Il fenomeno del mondo
Dopo aver esposto nell’Introduzione a Essere e tempo il problema del senso dell’essere, e aver impostato nel primo e nel secondo capitolo dell’opera la tematica generale dell’analitica dell’Esserci determinando l’essere-nel-mondo come costituzione fondamentale dell’Esserci stesso, Heidegger affronta, nel capitolo terzo, il tema della mondità del mondo mostrando l’insufficienza di un approccio filosofico tradizionale a tale argomento.
Con Cartesio la metafisica moderna ha posto il problema del mondo come problema dell’esteriorità, problema del “fuori”. Il filosofo francese, pur nell’ambito di una prospettiva radicalmente nuova, conserva tutti i concetti metafisici tradizionali e li usa per la sua concezione del mondo come res extensa. Il mondo viene ridotto a estensione pura, accessibile solamente a un particolare modo di conoscenza, quello matematico. È lecito chiedersi se è proprio il mondo in cui viviamo quello di Cartesio, se le cose che incontriamo sono davvero solo corpi estesi, a cui si aggiungono poi strati soggettivi di valorizzazione percettiva e pratica. In quest’ottica, secondo Heidegger, ciò che perdiamo è proprio il fenomeno del mondo.
Il mondo come esistenziale
Un modo “ovvio” di intendere il mondo è quello di considerarlo come l’insieme di tutte le cose semplicemente date nella loro presenza. È quella che Heidegger chiama la considerazione ontica del mondo, rivolta agli enti che lo costituiscono, piuttosto che al suo fenomeno d’essere. Così facendo, la risposta alla domanda “che cos’è il mondo?” è già decisa e tutta la tradizione metafisica lo testimonia, essendosi incessantemente dedicata al compito di:
svelare l’essere dell’ente presente nel mondo e fissarlo in concetti categoriali. L’ente che è all’interno del mondo risulta allora costituito dalle cose, dalle cose naturali e dalle “cose fornite di valore”. Sorge così il problema dell’essenza delle cose. E siccome l’essenza delle cose è, in generale, determinata sul fondamento delle cose naturali, il tema primario diviene quello delle cose naturali, della natura come tale. Il carattere d’essere esemplare delle cose naturali, delle sostanze, assunto come fondamento di ogni altro, è la sostanzialità. Qual è il suo senso ontologico? Abbiamo così avviato la ricerca in una direzione problematica precisa. (M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, p. 88; da ora in avanti ET, numero pagina)
Il ripensamento heideggeriano del tema del mondo è radicale: più che un carattere delle cose il mondo è un esistenziale, e come tale appartiene all’esserci. Il mondo non è il “fuori” dell’uomo – ma nemmeno il “dentro”, come sarebbe in un’impostazione soggettivistica – bensì è ciò che all’uomo, nel suo proprio essere, necessariamente coappartiene.
Quando indaghiamo ontologicamente il “mondo”, non abbandoniamo per nulla il campo tematico dell’analitica dell’Esserci. Ontologicamente il “mondo” non è affatto una determinazione dell’ente difforme dall’Esserci, ma è, al contrario, un carattere dell’Esserci stesso che non esclude però che la via lungo la quale procede la ricerca, intorno al fenomeno del “mondo”, passi attraverso l’ente intramondano e il suo essere. (ET, 89)
I quattro significati di mondo
Heidegger individua quattro significati fondamentali di mondo, i primi due assunti in base alla prospettiva delle cose, degli enti intramondani, gli altri due assunti come ciò che riguarda l’esserci, quindi, come ciò che propriamente è mondo e mondano:
Si cerca di interpretare il mondo a partire dall’essere dell’ente intramondano (per di più non scoperto come tale), cioè a partire dalla natura. La natura, intesa in senso ontologico-categoriale, è un caso limite dell’essere di un ente intramondano possibile. L’Esserci può scoprire l’ente come natura solo in un determinato modo del suo essere nel mondo. Questo conoscere ha il carattere di una determinata demondificazione del mondo. La “natura”, come insieme categoriale delle strutture ontologiche di un determinato ente incontrato come intramondano, non può mai rendere comprensibile la mondità. (ET, 90-91)
- Totalità dell’ente semplicemente presente. (Considerazione ontico-categoriale)
- L’essere di questo ente (o di una sua regione) semplicemente presente. (Considerazione ontologico-categoriale)
- Ciò in cui l’Esserci vive. (Considerazione ontico-esistentiva)
- Mondità come esistenziale. (Considerazione ontologico-esistenziale)
Se, come mostrato in precedenti capitoli di Essere e Tempo, l’analitica dell’Esserci deve assumere come tema la modalità della quotidianità media quale modo d’essere più prossimo dell’Esserci, allora punto di partenza sarà l’essere nel mondo quotidiano, nel terzo dei significati sopra esposti, come ambito in cui l’uomo vive, mondo-ambiente, spazialità esistenziale. Anche se non è lo spazio che ci permette di comprendere il mondo, bensì il contrario. Qui si misura la distanza dell’impostazione heideggeriana dal dualismo cartesiano che contrappone res extensa alla res cogitans. V. a pag. 80 “l’intrinseca spazialità dell’esserci”.
