Linguaggio e filosofia in Walter Benjamin – 2 – La lingua come espressione

Idea, Forma, Nome

Il rapporto espressivo fra Idea, Forma e Nome è un filo conduttore che ci può utilmente guidare attraverso tutta l’opera di Benjamin e che trova nei suoi saggi dedicati alla lingua uno dei luoghi di più concreta e profonda applicazione. La questione della Darstellung (presentazione, espressione, esposizione), in quanto immediata rivelazione dell’essenza nella forma singola ed esposizione della stessa nel nome proprio, se da un lato va teoricamente inquadrata nell’ambito della grande tradizione filosofica che ha in Spinoza uno dei suoi principali punti di riferimento, dall’altro va riportata, in relazione alla formazione specifica di Benjamin, all’ambiente romantico, a figure come Klages, Hölderlin e, soprattutto Goethe, autore al quale il filosofo tedesco ha dedicato uno dei suoi più formidabili saggi (v. Le affinità elettive, in Angelus novus), e al suo concetto di Urphänomen, essenza che si rivela nel sensibile, universale che in ogni forma autenticamente singolare si esprime. Naturalmente sarebbe non solo semplicistico, ma soprattutto sbagliato, parlare di Benjamin come di un epigono sia pur geniale del romanticismo. Basterebbe pensare alla sua rivalutazione dell’allegoria in opposizione proprio alle teorie del simbolo di derivazione romantica, per mostrare come il suo pensiero abbia una complessità e un’originalità irriducibili a qualunque affrettato bisogno di classificazione.

Costellazioni di frammenti

Vi è comunque in lui un’attenzione alla morfologia in quanto presentazione dell’idea nella forma, al volto del mondo e della storia in quanto espressione immediata di essenze, che fanno della sua opera una vera e propria fisiognomica, un’indagine dei tratti del mondo e della storia, mai ricomposti in un convenzionale quadro sistematico, ma raccolti in una costellazione di frammenti, di dettagli, di residui rimasti fuori dalla prospettiva dominante.

Le forme del mondo e della storia, nella loro frammentarietà e micrologia, accuratamente scelte, catalogate, collezionate, diventano campi di forze estreme e contrastanti, eppure proprio per questo intensamente espressive: il frammento più minuto può esprimere il più alto contenuto di verità, che il filosofo-filologo deve saper ricomporre e tradurre, assieme ad altri innumerevoli frammenti, in una costellazione scritturale, dove le forme, liberate dalla gabbia della mera fatticità storico-empirica, non più semplici fenomeni, ma fenomeni originari, trovano la lingua e i nomi per dirsi, e le idee stesse, che in esse si esprimono, una lingua capace di esporle senza tradirle nella convenzionalità e nella strumentalità classificatoria dei concetti.

È una scrittura, quella del filosofo-filologo, non lineare né deduttiva, dove il testo non si riduce mai a una catena inferenziale di argomentazioni, una scrittura da interpretare, “complessa, combinatoria, stratificata, discontinua, allegorica, un rebus da decifrare”, come scrive Scholem, che ha il suo prototipo nel commento ai testi sacri. In essa si esprime l’idea della lingua come immenso archivio di somiglianze immateriali, in cui l’esperienza di un popolo, la vita di un’epoca storica si sedimenta in tracce che solo uno sguardo fisiognomico sa recuperare e ripresentare nella feconda tensione di una costellazione di estremi.

Il carattere fisiognomico-espressivo della lingua

In questo contesto il problema della lingua in quanto espressione costituisce il centro stesso del problema filosofico di Benjamin. Vediamo di impostarlo adeguatamente in rapporto alla lettura del primo saggio oggetto di questa ricerca, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo.

