Opera e verità
Usabilità e fidatezza
Il quadro di Van Gogh “Le scarpe della contadina” s-vela che cos’è l’usabilità, porta alla presenza e lo concretizza in un’opera il senso dell’essere del mezzo, l’essenza dell’usabilità, cioè la fidatezza. Il mezzo è quella cosa, quell’ente che serve-per, ma il servire-per, l’usabilità, è nella sua essenza fidatezza, rassicurazione di un mondo (al quale il mezzo appartiene) e radicamento di tale mondo in una terra, da cui trae alimento e senso.
Allo stesso modo in cui il mezzo si corrompe e si logora con l’uso (a lungo andare diventa inutilizzabile) così la stessa usabilità può corrompersi e logorarsi. Se il singolo mezzo, diventato inservibile, si riduce a mera cosa, il logorarsi dell’usabilità, del suo senso, imprigiona il mezzo in se stesso, lo ottunde fino a confinarlo e ridurlo a mero mezzo.
Questa devastazione dell’esser-mezzo è il dileguare della fidatezza. Il deperimento a cui le cose d’uso debbono la loro noiosa e importuna abitualità non è che un segno dell’essenza originaria dell’esser-mezzo. La banale abitudinarietà del mezzo si fa allora innanzi come il modo di essere unico ed esclusivo del mezzo. Di visibile non resta che la piatta usabilità. Essa porta con sé l’illusione che l’origine del mezzo consista nella semplice fabbricazione che impone una forma a una materia. (OPA, 20)
Se il logoramento del singolo mezzo è la perdita dell’usabilità, il logoramento dell’esser-mezzo è la perdita della fidatezza: il mezzo lasciato a se stesso, esaurito nella sua funzione, ridotto alla banale abitudinarietà. Le scarpe e nulla più. La scomparsa della fidatezza non rende inutile il mezzo, come avviene con la scomparsa dell’usabilità, lo rende muto e insignificante, mero ente, indifferente al suo essere, banale oggetto mondano senza mondo, mera cosa materiale senza il peso e il senso della materia. Mondo e terra nel mero mezzo evaporano nella pura funzione.
La cura per l’arte
Ma torniamo all’opera d’arte, al quadro che ci ha s-velato il senso del mezzo. Che ne è di tale quadro, così come di ogni scultura o qualsivoglia opera d’arte? In che modo un’opera d’arte per lo più e innanzitutto è?
Le opere si trovano nelle collezioni e nelle esposizioni, offerte al godimento artistico pubblico e privato. Attorno a esse ci si dà un gran daffare, quasi sempre animato dalle migliori e più edificanti intenzioni. (Intenditori, critici, commercianti, storici dell’arte, semplici amatori, ecc.). Eppure ciò che accade è proprio il contrario di quanto si vorrebbe: per quanto si faccia, per quanto ci si prenda cura, per quanto si rispetti e si veneri, per quanto ci si affanni, ogni nostro atteggiamento nei confronti dell’opera d’arte, nella misura in cui la riduce a oggetto di un qualunque interesse, porta con sé la sottrazione del mondo proprio dell’opera. L’essenza dell’arte viene dispersa dalla cura per l’arte. Ma noi sappiamo che l’arte è messa in opera della verità: ciò che l’industria artistica ottunde, logora, rende impossibile è proprio tale messa in opera della verità. L’opera non è che un oggetto, prodotto culturale nel senso etimologico del termine: non più ente in sé riposante, ente autosufficiente che ha in sé il proprio senso, ma oggetto portato all’essere da un’operazione culturale. Il logorarsi dell’usabilità (l’essere del mezzo) toglie al mezzo il suo senso, la fidatezza, il logorarsi dell’essere dell’arte come porsi in opera della verità toglie all’arte la sua autosufficienza, la sua gratuità, il suo essere-dono.
