, quella degli strumenti, dei mezzi, delle cose fabbricate, prodotte dal fare dell’uomo. Nel prodotto della tecnica, infatti, il problema che si pone è proprio quello del modo migliore (nel senso dell’efficacia e dell’efficienza) di dare forma a una determinata materia, affinché possa servire a uno scopo preciso. Lo studio della resistenza dei materiali, le prove tecniche e meccaniche alle quali vengono sottoposti, l’analisi delle loro caratteristiche, mostrano quanto e come la materia debba piegarsi alla forma e, contemporaneamente, quanto e come la forma non possa non tenere conto delle caratteristiche della materia.

La cosa come mezzo

Allora l’interpretazione della cosa come materia formata trae il suo senso originario dalla preliminare esperienza della cosa come mezzo, come strumento, ente le cui caratteristiche essenziali sono l’utilizzabilità e l’esser-prodotto, l’essere il risultato di un’attività umana (il fare o fabbricare, ποιεῖν, poieîn) in vista di uno scopo.

Ma allora l’interpretazione della cosa come materia formata che conseguenze ha per la comprensione dell’opera d’arte? L’opera d’arte per un verso assomiglia al mezzo, per l’altro alla mera cosa. Questo perché il mezzo, in quanto ente-guida per l’interpretazione dell’essere della cosa, impone a tutte le cose di sottostare, per essere, per avere stato ontologico, ai suoi criteri.

USABILITÀ ESSER-PRODOTTO
  Prodotto Non prodotto
Utile strumento materia prima
Inutile opera d’arte mera cosa

L’opera d’arte, secondo questo schema, “assomiglia” per un verso al mezzo o strumento (stessa colonna) per un altro verso alla mera cosa (stessa riga) :

  • mezzo, in quanto cosa prodotta;
  • mera cosa, in quanto autosufficiente
Il mezzo come concetto-guida

Il carattere intermedio del mezzo diventa paradigmatico in una concezione dell’ente come materia formata: tanto la cosa, quanto l’opera d’arte vengono pregiudicate nel loro essere proprio: la cosa si riduce a mera cosa (una cosa il cui essere non deriva dalla fabbricazione), l’opera d’arte diventa un prodotto inutile (una cosa il cui essere, riguardo all’usabilità, è quello dell’inutilità).

Se la strumentalità guida l’essere dell’ente, la sottrazione a cui le cose e l’opera vanno soggette diventano essenziali e rivelatrici. In particolare l’opera vede già segnato il suo destino di abitare i territori del superfluo, del mero godimento. Per quanto ci si affanni a nobilitare questo territorio, esso non sarà mai degno di ospitare la verità. Anche la cosa si riduce a mera cosa, cioè a non essere nient’altro che cosa (in senso privativo): essa può sottrarsi a tale diminuzione ontologica solo entrando nella costellazione del mezzo, sottoponendosi cioè al criterio dell’usabilità e rendendosi disponibile alla produzione, diventando, cioè, materia prima.

Ma che cosa ne è del nostro incontro con il mondo quando le cose non sono che mere cose, oppure materie prime e strumenti? Che ne è del nostro incontro con l’opera d’arte quando essa diventa ciò che è solo ribadendo come un vanto la propria inutilità e la propria estraneità alla verità?

Le “scarpe della contadina” di Van Gogh

L’apparire delle cose come strumenti non è indifferente all’esser-cosa delle cose. Pertanto proviamo a seguire on Heidegger tale via: descriviamo un “mezzo”: un paio di scarpe da contadino. Potremmo scegliere molti modi apparentemente più naturali per avvicinarsi a esse (anziché scegliere un quadro, come invece fa Heidegger):

  • prendere un paio di scarpe reali, semplicemente presenti, e descriverle: ciò godrebbe della garanzia della descrizione oggettiva, non pregiudicata dalla prospettiva soggettiva dell’artista, ammesso che di prospettiva soggettiva si tratti;
  • andare nella bottega del calzolaio e osservare le operazioni di fabbricazione, potendo così vedere la stessa produzione del mezzo, cioè uno dei suoi caratteri essenziali;
  • osservare l’uso che la contadina fa delle scarpe o, addirittura, usare noi stessi le scarpe, affidandoci, cioè, al mezzo in ciò che esso propriamente è, qualcosa che serve-per;

Heidegger non segue nessuna di queste strade e si volge, invece, a un’opera d’arte per cogliere l’esser-mezzo del mezzo. Dobbiamo dare conto di questa scelta perlomeno inaspettata. Le tre prospettive che abbiamo visto sopra pregiudicano, secondo il filosofo, proprio l’esser-mezzo del mezzo:

  • la prima lo consegna alla mera e indifferente oggettività (la Zu-handenheit si neutralizza nella Vor-handenheit),
  • la seconda non riguarda propriamente il mezzo e il suo essere, cioè l’usabilità, ma l’esser-prodotto, non è il mezzo che parla, ma il produttore, l’homo faber;
  • la terza rappresenta il mero uso senza riguardo al suo senso, è il paradigma proprio della condizione ontica (intrattenersi con l’ente senza riguardo al suo senso).
Perché un quadro?

