Spinoza: etica degli incontri (Una lettura deleuziana)

Introduzione

È proprio su Spinoza che ho lavorato più seriamente secondo le norme della storia della filosofia, ma è pure lui quello che mi ha fatto l’effetto di una corrente d’aria che vi soffia sulla schiena tutte le volte che vi mettete a leggerlo, o di una scopa di una strega che vi viene offerta per montarvi sopra. Spinoza non si è neanche cominciato a comprenderlo e io non più degli altri. (Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni, Ombre Corte, Verona, p. 21)

A Spinoza Deleuze ha dedicato due libri,  Spinoza. Philosophie pratique e Spinoza et la philosophie de l’expression, quest’ultimo, a mio giudizio, uno dei più belli del filosofo francese. I richiami a Spinoza percorrono tutta l’opera di Deleuze ma, fra i concetti fondamentali ce n’è uno che, pur non essendo specifico di Spinoza, costituisce, tuttavia, l’accesso privilegiato alla sua filosofia e questo è il concetto di univocità dell’essere. Ed è proprio dall’analisi di questo concetto, così “tecnico”, così filosofico, così ricco di suggestioni scolastico-medievali che partiremo. Ma lo faremo imboccando una strada apparentemente antitetica, lontana, estranea, una strada che non appartiene alla filosofia classica, ma addirittura alla punta più avanzata, più ardita, della fisica teorica contemporanea.

L’uso di nozioni scientifiche in filosofia

Quando si parla di Deleuze, il riferimento ad altri campi del pensiero, l’arte e la scienza, per intenderci, non costituisce in alcun modo un’operazione arbitraria, purché naturalmente non lo si faccia con scopi puramente esemplificativi, per cercare argomenti a sostegno di una tesi filosofica, che non avrebbe il coraggio o la forza di stare in piedi da sola, per cercare insomma conferme in altri campi che sembrerebbero più condivisi e più solidi. La filosofia di Deleuze non fa mai scorribande nella scienza o nell’arte: l’analisi infinitesimale, la biologia, l’embriologia, la pittura, la letteratura, sono per Deleuze avventure del pensiero, creazioni di idee, assolutamente diverse fra loro e rispetto alla filosofia e, tuttavia, tutte volte allo stesso compito, che è quello di affrontare il caos, di produrre idee per contrastare i clichés dell’opinione.

Ciò che definisce il pensiero, le tre grandi forme del pensiero, l’arte, la scienza e la filosofia, è sempre il fatto di affrontare il caos, tracciare un piano, tendere un piano sul caos. Ma la filosofia vuole salvare l’infinito dandogli consistenza: traccia un piano di immanenza che porta all’infinito eventi o concetti consistenti sotto l’azione di personaggi concettuali. La scienza al contrario rinuncia all’infinito per arrivare alla referenza: traccia un piano di coordinate soltanto indefinite, che definisce di volta in volta stati di cose, funzioni o proposizioni referenziali, sotto l’azione di osservatori parziali. L’arte vuole creare il finito che restituisca l’infinito: traccia un piano di composizione, che a sua volta sostiene monumenti o sensazioni composte, sotto l’azione di figure estetiche. [G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino, p. 204-05]

Se abbiamo ben chiaro questo, non ci è difficile comprendere come una nozione di fisica teorica non sia in alcun modo un’estrapolazione indebita del concetto di univocità dell’essere. Né tantomeno possiamo parlare di metafora o di analogia: i percetti o i funtivi non sono mai metafore di concetti, o viceversa. In un suo testo Deleuze parla proprio dell’uso di nozioni scientifiche in filosofia, rigettandone il carattere metaforico.

Esistono due tipi di nozioni scientifiche. Ci sono nozioni esatte per natura, quantitative, esprimibili in equazioni, e che non hanno senso che per la loro esattezza: di queste un filosofo o un artista non può che servirsene in senso metaforico, ma si tratta di un uso molto negativo, perché appartengono solo alla scienza esatta. Ci sono poi nozioni fondamentalmente inesatte (uno scienziato direbbe approssimate o congetturali) e tuttavia assolutamente rigorose, di cui gli scienziati non possono fare a meno e che appartengono contemporaneamente, oltreché agli scienziati, anche ai filosofi ed agli artisti. (…) Non è per loro insufficienza che queste nozioni sono “indecise”, ma per la loro natura ed il loro contenuto. Un esempio lo possiamo trovare nel libro La nuova alleanza di Prigogine e Stengers. Fra i vari concetti che questo libro crea, c’è quello di zona di biforcazione, concetto che, pur provenendo dalla termodinamica, appare tuttavia indissolubilmente scientifico, artistico e filosofico. Allo stesso modo non è impossibile che un filosofo crei dei concetti utilizzabili dalla scienza. (…) il problema non è quello di invocare una falsa unità (fra scienza, filosofia ed arte) di cui nessuno sente il bisogno. È invece il lavoro di ognuna che può produrre convergenze inattese, nuove conseguenze, scambi reciproci. (Gilles Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata, 2000, p. 44-45)

E allora, proviamo a introdurre la nozione di univocità dell’essere partendo da una citazione tratta da un ottimo libro di divulgazione scientifica, L’universo elegante di Brian Greene, Einaudi. Il libro, che si occupa principalmente di “teoria delle stringhe”, il tentativo attualmente più avanzato per superare le imbarazzanti contraddizioni esistenti fra relatività generale e meccanica quantistica, ha concetti come pieghe dello spazio-tempo, dimensioni spaziali arrotolate su se stesse, danza caotica delle particelle subatomiche, e via dicendo, che non possono non generare assonanze o, come le chiama Deleuze, “inattese convergenze” con concetti leibniziani o spinoziani, oltreché beninteso deleuziani.