L’opera d’arte in quanto tale
La parte “Cosa e opera” si è conclusa con la determinazione dell’essenza dell’arte: l’arte è messa in opera della verità. Dobbiamo chiederci ora “che cos’è tale essere dell’arte” e, a questo scopo, indagare quali siano i rapporti tra opera e verità. Che cos’è la verità se a essa è essenziale l’essere messa in opera? Che cosa comporta per la verità il suo “accadere” nell’opera d’arte? Una verità che “accade” è una verità che ha a che fare con la storia, con l’evento, una verità, quindi, intesa in un’accezione molto lontana da quella usuale e tradizionale di verità come qualcosa di universale e di dato univocamente una volta per tutte.
Allora, i problemi sono molti:
- La verità nel suo essenziale mettersi in opera
- La verità in quanto evento e accadere (storia)
- La verità in quanto accadere nell’opera d’arte
Dobbiamo avvicinare l’opera d’arte in quanto tale. È accessibile l’opera d’arte? Che cosa significa incontrare un’opera d’arte e quanto ha a che fare tale incontro autentico (incontro con l’opera stessa) con la tradizionale “fruizione” dell’opera?
Non è l’opera il prodotto di un mondo a noi estraneo (mondo storico o mondo psicologico che sia)? È possibile, ma, soprattutto, è corretto e giusto voler riportare l’opera alla sua autenticità, al mondo che l’ha pro-dotta, all’autore che l’ha concepita? Accedere a un’opera d’arte, fruire di essa, significa riscoprirvi la cosiddetta intenzione autorale? Oppure, ma la strada è la stessa di prima, perché nasce dalla medesima esigenza, bisogna dichiarare l’impossibilità di accedere a tale zona di autenticità e riportare l’opera al nostro mondo storico, al nostro mondo psicologico, sostituire l’autore con il fruitore? È veramente in questo senso che possiamo incontrare il mondo dell’opera d’arte, oppure queste domande ce lo fanno perdere?
Il mondo dell’opera d’arte
A quale mondo appartiene l’opera d’arte? L’opera appartiene a un mondo, ma non nel senso di derivare da tale mondo, del quale essa sarebbe segno, attestazione, testimonianza. Il mondo al quale l’opera appartiene è quello che essa stessa istituisce, che essa stessa fonda. Se l’opera d’arte fosse segno e testimonianza di un mondo storico, tale mondo sarebbe qualcosa di già dato e, quindi, di accessibile anche per altre vie. Intendiamoci, questo può anche essere vero. L’opera d’arte, al pari di qualunque altro manufatto o prodotto culturale, può benissimo servire come segno di una determinata epoca storica o di un determinato mondo psicologico. Heidegger non si sogna nemmeno di negare tale fatto, fin troppo ovvio. Ciò che invece si domanda è se tale considerazione dell’opera d’arte (prodotto culturale o biografico) ne colga l’essenziale. Se invece si parte dalla affermazione heideggeriana “l’opera d’arte appartiene al mondo che lei stessa fonda“, allora a tale mondo noi non possiamo accedere se non tramite l’incontro con l’opera stessa. Questo è un punto essenziale: l’opera d’arte come prodotto culturale ci riporta a un mondo al quale possiamo altrimenti accedere, perché non è il mondo proprio dell’opera; l’opera d’arte nel suo essere autentico, invece, apre un mondo in cui lei stessa si fonda, un mondo che senza di essa non si darebbe. Non cos’è il mondo prima di Rembrandt, ma cos’è il mondo dopo Rembrandt: questo è il giusto modo per incontrare l’opera d’arte.
È un punto essenziale, ma non ancora sufficiente per comprendere il pensiero di Heidegger sull’arte, perché il mondo che l’opera apre e fonda potrebbe essere un mondo del tutto privato, immaginario, un mondo “estetico”, appunto. Altro non sarebbe che la riaffermazione di vecchie teorie sull’autonomia dell’arte, sulla sua assolutezza, sull’arte per l’arte, e via dicendo a ripercorrere tutte le teorie dell’estetismo più estremo. L’arte non si può comprendere come prodotto, ma solo a partire da se stessa, ha una propria autonomia che la colloca in una sfera a se stante, apre un mondo che è il suo mondo, al quale non si può accedere se non tramite essa, un mondo privo di intersezioni, persino di relazioni, con il mondo reale. Nulla di più estraneo al pensiero di Heidegger.
