Analisi del saggio Costruire abitare pensare in Saggi e Discorsi, Mursia, Milano, 1976 (p. 96-108, d’ora in avanti CAP, numero pagina)
Ripensare la parole originarie
Caratteristica peculiare del filosofare heideggeriano è quella di ripensare nel loro senso originario termini e concetti che nel linguaggio ordinario hanno acquistato un significato ben determinato, quasi sempre molto lontano da quel senso. I verbi costruire e abitare, ad esempio, che, assieme al verbo pensare, compaiono nel titolo del nostro saggio, ci rimandano subito a discipline come l’architettura, l’urbanistica, la tecnica delle costruzioni, e via dicendo. Proprio per evitare ogni fraintendimento, Heidegger chiarisce subito che nulla di tecnico o di architettonico si troverà nelle sue pagine. Le due domande con le quali il saggio si apre:
- Che cos’è l’abitare?
- In che misura il costruire rientra nell’abitare?
impegnano, infatti, non il sapere tecnico o la conoscenza calcolante a dare una risposta, ma il pensiero: abitare e costruire non sono oggetto e tema del conoscere, ma compito del pensare.
Il costruire è un abitare
Costruire, nel senso di edificare, e abitare sembrano fra loro collegati da una relazione strumentale: si costruisce per abitare. Per mezzo del costruire, l’uomo appronta le proprie abitazioni, si dà un luogo dove stare. Tuttavia, la sfera dell’abitare appare molto più vasta di quella del semplice alloggio, dell’abitazione in senso stretto: i luoghi dove l’uomo abita, dove ha sede, dove ha il proprio posto sono più numerosi delle abitazioni in senso stretto.
Un ponte e un aeroporto, uno stadio e una centrale elettrica sono costruzioni, ma non abitazioni; così una stazione, un’autostrada, una diga, un mercato coperto sono costruzioni, ma non abitazioni. […] Il camionista è a casa propria sull’autostrada, e tuttavia questa non è il luogo dove alloggia; l’operaia è a casa propria nella filanda, ma non ha lì la sua abitazione; l’ingegnere che dirige la centrale elettrica vi si trova come a casa propria, però non vi abita. (CAP, 96)
Ma lo schema costruire (mezzo) – abitare (fine) nasconde, in realtà, il rapporto essenziale fra questi due termini. Il costruire è già in se stesso un abitare, come ci dimostra il linguaggio, se lo liberiamo da quel vincolo di essere puro mezzo espressivo a cui la tradizione lo ha ridotto e prestiamo attenzione alla sua essenza.
Bauen (costruire) deriva dall’antico altotedesco buan che, in realtà, significa abitare, rimanere, trattenersi: appartiene alla stessa costellazione etimologica di bin (sono). E questo mostra come tale termine, dietro il significato “banale” di costruire, dica qualcosa di essenziale riguardo all’uomo. Se Ich bin (io sono) significa propriamente “io abito”, noi dobbiamo intendere, in questo, che il modo in cui l’uomo è nel mondo è quello dell’abitare. L’abitare, cioè, non è un comportamento fra gli altri (qui lavoriamo, là abitiamo, ecc.), ma il modo proprio d’essere dell’uomo, ciò che caratterizza l’uomo, nella sua finitezza, come mortale sulla terra: solo l’uomo abita il mondo, non gli dei, non gli animali. Ma la costellazione semantica di bauen non si limita a questo sia pur essenziale significato: da un lato, indica anche il “custodire” e il “coltivare” (colere), dall’altro, il “costruire” e l’“erigere” (aedificare) in senso proprio. Questi due modi derivati del bauen sono compresi nel significato originario dell’abitare. È, tuttavia, il significato del costruire, che accampa per sé, nell’ambito dell’esperienza quotidiana dell’uomo, tutta l’area semantica del verbo. In tal modo l’oblio cade sul significato originario ontologico dell’abitare: l’uomo non è più al mondo come l’abitante e il custode e, quindi, come un costruttore che ha cura della propria dimora, ma semplicemente come il costruttore senz’altro riguardo.
L’abitare non viene esperito come l’essere dell’uomo; l’abitare non viene mai in alcun modo pensato come il tratto fondamentale dell’essere dell’uomo. (CAP, 98)
È il destino, ma anche il segnale, delle parole originarie quello di lasciar cadere nell’oblio il proprio significato essenziale, facendosi esprimere solo dal significato più immediato e quotidiano. La parola originaria è silenziosa, ma non muta. Essa non risponde, ma lancia appelli: se interrogata, non risponde, o dà risposte scontate. Nei suoi confronti, non possiamo che disporci all’ascolto.