Le proprietà osservabili di tutte le particelle elementari nascono dal fatto che le loro stringhe interne hanno particolari modi di vibrazione risonanti. È un modo di vedere le cose radicalmente diverso da quello adottato in precedenza. Prima [leggi analogia dell’essere] per spiegare la differenza fra particelle si sosteneva che erano “fatte in modo diverso”. Anche se si trattava di costituenti elementari, la loro materia non era “omogenea”: l’elettrone era fatto di un “qualcosa” con carica elettrica negativa, mentre il “qualcosa” del neutrino era privo di carica [è forte la somiglianza con la definizione analogica degli enti: genere comune + differenza specifica]. La teoria delle stringhe spazza via questo modo di pensare, affermando che la materia di cui sono fatte le forze e le particelle “è sempre la stessa” [leggi univocità dell’essere]. Ogni particella elementare è composta da un’unica stringa – cioè, ogni particella è una stringa – e tutte le stringhe sono assolutamente identiche. Le differenze visibili sorgono a causa dei diversi modi di vibrazione risonanti di queste stringhe: quelle che sembravano particelle elementari di diverso tipo non sono che varie “note” suonate da un tipo fondamentale di stringa. L’universo, composto da un numero enorme di queste piccole corde vibranti, è una grande sinfonia cosmica. (Brian Greene, L’universo elegante, Einaudi, Torino, 2000, p. 126, c.m.)

Concezioni dell’essere

Il concetto di univocità dell’essere ne richiama altri, ugualmente carichi di storia (e di erudizione), quelli di equivocità e di analogia dell’essere. Sono concetti che hanno avuto il loro momento di gloria nel pensiero medievale, nella scolastica, per cui chiedersi se ha ancora senso riprenderli può sembrare legittimo. Tuttavia, come osserva Deleuze, se le questioni metafisiche o teologiche non nascondessero veri problemi, nessun uomo sarebbe bruciato o torturato per esse.

Equivocità dell’essere

L’essere è equivoco, l’essere, cioè, è detto in molteplici sensi di ciò di cui è detto. Dire questo significa affermare che nei diversi usi della parola “essere” non c’è sinonimia, nel senso in cui Aristotele usa tale termine nelle Categorie (è sinonimo un termine che, applicato a enti diversi, si usa nello stesso senso, ad esempio “animale” riguardo all’uomo e al bue), ma omonimia. Si distingue fra una concezione estrema dell’equivocità, per la quale ogni ente è in un senso diverso (assoluta omonimia, come avviene nella parola “cane”, che può essere intesa come un determinato animale, una determinata costellazione, o una specifica parte di un’arma) e una concezione mitigata, secondo la quale c’è una diversità di senso fra l’essere attribuito alle creature e l’essere attribuito a Dio.

Se vogliamo comprendere il senso proprio dell’equivocità dell’essere, dobbiamo evitare di confondere essere ed essenza. Se l’equivocità affermasse che gli enti sono fra loro diversi dal punto di vista dell’essenza, delle determinazioni reali di un ente (realitas, natura, definitio, possibilitas), sarebbe un’affermazione oltremodo banale, dal momento che ogni essenza è una diversa possibilità d’essere, cioè ha un proprio contenuto reale. Ciò che afferma, invece, è che alle diverse possibilità d’essere, alle diverse essenze, compete l’essere in senso diverso. Fra diverse possibilità d’essere (equivocità estrema) o fra categorie diverse di possibilità d’essere (equivocità mitigata) non c’è alcuna misura comune a cui possano ridursi. La più importante implicazione di questa concezione per un pensatore medievale era, ad esempio, l’assoluta inconoscibilità di Dio.

Univocità dell’essere

Questa concezione, opposta alla precedente, afferma che ogni possibilità d’essere (ogni essenza), se è, ma non può non essere, è nello stesso senso. L’essere, cioè, ha un solo senso ed è detto in un solo e stesso senso di tutto ciò di cui è detto. Riguardo all’essere (non all’essenza, naturalmente) un libro, un cane, un uomo e Dio non differiscono. È bene notare un sottile ma ineliminabile legame fra univocità dell’essere e necessità, ma anche fra equivocità dell’essere e contingenza. Se ogni essenza, compresa quella di Dio, è nello stesso senso, dal momento che Dio è necessariamente, così lo saranno tutti gli enti che sono. Ogni possibilità d’essere, cioè ogni essenza, necessariamente è, per cui l’univocità d’essere afferma l’identità fra essere ed essenza. Opposto, invece, è l’ambito in cui si muove l’equivocità dell’essere, concezione secondo la quale l’essere si aggiunge al possibile come ciò che lo realizza. Vi è, in altri termini, differenza fra essere ed essenza o, come dice Kant con una famosa espressione, l’essere non è un predicato reale, formula che può, tuttavia, trarre in inganno, dato che nemmeno per l’univocità l’essere è un predicato reale. L’essenza, infatti, è essenza perché “è”.