Solo la comprensione dell’essere nel mondo come struttura essenziale dell’Esserci rende possibile la comprensione della spazialità esistenziale dell’Esserci. Questa comprensione ci garantisce dalla cecità e dalla trascuratezza di principio nei riguardi della struttura dell’essere nel mondo, trascuratezza che è motivata non ontologicamente, ma metafisicamente, con l’ingenua dottrina che l’uomo è innanzitutto una cosa spirituale, successivamente confinato “in” uno spazio. (ET, 80)
La strumentalità
Qual è l’ente che incontriamo per primo nel mondo-ambiente, ciò di cui, nel nostro modo quotidiano di essere nel mondo, ci prendiamo cura? Quali sono gli enti intramondani con cui abbiamo, innanzitutto e perlopiù, commercio? Non certo le cose date nella loro oggettività e semplice presenza. Il modo più immediato del prendersi cura non è quello del conoscere semplicemente percettivo, ma quello del maneggiare e dell’usare, per cui ciò che noi solitamente incontriamo nel mondo è lo strumento, ciò che è usato e manipolato, e su tale ente noi dobbiamo interrogarci. Questo non significa affatto sostituire, come tema di conoscenza, la cosa-oggetto con l’ente-strumento, di cui verrebbero esplicitate e descritte le qualità ontiche, ma determinare la struttura dell’essere dell’ente in questione, cominciando con il rimuovere pregiudizi, interpretazioni, che, operando incontrollate nella loro supposta “ovvietà”, indirizzano l’indagine verso una direzione già compromessa. Ovvio, ad esempio, appare assumere, come rappresentanti degli enti intramondani, proprio le mere cose, ma tale ovvietà, come abbiamo visto, compromette fin dall’inizio l’indagine fenomenologica, facendo entrare in gioco concetti come sostanzialità, materialità, estensione, e altri ancora, veri e propri strati di significato che nascondono l’essere proprio dell’ente che incontriamo nel mondo. Perciò è necessario analizzare a fondo questa modalità del prendersi cura, e giungere a una definizione rigorosa dell’ente mezzo (Zeug), in quanto qualcosa per ….
Il rimando
La prima caratteristica che appare evidente è che non si dà mai un mezzo isolato. Solo all’interno di un insieme di mezzi, di una totalità di mezzi, un mezzo è effettivamente ciò che è. Sono le diverse maniere del “per”, nella cui struttura è implicito un rimando di qualcosa a qualcosa, che costituiscono la totalità dei mezzi.
Scrittoio, penna, inchiostro, carta, cartella, tavola, lampada, mobili, finestre, porte, stanza. Queste cose non si manifestano innanzitutto isolatamente, per riempire successivamente una stanza come una somma di reali. Ciò che si incontra per primo, anche se non tematicamente conosciuto, è la stanza, e questa, di nuovo, non come ciò che è racchiuso fra quattro pareti in senso spaziale e geometrico, ma come mezzo di abitazione. È a partire da essa che si rivela l’arredamento e in questo, a sua volta, il singolo mezzo. Prima del singolo mezzo è già scoperta una totalità di mezzi. (ET, 94-95)
Nel commercio quotidiano con l’ente il “per” determina ogni altra modalità di questo ente. Non vi è alcuna conoscenza oggettiva preliminare del mezzo, a cui si aggiungerebbe, poi, l’uso. Anzi, come scrive Heidegger,
quanto meno il martello è oggetto di contemplazione, tanto più adeguatamente viene adoperato, e tanto più originario si fa il rapporto a esso (ET, 95).
Il mondo-ambiente
Il modo d’essere del mezzo, allora, non consiste nell’oggettività e nella conseguente sua conoscibilità secondo criteri di matematizzazione, ma nell’utilizzabilità, assolutamente opaca allo sguardo oggettivo, ma trasparente a quella che Heidegger chiama visione ambientale preveggente. La pratica, in altri termini, non è mai cieca, non ha bisogno di una conoscenza teoretica a essa preliminare che la guidi. Tanto l’osservare quanto l’usare sono modi del prendersi cura, ognuno dotato di una propria struttura d’essere, irriducibile all’altro.
La “cosa da fare”, l’opera, costituisce l’utilizzabile primario e, in quanto tale, essa raccoglie la molteplicità dei rimandi entro cui si incontra il mezzo. La cosa da fare, in quanto termine a cui rimanda l’usabilità del mezzo, è essa stessa mezzo.
Nel mondo-ambiente, tuttavia, non ci sono solo attrezzi di lavoro e prodotti finiti, ma anche enti che non hanno bisogno di manipolazione, in quanto già da sempre disponibili, e sono i materiali di cui gli attrezzi e i prodotti finiti sono costituiti (acciaio, ferro, pietre, legno, ecc.). Il mondo, in questa prospettiva, che può apparire affetta da radicale relativismo antropologico, è in realtà correlativo – o, come scriverà Heidegger, coappartenente – all’Esserci.