Apertura di un mondo come evento di verità
Ricordiamo l’analisi del quadro di Van Gogh e la provvisoria conclusione alla quale eravamo giunti: l’arte è messa in opera della verità (s-vela l’essere delle cose, nel nostro caso del mezzo “scarpe”). Allora fondare e aprire un mondo è qualcosa che ha a che fare in senso profondo con la verità. Aprire un mondo e accadere della verità sono sinonimi. Se noi, naturalmente, non dimentichiamo il senso heideggeriano di verità come ἀλήθεια a-létheia, cioè come aprirsi, illuminarsi di un ambito, dentro cui gli enti appaiono, si dispongono, vengono alla presenza. L’accadere della verità nell’opera, il suo aprire e fondare un mondo, è l’aprirsi di un ambito di senso, di uno spazio fenomenico nel senso proprio del termine, uno spazio di apparizione entro il quale gli enti (le cose che sono) si mostrano proprio come sono. Aprire un mondo significa lasciare che le cose vengano alla presenza (lasciar essere le cose stesse). In questo senso allora l’incontro con l’opera è l’incontro con la verità delle cose.
Ciò significa che l’opera non è cosa fra le cose, cosa che appartiene a un mondo dato, a una prospettiva costituita, a un ambito di illuminazione altrimenti definito. L’incontro con l’opera, invece, è l’incontro con un diverso ordinamento del mondo, con un centro che non appartiene a una prospettiva, ma che ne costituisce una nuova. Un po’ come l’Esser-ci non è un ente fra gli enti, ma il Da, il luogo, l’ambito in cui gli enti appaiono, così è anche l’opera d’arte, non cosa, ma verità delle cose, aprirsi di un ambito entro il quale le cose vengono alla presenza.
Questo è ciò che rende l’opera incomprensibile a partire dalla sua cosalità, pur non essendo l’esser-cosa a essa in-differente, ma essenziale (come vedremo), ma è anche ciò che rende l’opera (pur se prodotta, e qui vedremo che anche l’esser-prodotta non le è indifferente ma essenziale) del tutto distinta dallo strumento. Questo appartiene a un mondo già aperto, del quale può essere legittima ed eloquente testimonianza (reperto archeologico), mentre l’opera non può mai sottostare a tale considerazione: se è vero, infatti, che essa ammutolisce quando si cerca di comprenderla a partire dal suo essere cosa, è altrettanto vero che si degrada a mezzo se considerata come testimonianza di un mondo dal quale deriva; essa può dirci molto, essere fin troppo eloquente sulla civiltà materiale e spirituale che l’ha prodotta, ma tutto ciò che ci dice è inessenziale al suo vero essere.
Il tempio greco
Prendiamo allora un’opera d’arte e, per sfuggire a ogni equivoco di mímesis (l’opera in quanto imitazione delle cose o della loro essenza, avente quindi a che fare con la verità nel senso della conformità), prendiamo un’opera non figurativa, il tempio greco.
Non rappresenta nulla, semplicemente “sta” in un certo posto. Ma tale stare e consistere è in sé indifferente, un puro fatto e nient’altro? No di certo. Innanzitutto ordina lo spazio in un modo ben definito: lo spazio sacro è ciò che esso racchiude, lo spazio profano è ciò che esso esclude, nel senso di aprire (solo davanti, in presenza di un tempio, si può aprire uno spazio profano). Ora, spazio sacro e spazio profano non si limitano a indicare una semplice dicotomia fine a se stessa, ma rivelano un’organizzazione che contiene in sé tutto un mondo di valori, di aspettative, di modi di vivere. Il dio si presenta entro uno spazio e protetto da una forma, una forma delimitata e delimitante, un grumo di senso che attrae, organizza, raccoglie attorno a sé un mondo. Nel tempio si concentra un mondo storico e dal tempio si apre un mondo storico. Attorno al tempio vive un popolo. Il tempio è un centro che attrae e dal quale si espande la storia di un popolo, il luogo in cui e a partire da cui tale storia si rende visibile.
Il mondo storico
Il tempio, scandendo lo spazio, ha a che fare in senso profondo con il mondo di una comunità. In esso è presente la comunità e il suo dio, non nel senso fisico di presenza della statua del dio nel náos, ma in quanto esso stesso, tempio, è la presenza del divino in mezzo al popolo.