Il modello proprio dell’equivocità dell’essere è quello della creazione, intesa come produzione o realizzazione (= rappresentazione): fra il possibile e il reale non c’è differenza alcuna, se non l’essere, che appartiene al secondo e non al primo. L’essenza, tranne quella divina, non ha in sé la propria ragion d’essere, per cui questo sarà sempre aggiunto a essa come qualcosa di trascendente e inessenziale. Il modello proprio dell’univocità d’essere è quello dell’attualizzazione, intesa come sviluppo o esplicazione (= espressione): i termini in gioco non sono più il possibile e il reale, ma il virtuale e l’attuale, entrambi reali e fra loro differenti (pensiamo all’uovo o all’embrione o al seme e all’organismo sviluppato). Il rischio dell’univocità dell’essere, dal punto di vista teologico, è il panteismo: se ogni ente è nello stesso senso in cui Dio è, allora tutto è Dio. È arcinota, del resto, l’accusa (infondata) di panteismo, fra le altre, rivolta a Spinoza.

Analogia dell’essere

Sembra rappresentare un compromesso fra le due precedenti ontologie estreme, in realtà è una forma mascherata di equivocità e, nell’ambito della filosofia scolastica e della filosofia cristiana in generale, rappresenta l’ortodossia. Tommaso d’Aquino ne è il più autorevole sostenitore. Si propone di risolvere le aporie in cui cadevano le due posizioni precedenti, l’inconoscibilità assoluta di Dio, per l’equivocità, o il panteismo, per l’univocità.

L’analogia afferma che l’essere si dice in sensi diversi di ciò di cui si dice, ma che questi diversi sensi non sono privi di una misura comune, dato che l’essere di Dio e quello delle creature, per certi versi, si “assomigliano”. I sostenitori dell’analogia affermano che esiste un senso primario del termine “essere” ed è quello di sostanza, mentre gli altri sensi, che sono diversi, in qualche modo si rapportano a esso, per cui sono sensi secondari o, appunto, analogici. È questa l’analogia entis in senso ontologico, a cui si connette il concetto di categoria, come concetto che non si dice di un ente determinato, ma di ogni ente: le categorie, infatti, dicono i diversi sensi dell’essere, elencati come generi sommi. Vi è poi l’analogia entis in senso teologico, basata sull’equivocità intrinseca allo stesso concetto di sostanza, per cui la sostanza increata diventa il senso primario, proprio, originario, a cui le sostanze create si riferiscono come sensi derivati e secondari. È questa l’accezione principale in cui l’analogia viene intesa nel Medioevo.

Riassunto delle concezioni dell’essere

Un breve riassunto può aiutare a individuare le caratteristiche di ognuna delle concezioni ontologiche sopra tratteggiate (analogia ed equivocità sono accomunate). Per l’analogia dell’essere la sostanza increata (essere in senso proprio; identità di essenza ed esistenza) porta all’essere, attraverso il processo di creazione, le sostanze create (essere in senso analogico o derivato) in cui vi è differenza fra essenza ed esistenza e l’essenza si determina in base al genere e alla differenza specifica (es. uomo = animale razionale). Gli enti creati rappresentano analogicamente l’ente increato, secondo immagine e somiglianza. Esistono contingentemente e separatamente dall’ente increato, la cui esistenza è, invece, necessaria e trascendente. La causalità produttiva è trascendente, nel senso che l’effetto esiste fuori dalla causa (esistere da sistere extra causas). L’ente, la creatura, è quindi una rappresentazione, una copia, un’immagine del vero essere. Per l’univocità dell’essere la sostanza è l’essere (ciò che si esprime, l’agente espressivo) e gli attributi ne costituiscono le essenze (le espressioni) mentre i modi sono le esistenze (l’espresso). I modi esprimono (esplicano) la sostanza, implicandola. L’espresso, infatti, a differenza del rappresentato, non esiste separato da ciò che si esprime. Il processo ontologico, secondo la filosofia dell’espressione, è avviato e compreso in base al concetto di causalità immanente (la causa sui è il primo concetto dell’Etica). Il concetto-guida è quello di complicatio: la sostanza come complicazione – perplicazione di infinite essenze o attributi.

L’univocità dell’essere e il concetto di differenza

Affermare che l’essere è univoco significa affermare che non c’è nessuna differenza categoriale fra i diversi sensi della parola “essere”. Aristotelicamente parlando significa negare che l’essere si divida nei generi sommi: non ci sono, in altri termini, esseri di genere diverso. Solo l’univocità dell’essere comprende la differenza come differenza in sé, come differenze nell’essere e non come differenze fra esseri, sempre subordinate a istanze gerarchiche (c’è un essere in senso proprio ed eminente) e negative (gli enti creati “propriamente” parlando, “non sono”). Per l’univocità la differenza di genere o di specie, cioè la distinzione degli enti in base all’appartenenza d’essere, prima di essere un concetto di differenza sbagliato, è un concetto di differenza irrilevante, perché ciò che davvero fa la differenza è, invece, il diverso grado di potenza d’essere. Ogni ente realizza lo stesso essere, solo che lo fa con diversi gradi di potenza.

In un mondo siffatto una metafisica dell’essenza è secondaria rispetto a una metafisica dell’intensità o della potenza, una metafisica in cui non si chiede più a un ente “che cos’è?”, ma di quali affezioni, di quali intensità è capace. Perciò, osserva Deleuze, un abitante di questo mondo, come Spinoza, è facile che confonda un cavallo da tiro con un bue, entrambi animali da soma o da lavoro, mentre non confonderebbe mai un cavallo da corsa con un cavallo da tiro. In realtà, e lo vedremo sotto, questa metafisica della potenza e dell’intensità è immediatamente riconducibile a una metafisica del corpo e del sensibile. Che senso ha, infatti, chiedersi che cosa può uno spirito? Nell’ordine del possibile lo spirito non ha limiti, se non il contraddittorio. È nella domanda sulle affezioni di cui un corpo è capace che si gioca il concetto di differenza.