Nelle cose, in quanto attrezzi, prodotti e materiali, ci si dà un mondo non come estranea res extensa, ma come abituale mondo ambiente. La natura stessa, con-scoperta nell’uso del mezzo come l’ente che per essere ciò che è non ha bisogno di manipolazione e che, tuttavia, può diventare materiale per qualcosa, è assolutamente diversa da quella postaci davanti dalla conoscenza oggettiva e scientifica. È una natura familiare, “dedicata”, non estranea e indifferente.
L’opera, tuttavia, come centro di rimandi, non si esaurisce nell’a che serve e nel di che è fatta, dato che richiede anche e soprattutto un chi la usa. Essa, cioè, non ci dispone solo all’incontro con utilizzabili, ma anche con enti il cui modo d’essere è quello dell’utilizzante, l’Esserci. Ed è proprio in rapporto a tale rimando essenziale che viene alla luce l’insufficienza di una considerazione del mondo rivolta solo all’ente intramondano, sia pur colto nella sua designazione di strumento. L’aver scoperto, infatti, che l’usabilità è la determinazione ontologico-categoriale dell’ente intramondano così come esso è in sé, non ci dà ancora la comprensione ontologica del fenomeno del mondo.
In verità, nel corso dell’interpretazione dell’ente intramondano, il mondo è sempre stato “presupposto”. La somma totale degli enti intramondani non è in grado di darci qualcosa come il “mondo”. C’è una via che dall’essere di questo ente conduca alla chiarificazione del fenomeno del mondo? (ET, 98)
Il mondo non è un ente intramondano, ma ciò che determina l’ente intramondano a manifestarsi nel suo essere. In quale modo il mondo c’è? E che cosa significa che solo l’Esserci è costitutivamente quell’ente al cui modo d’essere appartiene l’essere nel mondo? Nell’uso, quindi nel modo d’essere più immediato del prendersi cura dell’ente intramondano, non si illumina anche la mondità del mondo?
Il manifestarsi del mezzo
Per rispondere a queste domande, Heidegger analizza quella situazione di fallimento del mezzo, che si verifica quando il mezzo è guasto o costruito con un materiale inadatto. Pur nella sua inutilizzabilità, esso rimane ancora un utilizzabile e questo non ce lo dice la conoscenza teoretica, ma la visione ambientale preveggente, dato che
il guastarsi di un mezzo non è il semplice cambiamento di una cosa, cioè il puro e semplice succedersi di proprietà in una semplice presenza. (ET, 100).
Il mezzo che improvvisamente diventa inutilizzabile ci sorprende e proprio allora si illumina per ciò che è. Innanzitutto, nei vari modi dell’inutilizzabilità, il mezzo si lascia comprendere, pur nell’ambito della sua struttura d’essere, senza cioè ridursi a mera cosa, come immota presenzialità e, a partire da ciò, l’utilizzabilità appare come ciò che si perde e si dilegua, rivelandosi come il senso proprio del mezzo. Quando utilizzo il mezzo, io sono onticamente consegnato a esso, mentre solo nella sua mancata utilizzazione, il mezzo, che rimane tale, si rivela.
Che un mezzo non sia idoneo significa: il rimando costitutivo del “per” è andato a cozzare contro un ostacolo. (…) Nel cozzo interruttivo del rimando, nella inidoneità a …, il rimando si fa esplicito: non ancora nella sua struttura ontologica, ma a livello ontico e nell’ambito della visione ambientale preveggente che va a cozzare contro lo strumento che si è guastato. (ET, 101-102)
Lo strappo nel tessuto dei rimandi fa scoprire alla visione ambientale preveggente il per che e il con che il mancante era utilizzabile, fa scoprire una struttura inaccessibile al prendersi cura utilizzante, ma già sempre preliminarmente aperta a esso: il mondo, come totalità di rimandi. Esso è struttura, dunque, e non somma dei mezzi, insieme degli utilizzabili o, peggio ancora, delle cose e degli oggetti. Il mondo viene alla luce proprio nel momento in cui un utilizzabile, cessando di funzionare, si demondifica riducendosi a semplice presenza. Il mondo incorporato e consegnato nell’utilizzabile funzionante, è lo stesso che si rivela quando il mezzo, reso inservibile, ridotto a cosa, lo rilascia demondificandosi. Alla luce di quanto detto, allora, essere-nel-mondo acquista un significato ben determinato, cioè quello di:
immedesimarsi, in modo non tematico e secondo la visione ambientale preveggente, coi rimandi costitutivi dell’utilizzabilità propria della totalità dei mezzi. (ET, 103)
Il segno
È necessario comprendere più a fondo il fenomeno del rimando e, per far ciò, Heidegger si rivolge a un ente particolare, il segno, la cui funzione rivelativa ben si comprende. In esso, infatti, utilità e carattere referenziale coincidono, mentre nell’ente intramondano non semiotico il significare è un accidente che si connette all’adoperabilità.
