Cosa, opera e verità nell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger – 6

Verità e arte

Il fare artistico

Il concetto di messa in opera della verità comporta delle indubbie difficoltà e suscita una serie di problemi che possiamo raccogliere sotto un’unica domanda: come può la verità essere prodotta, soggiacendo così alle condizioni peculiari dell’artista e dell’epoca, senza esporsi al relativismo? Non vi è dubbio, infatti, che l’essere-prodotta sia un carattere essenziale dell’opera d’arte, come Heidegger stesso afferma all’inizio di questa terza parte del saggio.

Una cosa si fa finalmente chiara: per acutamente che indaghiamo lo stare-in-se-stessa dell’opera, non ne coglieremo mai la realtà finché non ci renderemo conto della necessità di assumere l’opera come di qualcosa di “operato”.  Sembra una considerazione ovvia, visto che la stessa parola “opera” rinvia all’operare. Il carattere di opera dell’opera consiste nel suo essere fatta dall’artista. (OPA, 43)

È necessario analizzare quel particolare “fare” che è la creazione artistica, in modo da comprendere chiaramente la fondamentale differenza con il fare dell’artigiano e del tecnico, produttori di strumenti e di oggetti d’uso. Tanto più che il fare in quanto capacità manuale è tenuto in grande considerazione proprio dai sommi artisti. In greco, poi, lo stesso vocabolo (τέχνη téchne), indica tanto il lavoro manuale quanto quello artistico e τεχνίτης technítes designa sia l’artigiano sia l’artista.

Artigiano e artista

Qui ci troviamo di fronte a un problema per certi versi simile a quello da cui siamo partiti. Come l’opera d’arte nella sua datità immediata appare cosa fra le cose, per cui una sua comprensione sembrava dover iniziare da una ricerca di ciò che la distingue dalla mera cosa, di ciò che la fa essere cosa artistica, così ora il fare dell’artista, nel suo aspetto tecnico, produttivo, operativo, nel suo intrattenersi con i materiali, nel suo esercitarsi come abilità, appare un fare che appartiene alla stessa regione di ogni operare tecnico. Si tratterebbe, quindi, di trovare la differenza specifica del fare artistico. Già possiamo intuire che tale impostazione non ci aiuta a risolvere la questione: non la cosalità s-vela l’essenza dell’arte, ma l’opera d’arte apre la verità delle cose; non il fare tecnico ci può dire che cosa sia il creare dell’artista, ma semmai è il creare dell’artista che apre la verità di ogni produrre.

Téchne e verità

Proprio il richiamo alla parola greca téchne, del resto, mostra, se correttamente intesa, che con essa siamo non nell’ambito del fare, quanto in quello del sapere e, con ciò, nell’ambito della verità.

Sapere significa: aver visto, nel senso più ampio di vedere, e cioè: percezione dell’essente-presente come tale. Per il pensiero greco l’essenza del sapere consiste nell’alétheia, cioè nel disvelamento dell’ente. La verità regge e guida ogni atteggiamento verso l’ente. La téchne, come comprensione greca del sapere è un produrre (vollbringen) nella misura in cui trae fuori (vorbringen) dall’esser-nascosto nel non-esser-nascosto del suo apparire l’essente-presente come tale; essa non è affatto un’attività pratica. (OPA, 44)

Più che analizzare il fare in quanto tale, cercando di scoprire in esso quella qualità misteriosa che lo trasforma in creazione e, in particolare, in produzione della verità, la strada da seguire è un’altra: comprendere la tendenza della verità a essere posta in opera, chiedersi se la verità in quanto tale possa o debba essere posta in opera e che cosa significhi tutto ciò.

Ripensiamo al concetto di verità come a-létheia: la verità è apertura dentro cui gli enti appaiono; per essere tale, la verità deve “istituirsi” in un ente che la riveli e la manifesti, deve storicamente “accadere” in un ente che fondi questa apertura e vi appartenga. È il carattere eventuale della verità, il suo essere fondante e aprente e non semplicemente qualcosa di dato una volta per tutte, che “reclama” un ente che sia a sua volta fondante e aprente: l’Esser-ci è un tale ente, ma anche l’opera d’arte, come abbiamo visto, riveste un ruolo per certi versi analogo.