Solo una differenza fra potenze è una differenza pura, dove c’è un più e un meno, non come statica collocazione degli enti in una gerarchia ontologica, garantita e legittimata dalla gerarchia dei generi sommi, ma come dinamismo, aperto verso l’alto e verso il basso, verso il potere di più o il potere di meno, verso la gioia d’essere o la tristezza d’essere. Puoi di più o di meno? La tua vis existendi (sempre un vettore orientato) aumenta o diminuisce ? sono queste le vere domande ontologiche. Perciò non si può mai “fissare” un ente nella sua definizione o “comprenderlo” nella sua essenza. Che senso ha chiedere a un ente “che cos’è?”, quando un ente, riguardo al suo essere, propriamente parlando, è ciò che può essere sempre di più o sempre di meno di ciò che è? Che senso ha identificare, definire un ente, quando un ente, ontologicamente parlando, è il differente? L’essere è potenza, e le differenze di potenza non sono differenze specifiche, ma differenze intensive.

L’univocità dell’essere, necessariamente, non determina solo l’ontologia, ma anche l’etica o la teoria della conoscenza. Se un ente, infatti, non è qualcosa di generico, specificato da determinazioni essenziali e individuato o portato all’essere da determinazioni accidentali; se non ha, perciò il suo essere, o meglio, la sua ragion d’essere trascendente e fuori di sé e, conseguentemente, anche il suo stesso dover essere altrettanto trascendente (da qui la necessità di una morale per ogni filosofia dell’analogia); se, invece, è potenza, o meglio, un grado di potenza e la sua ragion d’essere è immanente al suo stesso essere e quindi, nel suo essere è sempre perfettamente realizzato, non mancando di nulla in ciò che è, allora la domanda sulla potenza di un ente implica a un tempo un’ontologia, un’etica, una politica e una gnoseologia.

Etica degli incontri: dalle affezioni alle nozioni comuni

Alcuni concetti fondamentale dell’Etica

Non rientra naturalmente nello scopo di questo articolo un’esposizione dettagliata dello spinozismo (per questo v. l’analisi dell’Etica in corso di pubblicazione su questo sito), tuttavia è importante considerare alcuni concetti fondamentali di Spinoza, perché rappresentano il modo in cui il filosofo olandese risolve il problema dell’incontro con ciò che ci costringe a pensare. Tra questi, uno sarà particolarmente rilevante, perché costituisce la risposta propria all’incontro, all’evento o, come lo chiama Spinoza, all’occursus, il concetto di affectus, affetto, talvolta malamente tradotto con sentimento. Come vedremo, non può in alcun modo essere inteso come un’inclinazione sentimentale o un moto dell’animo, anche se Spinoza stesso sembra orientarci su questa strada, definendolo animi pathema (ma il greco πάθημα páthema, da παθεῖν patheîn, infinito aoristo di πάσχω páscho, va inteso nel primo significato di questo verbo, quello di ricevere, subire, patire un’impressione dall’esterno, perciò il páthema è sempre, in primo luogo, la risposta a un occursus). Cominciamo, allora, con il leggere alcuni passi dell’Etica.

Etica II, Prop. 22

Mens humana non tantum corporis affectiones, sed etiam harum affectionum ideas percipit La mente umana percepisce non solo le affezioni del corpo, ma anche le idee di queste affezioni

In questa proposizione incontriamo due termini molto importanti che andranno chiariti, il termine affectio, affezione, che deve essere assolutamente distinto da quello di affectus, e il termine idea, che Spinoza intende secondo la duplice accezione cartesiana di realtà formale e realtà oggettiva. A proposito di cartesianesimo, la proposizione seguente costituisce la più radicale affermazione anticartesiana concepibile.

Etica II, Prop. 23

Mens se ipsam non cognoscit, nisi quatenus corporis affectionum ideas percipit La mente umana non conosce se stessa, finché non percepisce le idee delle affezioni del corpo.

Molto brutalmente, ma ne affineremo in seguito l’interpretazione, possiamo comprenderla così: l’uomo è in primo luogo e inevitabilmente consegnato alle proprie affezioni, senza che questo, va aggiunto, comporti alcuna mancanza o limitazione.

Parte II, Definizione IV (e relativa Spiegazione):

Per ideam adaequatam intelligo ideam, quae, quatenus in se sine relatione ad objectum consideratur, omnes verae ideae proprietates sive denominationes intrinsecas habet. Per idea adeguata intendo l’idea, la quale, considerata in sé, senza relazione con l’oggetto, ha tutte le proprietà o le denominazioni intrinseche della vera idea.
Dico intrinsecas, ut illam secludam, quae extrinsecam est, nempe convenientiam ideae cum suo ideato. Dico intrinseche, per escludere quella che è estrinseca, cioè la convenienza dell’idea con il suo ideato.

