Il soggettivismo cartesiano
Con Cartesio la filosofia diventa soggettivismo ed entra a pieno diritto nella modernità. Il Discorso sul metodo del 1637, le Meditationes de prima philosophia del 1641 e i Principia philosophiae del 1644 costituiscono le tappe fondamentali di un unico percorso, volto a cercare un nuovo fondamento per il pensiero più sicuro di quello dominante, basato sull’autorità della tradizione e sul magistero della Chiesa.
Il dubbio metodico
Il dubbio cartesiano, basato su due momenti fondamentali, è sicuramente l’aspetto più noto della sua filosofia. Non si tratta di un dubbio scettico di tipo pirroniano, volto semplicemente alla negazione della possibilità di una conoscenza certa, ma di un dubbio metodico, avente lo scopo opposto di trovare una base assolutamente certa al conoscere. I due momenti distinti sono:
- Riconoscere il carattere problematico e incerto delle conoscenze possedute (momento teoretico).
- Decidere di sospendere l’assenso a tali conoscenze, considerandole provvisoriamente false (momento pratico).
L’epoché (sospensione del giudizio) non riguarda il contenuto dell’idea, la sua essenza: qualunque idea presente nella mente, riguardo alle determinazioni che contiene, è assolutamente certa. Che si pensi a un ippogrifo o a una lavagna, le due idee, dal punto di vista essenziale, sono ugualmente indubitabili. L’idea, come pura essenza, è immediatamente certa. Il dubbio si esercita invece sull’affermazione dell’esistenza di tali idee. Che cosa, chi, garantisce che quelle idee indubitabili che sono presenti nella mente, esistano anche fuori di essa? Non i sensi, perché troppo spesso ci ingannano, non la tradizione, spesso contraddittoria, e nemmeno quella conoscenza che sembra la più sicura, la matematica, perché nessuno ci può garantire che uno spirito maligno non si diverta a ingannarci.
A noi non interessa seguire nel dettaglio il percorso fatto da Cartesio, peraltro notissimo, per ricostruire la verità. Dobbiamo, tuttavia, fissare l’attenzione su questi pochi ma importanti punti:
- La tradizionale distinzione ontologica fra essenza ed esistenza, fra il “che cos’è” e il “che è” di un ente, viene ripensata da Cartesio in termini assolutamente nuovi: da un lato, affida l’essenza e la sua certezza non più a un in sé extramentale, ma alla coscienza che di essa si ha, dall’altro, pone come bisognoso di fondazione, come ciò di cui si deve rendere conto, l’esser-fuori, il sussistere, di tale essenza. Il dubbio cartesiano, insomma, non riguarda l’idea in quanto tale, ma l’ente a cui l’idea fa riferimento. L’essenza, il “che cos’è” di un ente, che nella prospettiva tradizionale trovava il proprio fondamento nella sostanzialità della cosa (sub-stantia = ciò che sta sotto, ciò che sostiene tutte le determinazioni della cosa, qualcosa di in sé sussistente), con Cartesio viene riportata a un altro fondamento (hypocheímenon): la res cogitans, la coscienza dell’uomo, che diventa così vero e unico soggetto. L’essenza di una cosa ha la sua verità solo se viene preliminarmente “certificata” (verità = certezza).
- Il dubbio non abolisce il mondo, non ci consegna il mero nulla: ci dà, invece, un mondo di pure idee o di essenze. Il mondo, dopo il dubbio, resta quello che era: nessuna determinazione reale o accidentale è stata a esso sottratta; solamente è un mondo privato della sua ex-sistenza, della sua posizione, del suo star fuori. Per ricostruirlo sarà necessario trovare un’essenza, un’idea, che non abbia altre determinazioni se non quella di esistere, un’essenza che non sia altro se non immediata rivelazione dell’esistenza. Questa essenza, nulla in sé, è l’ego cogito. Il nucleo essenziale del cartesianesimo è tutto qui.