La verità si storicizza solo istituendosi nella lotta e nell’ambito che si apre a opera sua. Poiché la verità è il contrapporsi reciproco di illuminazione e nascondimento, proprio per questo le appartiene ciò a cui qui diamo il nome di istituzione (Einrichtung). Ma la verità non è dapprima in qualche luogo iperuranio, nel modo della semplice presenza, per poi trasferirsi nell’ente. Ciò è impossibile già per il fatto che solo l’aprimento dell’ente offre la possibilità di un “luogo” in genere e di un dominio occupato dall’essente-presente. Illuminazione dell’aprimento e istituzione nell’Aperto sono inscindibili. Essi coincidono nell’essenza unitaria dello storicizzarsi della verità. (OPA, 46)

Questo passo mette in evidenza il nesso fra carattere eventuale della verità e sua necessità di istituirsi o mettersi in opera. L’opera d’arte, come l’Esser-ci, non è affatto un ente che sta nell’Aperto al modo degli altri enti, ma è innanzitutto origine dell’apertura stessa: questo e nient’altro è il carattere ontologico e non ontico dell’essenza dell’arte. L’operare dell’uomo nell’arte ha una portata ontologica, è un operare in rapporto all’essere, non nel senso di disporre dell’essere, ma in quello contrario dell’essere che dispone dell’uomo e del suo operare.

Così posta la questione, allora il fare artistico si distinguerà da quello tecnico-artigianale in quanto l’arte è un “prodotto” che ha a che fare con l’aprirsi della verità, mentre l’oggetto d’uso è un prodotto che si colloca già in un’apertura data. Ma perché l’operare dell’artista deve essere colto come un produrre e non come un ricevere la verità, se è vero che non è l’uomo a disporre della verità, ma la verità a disporre dell’uomo? La risposta viene dall’analisi di quei caratteri dell’opera d’arte che sono strettamente legati al produrre, in primo luogo il carattere di forma. Ben sappiamo, infatti, che, nella concezione della cosa come materia formata, l’essere-prodotta è un tratto essenziale.

Il tratto

In questa parte del saggio il concetto di Forma viene affrontato a partire da un altro termine molto importante: Riss (tratto o traccia), inteso nel duplice senso di ciò che separa (tratto come separazione) e ciò che delimita (tratto come linea). Nel Riss separazione e limite si connettono strettamente, tanto che il conflitto mondo-terra può essere riletto come Riss, scissura aperta fra mondo e terra in cui l’opera esiste. È dentro tale scissura che l’opera è forma: noi possiamo comprendere questa affermazione se interpretiamo “etimologicamente” il termine tedesco per forma, cioè Ge-stalt, vedendo in esso l’indicazione del carattere dell’essere-posta (gestellt) dell’opera dentro il Riss, lo “spazio” aperto dal conflitto mondo-terra.

Qui siamo in uno dei punti più difficili, forse oscuri, del saggio, in cui le parole di Heidegger vanno pensate e interpretate con molta cautela. La forma di cui parla Heidegger non è affatto da pensare nel senso della perfezione autosufficiente, per cui la forma artistica si pretenderebbe “autonoma” da ogni altro criterio di valutazione che non sia quello intrinseco, secondo un’interpretazione esteticistica dell’arte lontanissima dalla visione heideggeriana.

La forma dell’opera non è solo la definitezza e compiutezza della struttura visibile, e neanche soltanto la struttura del mondo che essa fa presente; è ancora qualcosa di più, cioè la forza che ha l’opera di far apparire tutte queste definitezze nel loro radicarsi nella terra, intesa come l’oscuro mai pienamente esplicitabile, l’origine permanentemente originante. (Vattimo: Arte e verità nel pensiero di Martin Heidegger, 1966, Giappichelli, Torino, 120)

L’autore dell’opera

Vi è poi un altro carattere che connette strettamente arte e produzione, oltre a quello di forma: l’opera d’arte, nel suo essere, pone sempre in primo piano, porta sempre con sé, il fatto stesso di essere creata, come è testimoniato dall’esigenza di sapere, in rapporto ad essa, chi è l’autore (cosa che non avviene per gli oggetti d’uso, per i quali prevalgono altre esigenze). Questo non significa, ovviamente, voler riportare il senso dell’arte alla vita dell’artista. La domanda su chi è l’autore indica che per l’opera primario è il suo essere-prodotta.

