I riferimenti biblici
Questo è il primo di sette articoli dedicati alla filosofia del linguaggio di Walter Benjamin. Nell’ambito del pensiero di Benjamin il linguaggio occupa una posizione assolutamente centrale, soprattutto se messo in rapporto a quello che è il vero e proprio nucleo teorico della sua filosofia, il problema della “presentazione” (Darstellung). Leggeremo 4 brevi ma intensi testi. Si tratta di letture impegnative, sia per lo stile della scrittura di Benjamin, una scrittura allusiva, ellittica, ardua e nel contempo rigorosa, sia per la ricchezza di riferimenti, derivanti da molteplici campi (ebraismo, pensiero filosofico classico, romanticismo, e altri ancora):
Indicazioni bibliografiche
- SULLA LINGUA IN GENERALE E SULLA LINGUA DELL’UOMO (ÜBER SPRACHE ÜBERHAUPT UND ÜBER DIE SPRACHE DES MENSCHEN) – [in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 53-70] Saggio scritto a Monaco nei mesi di novembre-dicembre 1916. È il testo dal quale partiamo, perché in esso troviamo i motivi e i temi essenziali della nostra trattazione, a cominciare dalla geniale rielaborazione dei racconti biblici della creazione del mondo e dell’uomo, del linguaggio paradisiaco e della successiva corruzione del linguaggio in seguito all’impresa babelica.
- IL COMPITO DEL TRADUTTORE (DIE AUFGABE DES ÜBERSETZERS) [in Angelus Novus, cit., p. 39-52] – 1923 – (sembra comunque, da una lettera, (Br 283), che già nel 1921 il lavoro fosse compiuto) pubblicato come prefazione alla traduzione dello stesso Benjamin dei Tableaux parisiens (18 poesie) di Charles Baudelaire. Già da molti anni (dal 1914) Benjamin traduceva poesie di Baudelaire, un autore da lui molto amato. Altre sue traduzioni dalle Fleurs du mal si possono trovare nella rivista Vers und Prosa del 1924. Questo rappresenta il saggio centrale della nostra ricerca, confortati nella scelta anche dall’importanza decisiva che lo stesso Benjamin gli attribuiva. Così, infatti, scrive all’amico Scholem:
Si tratta di un tema per me così centrale, che, allo stadio attuale del mio pensiero, non so ancora se sarò in grado di svolgerlo con sufficiente libertà, ammesso che mi riesca, in generale di chiarirlo. Per quel che riguarda l’esposizione, sento la mancanza di un ausilio essenziale in un qualsiasi lavoro filosofico di autori che mi abbiano preceduto su questo tema. (Br. 259, marzo 1921)
Tale è il coinvolgimento di Benjamin in questo tema da fargli temere il rischio di inadeguatezza ad affrontarlo. Pur non mancandogli, come vedremo, riferimenti storici e teorici sul tema della lingua, egli, tuttavia, in forza della novità e della radicalità della sua impostazione, lamenta la mancanza di punti d’appoggio certi nella tradizione. Li chiede all’amico, noto studioso di mistica e cultura ebraica.
- SULLA FACOLTÀ MIMETICA (ÜBER DAS MIMETISCHE VERMÖGEN + LEHRE VOM ÄHNLICHEN ) – 1933 [in Angelus Novus, cit., p. 71-74]. Dove la facoltà propria dell’uomo di cogliere non solo somiglianze materiali, ma anche somiglianze immateriali (concetto enigmatico, basilare per comprendere il concetto benjaminiano di linguaggio), appunto la facoltà mimetica, viene attentamente indagata. È questa l’occasione per approfondire il rapporto fra lato semiotico e lato mimetico del linguaggio, alla luce dell’azione svolta da quelle forze fisiognomiche operanti in tutta l’esperienza dell’uomo.
- PARAGRAFO VI della Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco – (La parola come idea p. 12-15). Il fondamentale saggio del 1925 (in realtà comincia a essere abbozzato dall’autore fin dal 1916) rappresenta la prova di ammissione di Benjamin, respinta, alla docenza universitaria. Tale è la complessità e la profondità del testo che non può certo essere una veduta parzialissima, come quella di un unico paragrafo della Premessa, a restituirne il senso. Il paragrafo VI costituisce, comunque, uno nodo essenziale per comprendere il concetto di esposizione filosofica in Benjamin e la sua differenza tanto dalla conoscenza intellettuale quanto dalla visione mistica. Il tutto alla luce di concetti che analizzeremo nel corso di questi articoli, tra i quali quello di linguaggio edenico e linguaggio babelico, di Darstellung e di filologia.