In cosa si differenzia un segno (pensiamo, ad esempio, a un cartello indicatore o a una freccia) da un attrezzo di lavoro (ad esempio, un martello)? Entrambi servono a qualcosa, sono utilizzabili e, quindi, sono mezzi, strumenti. In quanto tali, rimandano a qualcos’altro. Tuttavia questo non basta a fare del martello un segno. La funzione del martello è nel martellare, e se esso può anche richiamarmi al materiale di cui è fatto o alle persone che lo usano, il suo impiego precipuo non è questo. Nel segno, invece, utilità e referenzialità coincidono. È importante rilevare che l’essenza dell’ente intramondano si manifesta come consistente nel rimandare a un mondo già aperto, che non è costituito, ma solo indicato dalla referenzialità dello strumento. Lo strumento, in altri termini, presuppone il mondo e lo rivela e in questo realizza pienamente la sua natura di segno. Ben diverso è il “rimando” al mondo di un altro ente che l’uomo può incontrare, l’opera d’arte: essa apre a una novità radicale, costituisce un mondo nuovo e non “familiare”.
Heidegger distingue il rimando come indicazione dal rimando come utilità a….
Il rimando come indicazione è la concrezione ontica dell’a che di un’utilità e determina un mezzo in vista di ciò. Il rimando come utilità a… è invece una determinazione ontologico-categoriale del mezzo in quanto mezzo. (ET, 106)
Nella modalità dell’aver a che fare con un segno entra in gioco la spazialità. Heidegger ricorre all’esempio della freccia e all’indicazione che essa dà riguardo alla direzione e al movimento. Il segno indica e, in tale funzione, né il soffermare lo sguardo su di esso come semplice cosa, né il guardare come tale ciò a cui esso indica, lo coglie nella sua struttura ontologica.
L’orientamento
Esso non mette in campo una relazione ontica fra due realtà in sé compiute a cui si aggiunge, poi, la funzione dell’indicare. Proprio del segno è, semmai, quello di orientare nel mondo ambiente, facendo emergere, nella visione ambientale preveggente, un complesso di mezzi, di modo che, contemporaneamente, viene ad annunciarsi la conformità al mondo propria dell’utilizzabile.
Ritornando all’esempio della freccia, possiamo dire: il comportamento (essere per) corrispondente all’incontro col segno sarà quello di “spostarsi” o di “fermarsi” rispetto alla vettura che espone la freccia. Lo spostarsi in quanto cambiamento di direzione, appartiene, in linea essenziale, all’essere nel mondo proprio dell’Esserci. L’Esserci è sempre in qualche modo diretto verso …, in cammino. Fermarsi e stare fermo sono semplicemente casi limite di questo essere “in cammino” diretti verso … . Il segno si indirizza a un essere nel mondo originariamente “spaziale”. Il segno non è “capito” proprio quando ci limitiamo a guardarlo come una semplice cosa segno. Ma anche se seguiamo con l’occhio la direzione indicata dalla freccia e fissiamo lo sguardo su qualcosa di semplicemente presente nella direzione indicata dalla freccia, il segno non è riconosciuto nella sua autenticità. (ET, 107)
La relazione fra segno e rimando si manifesta su piani molteplici: innanzitutto l’indicare è fondato nella struttura del mezzo in generale, nel “per” del rimando; il segno ha un indicare che deve essere compreso in modo peculiare, dato che la sua utilizzabilità rende il mondo ambiente esplicitamente accessibile alla visione ambientale preveggente. Perciò:
Il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che rende manifesta la struttura ontologica dell’utilizzabilità, della totalità dei rimandi e della mondità. (ET, 111)
Perché si incontra per primo un ente il cui modo d’essere è quello del rimando? Rimando significa che l’ente, essendo ciò che è, è rimandato a qualcosa d’altro presso cui esso ha il suo appagamento (il compimento del suo senso).
L’appagatività
L’appagatività è, quindi, l’essere dell’ente intramondano. Tutto il contrario dell’inseità che la metafisica attribuisce, invece, alla cosa del mondo. “Il presso che sussiste l’appagatività è l’a che dell’utilità e il per che dell’impiegabilità.” L’a che primario è l’in vista di cui il mezzo è, e ciò riguarda sempre l’essere dell’esserci. Finora l’appartenenza al mondo si è rivelata solo come un rimandare che lega le cose singole a tutte le altre cose: ci deve essere un ultimo rimando che sta alla base degli altri e che li spiega. Tale rimando ultimo è proprio l’esserci, cioè l’uomo. È un tipo di rimando diverso da quello che lega tra loro gli enti intramondani. Heidegger lo chiama Worumwillen, l’in vista di cui della totalità strumentale del mondo. All’opposto il rimando di uno strumento all’altro si caratterizza come il per Wozu.
Gli strumenti non si costituiscono da sé, ma sono quel che sono in rapporto a un essere che ha la caratteristica di assumerli come tali e di usarli. Non solo la cosa intramondana è tale solo in quanto appartiene al mondo, che la precede e la fonda, ma ancora il mondo, come totalità di strumenti e di rimandi, è tale solo in quanto è fondato da quell’essere che ha come carattere costitutivo l’essere nel mondo. Tale fondamento non è il frutto di un atto deliberato da parte dell’Esserci: esso è già sempre in un mondo di rimandi e in intimità con essi, ha già sempre una certa comprensione di una totalità di significati.