L’enigma del fuori
Nel problema cartesiano (Che cosa garantisce che un’idea presente nella mente esista anche fuori di essa?) è già implicita una certa idea dell’essere. Fra le determinazioni che caratterizzano un’idea – ad esempio l’idea di lavagna – c’è anche quella del suo “esser-fuori”, mentre tale determinazione non è presente per l’idea di ippogrifo. Perché solo questa determinazione, fra tutte quelle date, viene messa in dubbio da Cartesio? Evidentemente perché Cartesio accoglie, senza sottoporla a critica, la tradizionale distinzione fra essenza ed esistenza ritrovandosi, così, in seguito alla sua riduzione soggettivistica del problema della verità a un problema di certezza, alle prese con l’enigma del fuori. In tal modo la domanda sull’essere viene compromessa e ridotta alla giustificazione di un dualismo metafisico che non appartiene alle cose stesse.
La criticità della determinazione ex-sistenziale delle cose nasconde anche un altro problema, che verrà lucidamente determinato da Kant: l’esser-fuori, l’esistenza (essere) appartiene alla cosa allo stesso modo in cui gli appartiene una determinazione qualitativa o quantitativa? L’“esser nera” della lavagna e il suo “esser fuori” dalla mente che la coglie appartengono alla cosa nello stesso modo? Kant mostrerà che le due determinazioni sono molto diverse fra loro: la prima è una determinazione reale, che appartiene alla cosa stessa, l’altra è una determinazione modale, che appartiene al rapporto fra la cosa-oggetto e l’uomo-soggetto. L’essere non è un predicato reale, ma la posizione della cosa rispetto a un soggetto.
Il cogito
Cartesio, comunque, ritiene risolto il suo problema se può trovare un’idea la cui unica determinazione sia l’esistere. Questa idea è il cogito. A noi poco interessano le critiche di tipo logico che sono state rivolte a Cartesio a tale riguardo, dato che non sembrano cogliere in modo corretto il nucleo essenziale del suo pensiero. Secondo tali critiche, il celebre “cogito, ergo sum”, considerato come un entimema, non reggerebbe sul piano della logica. Il “dunque” che porta dal pensare all’essere non sta assolutamente a indicare un’inferenza logica, perché il cogito, in quanto atto, è immediata rivelazione di esistenza: cogito-sum sono, per Cartesio, un unico e medesimo atto. Ebbene, il cogito in sé non è nulla, se non pensiero (pensiero, percezione, immaginazione, sentimento, ecc.) di idee, sostanza totalmente determinata non da qualche predicato reale, ma dall’atto stesso del pensare: res cogitans.
I fondamenti metafisici del cartesianesimo
È bene ora entrare nello specifico del pensiero cartesiano leggendo alcune parti dei suoi Principia Philosophiae. Quando Cartesio pone il problema dell’essere di un ente, egli si interroga, secondo tradizione, sulla sostanza. La sostanzialità è un modo dell’essere (l’essere eccellente, primario, sussistente in sé).
Quando noi concepiamo la sostanza, concepiamo solamente una cosa che esiste in tal modo da non aver bisogno che di sé medesima per esistere. (PF,1,51)
La sostanza
Sostanzialità significa non aver bisogno di un altro ente per esistere; l’essere autosufficiente non riguarda l’essenza di un ente (anche un accidente è ciò che è senza bisogno di altro; solo i relativi, fra gli accidenti, si definiscono riguardo all’altro da sé), ma la sua esistenza: il poter sussistere senza inerire ad altro, com’è invece per l’accidente. Allora sostanza, in senso proprio, vuol dire sistere extra causas: un ente è propriamente sostanza quando, per essere, non ha bisogno di un creatore, di qualcuno (una causa esterna) che lo porti all’essere e che successivamente lo conservi.
Può esserci dell’oscurità riguardo alla spiegazione di questa espressione: non aver bisogno che di sé medesimo; poiché, a parlar propriamente, non v’ha che Dio che sia tale, e non v’ha niuna cosa creata che possa esistere un sol momento senza essere sostenuta e conservata dalla sua potenza. (PF, ibid.)
“Dio” è il nome di quell’ente in cui l’idea dell’essere in generale si realizza nel senso autentico: l’ens perfectissimum. Ogni altro ente esiste solo grazie all’ausilio di Dio, è ens creatum. Tuttavia anche per la creatura noi usiamo il termine “essere”, cioè lo stesso termine usato per l’ente “Dio”. Quindi anche la creatura è, in un certo modo, sostanza.