Testi dedicati al linguaggio ce ne sono ancora nella produzione benjaminiana (basti ricordare Problemi della sociologia del linguaggio, oppure Il significato della lingua nel dramma barocco e nella tragedia), così come altri testi, pur non esplicitamente dedicati alla lingua, possono essere più profondamente compresi, se visti alla luce di questa prospettiva, e possono, naturalmente, a loro volta, fornire un contesto filosofico più ampio per l’impostazione del problema della lingua (mi riferisco, tanto per citare un unico esempio, a quelle formidabili 40 righe che costituiscono il Frammento Teologico-politico).
Riferimenti teorici: romanticismo tedesco e mistica ebraica
La filosofia del linguaggio di Bemjamin è complessa e suggestiva nello stesso tempo. Complessa perché è il risultato di molteplici ed eterogenee influenze, che vanno da un’originale e rigorosa rilettura della tradizione mistica ebraica, la Qabbalàh, fino all’accoglimento di teorie proprie del Romanticismo tedesco, provenienti dal Circolo di Jena (Schlegel, Novalis), ma soprattutto da teorici come Hamann e Humboldt. Suggestiva perché la sua teoria della lingua si muove, come tutta la sua filosofia, entro un duplice quadro di riferimento: teologico, da un lato, e materialistico, dall’altro, tale da produrre effetti sconcertanti di dislocazione concettuale, ma anche capace di manifestare una forza penetrativa assoluta e di aprire squarci di senso inaspettati e naturali nello stesso tempo. Può sembrare, a volte, contraddittorio questo modo di procedere, mentre rappresenta, in realtà, uno dei centri di forza del suo pensiero. Quanto tale “contrasto” fosse percepito dallo stesso Benjamin si può ben cogliere da queste brevi citazioni:
Hai ragione, io scrivo per il pubblico del West-End di Berlino, anzi per la crema di quel quartiere, ma lasciami appendere la bandiera rossa fuori dalla finestra (risposta a Scholem, che gli contestava la ragionevolezza della sua scelta marxista, dato il suo disinteresse effettivo per le masse e il carattere elitario delle sue opere)
Nella mia cella di comunista ci sono soltanto quadri di santi (a proposito dell’arredamento della sua stanza)
Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta e che non deve farsi scorgere da nessuno. (Ia tesi di filosofia della storia)
Dai romantici proviene l’idea che la lingua abbia subito, nel corso dei secoli, lungo tutta la storia dell’uomo, un processo di lenta e inesorabile degradazione rispetto a un momento privilegiato di coincidenza con la verità.
Dalla Qabbalàh proviene, invece, l’idea che il linguaggio dell’uomo rispecchi la natura spirituale del mondo e che si orienti sul linguaggio creativo di Dio (che per alcune correnti è l’ebraico), di cui conserverebbe, sia pur depotenziata, l’impronta. La lingua originaria, edenica dell’uomo possedeva un carattere sacrale, essendo connessa immediatamente e autenticamente con l’essenza delle cose che voleva esprimere. L’hybris magica (dare efficacia creativa alle parole), che spinse l’uomo a farsi un nome, ha portato alla confusione delle lingue e alla nascita delle lingue profane, il cui carattere distintivo è la convenzionalità e la strumentalità. Ma il punto fondamentale è che la lingua sacra non è svanita, ma si è mescolata al profano, si è nascosta e dispersa in esso. Qui, ad esempio, trova il suo fondamento quel messianismo insito in ogni vera traduzione, che non è mai solo passaggio da una lingua a un’altra, ma anche, e soprattutto, redenzione della pura lingua dalla sua alienazione nel profano.