Il tempio racchiude la statua del Dio e in questo racchiudimento protettivo fa sì che, attraverso il colonnato, essa risplenda nella sacra regione. In virtù del tempio, Dio è presente nel tempio. Questo esser-presente di Dio è in se stesso il dispiegamento e la delimitazione di una regione sacrale. … Il tempio, in quanto opera, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino. L’ampiezza dell’apertura di questi rapporti è il mondo di questo popolo storico. (OPA, 27)
Allora il tempio non è una parte qualsiasi del mondo di un popolo, un luogo fra gli altri, magari più o meno importante a seconda della tensione religiosa che anima la comunità, ma comunque un luogo del mondo. Esso è, invece, ciò che fonda e determina lo spazio stesso dell’esperienza storica di quel popolo, di quella comunità. Ma l’essere del tempio non si esaurisce in questa apertura di senso, in questa fondazione di un mondo. Il suo stare e consistere non è solo il luogo di una scansione spaziale, di una determinazione dell’esperienza, dell’illuminazione di un mondo. In esso c’è anche la terra.
La materialità
Il suo consistere non è solo un consistere storico ma anche e innanzitutto un consistere fisico e terrestre. Non scandisce solo l’esperienza di un popolo, ma grazie alla roccia su cui poggia, alla pietra di cui è fatto, alla luce del giorno in cui risplende o al buio della notte in cui si nasconde, agli eventi atmosferici a cui resiste, e così via, esso porta alla luce, apre un ambito di manifestazione, di apparizione, di verità anche alla natura (alla terra). La luce del giorno, alla luce del tempio, il vento della tempesta fra le sue colonne, la pietra di cui è fatto, sono ciò che sono perché il tempio li porta all’apparire. Ciò che nel tempio viene a mostrarsi è la natura come φύσις phýsis, come originaria vitalità e forza. E, ciò che più conta, è la dimensione materiale che apre l’ambito di apparizione. È la terra che si schiude e in questo schiudersi lascia apparire il mondo. Una materialità che era presente anche nello strumento, ma in una ben diversa accezione.
Mentre lo strumento usa e consuma la materia, ne tiene gran conto, certamente, ma come qualcosa da impiegare e piegare a uno scopo, l’opera d’arte la esibisce in quanto tale, non solo non la consuma, ma la conserva e ne ha cura.
Mondo e Terra nell’opera d’arte
Il tempio apre un mondo e lo riconduce alla terra: lo stare in sé del mondo, la sua stabilità, la sua forma sono, grazie al tempio, all’opera d’arte, radicati nella terra, anzi sono la terra stessa che si dona senza disperdersi, senza dissecarsi in un frutto vizzo, in un unico senso dato una volta per tutte. Mondo e terra sono lo stesso: finché il mondo si radica nella terra, la terra ha la forza di produrre e rinnovare il mondo, finché la terra si dona al mondo, il mondo porta la terra allo stare e al permanere, mantiene la terra nella luce della verità. È necessario chiarire questo nodo fondamentale del pensiero di Heidegger: ciò avviene con l’analisi di due caratteristiche fondamentali dell’opera stessa, l’es-posizione e la pro-duzione, due concetti lontanissimi dal loro significato usuale, concetti tramite i quali dovremo avvicinare Mondo e Terra.
Es-posizione (Auf-stellung) del Mondo
In tedesco esposizione è aus-stellen; invece auf-stellen = erigere, installare, metter-su, allestire. È chiaro che Heidegger intende “giocare” sul significato etimologico del termine es-posizione.