È l’idea presa in quanto realtà formale, cioè in quanto è qualcosa in sé, dotata di caratteristiche o di proprietà intrinseche, e non in quanto rappresenta qualcosa. Chiariamo con un esempio, prendendo quattro tipi di idee: l’idea di quadrato, l’idea di triangolo, l’idea di libro e l’idea di Dio. Considerate in quanto rappresentazioni, cioè dal punto di vista delle caratteristiche estrinseche, ognuna di queste idee ha un contenuto oggettivo diverso. Vediamo invece cosa accade se le consideriamo in quanto tali, cioè non più in base all’oggetto rappresentato, ma in base alla loro perfezione formale. L’idea di triangolo e quella di quadrato, formalmente parlando, sono uguali, perché entrambe, in quanto idee geometriche, hanno lo stesso grado di comprensione dell’oggetto, che è quello della conoscenza analitica, visto che il loro contenuto oggettivo è completamente disponibile. Diverso è il caso dell’idea di libro, oggetto della percezione, perché intrinsecamente o formalmente parlando, il suo contenuto oggettivo sarà sempre disponibile parzialmente, per prospettive, per vedute, per Abschattungen, direbbe la fenomenologia. Se la realtà oggettiva di un’idea riguarda il “che cosa” un’idea rappresenta, la sua realtà formale riguarda il “come” questo “qualcosa” è rappresentato. L’idea di Dio, allora, da un punto di vista formale, avrà una perfezione ancora diversa da quella di libro, in quanto idea di un ente infinito.

Etica III, ultima def.: definizione generale degli affetti

Affectus, qui animi pathema dicitur, est confusa idea, qua mens maiorem vel minorem sui corporis vel alicuius eius partis existendi vim, quam antea, affirmat, et qua data ipsa mens ad hoc, potius quam ad illud, cogitandum determinatur. L’affetto, detto patema d’animo, è un’idea confusa, attraverso la quale la mente afferma, rispetto a prima, una maggiore o minore forza di esistere del suo corpo o di una qualunque sua parte e, data la quale, la stessa mente è determinata a pensare a questo piuttosto che a quello.

L’affetto, che comporta una variazione in più o in meno della forza di esistere, introduce, accanto a una dimensione intensiva, anche una dimensione temporale di un “prima” e di un “dopo”. L’affetto si distingue dall’idea, considerata dal punto di vista delle sue caratteristiche estrinseche, in quanto, a differenza di quella, non ha alcun contenuto rappresentativo: se amo una donna, posso distinguere senza difficoltà fra la rappresentazione dell’amata  e l’amore nei suoi confronti. In questo senso l’idea ha un primato sull’affetto perché, prima di volere qualcosa, quel qualcosa me lo devo rappresentare. Ma la distinzione fra idea e affetto dal punto di vista della rappresentazione è una distinzione meramente nominale. Cosa avviene, invece, se assumo il termine idea in base alla sua realtà formale? La nostra vita può essere intesa come una successione e una coesistenza di idee (una successione di scenari): un’idea succede a un’altra, convive accanto a un’altra, e così via, senza soluzione di continuità. Ma, a ben guardare, la nostra vita quotidiana non si riduce a questo flusso di idee, perché tale flusso è sempre accompagnato da quella che Spinoza chiama la vis existendi.

Incontro per strada Pietro, che mi è molto antipatico, lo saluto, ma sento in me un disagio; poi vedo Paolo, che mi è invece simpaticissimo e mi sento rassicurato e contento. Da un lato, c’è la successione di due idee, l’idea di Pietro e quella di Paolo, dall’altro si è operata in me una variazione della mia forza di esistere. Prima mi rattristo, poi mi rassicuro. [Deleuze, Seminario su Spinoza del 24/01/1978]

Secondo Spinoza, l’idea di Paolo, rispetto alla mia percezione, ha una maggiore perfezione intrinseca di quella di Pietro, perché la prima fa aumentare la mia forza di esistere, mentre la seconda la fa diminuire. In forza di ciò, la mia realtà o perfezione (i due termini in Spinoza si possono considerare sinonimi) passa da un grado di potenza a un altro secondo una variazione continua, ed è questa variazione, che si determina fra i due poli della gioia (aumento della forza di esistere) e della tristezza (diminuzione della forza di esistere) a definire l’affectus, sia nella sua correlazione sia nella sua differenza di natura con le idee. Se l’idea è uno stato, l’affetto è una variazione di stato, tanto che per Spinoza noi siamo come degli automi spirituali, delle macchine, comprensibili in termini di stato e di variazioni di stato.

L’affezione

Per Platone ogni incontro con il sensibile, luogo dell’ambiguità e dell’opposizione, ci espone al rischio della differenza in sé, per cui il pensiero, guidato da un’istanza trascendente e morale, deve rischiarare questa opacità, riconducendola letteralmente alla ragione. Il compito del pensiero, infatti, è quello di saper discernere in ogni incontro ciò che si conforma al vero e al bene e rigettare i simulacri del vero e del bene. Nel mondo di Spinoza, tuttavia, non ci è data alcuna trascendenza, alcuna istanza di verità, alcun bene, per guidare il processo di conoscenza. Questo, naturalmente, non significa che tutte le idee si equivalgono: accanto alle affezioni, che sono idee formalmente inadeguate, ci sono le nozioni comuni e poi ancora le essenze, che sono invece idee adeguate. Dobbiamo capire, in assenza del pregiudizio morale e trascendente attivo nel platonismo, qual è il criterio che ci fa passare dalle idee inadeguate alle idee adeguate.