La spazialità
Entriamo ora specificamente nella trattazione della spazialità, distinguendo, innanzitutto, fra due modi radicalmente diversi dell’essere nel mondo, quello dell’esserci e quello delle cose o enti intramondani. L’uomo è nel mondo allo stesso modo in cui l’acqua è nel bicchiere? Essere nel mondo significa essere dentro? Indica il rapporto di due enti estesi rispetto al loro luogo nello spazio?
I due modi di essere-nel-mondo
Acqua e bicchiere, chiave e toppa, sono, tutti e allo stesso modo, “nello” spazio e “in” un luogo. Questo rapporto d’essere può venire esteso; ad esempio: il banco è nell’aula, l’aula è nell’università, l’università è nella città, e così via fino a: il banco è “nello spazio universale”. Questi enti, di cui si può così determinare l’esser l’uno dentro l’altro, hanno il modo di essere delle semplici presenze in quanto sono cose presenti “all’interno” del mondo. L’esser presente “in” una cosa presente, l’esser compresente con qualcosa che ha il medesimo modo di essere (inteso come un determinato rapporto di luogo) sono caratteri ontologici che noi diciamo categoriali in quanto propri di enti aventi un modo di essere non conforme all’Esserci. L’in-essere al contrario, significa un esistenziale, perché fa parte della costituzione dell’essere dell’Esserci. Perciò non può essere semplicemente pensato come l’essere semplicemente presente di una cosa corporea (il corpo dell’uomo) “dentro” un altro ente semplicemente presente. L’in-essere non significa dunque la presenza spaziale di una cosa dentro l’altra, poiché l’in, originariamente, non significa affatto un riferimento spaziale del genere suddetto. In deriva da innan, abitare, soggiornare; an significa: sono abituato, sono familiare con, sono solito: esso ha il significato di colo, nel senso di habito e diligo. L’ente a cui l’in-essere appartiene in questo significato è quello che noi abbiamo indicato come l’ente che io sempre sono. L’espressione “sono” è connessa a “presso”. “Io sono” significa, di nuovo: abito, soggiorno presso … il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo. “Essere” come infinito di “io sono”, cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso …, aver familiarità con … . L’in-essere è perciò l’espressione formale ed esistenziale dell’essere dell’Esserci che ha la costituzione essenziale dell’essere-nel-mondo. (ET, 77-78)
Tavolo e uomo sono diversamente nello spazio: l’uomo si muove in un orizzonte, la cosa, invece, no. Il tavolo si dà nello spazio, occupa uno spazio, è semplicemente qui. I suoi confini coincidono con il suo essere qui e, in tale coincidenza, il tavolo manifesta interamente la sua spazialità. Diversamente stanno le cose per l’uomo: al suo essere qui appartiene, per essenza, l’essere sempre rapportato a qualcosa, l’essere sempre, cioè, oltre il qui. Il che non significa che l’uomo è sempre oltre il suo corpo, essendo presso qualcosa. Se così fosse, l’uomo primariamente sarebbe determinabile come Körper, come semplice oggetto, res extensa, sostanza alla quale apparterrebbe, tra le altre, anche la misteriosa proprietà di protendersi oltre se stessa. Il confine del corpo proprio dell’uomo non è quantitativamente, ma qualitativamente diverso da quello del corpo anatomico-fisiologico.
In ogni esperienza del corporeo, dal punto di vista dell’analitica dell’esserci, si deve partire sempre dalla costituzione fondamentale dell’esistere umano, vale a dire, dall’esser uomo in quanto esserci, in quanto esistere – in senso transitivo – un ambito di esser costantemente aperto del mondo; a partire, dunque, dall’esser costantemente aperto, nella cui luce le significatività di ciò che si fa incontro rivolgono la parola all’uomo assegnandoglisi. (M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Guida Editore, Napoli, 1991, p. 337)
L’esserci è già sempre rapportato a qualcosa che gli si disvela. L’essenza dell’uomo sta nell’esser rapportato all’ente (intenzionalità), in quanto aperto all’essere dell’ente (trascendenza, comprensione dell’essere). Ma non è un semplice e generico essere rapportato, bensì un esser rapportato percettivo: l’uomo è invitato a rispondere a ciò che gli si assegna secondo il suo modo proprio. Ciò che gli si fa incontro è il reale (Wirklichkeit), il percettivo in quanto effettivamente incontrabile. Se l’uomo fosse un “percepire spirituale”, sarebbe lui stesso l’essere e, pertanto, sarebbe privo di ente, privo di mondo, orizzonte di apparizione dell’ente. Non sarebbe apertura, ex-sistere, stare nell’aperto (l’esser qui nel modo dell’esser sempre altrove). Se esistere è l’esser rapportati percettivamente a ciò che ci si fa incontro assegnandocisi, e se esistere è leiben, il corpo non può essere oggetto a cui si aggiunge, come sua guida un soggetto. Il corpo non è mai corpo animato, se con tale espressione si vuole intendere corpo + anima. Con la morte il Leib diventa Körper e il modo d’essere del Dasein assume quello della cosa. Il Dasein cade fuori, si fa mera esteriorità, puro oggetto dello spazio, senza evento e senza incontro. Non è più un ambito del poter percepire, ma il percepito semplicemente. Vedere il corporeo in quanto oggetto è vedere il corporeo in quanto morto. Una comprensione dell’uomo in termini di combinazione di soma e psiche comporta che l’essenziale dell’uomo è già per sempre scomparso dallo sguardo. Il Dasein è incontro percettivo con le cose – e in questo senso di percettivo non c’è nulla di cognitivo – perciò l’esserci, cioè quell’ente che nel suo essere appare difforme dalle cose, non può non essere, sotto un riguardo tutto speciale, anche cosa (corpo). Il corpo “ci serve”, nel senso che noi lo “adoperiamo” nel nostro rapporto con l’ente. In questo senso la dimensione utensilitaria del corpo sembra indiscutibile. Ma allora il corpo è uno strumento? Assolutamente no, secondo Heidegger. Non è l’uomo che adopera il corpo per manipolare l’ente, è l’uomo che “si adopera” nel rapporto con l’ente. Il corpo non è uno strumento che, in quanto tale, possa essere messo da parte quando non serve, uno strumento che ha la propria ragione fuori di sé in una coscienza utilizzante. Il corpo non è utensile, ma possibilità di utilizzare; non è cosa spaziale, ma possibilità di aprire lo spazio, è ciò che apre il mondo come complesso di strumenti, come orizzonte di apparizione degli oggetti. Il corporeo è l’effettuarsi della possibilità di percepire e, in quanto tale, è fenomeno del Dasein.