Quando un’opera è ospitata in una collezione o presentata in una mostra, si dice anche che essa viene esposta. Ma … l’esposizione vera e propria è erezione nel senso del votare e del celebrare. Esporre non significa in questo caso il semplice collocare. Votare significa consacrare, nel senso che nell’esposizione dell’opera viene aperto il sacro in quanto sacro, e viene invocato il Dio nell’Aperto del suo esser-presente. Del voto fa parte la glorificazione che è considerazione della dignità e dello splendore del Dio. Dignità e splendore non sono proprietà accanto e dietro le quali, come qualcosa di accessorio stia il Dio: il Dio è presente nella dignità e nello splendore. Nel riflesso di questo splendore riluce, cioè si illumina, ciò che chiamiamo il Mondo. (OPA, 29)
L’Auf-stellung non è soltanto lo star davanti di qualcosa di allestito, eretto, approntato (per questo senso sarebbe andato bene il termine Aus-stellung). In esso c’è anche il senso della celebrazione religiosa: se l’es-posizione è una presentificazione, tale presentificazione dev’essere intesa nello stesso modo in cui, ad esempio, nella celebrazione di un rito religioso (l’eucarestia) o di una festa (il Natale) si fa presente l’evento (transustanziazione o natività). Questo vuol dire che nel rito, autenticamente inteso, l’evento si ripresenta davvero, ciò che esso celebra va preso alla lettera, non come la semplice rievocazione di qualcosa che è storicamente avvenuto e che ora solamente si ricorda. Nell’Auf-stellung religiosa, nella presentificazione rituale, l’evento accade realmente. Il rito è ripetizione, ciò che presenta non trae il suo valore dal richiamarsi a un evento storico, dal riferirsi a un mondo passato, ma dall’essere sempre ogni volta evento originario, nuova origine.
Analoga è l’Auf-stellung artistica: nell’incontro con l’opera d’arte non abbiamo a che fare con un semplice evento del passato, come se l’opera fosse un segno, un reperto, un ricordo di un mondo che in essa in qualche modo si commemora. L’incontro autentico con l’opera d’arte è, ogni volta, l’incontro con l’evento fondante che l’ha costituita, con la forza stessa di tale evento. La presenza dell’opera, l’incontro con essa, l’es-posizione, è allora la presenza di un evento che apre la storia, che fonda un mondo, che illumina un senso.
Es-posizione di un mondo significa che l’opera d’arte, per il fatto di esserci, ripete ogni volta la forza dell’evento che l’ha istituita, è ogni volta realmente origine di un mondo. All’opera appartiene necessariamente l’essere es-posta, nel senso testé chiarito di presentificazione celebrante, perché essa stessa è, per essenza, es-posizione, presentificazione e origine di un mondo. E, in tale es-posizione di un mondo, il mondo stesso appare come verità.
Heidegger ha scelto una locuzione per affermare questo concetto che ha irritato e indispettito molti critici: il mondo mondeggia: ma non si tratta di tautologia o di inconcludenza o, peggio, di presa in giro del lettore. Con tale locuzione Heidegger intende affermare che il mondo non è mai qualcosa di dato che si tratti poi di cogliere nel modo più fedele e oggettivo possibile. Come il rito non si rifà a un evento dato una volta per tutte che si tratta poi di rievocare in modo quanto più possibile fedele, ma di volta in volta è l’evento stesso che si ripete e si rinnova, così il mondo che l’opera es-ponendosi es-pone è un mondo che si fa, che si origina, non è un mondo come stato di cose, ma un mondo che è evento. Il mondeggiare del mondo, come il coseggiare della cosa, indica un profondo rivolgimento nel concetto di mondo e di cosa. Il mondo, così inteso, non è l’insieme delle cose, non è nemmeno il concetto della totalità. Il mondo mondeggia: non è dato una volta per tutte, non è lo stato delle cose, ma un farsi di volta in volta, un evento; perciò è il costantemente inoggettivo.
Il Mondo non è il mero insieme di tutte le cose, numerevoli e innumerevoli, note e ignote. Il Mondo non è neppure una semplice rappresentazione aggiunta alla somma delle cose semplicemente presenti. Il Mondo si mondifica ed è più essente dell’afferrabile e del percepibile in cui viviamo fiduciosamente. Il Mondo non è un possibile oggetto che ci stia innanzi e che possa essere intuito. Il Mondo è il costantemente inoggettivo a cui sottostiamo fin che le vie della nascita e della morte, della grazia e della maledizione ci mantengono estatizzati nell’essere. (OPA, 30)
Pro-duzione (Her-stellung) della Terra
Come l’opera è es-posta (= presente) in quanto essa stessa es-ponente (= presentificante, aprente), così l’opera è pro-dotta in quanto essa stessa pro-ducente. Pro-durre (her-stellen) = portare avanti, far venire alla luce. L’opera es-pone (= apre) un mondo e pro-duce la terra.