Il nome di sostanza non è “univoco” riguardo a Dio e alle creature, cioè non v’è nessun significato di questa parola, che noi concepiamo distintamente, che convenga nello stesso modo a lui e a loro (PF, ibid.)
Un concetto è equivoco (omónymon) quando intenziona, con lo stesso termine, due significati diversi. Dicendo “Dio è” e “Il mondo è” si esprime in entrambi i casi l’essere, ma si intende qualcosa di diverso. Il termine “è” viene pensato in modo non univoco se riferito a Dio o alle creature. Se fosse pensato univocamente, la creatura sarebbe considerata come Dio, oppure Dio sarebbe degradato a creatura. Secondo Cartesio, invece, fra il modo d’essere di questi due enti vi è una differenza infinita, perciò, riguardo alla creatura, l’essere è pensato analogicamente.
Poiché tra le cose create alcune sono di tale natura da non potere esistere senza alcune altre, noi le distinguiamo da quelle che non hanno bisogno che del concorso ordinario di Dio, chiamando queste, sostanze, e quelle, qualità o attributi di queste sostanze. (PF, ibid.)
Il dualismo cartesiano
Dopo aver affermato che gli enti creati non sono sostanze nel senso proprio del termine, Cartesio procede a un’ulteriore distinzione. Fra le cose create vi sono due tipi di enti: le sostanze e gli accidenti. È una distinzione tradizionale, che il filosofo riprende e usa in modo nuovo per la sua metafisica.
La nozione della sostanza creata si riporta nello stesso modo a tutte, cioè a quelle che sono immateriali come a quelle che sono materiali o corporee; poiché, per intendere che sono sostanze, bisogna soltanto che noi percepiamo che esse possono esistere senza l’aiuto di nessuna cosa creata. (PF,1,52)
Cartesio distingue due tipi di sostanze create, la substantia corporea e la substantia cogitans sive mens. Entrambi gli enti possiedono la caratteristica che per esistere hanno bisogno solo di Dio, che li ha prodotti e li conserva. Al di là di questo, essi e solo essi sono autosufficienti, non hanno bisogno del consistere di nessun altro ente creato, nemmeno l’uno dell’altro.
La modalità di accesso all’ente
Viene, ora, alla luce un problema di enorme importanza nell’ambito del soggettivismo cartesiano: tramite cosa e in che modo un ente viene colto? Cartesio risponde: tramite gli attributi, tramite ciò che nell’ente stesso rinvia nel suo proprio contenuto all’ente autentico.
Quando si tratta di sapere se alcuna di queste sostanze esiste veramente, cioè se essa è veramente nel mondo, non basta che esista in questo modo perché noi la percepiamo; poiché questo solo non ci scopre nulla che ecciti qualche conoscenza particolare nel nostro pensiero. Bisogna, oltre di questo, che essa abbia alcuni attributi che noi possiamo osservare. (PF, ibid.)
La sostanzialità di un ente, l’essere proprio di un ente, non ci riguarda direttamente. In primo luogo l’essere autentico, cioè Dio, non può essere colto in base a ciò che esso è. È proprio l’essere dell’ente che, secondo Cartesio, è per noi primariamente inaccessibile. L’essere di un ente, preso puramente per sé, per se nos non afficit, non ci affetta. Nessun accesso primario e originario all’essere di un ente è possibile per noi. Noi non afferriamo l’essere in quanto tale, ma che cosa è un ente, le determinazioni dell’ente, ciò che all’ente appartiene realmente, i suoi attributi, che ne costituiscono la visibilità, l’aspetto, l’eidos, il fenomeno. Per cogliere l’essere dell’ente noi disponiamo solo di ciò che esso manifesta: la dimensione ontologica primaria, sostanziale, è affidata all’apparire, perciò dobbiamo partire dagli attributi.