L’uomo e il mondo non stanno l’uno accanto all’altro, né tantomeno l’uno e l’altro si toccano. Quando si dice che la sedia è appoggiata alla parete e la tocca, si intende lo stesso di una mano che tocca la parete? Si tratta, naturalmente, di significati diversi, il cui chiarimento è essenziale. Solo un ente che nel suo modo d’essere ha l’incontrare qualcosa può “toccare” o “essere presso”. Un mondo deve già essere aperto perché un ente possa incontrare e, quindi, toccare un altro ente. Per questo
due enti che siano semplicemente presenti nel mondo e siano inoltre in se stessi senza mondo, non si possono “toccare” e nessuno dei due può “essere presso” l’altro (ET, 79).
Il nesso fra spazialità e strumentalità
Per cogliere il significato della spazialità dell’Esserci è necessario determinare in via preliminare in quale senso lo spazio è costitutivo del mondo e in particolare in che modo l’essere del mondo ambiente e la specifica spazialità dell’ente intramondano siano fondate nell’essere del mondo. C’è un nesso fra strumentalità e spazialità? L’utilizzabile del commercio quotidiano ha anche il carattere della vicinanza.
L’essere-alla-mano
Zuhandenheit (l’ente alla mano: zur Hand). Il mezzo è, in quanto tale, a portata di mano. Anche se è oggettivamente distante, esso rientra strutturalmente nel nostro orizzonte e la sua vicinanza ha un orientamento, si concretizza in direzioni che la nostra visione ambientale preveggente determina.
L’essere dentro il mondo di un mezzo non è mai l’occupare indifferentemente uno spazio qualunque, alla stregua di un semplice oggetto nello spazio astratto, ma il trovarsi in un determinato posto, l’essere collocato e disposto. Il mezzo ha il suo posto, determinato dalla totalità di mezzi a cui rimanda e questo avere un posto appropriato è la prossimità, un in-dove tenuto costantemente sotto occhio dalla visione ambientale preveggente, che non indica collocazione esteriore di qualcosa rispetto a qualcos’altro, ma disposizione orientata secondo direzioni e aspettative, propriamente ambientalità, come modo d’essere intorno a noi dell’ente intramondano che si incontra per primo.
L’ambientalità
Ogni luogo ha il suo senso in base ai percorsi del commercio quotidiano e non a un’astratta strutturazione tridimensionale, è interpretato a opera della visione ambientale preveggente e non della considerazione misurante dello spazio. Il prendersi cura orienta il dove in base agli altri utilizzabili.
Così il sole, la cui luce e il cui calore sono usati quotidianamente, riceve i suoi posti particolari dalla visione ambientale preveggente in funzione dell’uso di ciò che esso dona: il sorgere, il mezzogiorno, il tramonto, la mezzanotte. I posti di questo utilizzabile, che è costantemente tale nel suo mutare uniforme, divengono “indici” particolari delle prossimità da essi determinate. Queste prossimità regionali celesti, questi “punti cardinali”, non ancora forniti di un significato geografico, offrono anticipatamente l’in-dove a particolari conformazioni di prossimità, articolabili in posti. La casa ha una facciata solatia e una in ombra. Da ciò dipende la distribuzione degli “ambienti” e, al loro interno, la “disposizione” dell’arredamento in base all’uso. Chiese e tombe sono disposte secondo il sorgere e il tramontare del sole, regioni della vita e della morte, da cui l’Esserci stesso è determinato nel mondo quanto alle possibilità di essere più proprie. (ET, 135-136)
Il rapporto col mondo possiede, alla luce di queste prossimità, nella familiarità di questo ambiente, il carattere dell’intimità senza sorprese, nella cui consuetudine il mondo-ambiente si cela. Solo quando qualcosa non è al suo posto la prossimità ambientale, così come l’utilizzabilità, si rende esplicita. Lo spazio puro di cui parla la scienza e la conoscenza teoretica è ancora nascosto. Per portarlo allo scoperto è necessario ricorrere a un esplicito metodo di riduzione del mondo a res extensa, un’operazione che ricostruisce uno spazio unitario a partire dall’infinità “frantumata” di posti in cui il mondo ambiente si articola, ma che lo fa uniformando e demondificando la totalità concreta di posti che la visione ambientale preveggente organizza e raccoglie come mondo.