Che cos’è la terra? È una domanda fondamentale per la comprensione del saggio, alla quale risponderemo in modo approfondito nell’ultima parte dell’analisi. Ora, tuttavia, dobbiamo avvicinare l’argomento fornendo una prima risposta: innanzitutto la terra è la materia di cui l’opera è composta, i materiali (marmo, bronzo, legno, colori, ecc.) di cui è fatta, i materiali impiegati nella pro-duzione dell’opera. In che modo la pro-duzione o fabbricazione del mezzo (l’impiego di materiali a tale scopo) si distingue dalla pro-duzione dell’opera?
- Nello strumento i materiali si nascondono, non vengono alla presenza in quanto tali, essi sono consumati e usati, devono soggiacere all’utilizzabilità: quando uso un martello, non devo accorgermi che il suo manico è di legno e la sua testa di ferro, solo quando uno strumento non funziona la mia attenzione viene richiamata dalla costituzione materiale dello strumento stesso.
- Del tutto diverso, invece, è il caso dell’opera d’arte: qui la materia di cui è composta richiama l’attenzione su di sé vincolandola in modo indissolubile. L’opera d’arte non si può incontrare prescindendo dalla sua dimensione sensibile.
Ma perché il sensibile viene in primo piano e vincola l’attenzione? Perché esso, dandosi in quanto tale, è inanalizzabile, insostituibile con qualunque altra spiegazione o istanza. Proviamo a fare un’analisi chimico-mineralogica del marmo del Partenone o un’analisi spettroscopica dei colori di un quadro: ciò che perdiamo è l’opera stessa. L’opera porta alla presenza la materia, esibisce il colore rosso in quanto tale, ma nello stesso tempo sottrae tale materia, tale colore, a ogni comprensione dispiegata, obbliga a mantenersi alla sua presenza senza andar oltre. L’opera pro-duce la materia e nello stesso tempo si ritrae in essa: porta in primo piano la materia ma come qualcosa che non si lascia dissolvere e risolvere nel pensiero e nella riflessione, come qualcosa che non esaurisce in alcun modo il suo significato proprio nel permanere presente. Su questo si basa la considerazione della materialità o terrestrità dell’opera come inesauribile riserva di significati (riserva in quanto ciò che si sottrae, riserva in quanto ciò da cui si attinge: sottrarsi e donare). Ecco perché, come scrive Heidegger, pro-durre la terra significa portarla nell’aperto come ciò che si chiude. Se noi manteniamo sempre presente il concetto di verità in Heidegger, vediamo come l’opera porti la materialità e il sensibile alla sua verità, mostrandone l’irriducibilità a ogni altra dimensione diversa dalla propria.
Già qui possiamo fare una prima osservazione concernente il nesso fra mondo e terra nell’opera d’arte e mostrare come tale nesso possa essere visto e tradotto in termini di materia e significati. Tale connessione toglie la materia da una condizione di bruta insignificanza, senza tuttavia consegnarla alla trasparenza del pensiero, e nel contempo dà al significato un senso che lo libera dalla prigione della mera conoscenza rappresentativa. La materia come fondo inesauribile di significati, la terra come forza continuamente rinnovante il mondo, ma anche il significato come presenza della materia nell’aperto e il mondo come venire alla presenza della terra. Qui sta la radice dell’autosufficienza dell’opera d’arte, del suo non dover ricorrere ad altri contesti per ricevere significato, ma anche della sua infinita ricchezza, per il fatto di non risolversi mai in uno o in una definita serie di significati. Mentre lo strumento è totalmente riconducibile al mondo che l’ha prodotto, l’opera è, invece, un mondo, ma tale che tiene in sé la terra (la materia) come possibilità infinita di sempre nuovi mondi.