L’emergere dell’esser-fatto proprio dell’opera non significa che nell’opera debba balzare all’occhio il suo esser-fatta da un grande artista. La fattura non deve testimoniare la capacità di un maestro additandolo alla pubblica ammirazione. Non si tratta di render pubblico l’NN fecit; ciò che nell’opera deve essere tenuto nell’aperto è il semplice factum est; cioè questo: che qui si è storicizzato il non-esser-nascosto dell’ente e che si storicizza ancora proprio perché si è storicizzato; cioè questo: che una tale opera è, anziché non essere. (OPA, 49)

La novità dell’opera: l’urto

In tale fatto viene alla luce un aspetto fondamentale : l’essere-prodotta dell’opera non vuole richiamare l’attenzione sulle circostanze che l’hanno portata all’essere, ma sulla radicale novità del suo evento, del fatto stesso della sua esistenza. Proprio il suo non essere deducibile, esigibile, richiesta da nulla, eppure il suo esserci comunque, testimonia, la sua novità. Se l’arte è “prodotto”, il senso (l’essere) di tale prodotto non è la fidatezza (senso dell’oggetto d’uso) ma la novità, non è il rassicurare su un mondo già aperto, ma l’aprire un mondo nuovo. È su ciò che si basa quella particolare reazione all’incontro con l’opera d’arte che Heidegger chiama Stoss, urto o scossa, reazione davanti al fatto stesso che l’opera ci sia anziché non esserci. A differenza dello strumento, che appartiene a un mondo dato, inserendosi in una totalità di rapporti determinati e, quindi, rassicurando sulla significatività del mondo, l’arte, invece, ha un effetto spaesante.

L’opera colpisce proprio in quanto non si inserisce in nessun ambito dato; è gratuita perché non è richiesta, non ha “funzioni” riconoscibili in rapporto ad esigenze stabilite. Essa tuttavia appartiene ad un mondo: ma a quello che essa stessa apre. (Vattimo, op. cit. p. 124)

Lo Stoss riguarda non il “che cosa” del mondo ma il suo “che”. Il nostro modo d’essere abitudinario è quello dell’interesse rivolto ai significati del mondo, agli enti che sono nel mondo, mai quello di prestare attenzione al fatto stesso che il mondo ci sia. L’incontro con l’opera d’arte è l’incontro con il nascere stesso del mondo e, perciò stesso, un’esperienza di metamorfosi, di trasformazione dei nostri rapporti abituali con il mondo e con la terra, quello che Heidegger chiama “un soggiornare nella verità che si storicizza nell’opera” e che assimila a una salvaguardia (Bewahrung, etimologicamente vicino a Wahrheit, verità) dell’opera stessa.

Salvaguardare l’opera

In questa problematica co-appartenenza di esser-prodotta e di salvaguardia dell’opera riconosciamo un problema classico dell’estetica, quello dell’estetica della creazione contrapposta all’estetica della fruizione o ricezione, ma, per quanto abbiamo detto del rapporto con la verità e, perciò, del carattere ontologico, tanto della produzione, quanto della “fruizione” possiamo anche cogliere il radicale sovvertimento che, in tale ambito, Heidegger ha operato. Una distanza dalle tradizionali teorie che il filosofo stesso sottolinea, ribadendo come la salvaguardia sia un incontro con l’opera che non ha nulla a che fare né con l’esperienza vissuta, suscitatrice di emozioni, né con l’apprezzamento specialistico, fondato sul gusto del formale.