Questo riguarda in particolare l’essere che noi non siamo, l’essere del mondo. Per Cartesio anche l’essere dell’uomo, in quanto res cogitans, viene compreso secondo lo stesso schema sostanza-attributi. Qui, tuttavia, vi sono molti problemi che la filosofia postcartesiana erediterà e che porteranno Kant a formulare la fondamentale distinzione fra Io trascendentale e Io empirico. Se la determinazione essenziale del cogito non è un dato ma un atto, allora l’autocoglimento dell’uomo non può essere di natura cognitiva o speculativa, ma – dirà Kant – pratica.
L’essere del mondo: la res corporea
Limitiamo, comunque, le nostre considerazioni a uno dei due enti creati, la res corporea, per comprendere ciò che Cartesio intende con essere del mondo. Gli enti mondani vanno compresi in base ai loro attributi primari, in base a ciò che appartiene sempre a essi, in quanto permanente attraverso ogni cambiamento.
Benché ogni attributo sia sufficiente per fare conoscere la sostanza, ve n’ha tuttavia uno in ognuna, che costituisce la sua natura e la sua essenza, e dal quale tutti gli altri dipendono. Cioè l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità, costituisce la natura della sostanza corporea; e il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante. (PF,1,53)
Per ciascuna sostanza c’è un attributo privilegiato, una determinazione essenziale dell’ente, a cui devono essere riferite tutte le altre determinazioni. In ognuna di queste determinazioni, in altri termini, è già implicita la determinazione essenziale. È la qualità primaria rispetto alla quale tutte le altre diventano qualità secondarie, la differenza specifica, che determina il “che cos’è” di un ente costituendolo nella sua identità e separandolo da ogni altro ente, rispetto alla quale tutte le altre sono differenze accidentali.
L’extensio
Ora, l’estensione, secondo le tre dimensioni, costituisce la determinazione essenziale della sostanza che noi chiamiamo mondo (mondo esterno a noi). È l’estensione che fa di un ente un ente mondano, un ente che si caratterizza rispetto al cogito come un non-sé, esteriore e, nel cartesianesimo, in forza dell’indipendenza reciproca delle due sostanze create, anche estraneo.
Tutto ciò che si può attribuire al corpo presuppone estensione, e non è che un modo di quello che è esteso; egualmente, tutte le proprietà che troviamo nella cosa che pensa, non sono che modi differenti di pensare. Così non sapremmo concepire, per esempio, nessuna figura se non in una cosa estesa, né movimento che in uno spazio che sia esteso; così l’immaginazione, il sentimento e la volontà dipendono in tal modo da una cosa che pensa, che non possiamo concepirli senza di essa. Ma al contrario noi possiamo concepire l’estensione senza figura o senza movimento, e la cosa che pensa senza immaginazione o sentimento, e così via. (PF, ibid.)
L’estensione, nel coglimento di un ente, è già da sempre presupposta: ogni altra qualità è un modo dell’estensione. L’extensio, quindi, è la determinazione essenziale dell’ente mondano, del corpo, talmente essenziale da poter, come vedremo, ridurre questo a quella. Se l’estensione deve essere già presente prima di tutte le altre determinazioni affinché queste (e quindi l’ente stesso) possano darsi, allora è corretto affermare che lo spazio è l’a priori del mondo, la condizione stessa di possibilità del darsi delle cose, del mondo, in quanto oggetti.
In che modo viene fondato l’essere del mondo in quanto res extensa? Qual è il tipo primario di esperienza che rende accessibile l’essere del mondo in quanto estensione? La qualità primaria del mondo in quanto corpus è l’extensio e in essa si fondano tutte le ulteriori determinazioni del mondo: figura, movimento, ecc. Nella misura in cui si concepiscono questi attributi come modi, si può ben capire che in uno stesso corpo, nella conservazione della sua quantità complessiva, cioè della sua estensione, può variare di volta in volta il tipo di ripartizione della dimensione.
Uno stesso corpo, con la sua stessa grandezza può essere esteso in molti modi, ora più in lunghezza e meno in larghezza e profondità, e talvolta, al contrario, più in larghezza e meno in lunghezza. (PF,1,64)
Anche nelle modificazioni figurali del corpo, la medesimezza del corpo si mantiene ed è presente autenticamente ciò che è sempre, e poiché l’extensio permane sempre a dispetto di qualsiasi cambiamento globale, per questo essa è l’essere del corpo.