Il conflitto (Ur-streit) di Mondo e Terra
Terra e mondo nell’opera si co-appartengono, sono tra loro in un rapporto di identità e differenza, un concetto-guida, questo della filosofia di Heidegger. Qui non viene ancora usato il termine Zusammen-gehörigkeit, ma il termine Ur-streit (conflitto). Tale scelta non è indifferente: essa sta a significare non solo che terra e mondo non sono due determinazioni o aspetti dell’opera d’arte che possano essere in sé analizzati e considerati, dal momento che il loro essere è reciprocamente fondato, ma anche che il loro co-appartenersi non è inteso nel senso della conciliazione o della sintesi, ma in quello dell’opposizione e del conflitto. È importante capire bene questo concetto, perché opposizione non significa coincidentia oppositorum, mistica e misteriosa unione di determinazioni contrapposte; proprio il non essere determinazioni dell’opera ma ognuno (mondo e terra) l’opera stessa dà a tale conflitto un senso particolare.
Il mondo in quanto es-ponente e apertura tende a mantenere tale es-posizione e apertura o, detto altrimenti, ogni significato, in quanto tale tende a proporsi come il significato per eccellenza, ogni significato tende alla esplicitazione totale, alla trasparenza assoluta e alla permanenza; la terra, in quanto la pro-ducente riservante tende invece a produrre sempre nuovi significati senza mai esaurirne la riserva. Ogni lettura o incontro con l’opera vive di questo conflitto fra l’esigenza di un senso compiuto, totalmente dato, e l’esperienza di un farsi continuo e inesauribile del senso stesso.
Mondo e Terra sono essenzialmente diversi l’un dall’altro e tuttavia mai separati. Il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo. Ma la relazione fra Mondo e Terra non si esaurisce affatto nella vuota unità contrappositoria di elementi indifferenti. Riposando sulla Terra il Mondo aspira a dominarla. In quanto autoaprentesi, esso non sopporta nulla di chiuso. Invece la Terra, in quanto coprente-custodente, tende ad assorbire e a ri-solvere in sé il Mondo. (OPA, 34)
Il conflitto di Welt e Erde, allora, non può portare all’annullamento di uno dei due, perché mondo e terra sono l’uno fondato nell’altra e viceversa. È solo grazie alla terra, al suo pro-dursi e venire alla presenza, che il mondo può essere mondo, cioè apertura, presenza, es-posizione di significati; ma, nel contempo, è solo in tale es-posizione che la terra appare veramente terra, è solo nell’apertura dell’opera e del suo significato che la terra, il sensibile, viene alla presenza e sta. Nella reciproca ricerca di affermazione vi è contemporaneamente l’affermazione dell’elemento opposto.
La Terra non può far a meno dell’aperto del Mondo se deve essa stessa, in quanto Terra, apparire nel libero slancio del suo autochiudimento. Il Mondo, a sua volta, non può distaccarsi dalla Terra se deve, come regione e percorso di ogni destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro. (OPA, 34)
Se nella sezione Cosa e opera eravamo giunti a indicare l’essenza dell’arte come messa in opera della verità, ora, quasi alla conclusione della sezione Opera e verità, abbiamo affermato che l’essenza della messa in opera della verità, il senso dell’essere dell’arte, è il conflitto di mondo e terra.
Verità come conflitto
Perché mai la verità, nel suo carattere eventuale del mettersi in opera, è conflitto? In che senso possiamo comprendere l’arte come messa in opera della verità a partire dal suo essere conflitto di mondo e terra?
È necessario, ed è ciò che Heidegger fa, prendere in esame il concetto di verità, per comprendere a fondo il nesso verità-opera. Non rifacciamo il discorso sulla verità tradizionalmente intesa come conformità di proposizione e cosa, ma esaminiamo, invece, il concetto heideggeriano di verità come ἀλήθεια a-létheia, cioè non-nascondimento, dis-velatezza. Questo è un concetto originario e preliminare di verità, perché solo nell’aperto è possibile la conformità della proposizione con la cosa. Ciò che a noi interessa, comunque, non è tanto una discussione sul significato di verità in Heidegger quanto mettere in risalto come nel concetto di verità come a-létheia sia insito il concetto di verità come conflitto.