L’affezione è il primo incontro dell’uomo con il mondo e rappresenta l’immediatezza di questo incontro: è uno stato di passività, un’idea strutturalmente inadeguata che si forma in seguito all’incontro del mio corpo con un altro corpo. Quando mangio una zolletta di zucchero, il dolce che percepisco è l’azione che il corpo-zucchero esercita sul mio corpo. Non percepisco lo zucchero, ma l’azione che lo zucchero esercita sul mio corpo, perciò Spinoza afferma che l’affezione riguarda più la natura del corpo percipiente che quella del corpo percepito, indica, cioè, la natura del corpo modificato, mentre implica quella del corpo modificante. Questo primo genere di conoscenza è il più basso perché non ci fa conoscere le cose in quanto tali, ma solo nei loro effetti. Non è difficile riconoscere, in questo primo genere di conoscenza, la conoscenza percettiva e questo ci fa pensare che Spinoza non sia, alla fine, così originale: la conoscenza comincia con la percezione (nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu), la percezione è il grado più basso di conoscenza perché è soggettiva e opinabile, insomma, nulla di nuovo sotto il sole filosofico. Le cose naturalmente non sono così semplici, perché Spinoza non dispone dell’apparato concettuale platonico, non ha trascendenze da invocare né ipoteche morali da esercitare. Il passaggio dalle idee inadeguate a quelle adeguate non può avvenire come un passaggio di livello, del tipo dal corpo allo spirito o dai sensi alle idee. Tutto in Spinoza si gioca sullo stesso piano di immanenza.

Quando dico che una cosa non mi piace, significa alla lettera che l’effetto del suo corpo sul mio mi modifica in modo sgradevole. C’è una mescolanza buona e una mescolanza cattiva, allo stesso modo in cui dico: non mi piace il formaggio. (Deleuze, Seminario su Spinoza cit.]

Non c’è una differenza di natura fra l’antipatia e il gusto: se Pietro mi è antipatico e il formaggio non mi piace, significa che Pietro e il formaggio sono costituiti in modo tale che si combinano male con il mio corpo, sono entrambi dei cattivi incontri. Come posso saperlo? Lo devo sperimentare. A livello delle affezioni incontro i corpi negli effetti che producono sul mio corpo, perciò le affezioni sono idee inadeguate e in quanto tali mi lasciano in balia degli incontri: solo dopo aver incontrato un altro corpo so se si è trattato di un buon o di un cattivo incontro. E allora, come “salvarsi” dai cattivi incontri? Per rispondere, è necessario comprendere, anche se in modo molto generale, che cos’è un corpo per Spinoza.

Il corpo come rapporto

Etica II, Lemma 1

Corpora ratione motus et quietis, celeritatis et tarditatis, et non ratione substantia ab invicem distinguuntur. I corpi non si distinguono fra loro in base alla sostanza, ma in base al moto e alla quiete, alla velocità e alla lentezza.

Etica II, Lemma 4

Si corporis sive individui, quod ex pluribus corporibus componitur, quaedam corpora segregentur et simul totidem eiusdem naturae eorum loco succedant, retinebit individuum suam naturam, uti antea, absque ulla eius formae mutatione. Se da un corpo o da un individuo, composto da parecchi corpi, si separano dei corpi e nello stesso tempo se ne aggiungono al loro posto altri della stessa natura, l’individuo conserverà la sua natura come prima, senza alcun mutamento della sua forma.

Etica II, Lemma 5

Si partes individuum componentes, maiores minoresve evadant, ea tamen proportione, ut omnes eandem, ut antea, ad invicem motus et quietis ratione servent, retinebit itidem individuum suam naturam, ut antea, absque ulla formae mutatione. Se le parti che compongono un individuo diventano maggiori o minori, ma in misura tale che tutte conservino come prima lo stesso reciproco rapporto di moto o di quiete, l’individuo conserverà ugualmente la sua natura, come prima, senza alcun mutamento di forma.

Un corpo non è nulla di sostanziale, non è un substrato generico a cui ineriscono determinazioni specifiche o essenziali e particolari o accidentali. È un misto, un composto di innumerevoli parti, caratterizzato da movimento e da quiete, e tale le cui parti componenti, in sé prese, non hanno alcuna rilevanza, tanto che se ne può variare la composizione, senza conseguenza alcuna per la natura del corpo. L’individualità è la conservazione di una ratio, di un rapporto, che è caratteristico per ogni corpo. Ogni corpo esistente è la realizzazione di un rapporto, che esiste indipendentemente dalle parti in gioco. Non solo, anche ogni parte del corpo è tale in quanto realizza un determinato rapporto e questo fino alle parti infinitesime.

Dalle affezioni alle nozioni comuni

Se il corpo, ogni corpo, è costituito da un rapporto caratteristico realizzato da un numero infinito di parti, allora un incontro, un evento, sarà un buon incontro, se il mio rapporto verrà conservato o localmente reintegrato, oppure un cattivo incontro, se il mio rapporto sarà decomposto (morte) o localmente danneggiato.