Noi possiamo concepire con tutta distinzione diversi modi di estensione, o che appartengono all’estensione, come generalmente tutte le figure, la situazione delle parti e i loro movimenti, purché li consideriamo semplicemente come le dipendenze delle sostanze dov’essi sono; e quanto al movimento, purché pensiamo solo a quello che accade da un luogo ad un altro, senza ricercare la forza che lo produce. (PF,1,65)
Lo stesso movimento va considerato solo in quanto si esercita in un luogo, dunque solo da un punto di vista cinematico, trascurando completamente, ai fini della determinazione dell’essere del corpo, ogni considerazione dinamica, ogni considerazione che metta in gioco la vis.
Tutto quello che percepiamo per mezzo dei nostri sensi si riporta alla stretta unione che l’anima ha con il corpo e conosciamo per loro mezzo quello in cui i corpi esterni ci possono giovare o nuocere, ma non qual è la loro natura. (…) Abbandoneremo senza pena tutti i pregiudizi, i quali non sono fondati che sopra i nostri sensi, e non ci serviremo che del nostro intelletto. (PF,2,3)
Intellectio vs. Sensatio
I sensi non ci dicono nulla di che cos’è il mondo, ma solo di come gli externa corpora possono giovarci o danneggiarci. I sensi, insomma, non hanno in nessun modo una funzione conoscitiva, ma sono orientati in senso specifico alla conservazione della corporeità dell’uomo. L’unico tipo possibile di accesso al vero essere del mondo risiede nell’intellectio, che possiede, così, un privilegio speciale rispetto alla sensatio.
Noi sapremo che la natura della materia, o del corpo preso in generale, non consiste in questo, che esso è una cosa dura, o pesante, o colorata, o che tocca i nostri sensi in qualche altro modo, ma solo in questo, che esso è una sostanza estesa in larghezza, lunghezza e profondità. Per quanto riguarda la durezza, noi non ne conosciamo altro, per mezzo del contatto, se non che le parti dei corpi duri resistono al movimento delle nostre mani quando esse li incontrano; ma se, tutte le volte che portiamo le nostre mani verso qualche parte, i corpi che sono in questo luogo si ritirassero tosto ché esse si avvicinano, è certo che non sentiremmo mai la durezza; e, nondimeno, non abbiamo alcuna ragione che ci possa far credere che i corpi che si ritirassero in questo modo perderebbero per questo quello che li fa corpi. Donde segue che la loro natura non consiste nella durezza, che sentiamo talvolta in loro occasione, e nemmeno nella pesantezza, nel calore e in altre qualità di questo genere; (…) qualunque corpo, per essere, non ha bisogni di esse in nessun modo, e la sua natura consiste in questo soltanto: esso è una sostanza che ha estensione. (PF,2,4)
Nell’esempio citato, Cartesio non è assolutamente interessato alla consistenza fenomenale del toccare, non ha riguardo alcuno al senso proprio del fenomeno (il toccare come esperienza di qualcosa), ma lo interpreta fin da subito da un punto di vista meccanico come movimento qualunque di una cosa chiamata mano verso una qualunque altra cosa che si allontana da essa. Fin dall’inizio l’entità fenomenale è negata, soppressa, reinterpretata in una mera relazione meccanica, entro un contesto tematico di tipo gnoseologico teoretico.
La matematizzazione del mondo
Alla fine della Seconda parte, Cartesio riassume la sua concezione.
Confesso francamente che non conosco altra materia delle cose corporee che quella che può essere divisa, figurata e mossa in ogni sorta di modi, cioè quella che i geometri chiamano la quantità, e che prendono per oggetto delle loro dimostrazioni: e che non considero in questa materia che le sue divisioni, le sue figure e i suoi movimenti; ed infine che, riguardo a questi, io non voglio nulla ricevere per vero, se non quello che ne sarà dedotto con tanta evidenza, da poter tenere luogo di una dimostrazione matematica. E poiché può rendersi ragione in questo modo di tutti i fenomeni della natura, io non credo che si debbano ammettere altri principi nella fisica, e nemmeno che si abbia ragione di desiderarne altri diversi da quelli che sono qui spiegati. (PF,2,64)
L’essere del mondo si determina in base a un ben preciso modo di conoscenza degli oggetti, quello matematico. L’essere del mondo non è altro che l’oggettività del coglimento della natura attraverso misurazioni calcolanti. Contrariamente ad Aristotele, ora la fisica è fisica matematica. Solo ciò che nel mondo può essere determinato matematicamente è riconosciuto come l’essere autentico, il vero essere. Poiché per Cartesio verum ens è uguale a certum ens, questo vero essere conosciuto è l’autentico essere del mondo. La risoluzione dell’ontologia nella gnoseologia, dell’esperienza nella conoscenza si è definitivamente compiuta. L’essere autentico del mondo viene definito a priori in base alla conoscenza matematica del mondo.