Riferimenti biblici
Genesi I: La creazione del mondo
Un luogo comune nell’interpretazione del racconto biblico della creazione è che l’atto creatore è un atto essenzialmente linguistico. La creazione è l’esito di una serie di “E Dio disse …”. La parola di Dio è immediatamente creatrice, fa essere, e nello stesso tempo, è conoscitrice (Dio, non solo porta all’essere, ma anche nomina ciò che crea). È un luogo comune antichissimo, che risale all’Enuma Elish, il mito babilonese della creazione, dove si narra della lotta mortale di Marduk, il dio maschile, contro Tiamat, la grande madre. Per diventare il capo riconosciuto, Marduk deve superare la prova dell’efficacia della parola:
Allora essi misero un indumento in mezzo a loro. A Marduk, il loro primogenito, dissero: “Veramente, o Signore, il tuo destino è supremo fra gli dei, comanda di distruggere e di creare, e così sarà! Con la parola della tua bocca fa che l’indumento sia distrutto; Comanda ancora, e fa che l’indumento ritorni intero! Egli comandò con la sua bocca, e l’indumento fu distrutto. Egli comandò ancora, e l’indumento ritornò intero. Quando gli dei, suoi padri, constatarono l’efficacia della sua parola, essi si rallegrarono e gli resero omaggio, dicendo: Marduk è re!
Per poter veramente sconfiggere la madre, il maschio deve mostrare di saper generare. Non potendo partorire, crea con la parola. Il racconto biblico sancirebbe la supremazia già stabilita del dio maschile. Dio crea il mondo con la sua parola. L’ordine stesso naturale delle cose, il fatto che le donne generano gli uomini, è addirittura rovesciato. Eva nasce dalla costola di Adamo, come Atena dalla testa di Zeus. Contro questa teoria della priorità dell’atto linguistico nella creazione, Rosenzweig, nella Stella della redenzione (1921, Marietti, Genova, 1985), invita a una lettura più attenta della Bibbia, mostrando che, in realtà, l’atto linguistico è un atto secondo, che viene a formare e a ordinare ciò che prima era informe, invisibile e caotico. Scrive Rosenzweig: “Dio disse. Questo è il secondo atto. Non è l’inizio. L’inizio è: Dio creò. L’inizio è silenzioso come la fine. (p. 124 ed. ted.). Il linguaggio, per Rosenzweig, è sempre in un certo senso babelico, forma della comunicazione non perfetta. A pag. 328 scrive riguardo all’umanità redenta al cospetto di Dio:
Qui c’è un silenzio, che non è come quel mutismo del premondo che non ha ancora parola. Piuttosto è un silenzio che non ha più bisogno della parola. È il silenzio della comprensione compiuta. Che il mondo non sia redento nulla ce lo insegna più chiaramente della pluralità delle lingue. Tra uomini che parlano una lingua comune basta uno sguardo per comprendersi; proprio perché essi hanno una lingua comune sono dispensati dal linguaggio.
La sequenza effettiva della creazione sarebbe, allora, questa:
- Dio crea il cielo e la terra (aóratos, akataskeúastos), le tenebre la ricoprono, lo spirito di Dio la ricopre (il termine ebraico può indicare anche covare). La creazione, in questa fase è ancora una virtualità, tutta inviluppata in Dio. C’è come idea, non c’è ancora come forma. C’è la creazione, non c’è ancora il creato.
- Dio disse “Sia la luce“: è il verbo divino che porta all’essere, che attualizza la creazione. Il fiat è diverso dal creavit: è un mostrare, un evocare dalle tenebre, ciò che in esse era implicato. Prima del fiat cielo e terra sono un fondo gremito di determinazioni, che il primo fiat, seguito da tutti gli altri, porta alla presenza. Fiat significa sia fatto, avvenga, venga alla presenza. La contiguità fra il dixit e il fiat non è casuale: in ebraico il dire è strettamente legato al fare. Lo stesso termine, davar, indica la parola e la cosa. Il parlare e la voce, e per estensione la scrittura, in ebraico sono immediatamente efficaci. Il nome è la cosa stessa. (Il nome di Dio non può essere scritto correttamente, perché il supporto su cui venisse scritto diventerebbe, per ciò stesso, santo, e dovrebbe essere conservato come tale).