Questa prospettiva, come risulta evidente, non prevede alcuna istanza morale, perché il male non è mai trasgressione di una legge, di un divieto, ma è semplicemente un cattivo incontro che ha decomposto uno dei miei rapporti subordinati o il mio stesso rapporto caratteristico, una sorta di avvelenamento, quindi. In questa luce, lo stesso peccato originale e la connessa concezione del primo uomo acquista un significato marcatamente anticristiano (e antiebraico). Se l’uomo è inizialmente esposto alle affezioni e alla casualità degli incontri, Adamo, allora, in quanto primo uomo, non poteva che essere il più impotente e imperfetto degli uomini, un uomo che esiste sotto il segno dell’inadeguatezza assoluta, alla stregua di un infante. Perciò il peccato originale, archetipo di ogni altro peccato, in realtà non è un peccato. Adamo, mangiando il frutto proibito, non ha scelto il male contro il bene, non ha disobbedito a un divieto di Dio, ma ha semplicemente fatto un cattivo incontro. Capace solo di affezioni, non ha semplicemente capito che Dio lo stava solo mettendo in guardia, rivelandogli che la mela lo avrebbe avvelenato. Questo è lo stato iniziale dell’uomo, di ogni uomo: proprio perché è costituito da un corpo, cioè da un agglomerato di infinite parti estensive, l’uomo è in primo luogo esposto e confinato all’ambito delle idee inadeguate, al territorio dei segni. Fin dall’inizio è determinato dall’esterno, dal fuori, esposto nei suoi incontri a ogni genere di choc, di urti, di mescolanze, il cui effetto è quello di produrre un continuo cambiamento di rapporti: ogni corpo è una continua integrazione e disintegrazione di parti, sotto i rapporti che gli sono propri.

Questo regime delle parti esteriori le une rispetto alle altre, che reagiscono fra loro in continuazione, nello stesso tempo in cui gli insiemi infiniti nei quali entrano non cessano di variare, è il regno delle idee inadeguate. (Deleuze, Seminario su Spinoza, cit.)

È il mondo dei segni, meri effetti, incontro di corpi con corpi, di parti esterne con parti esterne, mescolanze che convengono con i miei rapporti, o mescolanze che mi intossicano e mi avvelenano. E qui entra in gioco l’altro fondamentale concetto spinoziano, quello di affetto, che considera i movimenti della variazione, i poli verso i quali il mio essere non cessa di orientarsi: la gioia, se la mia forza di esistere aumenta, la tristezza, se diminuisce.

Un corpo, in quanto insieme di rapporti che lo costituiscono, ha in ogni momento una determinata capacità di essere affetto. Se vogliamo sottrarci alla roulette degli incontri fortuiti, ci serve a poco sapere a quale genere o specie apparteniamo, dobbiamo sapere di cosa siamo capaci, perché il corpo, l’uomo stesso, prima di essere un problema conoscitivo (chi siamo?, cosa siamo?), prima di essere un problema morale (che cosa dobbiamo fare?) è un problema fisico ed etico: che cosa è buono o cattivo per me? Che cosa mi potenzia o mi indebolisce, fino a uccidermi? Prima di ogni tassonomia, è l’etologia a svelarmi l’essere di un corpo. Come scrive Deleuze nel seminario citato, non sono i caratteri generici o specifici a distinguere (significativamente) una rana da una scimmia, ma il fatto che questi due animali non sono capaci delle stesse affezioni.

La vita, prima di essere un problema di essenza o di dovere, è un problema di potenza. Se condanna le affezioni eccessive, ma anche quelle difettive, Spinoza non lo fa per un’esigenza morale, ma per la logica stessa della potenza, giacché non può essere buono ciò che supera (o che non mette alla prova) la mia capacità di sentire. Per Spinoza, tuttavia, l’uomo non è solo passivo, non è solo luogo di affezioni: ci sono anche le idee-nozioni e le idee-essenza. La nozione, e questa è la sua definizione nominale, è un’idea che riguarda la convenienza e la sconvenienza dei rispettivi rapporti caratteristici fra due corpi. Se io conoscessi quanto basta riguardo al rapporto caratteristico che costituisce l’arsenico e a quello che costituisce il corpo umano, potrei formarmi una nozione circa la reciproca sconvenienza dei due corpi. Con la nozione comune si passa dalla conoscenza degli effetti a quella delle cause: rapporti caratteristici, conoscenza delle cause, sembra tutto molto astratto, mentre in realtà, come ogni cosa in Spinoza, è estremamente concreto, come vedremo subito. Innanzitutto, quando Spinoza parla di cause e di rapporti caratteristici, non parla mai astrattamente, ma si riferisce sempre a questo o a quel corpo, perciò la nozione comune non è un’astrazione, ma un’idea adeguata, una risposta concreta, una soluzione, al problema altrettanto concreto della fortuità e della contingenza degli incontri. Il modo in cui si forma la nozione comune ce lo mostra con chiarezza. Per comprenderlo, dobbiamo tornare al concetto di affetto, il quale, come sappiamo, non è uno stato come l’affezione, ma una transizione, un movimento verso la gioia o verso la tristezza. L’affetto, in cui in un determinato momento mi trovo, è l’effetto prodotto su di me dal succedersi delle affezioni, dal susseguirsi degli incontri.

La tristezza, prima che una condizione soggettiva e uno stato di disagio psicologico, è una condizione di impoverimento vitale, di diminuzione della mia vis existendi. Questo perché su di me prevalgono gli effetti provocati dai cattivi incontri, le affezioni provocate da corpi che tendono a decomporre i miei rapporti. Non potrei trovarmi nelle condizioni più sfavorevoli per la formazione di nozioni comuni, per cogliere quanto c’è di conveniente fra il mio corpo e gli altri corpi. La tristezza non rende intelligenti – nota Deleuze – perciò Spinoza ha denunciato con grande vigore l’assoluta necessità che i poteri, ogni potere, di cui archetipi eterni sono il prete e il tiranno, hanno di rendere tristi, angosciati, impotenti i sudditi e i fedeli. I cattivi incontri, insomma, ci impediscono di pensare, ci mantengono nel torpore, nell’inerzia, nella stupidità. La gioia, invece, è l’affetto prodotto dalle affezioni con corpi il cui rapporto si compone con il mio, per cui vengo ora sollecitato a formarmi un’idea comune, o almeno vengo messo in una condizione favorevole alla formazione di una nozione comune. La gioia rende intelligenti – nota sempre Deleuze.