Il dis-allontanamento
La spazialità dell’essere nel mondo non ha né il carattere della semplice presenza in qualche luogo dello spazio, né quello della sua utilizzabilità in qualche posto. Dis-allontanamento e orientamento direttivo sono i caratteri di questa spazialità.
Dis-allontanamento (Ent-fernung) significa far scomparire la distanza e sta a fondamento della lontananza e della distanza fra un ente intramondano e l’altro. È un esistenziale e indica che proprio dell’Esserci è l’incontro con l’ente nella “vicinanza”, indica che nel modo d’essere dell’Esserci è costitutivo un ambito, un’apertura, un orizzonte entro cui l’ente si dà. Dis-allontanando il mondo l’esserci si “appropria” del mondo traspropriandosi ad esso. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il calcolo oggettivo delle distanze, perché il più vicino oggettivamente non è sempre il più vicino veramente: dis-allontanare dice lo stesso del prendersi cura, dello scoprire l’ente presso il quale l’Esserci, in quanto esistente, è già da sempre.
Un percorso “obiettivamente” più lungo può essere più corto di un altro “obiettivamente” più corto, se questo è, ad esempio, “molto arduo” e appare interminabile. Solo in questo modo di apparire il mondo reale risulta effettivamente utilizzabile. Le distanze oggettive fra le cose semplicemente presenti non si identificano con la lontananza e la vicinanza dell’utilizzabile intramondano. (ET, 139)
La visione ambientale preveggente, non la misurazione, decide che cosa è il più vicino e lo fa non con l’arbitrio della soggettività, ma perché il mondo è un carattere dell’Esserci, perché mondo e uomo non sono due termini in sé sussistenti ed estranei l’un altro fra i quali si stabilisce una relazione estrinseca e non necessaria, ma si coappartengono.
Spazio come luogo dello scoprimento
L’avvicinamento non muove da un io-cosa fornito di corpo, ma dall’essere nel mondo prendente cura di ciò che lo circonda innanzitutto. La spazialità dell’Esserci non è quindi determinabile mediante la determinazione di un luogo in cui una cosa corpo sarebbe semplicemente presente. (…) L’Esserci comprende il suo “qui”a partire dal “là” del mondo ambiente. (…) In conseguenza della sua spazialità, l’Esserci non è mai innanzitutto “qui”, bensì in quel “là” a partire dal quale esso perviene al suo “qui”, e ciò, di nuovo, soltanto in quanto esso interpreta il suo esser prendente cura di … a partire da ciò che “là” è utilizzabile. (ET, 140-141)
Heidegger non ha dedicato molte pagine alla corporeità del Da-sein. In Essere e Tempo al tema del corpo non sono dedicate più di sei righe:
Dall’orientamento direttivo derivano le direzioni fisse di destra e di sinistra. L’orientamento direttivo è costantemente connesso all’Esserci né più né meno del dis-allontanamento. È in base a queste direzioni che va caratterizzata anche la spazializzazione dell’Esserci nella sua “corporeità”, spazializzazione che porta con sé una sua particolare problematica che qui non possiamo trattare. (ET, 142).
Ben altra attenzione è riservata al tema del corpo nei Seminari di Zollikon, una serie di incontri durati un decennio (1959-1969), organizzati da Medard Boss – direttore del Burghölzli, la Clinica Psichiatrica dell’Università di Zurigo – fra un gruppo di medici, analisti e psichiatri e Heidegger, centrati sulla richiesta teorica che il filosofo porrà alla psicopatologia, che il polo unitario della sua azione debba essere non l’artificiosa prospettiva psicosomatica, ma l’uomo esistente nell’integrità del suo esserci. In tale ottica, corpo dell’uomo e spazialità acquistano un rilievo particolare.