- E Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre: è l’espressione linguistica che ha portato alla luce il mondo, che lo ha reso visibile e, a partire da ciò, giudicabile. Ciò che è venuto all’essere è buono, tov, kalón. In ebraico e in greco i termini indicano molto di più dell’italiano buono e dello stesso latino bonum. Indicano ciò che è perfetto, compiuto secondo la propria essenza, ciò che è conforme a sé. E con l’esser-presente e l’accoglienza di ciò che è presente nel suo esser-proprio, l’essere, che è ora un essente, un ente determinato, si rende disponibile alla classificazione, alla manipolazione, alla sistemazione e a ogni altra operazione che Heidegger chiamerebbe ontica. Per cui le tenebre vengono separate dalla luce, le acque dalle terre, la terra viene popolata, e così via.
- E chiamò la luce giorno e le tenebre notte. Ecco nuovamente la parola: non più verbo creatore, ma verbo nominante. Ora la parola di Dio che, accogliendo le virtualità dell’idea creatrice le aveva portate all’essere e alla visibilità, traduce tali forme in nomi e tale traduzione è ancora accoglienza piena e conforme della cosa. Perché li chiama giorno e notte? (yòm, làyla) Potremmo iniziare qui una disputa fra linguaggio phýsei e linguaggio nomo, come nel Cratilo di Platone, ma sbaglieremmo prospettiva, perché in nessuno di questi due poli si identifica la “nominazione” così come appare nel racconto biblico della creazione. Il nome non traduce immediatamente la forma reale in una forma linguistica (non è onomatopeicamente riproduttivo, non ha somiglianza materiale con la cosa), e nemmeno consegna, nel senso quasi di tradire, tale cosa a un’estraneità sonora, che solo convenzionalmente lo rappresenta (non è arbitrariamente produttivo, ma ha una somiglianza immateriale con la cosa).
- Quando Dio crea la vita, la sua parola non è più solo nominante, ma diventa anche prescrittiva. “Siate fecondi e moltiplicatevi…, la terra produca germogli …”, e così via. Con la comparsa dell’uomo la creazione è terminata, compiuta. L’uomo è l’ente al quale il mondo è destinato. Da questo momento in poi, la “responsabilità” della creazione passa all’uomo. Il verbo creatore tace, Dio si riposa. Riprenderà la parola solo per affidare, donare, proibire. La parola divina diventa una parola preoccupata solo di tracciare un confine fra lo spazio dell’uomo (paradeísos, hortus conclusus) e l’ambito trascendente del divino, una parola che pone un limite all’esplicarsi dell’azione umana. Il creato, forma visibile dell’idea della forza creatrice, è affidato a un’immagine stessa di Dio, l’uomo.
Genesi II: Creazione dell’uomo. Il paradiso terrestre. La nominazione e la creazione della donna
In Genesi II, si ripete brevemente la creazione, quasi come prologo per la creazione dell’uomo, unica creatura, come fa notare lo stesso Benjamin, per la quale paradossalmente Dio impiega non solo la parola, ma anche materia, la polvere del suolo. Vediamo la sequenza di questa creazione dell’uomo. È una sequenza di gesti muti, rotti dalla proibizione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza.
- L’uomo viene plasmato con la terra e in esso viene inspirato il soffio vitale. La tradizione aramaica della Torah rende il passo del Genesi 2, 7: “L’uomo diventò un’anima vivente” con “L’uomo diventò uno spirito parlante“. Con questo atto Dio affida all’uomo, sia pur depotenziata, la sua stessa forza creatrice. L’uomo parla, come Dio, solo che, a differenza di Dio, non possiede l’idea, ma solo la capacità di riconoscere l’idea. Il creavit non si addice all’uomo, per cui il suo fiat è sempre, in realtà, non un far essere, ma un accogliere l’essere.
- L’uomo viene posto nel Paradiso terrestre, approntato perché sia la sua dimora. Nel momento in cui Dio affida all’uomo il suo potere, si preoccupa anche di rinchiudere tale potere entro limiti ben precisi. Ma, nel momento stesso in cui traccia il confine, è come se recidesse il cordone ombelicale che univa l’uomo alla fonte stessa dell’essere. Lo spazio dell’uomo perde universalità e acquista una fisionomia ben precisa: alberi, fiumi, direzioni, punti cardinali. Le stesse potenze divine, la vita e la conoscenza, vengono imbrigliate e reificate in due enti specifici, l’albero della vita e quello della conoscenza.