Non ci può essere maggiore distanza fra questo concetto di nozione comune e quello che la considera una mera astrazione. Con Spinoza rimaniamo sempre a livello di incontri fra corpi, non usciamo da questo piano di immanenza per conseguire una dimensione astrattamente conoscitiva. La razionalità è qui un problema locale, concreto, concernente la singolarità di ogni corpo, di ogni parte del corpo, perché non esistono incontri che siano buoni in generale e altri che siano cattivi in generale, dato che sarebbe come ritrovarsi nella dimensione morale del Bene e del Male. La gioia è un vettore, una transizione, un affetto, come la tristezza, quindi una variazione e la variazione continua è la nostra condizione di esseri esposti agli incontri. La variazione continua è il segno del nostro torpore, il marchio della nostra bêtise, l’inequivocabile dichiarazione della nostra inerzia. È bene sottolineare che Spinoza non dice segno della nostra imperfezione, perché questo è un concetto possibile in un mondo morale e dominato dalla trascendenza: ogni ente, in quanto grado di potenza ed effettuazione di un rapporto caratteristico, nel suo stato è assolutamente perfetto e di nulla mancante. Se per Platone non si pensa mai spinti dal dubbio o dall’ignoranza, ma turbati dalla differenza irrisolta e dalle sue pretese di verità, per Spinoza non si pensa per la buona volontà di conoscere e di elevarsi a uno stadio superiore, ma spinti dalla gioia e dai buoni sentimenti.

La nozione comune, in qualche modo, ci sottrae al caos della variazione continua, ma non ci trasporta nel mondo della vuota e pura possibilità, perché è una “concrezione”, una “formazione”, una “solidificazione” di questa variazione continua. Non oppone al suo caos un mondo di essenze immobili (Platone) né cerca di padroneggiarla con un falso movimento, non più caotico, ma dialettico (Hegel), bensì si oppone, sempre localmente, puntualmente, singolarmente, all’inerzia che ne costituisce la condizione.

Pensare spinti dalla gioia significa saper fare il maggior numero possibile di incontri convenienti, senza che ciò comporti opzioni meramente utilitaristiche o “moderate”. Come osserva Deleuze, ciò che è buono è in realtà saper vivere ai bordi, al limite, del proprio potere di essere affetto, purché beninteso non sia il limite triste, ma quello gioioso. L’idea adeguata nasce da una gioia, da un momento in cui la mia variazione continua è orientata verso l’alto, verso l’aumento della forza di esistere. Questa gioia, per quanto piccola, deve diventare un trampolino per la formazione di una nozione comune, deve spingermi a cogliere, a sentire ciò per cui il corpo che mi affetta e il mio convengono. È molto significativo l’esempio che ci porta Deleuze dell’apprendere a nuotare come della conquista di un elemento.

Non saper nuotare significa essere in balia dell’incontro con l’onda. C’è l’insieme infinito delle molecole d’acqua che compongono l’onda (…) Le molecole d’acqua appartengono già ad un corpo, il corpo acquatico, il corpo dell’oceano, ecc. .. o il corpo dello stagno, di un certo stagno. Che cos’è la conoscenza del primo genere? È questo: via, mi lancio, sguazzo (…): ora l’onda mi colpisce, ora mi trascina, sono degli choc, perché non so nulla sul rapporto che si compone o che si decompone, ricevo solo gli effetti delle parti estrinseche. Le parti che mi compongono sono scosse, ricevono uno choc, dalle parti che appartengono all’onda. Scherzo o mi lamento, a seconda che l’onda mi faccia ridere o mi colpisca, sono negli affetti passione. (…). Invece: so nuotare. Questo non significa, necessariamente, avere una conoscenza matematica, fisica o scientifica del movimento dell’onda, vuol dire che ho un saper fare, un saper fare sorprendente, una specie di senso del ritmo. Ritmo significa qui che so comporre direttamente i miei rapporti caratteristici con i rapporti dell’onda. (Deleuze, Seminario su Spinoza del 17/03/81)

Se vuoi diventare meno stupido, sembra dirci Spinoza, se vuoi contrastare il torpore che ti lascia in balia degli incontri, prendi come punto di partenza locale una gioia. Questa è la filosofia: non difendersi moralisticamente, ma eticamente dai cattivi incontri, dalla tristezza, da ciò che ci rende stupidi e impotenti. Alla luce di questo si chiariscono le parole con cui si apre Che cos’è la filosofia?

Che cos’è la filosofia? Forse è una domanda che ci si può porre soltanto tardi, quando viene la vecchiaia, e l’ora di parlare concretamente. (…) ci sono dei casi in cui la vecchiaia dona non già una eterna giovinezza ma al contrario una libertà sovrana, una necessità pura, (…). (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit.)

È quella libertà sovrana che si acquista quando (e se) abbiamo prodotto molte nozioni, questi prodotti della gioia e della forza di esistere che ci mettono di fronte al nostro essere, perché quante più nozioni possediamo, tanto più sappiamo di cosa siamo capaci.

 

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