Il mondo non viene interrogato in vista del suo essere proprio, la spazialità non viene interrogata in quanto tale, ma si presuppone all’essere del mondo una precisa idea di spazio, quella dell’extensio come condizione conforme all’essere di una determinata conoscibilità, e in base a essa viene valutato a priori quello che può appartenere all’essere del mondo e quello che non vi può appartenere. Un determinato ideale conoscitivo, basato sul criterio della certezza, decide riguardo a ciò che nel mondo può essere inteso come essere autentico.
In tutto ciò, quanto più conta non è, comunque, il privilegio accordato all’intelletto (razionalismo) a scapito dei sensi (empirismo), bensì il concetto di uomo che ne sta a fondamento. La rivoluzione cartesiana consiste proprio nell’aver elaborato in modo preciso, traendone le conseguenze estreme, la classica definizione di uomo come animal rationale. Per Cartesio, l’uomo, in quanto cogito, diviene soggetto e fondamento del mondo, il quale acquista il suo essere solo nella misura in cui il soggetto pensante lo certifica.
L’esempio della cera: qualità primarie e qualità secondarie
Leggiamo, come conclusione, il celeberrimo esempio della cera della Seconda Meditazione, dove ben si coglie l’essenziale dell’impostazione cartesiana.
Prendiamo per esempio questo pezzo di cera appena tolto dall’alveare: non ha ancora perso la dolcezza del miele che conteneva, conserva ancora qualcosa dell’odore dei fiori da cui deriva; il suo colore, la sua forma, la sua grandezza sono ben visibili; è duro, freddo, possiamo toccarlo, e se lo colpiamo produrrà un suono. Insomma, tutte le cose che ci possono far distintamente conoscere un corpo possiamo in esso riscontrarle. Ma ecco che, mentre parlo, lo avvicino al fuoco: ciò che restava del suo sapore svanisce, l’odore si disperde, il suo colore cambia, la sua forma anche, la sua grandezza aumenta, diventa liquido, si scalda, tanto da poterlo appena toccare e, per quanto lo si batta, non renderà più nessun suono. È ancora la stessa cera dopo questo cambiamento? Bisogna ammettere di sì e nessuno lo può negare. Che cosa conoscevo, dunque, distintamente in questo pezzo di cera? Sicuramente nulla di quanto avevo notato per mezzo dei sensi, dato che tutte le cose che cadevano sotto il gusto, o l’odorato, o la vista, o il tatto o l’udito, sono ora cambiate, eppure la cera è rimasta la stessa. Forse era ciò che penso ora, cioè che la cera non era né questa dolcezza di miele, ne questo gradevole odore di fiori, né questa bianchezza, né questa forma, né questo suono, ma soltanto un corpo che poco fa mi appariva sotto tutte queste forme, e che ora si presenta sotto altre forme. Ma che cosa immagino effettivamente quando la concepisco in questo modo? Consideriamola attentamente ed allontaniamo tutte le cose che appartengono alla cera; vediamo cosa resta. Non rimane altro che qualcosa di esteso, di malleabile e di mutevole. Ora, cosa sono questi caratteri: malleabile e mutevole? Intendo, forse, che questa cera, essendo rotonda, può diventare quadrata e passare, quindi, dal quadrato ad una figura triangolare? Non è certo questo, dato che la concepisco capace di ricevere un’infinità di simili mutamenti, e non saprei nemmeno percorrere quest’infinità con la mia immaginazione, pertanto questo concetto che ho della cera non può esaurirsi con la facoltà di immaginare. Che cos’è, allora, questa estensione? Non è anch’essa sconosciuta, dato che nella cera che fonde aumenta, ed aumenta ancora quando è interamente fusa e sempre di più man mano che il calore aumenta? E non comprenderei chiaramente e secondo verità che cos’è la cera, se non pensassi che è in