È necessario rovesciare l’ovvio rapporto strumentale fra il costruire e l’abitare: non abitiamo in forza del nostro costruire, ma costruiamo in forza del nostro abitare. L’uomo si trova già da sempre in una dimora, in uno spazio in cui dispiega la propria essenza e per questo può coltivare, custodire e costruire. Ancora una volta Heidegger ricorre all’antico tedesco: wohnen (abitare) deriva da wuon (sassone), wunian (gotico) e significa rimanere, trattenersi, e tale rimanere è sentito, nell’accezione gotica, come esser contento, aver la pace (Friede, freien).
La parola Friede indica il Freie, o Frye, ciò che è libero; e fry significa preservato da mali o da minacce, preservato da …, e cioè curato, riguardato (geschont). […] Abitare, esser posti nella pace, vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente (Frye) e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura. Esso permea l’abitare in ogni suo aspetto. L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra. (Costruire, 99)
Il Geviert
Il soggiornare dei mortali sulla terra comporta necessariamente il loro “opporsi-comporsi” al “soggiornare” dei divini nel cielo. Terra e cielo, divini e mortali, si implicano a vicenda, in quella complessa e originaria unità che è la coappartenenza. Torna quel difficile concetto di Geviert, la Quadratura, che Heidegger aveva elaborato l’anno precedente nel fondamentale saggio sulla cosa (La cosa in Saggi e discorsi, p. 109-124, conferenza tenuta presso l’Accademia di Belle Arti della Baviera il 6 giugno 1950). La Quadratura sembra scaturire dalla “composizione” degli “abitanti” (mortali e divini) con i loro “luoghi” (terra e cielo). Ma, a ben guardare, luogo, abitazione, dimora è propriamente solo la terra, come il Da dell’uomo, apertura in cui l’essere si dà e a partire dalla quale i Quattro sono, in realtà, una cosa sola. In base al concetto di Geviert, l’esser cosa della cosa non è né la semplice presenza di cui parla la metafisica e nemmeno la strumentalità teorizzata da Essere e Tempo, che partiva sempre dall’inautentico modo di esistere quotidiano. Come scrive Vattimo
I quattro si possono intendere come direzioni o punti cardinali. Essi non sono enti intramondani, ma piuttosto dimensioni dell’apertura del mondo dentro cui gli enti intramondani stanno. (G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari, 1980, p. 127)
E più avanti:
Le cose sono cose solo in quanto, oltre ad articolare dall’interno un’apertura storica già aperta, entrano in qualche modo a determinarla e a fondarla. Ma […] le cose possono aprire e fondare l’apertura del mondo solo in quanto fanno esser presente non solo l’ente intramondano, ma anche le dimensioni costitutive dell’evento dell’essere. (ibid., p. 128)
Il soggiornare presso le cose
La Terra, luogo dei mortali, sorregge e nutre; su di essa gli eventi si succedono, “misurati”, ritmati dal Cielo, “luogo” del sacro e dei messaggeri divini. Abitare significa essere nella Quadratura, aver cura dell’unità originaria di terra e cielo, di mortali e divini. Se la Quadratura è l’essere delle cose, allora si abita veramente solo se si intrattiene con il mondo, con le cose, un rapporto essenziale, in quanto contrapposto al rapporto strumentale che usa e manipola il mondo. Chi abita nel senso essenziale salva e non sfrutta la propria dimora, conserva il dispiegarsi degli eventi, senza stravolgerne il corso, si mantiene aperto all’appello dell’essere senza imporre a esso un senso umano, troppo umano, e in questo dispiega la propria essenza di mortale, come di colui che è capace della propria morte, perché abitare è un soggiornare presso le cose.