Quale guadagno teorico ci porta, invece, la presenza delle scarpe nel quadro di Van Gogh? Le scarpe, nel loro apparire nel quadro diventano l’occasione, il centro, di una serie di rimandi: le incrostazioni e le screpolature della tomaia richiamano le stagioni (caldo e freddo), il fango sotto le suole ci parla del campo in cui la contadina tutte le mattine va a lavorare, la forma, scalcagnata, ci presenta la fatica di questo lavoro e, assieme a essa, la serenità del pane assicurato, e così via.

Nell’orificio oscuro dall’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature ed il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso. (OPA, 19)

Terra (natura, stagioni, piogge, ecc.) e mondo ( il mondo della contadina, le sue speranze, le sue fatiche, il senso del suo lavoro, ecc.). Nel mezzo, nel suo uso, c’è il mondo e la terra: i significati, i riferimenti, i riconoscimenti, l’intrecciarsi di rimandi (tutta la certezza di un mondo, la stabilità, la forma del vivere e dell’essere-nel-mondo), ma anche la continuità, l’arricchirsi, il rinnovarsi, il radicarsi di tale mondo (tutta la ricchezza e la libertà, il contenuto del vivere e la sua materia).

L’usabilità del mezzo

Se questo è vero, allora l’usabilità del mezzo, il suo servire a qualcosa (le scarpe per camminare), in sé considerata, cioè senza riguardo al suo senso, nasconde anziché rivelare l’essenza dello strumento. Se noi ci atteniamo solo a essa, che è l’essere proprio dello strumento, senza pensare al suo senso, siamo completamente imprigionati in una considerazione ontica dello strumento stesso (semplicemente lo usiamo senza pensarci), cosa naturalmente più che legittima, anzi necessaria, ma non unica né esaustiva. L’ente-scarpe, nel suo esser tale, nasconde il suo senso, lo reifica nell’uso: l’essere mezzo del mezzo, cioè l’usabilità, si concretizza nell’uso stesso del mezzo.

Ma il senso dell’usabilità, aperto dall’incontro con le scarpe raffigurate nel quadro, appare come rassicurazione di un mondo. Nell’uso quotidiano delle proprie cose la contadina è rassicurata sul proprio mondo. In ogni strumento è diversamente presente il mondo, il nostro mondo, il mondo di ognuno di noi, che usiamo quello strumento. Ma lo strumento non fa solo presente il mondo, ma anche la terra. La terra, la materialità reggente, è la base sulla quale il mondo, come sistema di significati, si edifica (i materiali di cui uno strumento è fatto non sono mai indifferenti all’uso dello strumento) Il materiale offre la ricchezza delle sue possibilità all’uso, l’uso accoglie e dà senso, porta alla luce queste possibilità. È quel carattere che Heidegger chiama fidatezza.

La fidatezza: terra e mondo

Fidatezza (Verlässigkeit). In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo modo, solo così: nel mezzo. Diciamo “solo” e in realtà erriamo, poiché la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra la libertà del suo afflusso costante. (OPA, 20)

Terra e mondo non sono semplicemente giustapposti nel mezzo, semplicemente sommati come due aspetti o determinazioni di esso. La sicurezza del mondo e l’afflusso della terra non stanno semplicemente assieme nello strumento, ma l’uno è la condizione dell’altra (si condizionano reciprocamente). Ciò che importa è che il senso dell’usabilità, lo strumento considerato nel suo essere, proprio in quanto è fidatezza, non può mai collocarsi in un ordine statico, dato una volta per tutte, ma partecipa a un ordine dinamico, storico, rivelato da quel reciproco appartenersi della stabilità del mondo e della spinta della terra. È la fidatezza, allora che garantisce l’usabilità. Quando il mezzo è solo e niente più che banale oggetto d’uso, ciò che è dileguato è proprio la fidatezza.

Così lo stesso esser-mezzo si corrompe e decade a mero mezzo. Questa devastazione dell’esser-mezzo è il dileguare della fidatezza. Il deperimento a cui le cose d’uso debbono la loro noiosa e importuna abitualità non è che un segno dell’essenza originaria dell’esser-mezzo. La banale abitudinarietà del mezzo si fa allora innanzi come il modo di essere unico ed esclusivo del mezzo. Di visibile non resta che la piatta usabilità. Essa porta con sé l’illusione che l’origine del mezzo consista nella semplice fabbricazione che impone una forma a una materia. (OPA, 20)

Ma cosa ha a che fare l’esser-mezzo del mezzo con l’esser-cosa della cosa e l’esser-opera dell’opera? Ma, soprattutto, come siamo giunti a s-velare la fidatezza come il senso dell’usabilità? Che cos’è il mezzo? Una cosa utile: l’esser-mezzo del mezzo è l’usabilità; che cos’è l’essere del mezzo, cioè l’usabilità, qual è il suo senso? Il senso dell’usabilità è la fidatezza. Se ci limitiamo all’essere dell’ente, senza riguardo al suo senso, ciò che perdiamo è l’essenziale.