- Dio proibisce all’uomo di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza. La proibizione divina è conseguente alla reclusione dell’uomo. Quest’icona di Dio, spirito parlante privato della forza creatrice, non può nemmeno giudicare.
- Dio si accorge della solitudine dell’uomo (… gli voglio fare un aiuto che gli sia simile …). In realtà l’uomo ha bisogno dell’altro, ha bisogno di incontrare un altro sé. In che modo l’uomo accede all’altro da sé, secondo questo racconto biblico? Questo è il contesto in cui si inquadra il famoso episodio della nominazione umana. Il nominare dell’uomo non accade come un fatto astratto, meramente conoscitivo. L’uomo non nomina gli enti mondani secondo un’intenzione meramente contemplativa, ma orientato a cercare nel mondo l’altro. Non semplicemente il diverso, ma un aiuto, ciò che è contemporaneamente altro e sé, differente e identico. Nel nominare, l’uomo cerca l’autenticamente altro. Ma vediamo nel dettaglio questo episodio.
- Tutto il creato, quasi come un catalogo, viene dispiegato davanti all’uomo, il quale ora parla e il suo parlare è un nominare, un chiamare le cose per nome, come faceva Dio nella creazione del capitolo precedente. E gli enti mondani, che ricevono il nome dall’uomo, si fanno mondo per l’uomo. Ma come Dio resta senza nome (o è tutti i nomi perplicati) ed è impronunciabile (intraducibile), così gli enti mondani nella loro immediata nominabilità (sono tutti i nomi dispiegati) sono esposti a una pronunciabilità infinita. L’intraducibilità di Dio e l’infinita traducibilità delle cose non sono in realtà l’altro dell’uomo, ma l’altro dall’uomo.
- L’altro, quando appare veramente, è un evento, è ciò che accade nel e grazie al torpore della coscienza. Tutta l’etica ebraica insegna che il vero rapporto con l’altro deve far tacere l’intelletto, la vigile coscienza. L’altro è ciò che avviene inatteso e che in questa novità, pur nella consustanzialità e nella consanguineità, sorprende, inquieta, allieta. E la parola non è più semplice nominazione, ma rivelazione. L’altro non vuole essere riconosciuto, ma accolto. E qui Adamo nomina Eva e, a differenza di quanto faceva con gli altri enti, dà una ragione a tale nominazione (ish, ishà). Nella Bibbia la nominazione dell’uomo è strettamente intrecciata all’incontro con l’altro. Nel racconto babelico, come vedremo, la nominazione dell’uomo si corromperà fino alla perdita dell’altro, alla dispersione dei popoli, all’incomunicabilità e alla chiusura.
Genesi XI: La torre di Babele
Il testo, come tutti i grandi testi mitici, non è riducibile a un unico significato: il disordine, l’eccesso, l’incapacità di intendersi e molto altro è racchiuso nel termine babele, che è diventato un nome comune. E c’è l’anonimato, che distingue così nettamente questo racconto da tutti gli altri racconti mitici, sempre fortemente eroizzati. A Babele non c’è un eroe, un personaggio fortemente caratterizzato, che possa concentrare in sé il senso dell’evento. Nimrod è un’aggiunta tarda. Forse è proprio a partire da questo anonimato che si genera il desiderio colpevole (?) di farsi un nome. Ma, se ben guardiamo, qui non compare un vero e proprio divieto di Dio. Iahvé appare più come un Dio geloso, preoccupato delle azioni dell’uomo, piuttosto che come un Dio oltraggiato. Nulla della costruzione della Torre è esplicitamente orientato all’attacco al cielo. Qui si innesta un altro strato di senso, complementare (comunque in rapporto problematico) a quello della lingua e del nome. È quello della città (concentrazione) e dello spazio (dispersione dei popoli, oltrepassamento di confini fra terra e cielo, ecc.). L’unica lingua dell’umanità riunisce gli uomini in un unico spazio di concentrazione e li spinge a una costruzione smisurata, in un progetto che si rivelerà vano, nocivo. L’orizzontalità della città si concentra e si materializza nella verticalità illimitata della torre. Ed è a questo simbolo che si affida l’intenzione di farsi un nome.