L’esserci dell’uomo è in sé spaziale nel senso del concedere spazio allo spazio e della spazializzazione dell’esserci nella sua corporeità. L’esserci non è spaziale in quanto è corporeo, bensì la corporeità è possibile solo in quanto l’esserci è spaziale nel senso di concedente spazio. (M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 146)
Il rapporto spazio-corpo è un rapporto di identità-differenza: il corpo è visibilità dello spazio, è lo spazio onticamente inteso, mentre lo spazio è il corpo ontologicamente compreso. Il corpo è ratio cognoscendi dello spazio, lo spazio è ratio essendi del corpo. Come all’essere è intrinseco essere sempre qualcosa, essere un ente qualsivoglia, così è intrinseco allo spazio essere sempre, nella sua manifestazione, corpo. La connessione privilegiata di Essere e Tempo era servita a Heidegger per scardinare la concezione metafisica dell’essere, entro la quale rimaneva incomprensibile la comprensione ontologica dell’uomo, la sua non disponibilità, in quanto progetto, a essere compreso entro lo schema dualistico soggetto-oggetto. L’attenzione che nei Seminari di Zollikon Heidegger rivolge al corpo porta a far emergere, accanto a quello già indagato del tempo, anche il senso ontologico dello spazio, come fenomeno originario, irriducibile ad ogni altro. Se il § 70 di Essere e Tempo sembra andare verso un tentativo di ridurre la spazialità alla temporalità, l’indagine sulla corporeità mostra che l’esserci non è solo temporale, l’esserci è anche spaziale. Nell’interpretazione dell’esserci, la spazialità è co-originaria con la temporalità, l’esser proprio dell’uomo non è solo comprensibile in termini di evento, come inaugurazione di orizzonti storico-culturali, ma anche come fare spazio, incontro, prossimità, abitare in una “contrada”, radicarsi in un luogo. Tutte metafore spaziali sempre più frequenti nel “secondo” Heidegger, che dicono lo stesso delle metafore temporali del “primo” Heidegger: la costitutiva finitezza dell’Esserci.
Spazio, allora, è apertura, luogo dello scoprimento dell’ente e del raccogliersi delle cose, sede dell’accadere della verità. In quest’ottica va compreso il secondo carattere della spazialità dell’essere nel mondo, quello dell’orientamento direttivo. L’apertura entro la quale l’uomo incontra l’ente è già “segnata” da orientamenti e direzioni, l’essere in cammino dell’uomo è sempre caratterizzato da un “verso dove”, sulla cui base derivano non solo le direzioni fisse di destra e sinistra, ma anche tutta la spazializzazione che affetta la corporeità dell’uomo. Per mostrare la pregnanza di questo concetto, Heidegger si serve dell’esempio che Kant fa per chiarire il fenomeno dell’orientamento.
Supponiamo di entrare in una stanza nota ma oscura, e supponiamo che, durante la mia assenza, essa sia stata messa in subbuglio, in modo che tutto ciò che prima era a destra ora si trovi a sinistra. Per orientarmi non mi servirà a nulla il “semplice senso della diversità” dei miei due lati finché non avrò riconosciuto un determinato oggetto, del quale Kant dice, di passaggio, che “ne ho impresso il luogo nella memoria”. Ma tutto ciò sta a significare che io non posso orientarmi se non per effetto e sul fondamento di un essere presso un mondo che mi è “noto”. (…) L’orientamento secondo la destra e la sinistra presuppone l’orientamento direttivo dell’Esserci in generale, che, a sua volta, è condeterminato dall’essere nel mondo. (ET, 143)
L’orientazione è un momento strutturale dell’essere nel mondo stesso, non è la proprietà di un soggetto che abbia un senso per la destra e per la sinistra. Kant è in errore, secondo Heidegger, quando pensa: io mi oriento tramite il mero sentimento di una differenza dei miei due lati. Con tale sentimento non si coglie il pieno fenomeno dell’orientazione. “Aver memoria” del posto occupato da un oggetto significa, in realtà, orientarsi in base all’esser già nel mio mondo. Il “principio soggettivo” di cui Kant parla come costitutivo del fenomeno dell’orientazione è la costituiva appartenenza all’Esserci della spazialità.
L’essere nel mondo come prendersi cura dis-allontanante è un a priori di ogni orientamento, fondamento e presupposto per una considerazione ontologica della spazialità del mondo e dell’esserci. È la spazialità dell’Esserci, in quanto ente che ha già da sempre scoperto un mondo nella forma dell’incontro e dell’orientamento, che fonda la spazialità dell’ente intramondano. L’Esserci apre un mondo, fa spazio agli enti e questa apertura è un “lasciar venire incontro” l’ente intramondano, un far posto e un ordinare nello spazio. È questa la spazialità a cui innanzitutto e per lo più l’essere nel mondo accede e a partire dalla quale lo spazio si dà a conoscere. La spazialità dell’ente che l’uomo incontra, sempre data a priori e in modo non tematico nell’in-essere dell’Esserci, può diventare tematica essa stessa e oggetto di calcoli e misurazioni. Ma se assumiamo tale spazio, frutto di un’operazione metodica, come lo spazio in sé, obliando la spazialità della visione ambientale preveggente che ne sta a fondamento, ci ritroviamo fra le mani uno spazio astratto, omogeneo, demondificato.
La considerazione dello spazio svincolata dalla visione ambientale semplicemente teorica, neutralizza la prossimità in dimensioni pure. I posti e la totalità dei posti dei mezzi utilizzabili, (…) si risolvono in una molteplicità di luoghi indifferentemente adatti a qualsiasi cosa. (…) Il mondo si spoglia della sua ambientalità e il mondo ambiente diviene mondo naturale. Il “mondo”, come totalità di mezzi utilizzabili, viene spazializzato in un insieme di cose semplicemente presenti ed estese. (ET, 146)