Opera d’arte come verità del mezzo

Ora, l’esser-mezzo del mezzo, cioè l’usabilità, s-vela il suo senso, cioè la fidatezza, perché il quadro ha parlato. L’opera d’arte s-vela il senso del mezzo (in termini heideggeriani, è la verità del mezzo). O, meglio, il senso dell’essere delle scarpe, il senso dell’usabilità, cioè la fidatezza, si è s-velata nell’opera d’arte, si è posta in opera. La verità del mezzo, fidatezza, si manifesta, si rende visibile, viene all’essere, alla presenza e, in tale venire alla presenza, permane.

Ecco perché l’arte è porsi in opera della verità dell’ente: portare alla presenza, alla manifestazione e mantenere in essa, ciò che una cosa è, l’essenza del suo essere. L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità. Sarebbe un errore esiziale quello di credere che la nostra descrizione, con procedimento soggettivo, abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto. Se qui c’è qualcosa di discutibile è solo la nostra scarsa capacità di esperire l’opera d’arte e di esprimere l’esperito. Ma prima di tutto bisogna rendersi conto che, contro ogni apparenza iniziale, l’opera non ci è semplicemente servita a una migliore comprensione di ciò che il mezzo è. Al contrario, è solo nell’opera e attraverso di essa che viene alla luce l’esser-mezzo del mezzo. (OPA, 21)

Se l’arte è “porsi in opera della verità dell’ente”, allora ciò con cui ha a che fare l’arte è proprio la verità e non la bellezza. Oppure verità e bellezza divorziano in un pensiero che compromette il senso dell’una e dell’altra, intendendo la verità come adaequatio e la bellezza come ornamento del vero? O forse ancora Heidegger, nel legare arte e verità, intende retrocedere a una vecchia teoria, quella dell’arte come mímesis, come copia delle cose, comunque l’imitazione si intenda, cioè come mímesis realistica (condanna platonica della doppia distanza dell’arte dalla verità) o come mímesis idealistica (riscatto neoplatonico dell’arte in quanto copia delle idee e, quindi, più vicina alla verità)? Non è certo questo il senso del rapporto fra arte e verità, perché sarebbe concepire la verità come qualcosa di dato, di eterno e immutabile.

Nell’opera, invece, la verità accade, si fa evento storico. Qui il discorso si fa problematico, perché legare la verità alla temporalità e alla storia (questo è il senso della verità come evento) significa intendere la verità in modo completamente diverso da come la tradizione l’ha sempre intesa. Che cosa significhi tutto ciò e, in particolare, quale sia il senso dell’arte come porsi in opera della verità, lo possiamo capire solo considerando il rapporto fra opera e verità.

Ora ripensiamo al nostro procedere dalla prima domanda sull’origine dell’opera d’arte alla definizione dell’essenza dell’arte a cui siamo giunti, un percorso che non solo non ci ha condotti via dall’opera d’arte alla ricerca di una fantomatica essenza dell’arte in sé, ma che ci ha saldamente mantenuti davanti all’opera. Il capitolo si chiude con una ripetizione di tale percorso, che contiene, anche una prima importante annotazione (OPA, 23-25)

  • Interrogazione dell’opera d’arte per ricercare l’essenza dell’arte
  • La datità immediata dell’opera è la cosalità che la sorregge
  • Le tradizionali concezioni della cosa sono inadeguate; la stessa concezione dominante, quella di cosa come materia formata, appare derivata dall’essenza del mezzo e non dall’essenza della cosa
  • L’interrogazione dell’essenza del mezzo è pregiudicata da una lunga tradizione: è necessario, pertanto reimpostare la domanda sull’essenza del mezzo
  • L’essenza del mezzo si è svelata in virtù dell’opera d’arte

Da qui abbiamo potuto dire che cos’è arte: arte è porsi in opera della verità Ora siamo finalmente sulla via che può condurre alla determinazione della cosalità dell’opera. Il carattere di cosa dell’opera non può essere negato; ma esso proprio in quanto rientrante nell’esser opera dell’opera, deve essere concepito in base al carattere di opera dell’opera. In conseguenza di ciò, il procedimento che mira alla determinazione cosale dell’opera non andrà dalla cosa all’opera, ma, al contrario, dall’opera alla cosa. L’opera d’arte apre, a suo modo, l’essere dell’ente. Nell’opera ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente. Nell’opera d’arte è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera della verità. Che cos’è dunque la verità perché si realizzi temporalmente come arte? Che cos’è questo porsi in opera? (OPA, 24-25)

Seguiremo la risposta di Heidegger a queste domande nel prossimo articolo dedicato a “Opera e Verità”.

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