Dov’è la colpa che fa degenerare la città e la lingua da luogo dell’incontro e della comprensione a universi privi di significato, a luoghi di scontro e di fraintendimento? E che impone all’uomo, da un lato, l’opera storica di ricomposizione dello spazio in una nuova organizzazione di nazioni, confini, ecc. e, dall’altro, quell’attività che contrasta il disordine e la moltiplicazione delle lingue che è la traduzione, opera in sé ambigua, che prosegue con altri mezzi l’impresa babelica? La traduzione ha in sé, intrinsecamente, l’irrisolta contraddizione fra la restituzione (impossibile) di un senso e la consegna-tradimento di questo senso ad una lingua estranea. La traduzione sancisce la condizione babelico-profana dell’uomo, ma nel contempo svolge, a modo suo, una funzione messianica di redenzione delle lingue profane. Quale nesso vi è fra questi universi simbolici del mito babelico? Fra l’hýbris di una progettualità costruttiva da un lato e l’hýbris di un’affermazione di identità dall’altro? Fra la follia babelica di mirare al cielo, di unire ciò che è diverso, da un lato, e la stessa follia di possedere la lingua perfetta, la lingua unica, strumento funzionale a questa smisurata impresa?
Sarebbe interessante leggere il racconto di Kafka Lo stemma cittadino (1920) dedicato alla Torre di Babele, un tema che ha ossessionato lo scrittore ebreo, che lo ha trasformato, tradotto in altre immagini, quasi sempre rovesciate. Pensiamo alla Tana, o a un aforisma di Kafka (1922), dove scrive “Noi scaviamo la fossa di Babele“, esprimendo la desolazione di una fatica immensa e inutile. La fossa e la torre: l’archetipo rovesciato lascia un buco nei luoghi dove si innalzava l’edificio. Ma pensiamo soprattutto al racconto Durante la costruzione della muraglia cinese, altra impresa smisurata che, significativamente, capovolge il progetto babelico. Là si trattava di unire e di concentrare, qui di separare. La Torre e la Muraglia, opere analoghe e contrarie. Il disegno degli architetti della Muraglia non è più quello di mirare al cielo, ma quello di separare per sempre, sulla terra, i buoni dai cattivi, la civiltà dalla barbarie, l’insubordinazione dall’obbedienza al potere. Entrambe restano incompiute, entrambi si svelano, alla fine, progetti per una rovina.
Che cosa irrita e preoccupa Dio, la città o il desiderio di farsi un nome? Perché Dio punisce e condanna, ma non spegne il desiderio stesso di farsi un nome, desiderio in cui si alimenta il compito stesso del traduttore? Iahvé colpisce contemporaneamente il fondamento del nome e dell’unità (lingua e città) e punisce l’uomo con una seconda cacciata da un luogo: dopo l’espulsione dall’Eden, vi è ora la cacciata dalla città. La perdita del luogo proprio è anche la perdita della proprietà di linguaggio, ognuno dirà le cose a modo suo, nell’oblio del vero nome. La perdita del luogo proprio e del nome proprio, il disorientamento spaziale e linguistico, immette, possiamo dire, l’uomo nella storia. Non a caso la dispersione babelica precede e, in un certo senso, si salda con l’episodio che inaugura la storia dei patriarchi biblici, un episodio che assegna all’uomo un destino di esilio e di emigrazione. Abramo viene chiamato da Dio e, ancora una volta, comandato di lasciare un luogo. “Prendi le tue cose e vai …“. Certo vi è la promessa di una Terra, ma tale luogo rimarrà, come sappiamo, un luogo sempre precario.