Il soggiornare presso le cose non si aggiunge però, come una quinta modalità, ai quattro modi menzionati dell’aver cura; anzi, il soggiornare presso le cose è l’unico modo in cui di volta in volta si compie unitariamente il quadruplice soggiornare nella Quadratura. L’abitare ha cura della Quadratura in quanto porta l’essere di questa nelle cose. Le cose, però, albergano e danno riparo alla Quadratura solo in quanto esse stesse vengono lasciate essere nella loro essenza di cose. (CAP, 101)
Le cose non sono oggetti, correlati della nostra conoscenza, né materie prime da usare, ma possibilità stessa del Dasein. L’uomo, in quanto abitante in senso essenziale, è colui a cui strutturalmente appartiene la prossimità, intesa come “aver cura”, avere un mondo. L’abitare colloca la Quadratura nelle cose e in questo senso è un costruire. L’uomo abita (costruisce) veramente solo se assicura un luogo alle cose, solo se lascia essere le cose nella loro essenza propria. Dasein (esser-ci, ma anche essere nel mondo) significa esistere in quanto apertura in cui le cose hanno luogo. Perciò la riduzione della cosa a oggetto non comporta solo un impoverimento della cosa, ma anche, da un lato, una riduzione dell’uomo a puro soggetto e, dall’altro, la condizione affinché il luogo stesso, con la sua intrinseca prossimità vissuta fatta di differenze, evapori nell’astratta indifferenza dello spazio universale. La conoscenza oggettiva ha, come ambizione prima, quella di sfuggire alla finitezza del terrestre (leggi sensibile) per attingere l’assolutezza dell’universale. Perciò essa assume come criterio guida quello di valere in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, indifferente al dove e al quando, certificata da un soggetto che non abita presso le cose, ma se le prospetta come “costruzioni” semplicemente presenti.
Il ponte come luogo
Ora che l’essenza dell’abitare in quanto soggiornare presso le cose avendone cura e custodendole come tali è venuta alla luce, ci si deve chiedere in che misura il costruire rientri nell’abitare. A tale domanda Heidegger risponde rivolgendosi a una cosa costruita, un ponte. Come sempre, gli esempi che Heidegger sceglie non sono mai indifferenti, anche se sembrano tali. È il ponte, innanzitutto, che fa apparire le rive come tali e che riconduce al fiume, grazie alla sua presenza, tutto il paesaggio: la terra viene raccolta e presentata come regione attorno al fiume. Essa, grazie a quest’opera dell’uomo appare come un mondo ben determinato, orientato da percorsi e diviso in regioni. Inavvertitamente, con l’aiuto di immagini tratte da ogni ambito del vivere umano, il ponte acquista una forza rivelativa peculiare.
In modi sempre diversi, il ponte conduce su e giù gli itinerari affrettati o esitanti degli uomini, permettendo loro di giungere sempre ad altre rive e, da ultimo di passare, come mortali, dall’altra parte. Il ponte supera il fiume o il burrone con arcate ora alte e ora basse; sia che i mortali facciano attenzione allo slancio oltrepassante del ponte, sia che dimentichino che, sempre già sulla via dell’ultimo ponte, essi fondamentalmente si sforzano di superare ciò che hanno in sé di mediocre e di malvagio, per presentarsi davanti all’integrità del divino. (CAP, 102)
In quanto slancio oltrepassante, il ponte, colto nella sua essenzialità, porta l’uomo in ciò che gli è più proprio, il trascendere, e, a modo suo, riunisce i Quattro. Ancora una volta è il linguaggio che rivela: riunione, infatti, deriva da un’antica parola tedesca, thing, il termine che serve anche per dire la cosa (Ding). Tutta la ricchezza di senso che Heidegger estrae da un ente così usuale come il ponte non è affatto una sovrastruttura simbolica che viene a ricoprire una cosa che è in sé semplice cosa.
Generalmente si pensa che il ponte sia anzitutto e propriamente solo un ponte. Solo per un senso aggiunto e occasionale potrebbe poi esprimere molteplici significati. […] Ma in realtà il ponte, se è un vero ponte, non è mai anzitutto un semplice ponte e poi, in un secondo tempo, un simbolo. (CAP, 102)
In quanto cosa particolare, il ponte accorda un posto alla Quadratura, apre a essa un luogo, e lo fa secondo modi che gli sono specifici. Senza il ponte, senza questa cosa-luogo, non vi sarebbe mondo circostante. È il ponte che “concede” spazio, che produce lo spazio circostante, disponendone ordinamento e direzioni.