grado di ricevere più varietà riguardo all’estensione di quanto potessi mai immaginare. Devo dunque riconoscere che non sono in grado di concepire, attraverso l’immaginazione, che cos’è questa cera, e che solo il mio intelletto lo può fare; e mi riferisco a questo pezzo di cera in particolare, perché per la cera in generale la cosa è ancora più evidente. Ebbene, qual è quella cera che non può essere concepita che per mezzo dell’intelletto e dello spirito? È sicuramente la stessa che vedo, che tocco, che immagino, la stessa che conoscevo fin dall’inizio. Ma il fatto rilevante è che la sua percezione, o meglio l’azione attraverso la quale si coglie, non è un dato visivo, né tattile, né un’immaginazione, ma soltanto un’ispezione dello spirito, la quale può essere imperfetta e confusa, com’era all’inizio, oppure chiara e distinta com’è ora, a seconda che la mia attenzione si diriga di più o di meno verso le cose che sono in essa e di cui è composta. (Meditazione II)
I passaggi che Cartesio fa dalla cera com’è data immediatamente alla cera com’è concepita dall’intelletto sono reversibili. Riportiamoci al pezzo di cera com’è dato, quindi in riferimento al colore, all’odore, al sapore, ecc., a questa determinata cosa “cera”. Abbiamo allora l’ente immediatamente dato, la cosa mondana e il tipo di accesso a essa torna a essere la percezione sensibile. Che cos’è che permette questo avanti e indietro dalla percezione sensibile alla concezione intellettiva? Il fatto che siamo sempre sullo stesso piano, quello dell’afferramento teoretico della cosa, di cui la percezione sensibile è un modo. Ora l’ente-cosa “cera” è determinato nella misura in cui è incontrato in una prensione sensoriale. Rispetto alla prensione concettuale, capace di cogliere ciò che di tale cosa è matematizzabile (la quantità estensiva), si sono aggiunte le qualità sensibili.
Bisogna riconoscere, tuttavia, che non è ancora una cosa del mondo nel senso autentico, dato che le mancano i predicati di valore (buono, cattivo, brutto, bello, adeguato, ecc.) che di solito ineriscono alla cosa del mondo. Se alle qualità sensibili aggiungiamo i predicati di valore, possiamo determinare completamente la cosa pratica, la cosa com’è rinvenibile anzitutto e per lo più nel mondo. Si tratta di un ente avente uno strato fondamentale, l’estensione, coglibile attraverso l’intelletto matematizzante, a cui si aggiunge, in modo accidentale una serie di qualità sensibili, e alla fine, che per noi rappresenta, in realtà, il modo primario di incontrare l’ente, a questa cosa, interamente data nella sua semplice presenza, si aggiungono le valorizzazioni, i significati per noi, sì da trasformare la sua Vorhandenheit in Zuhandenheit, la sua semplice presenza come oggetto della conoscenza in presenza per noi, come oggetto d’uso.
La perdita del senso del mondo
Secondo questa impostazione, per comprendere che cos’è il mondo, ci si dispone innanzitutto a considerare le cose in quanto stanno fuori di noi, determinandole in primo luogo come oggetti della conoscenza e completandole infine con giudizi di valore. Ciò che viene tralasciato è proprio il senso dell’essere del mondo, il senso del ‘fuori’ e con ciò il senso autentico dello spazio come incontro delle cose da parte dell’esserci. La spazialità, l’esser fuori viene colta come estensione, determinazione categoriale dell’ente in quanto cosa del mondo, indifferente alla dimensione esistenziale dell’ente incontrante, dell’ente fra le cui determinazioni esistenziali c’è quella di avere un mondo, una circum-stanzialità, una spazialità. È in questa direzione che si muoverà, invece, Heidegger, del quale parleremo in un prossimo articolo.