Tutto è doppio e ambiguo nell’episodio di Babele. Vi è un doppio progetto (costruire una torre e farsi un nome), una doppia costruzione (la città e la torre), una doppia punizione (dispersione dei popoli e delle lingue), una doppia discesa di Dio, e così via. Anche la lingua è doppia e ambigua. Il versetto 3 è sotto l’insegna della trasformazione di un materiale nell’altro, della manipolazione e, possiamo dire con Derrida, della traduzione da materia a materia. L’ebraico lo esprime con una serie di allitterazioni (lettere ripetute) che si perdono nella traduzione italiana e che alcune traduzioni francesi hanno cercato, in qualche modo di rendere (briqueter des briques, la brique leur fut roc, le bitume béton, la terre leur fut pierre, ecc.), allitterazioni che scandiscono in un suono uniforme questo processo di febbrile trasformazione. Lo stesso termine “lingua” è ambiguo. In ebraico (saphah) significa labbro e confine, bordo, racchiudendo in sé questa inaspettata contiguità semantica di spazio e lingua. E ancora, l’etimologia di Babel del versetto 9, spiegata con il verbo ebraico balal (che significa confusione) è palesemente errata, da un punto di vista linguistico, come doveva essere ben noto ai redattori del testo (Babel, in realtà, è porta di Dio, o città di Dio, Bab-ilu). Si potrebbe pensare, quasi, a un errore fortemente motivato, voluto. Un’etimologia che si contrappone a quella adamitica riguardante la donna. Ora l’uomo non possiede più la lingua originaria, si confonde e assegna alle cose nomi arbitrari, convenzionali. Nel versetto 6, “Questo è l’inizio della loro opera …” vi è un’altra significativa ambiguità. L’ebraico hahillam è una parola che significa, nello stesso tempo, inizio e profanazione, per cui ogni progetto dell’uomo sarebbe, da un lato creazione e inventività, dall’altro intervento manipolatorio colpevole di tradurre il creato da progetto divino a progetto umano, profanandolo e deturpandone la bontà e la perfezione. E la Torre, infine, diventa un doppio artificiale dell’Albero dell’Eden: alla verticalità naturale che, sfidata, ha svelato all’uomo la propria mortalità, si propone come replica una verticalità artificiale, la quale, nella sua incompiutezza, svela all’uomo i suoi limiti invalicabili.
Gershom Scholem: Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio (Adelphi, Milano, 1998: (p. 88-90)
In conclusione, vorrei tornare ancora una volta all’idea centrale che ho sviluppato in queste pagine. Il Nome di Dio è il “nome essenziale”, che costituisce l’origine di tutte le lingue. Ogni altro nome con cui Dio può essere chiamato o invocato è connesso ad una determinata attività, come mostra l’etimologia dei nomi biblici; solo quest’unico Nome non si riferisce ad alcuna attività.
Per i cabbalisti esso non ha un “senso” nell’accezione comune, non ha un significato concreto. Il fatto che il Nome di Dio non abbia un significato indica la sua posizione al centro della rivelazione, che su di essa è fondata. Dietro ogni rivelazione di senso nel linguaggio e anche, come hanno visto i cabbalisti, nella Torah, vi è un elemento che eccede il senso e che, solo, lo rende possibile, un elemento che, senza avere senso, conferisce senso ad ogni altra cosa.
La parola di Dio che ci parla dalla creazione e dalla rivelazione, è infinitamente interpretabile e si riflette nel nostro linguaggio. I raggi – o i suoni – che noi captiamo di essa non sono tanto comunicazioni quanto piuttosto appelli.
A possedere il significato, senso e forma non è la parola stessa, ma la tradizione della parola, il suo mediarsi e riflettersi nel tempo. Questa tradizione, che ha la sua propria dialettica, può anche trasformarsi e ridursi a un lieve, impercettibile sussurro, e possono esservi epoche, come la nostra, nelle quali niente può essere più tramandato, e la tradizione ammutolisce.
La grande crisi del linguaggio che stiamo vivendo consiste allora nel fatto che anche l’ultimo lembo di questo mistero – il mistero che nella lingua aveva un tempo dimora – ci risulta inafferrabile. I cabbalisti ritenevano che la lingua potesse essere parlata in virtù del Nome che è presente in essa. Ma quale sarà la dignità di un linguaggio dal quale Dio si è ritirato? Questa è la domanda che si deve porre chi ancora crede di percepire nell’immanenza del mondo l’eco della parola della creazione, ormai scomparsa.
È una domanda alla quale, nel nostro tempo, possono forse rispondere soltanto i poeti, che non condividono la disperazione nutrita da quasi tutti i mistici nei confronti del linguaggio. Una cosa, però, li accomuna ai maestri della Qabbalah, anche quando ne rifiutano le formulazioni teologiche perché ancora troppo esplicite: la fede nel linguaggio come un assoluto, sia pur dialetticamente scisso, la fede in quel mistero che nel linguaggio è divenuto udibile.