Il luogo come apertura dello spazio
L’esser luogo è essenziale per aprire uno spazio (Raum). Nell’etimo dell’antico tedesco, la parola designa un posto reso libero per l’insediamento di coloni e ha molte affinità con il greco péras, non indica spazio assoluto, indeterminato, vuoto, ma ambito, luogo reso libero per …, spazio entro il quale una cosa si dà per ciò che è. I luoghi non sono suddivisioni o particolarizzazioni dello spazio, ma esattamente il contrario: ogni luogo, nella sua essenzialità, è un’apertura originaria, a partire dalla quale lo spazio esiste. Così inteso, il luogo è un edificio, prodotto di un costruire che edifica. Negli edifici si realizza il rapporto di luogo e spazio e, nel contempo, si rivela la relazione del luogo all’uomo che vi dimora. Da qui scaturiscono le due domande essenziali che occupano l’ultima parte del saggio:
- In che rapporto stanno luogo e spazio?
- Qual è la relazione tra uomo e spazio?
L’obiettivazione del luogo nel mero spazio
In quanto luogo – ambito di riunione dei quattro – il ponte apre uno spazio che appare diversificato in molteplici posti. Ognuno di questi posti può essere assunto come un punto che sta in relazione a un altro punto secondo il criterio della distanza misurabile. È allora che il mondo si riduce a mero spazio, che la prossimità fra gli uomini si perde nella distanza e che lo stesso luogo generatore dello spazio-ambiente diventa punto indifferente dello spazio misurabile. Quello che prima nella sua immediata fenomenicità era un mondo, appare ora nulla più che estensione secondo le tre dimensioni, disponibile al linguaggio matematico e alla costruzione geometrica. Come si era visto sopra, non è lo spazio che ha in sé i luoghi come parti determinate, ma il luogo che, sotto uno sguardo obiettivante, si spoglia della sua essenza e si riduce a spazi e intervalli.
Lo spazio in questo senso non contiene spazi e posti. In esso non troveremo mai dei luoghi, cioè delle cose del tipo del ponte. Tutto all’opposto, invece, è proprio entro gli spazi aperti e disposti dai luoghi che risiede ogni volta lo spazio inteso come intervallo, e a sua volta entro a questo lo spazio inteso come pura estensione. (CAP, 104)
Anche la relazione fra spazio e uomo viene ripensata chiarendo, innanzitutto, che non c’è l’uomo da una parte e lo spazio dall’altra: uomo e spazio si danno sempre assieme. Proprio dell’uomo è essere sempre presso le cose, anche quando dista da esse. Questo perché non ha con le cose un rapporto meramente rappresentativo: se nell’aula dell’Università pensiamo a un ponte della nostra città, noi siamo presso tale ponte e non presso un qualche contenuto rappresentativo della nostra coscienza. E lo siamo ben più di chi quel ponte quotidianamente e semplicemente lo usa. Nell’uso, infatti, il ponte in quanto tale si nasconde.
La dimensione ontologica del luogo e la sradicatezza dell’uomo moderno
Il luogo (l’edificio) fa posto alla Quadratura, da un lato, dando accesso a essa, dall’altro, disponendola. Nel primo senso è ricettacolo e dimora, luogo dove l’essenza dell’uomo viene accolta e salvaguardata. La dimora è il dis-allontanamento degli enti, figura della coappartenenza di uomo e mondo. Ma la dimora è dimora solo se in essa vige già una disposizione, dei luoghi propri, delle direzioni poste dalle cose stesse.
Inteso in questo senso, il costruire è un produrre essenziale: non la cosa prodotta è ciò che lo caratterizza, dato che, se così fosse, il produrre sarebbe efficiere strumentale, ma il portare alla presenza qualcosa. Il suo significato è verbale, non sostantivale. La parola greca tíkto connette produzione e tecnica (téchne): ma tecnica, originariamente, non aveva il significato che noi ora le attribuiamo; essa indicava il far apparire qualcosa fra le cose presenti come questo o quello. È la capacità di abitare che deve guidare il costruire e nella nostra epoca alla domanda di abitazioni viene data una risposta di pianificazione e di incremento quantitativo.
Per quanto dura e penosa, per quanto grave e pericolosa sia la scarsità di abitazioni, l’autentica crisi dell’abitare non consiste nella mancanza di abitazioni. La vera crisi degli alloggi è più vecchia delle guerre mondiali e delle loro distruzioni, più vecchia anche dell’aumento della popolazione terrestre e della condizione dell’operaio dell’industria. La vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell’autentica essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare. (CAP, 108)
Ciò che è richiesto, invece, è imparare ad abitare, ripensare la nostra sradicatezza e cogliere tale crisi come la crisi, dato che riguarda la struttura costitutiva fondamentale dell’esserci: l’essere nel mondo.
Un pensiero riguardo “Heidegger: Costruire abitare pensare”