Nella prospettiva in cui l’esserci è già sempre gettato l’ente appare s-velato e nascosto nel contempo: all’interno dell’Un-verborgenheit si dà sempre una Verbergung, un nascondersi e celarsi. Ciò che nell’ambito della disvelatezza (verità) si rifiuta alla disvelatezza stessa è lo stesso “principio dell’illuminazione dell’illuminato”. Con questo Heidegger non intende riproporre la banalità dei limiti della nostra conoscenza: il non svelato non è l’ignoto che permane inconoscibile perché non abbiamo la forza o la facoltà di raggiungerlo; il non svelato è proprio ciò che permette la disvelatezza degli enti, il principio di ogni illuminazione, cioè l’essere stesso.
Il fondamento percettivo della verità
Nello stesso venire alla presenza degli enti vi è il nascondersi in essi dell’essere: il nascosto, l’essere, non è un qualcosa che rimane dietro, come inaccessibile, agli enti, ma è ciò che lascia essere l’ente stesso, nascondendosi nel suo (dell’ente) apparire. Uscendo dal linguaggio heideggeriano, possiamo notare come tale impostazione del problema del venire alla presenza degli enti sia quella della percezione. Proprio del percepire, infatti, è l’essere collocati in una prospettiva (non soggettiva, ma costitutiva della percezione stessa) alla quale appartiene in modo essenziale non solo il darsi delle cose per adombramenti, ma anche il suo non potersi mai risolvere in se stessa.
Ma accanto alla Verbergung costitutiva dell’Un-verborgenheit vi è anche un altro modo del nascosto che appartiene allo stesso dis-velarsi dell’ente ed è quella che Heidegger chiama Verstellung, cioè contraffazione o errore, la possibilità che l’ente si celi davanti a un altro, si dia a vedere in modo diverso da come è. È importante notare tale concetto, perché dà il senso della distanza dell’impostazione heideggeriana del problema della verità rispetto a quella tradizionale: l’errore, nell’ambito del concetto di verità come adaequatio, è sempre stato concepito come un fatto soggettivo, un cattivo uso da parte dell’uomo della proposizione e del giudizio, tale da condurlo, appunto, ad affermazioni false. Con il concetto heideggeriano di verità, invece, ciò che viene affermato è che né la verità né l’errore sono attributi delle proposizioni, sono cioè fatti che appartengono al soggetto, all’uomo, mentre il reale se ne sta totalmente dispiegato nella presenza pronto a essere enunciato. Per Heidegger, tanto l’errore, quanto la verità sono qualcosa dentro cui l’esserci si trova già da sempre gettato. Ciò significa che non è l’esserci che dispone della verità quanto la verità che pone l’esserci nella prospettiva storica in cui sempre si trova gettato.
Allora il carattere conflittuale dell’apertura della verità è dovuta al fatto che l’occhio che guarda non è l’occhio di-sincarnato del soggetto trascendentale o della coscienza in generale, che la verità, in altri termini, non è l’evento di una coscienza universale, ma l’essere collocati in una prospettiva, in un aperto, in un Da, al quale l’esserci stesso appartiene. È l’apertura della verità che dispone dell’esserci e della sua esistenza storica: perciò il mondo non è spettacolo, totalità dispiegata, ma campo di scelte e di decisioni, perciò il significato non è mai un fatto puramente coscienziale, ma qualcosa di profondamente esistenziale, legato alla finitezza e alla storicità dell’uomo. La verità stessa è lotta contro l’oscuro (non-nascondimento) e, proprio per questo, essa è accadimento ed evento, non è qualcosa che sia data una volta per tutte.
È lecito stabilire un parallelo rigido fra mondo e terra da una parte e disvelatezza e nascondimento dall’altra? La terra non è il puro chiuso, ma ciò che viene alla luce come il chiudentesi, il non penetrabile e non risolvibile dal pensiero; anche il mondo non è il puro dispiegarsi dell’aperto, ma il luogo conflittuale delle scelte, quindi degli errori e dell’ignoto. Solo dopo il chiarimento del concetto di terra potremo intendere appieno il senso del conflitto e il suo darsi parallelo a quello della verità. Nella terza parte del saggio viene alla luce, invece, il nesso tra la verità e l’essere in opera e in particolare il fatto che l’arte è messa in opera proprio per il suo carattere conflittuale.