Quando le opere sono offerte al semplice godimento artistico, non si può ancora dire che siano salvaguardate come opere. All’opposto: tosto che l’urto nel prodigio si perde nell’abitudine e nella competenza, l’industria e il commercio hanno già invaso il dominio dell’arte. Anche la conservazione accurata delle opere e il lavoro scientifico di restauro non investono mai l’esser-opere delle opere, ma semplicemente il ricordo di esse; tale ricordo può però conferire ancora all’opera un posto dal quale essa può contribuire a dar forma alla storia. Ma la realtà autentica dell’opera frutta veramente solo quando l’opera è salvaguardata nella verità storicizzantesi attraverso di essa. (OPA, 53)

Poesia come essenza dell’arte

Un ultimo discorso va fatto per l’affermazione heideggeriana che l’essenza di tutte le arti è la poesia (Dichtung). È chiaro che Heidegger non si riferisce alla poesia (Poesie) come arte particolare (parole in versi). Il senso del termine poesia va riportato all’etimologia del tedesco dichten, il quale, oltre che poetare significa anche inventare. È quest’ultimo significato che deve essere tenuto presente, perché esso mostra come l’opera d’arte, in quanto inventata, provenga dal nulla, esprima un valore di novità assoluta. In questo senso ogni arte è, essenzialmente, poesia.

Se è vero che tutte le arti sono essenzialmente poesia, è anche vero che, per il ruolo che il linguaggio gioca nella filosofia di Heidegger, ruolo che diventerà sempre più importante con il passare degli anni, la poesia come arte determinata ha, entro il sistema delle arti, una posizione di particolare importanza. Come sappiamo, il linguaggio non può essere ridotto alla funzione comunicativa, puramente strumentale. Esso è, nella sua essenza, s-velamento dell’essere, ciò che porta nell’aperto l’ente come ente. Solo in quanto detto, l’ente è ente.

Il linguaggio non è soltanto e in primo luogo l’espressione orale e scritta di ciò che dev’essere comunicato. Esso non si limita a trasmettere in parole e frasi ciò che è già rivelato o nascosto, ma, per prima cosa, porta nell’Aperto l’ente in quanto ente. … Il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all’apparizione. Questo nominare dà un nome all’ente nel suo essere e in base ad esso. Questo dire è un progetto dell’illuminazione in cui è detto il modo di essere in cui l’ente accede all’Aperto. … Il dire (sagen) progettante è Poesia. Questo dire è saga (Sage) del Mondo e della Terra, dell’ambito della loro lotta e quindi del costituirsi della vicinanza o della lontananza degli Dei. (OPA, 57)

Se la poesia, essenza di tutte le arti, è invenzione, novità assoluta, gratuità, allora l’arte non corre il rischio di ricadere nell’arbitrario o nel superfluo? Heidegger naturalmente è lontanissimo da questa concezione, perché la poesia, l’arte, è radicata nell’essere. Questo intende Heidegger nell’ultima parte del saggio, dove definisce la poesia come instaurazione (Stiftung) della verità, concetto che il filosofo articola in tre significati fondamentali: instaurazione come dono, instaurazione come collocazione sul fondamento, instaurazione come principio.

Dono, fondamento, principio

La gratuità della poesia è ciò che la rende dono, dono di un mondo, di un nuovo ordine storico, di un nuovo fondamento, indeducibile da ogni stato precedente. La poesia è, poi, collocazione sul fondamento: questa affermazione può sembrare in contrasto con quella precedente, ma così non è. La gratuità della poesia, il suo essere dono e, quindi, apertura di una inedita prospettiva storica, non sta a indicare, già lo abbiamo detto, che la poesia sia arbitraria: l’arte, aprendo un mondo, colloca l’umanità sui suoi fondamenti storici, apre all’umanità il destino storico. Il fondamento che l’artista dona all’umanità non è un’invenzione dell’artista stesso. Il poeta trova e raccoglie tale fondamento. Il progetto poetico viene dal nulla, nel senso che non riceve il suo dono dall’abituale e dal tramandato. Ma esso non sorge mai dal nulla assoluto, poiché ciò che è progettato in virtù sua, è semplicemente la determinazione trattenuta dello stesso Esserci storico.

In quanto fondamento e dono, la poesia è anche inizio, nel senso greco di arché, da non intendersi tanto come inizio temporale, quanto come legge che governa un’epoca e un mondo. Il saggio, dunque, si conclude con una parola decisiva sull’essere inizio e origine dell’arte, su ciò che rende l’arte non un accessorio che appartiene all’abitudinarietà e alla banalità del nostro vivere, ma che ne fa un modo essenziale della storicità della nostra esistenza.

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