Nei suoi termini generali, il problema della lingua è, per Benjamin, l’affermazione del carattere fisiognomico-espressivo della lingua, nel senso chiarito sopra, l’attenzione alle componenti “simboliche” e non solo semiotiche, al corpo e al volto della lingua, alla sua figura espressiva, in opposizione alla concezione strumentale della lingua stessa, che la riduce a mero mezzo di comunicazione e di informazione al servizio dell’uomo, che fa dei nomi semplici etichette, maschere concettuali che nascondono il volto espressivo dell’idea, diaframmi posti davanti alle forme del mondo. La filosofia del linguaggio di Benjamin fa della lingua non un mezzo informativo astratto, ma un medium formale concreto.

Lingua in generale e lingua umana

Ma cosa significa precisamente lingua in Benjamin? Perché il saggio che stiamo commentando parla di una lingua in generale e di una lingua dell’uomo? Il chiarimento del titolo è preliminare ed essenziale in rapporto al commento del testo. Vi è lingua in generale in quanto a ogni cosa è essenziale esprimere il proprio contenuto spirituale, la propria essenza, l’idea di cui la cosa stessa è espressione e vi è una lingua dell’uomo perché, a differenza delle cose, che si esprimono con il linguaggio muto delle forme, delle figure, dei suoni, dei colori, dei tratti, l’uomo si esprime per mezzo di parole.

Il nome come incontro di parola e cosa

E queste due lingue si incontrano nel nome che l’uomo dà alle cose, dove la parola accoglie, traduce, le forme del mondo. È nel nome che la lingua manifesta, come vedremo meglio più avanti, il suo carattere ontologico: nel nome il mondo viene alla presenza, nel nome l’uomo si apre alla verità del mondo. In esso la parola dell’uomo si apre, prima ancora che alla conoscenza del mondo, all’incontro con il mondo e la sua lingua si svela tutt’altro che semplice strumento per afferrare e impadronirsi di ciò che non ha lingua. Come si vedrà meglio nel corso della lettura di questo saggio e, soprattutto quando affronteremo più da vicino il problema della traduzione, la confusione delle lingue, conseguente all’impresa babelica, appare, alla luce di questo concetto del nome come luogo di incontro tra due lingue, non tanto e non solo un problema di incomunicabilità fra gli uomini, quanto, prima ancora e soprattutto, il rischio della perdita del mondo, della riduzione dell’esperienza a semplice conoscenza.

Il nome non è solo affare dell’uomo dato che è sempre nome di qualcosa. Quando la parola dell’uomo continua a parlare nell’oblio dei nomi delle cose, ridotti a semplici etichette classificatorie, quando la parola si fa da denominante a iperdenominante e la lingua dell’uomo, anziché corrispondere con il proprio nome all’espressiva lingua muta delle cose, parla una lingua autoreferenziale, quando la traduzione delle cose nel nome lascia il posto a un’altra traduzione, quella postbabelica di nomi in altri nomi, l’uomo viene sprofondato nell’abisso della ciarla, le sue parole sono indifferenti alle cose e tale estraneità dell’uomo al mondo fa sprofondare a sua volta le cose stesse in un altro mutismo, triste, inespressivo, coatto. Le cose ammutoliscono perché la parola dell’uomo, con il chiasso assordante delle lingue babeliche, dei nomi molteplici, effimeri, indifferenti, con  le sue lingue specializzate, i suoi gerghi tecnici, le ha rese semplicemente oggetti d’uso, nient’altro che oggetti d’uso.

Lingua come comunicazione di essenze

Ogni manifestazione della vita spirituale umana (musica, scultura, giustizia, tecnica, e così via) può essere intesa come una specie di lingua. La lingua della musica non è il gergo specializzato dei musicisti, così come quella della giustizia non ha nulla a che fare con le parole con le quali vengono stilate le sentenze nei tribunali. Lingua è comunicazione del contenuto essenziale di ognuna di queste manifestazioni della vita spirituale umana, anzi, lingua è ogni comunicazione di contenuti spirituali, ogni espressione di un’essenza.

Ogni comunicazione di contenuti spirituali è linguaggio, dove la comunicazione mediante la parola è solo un caso particolare, quello del linguaggio umano e di quello che è alla base o fondato su di esso (giurisprudenza, poesia). Ma la realtà della lingua non si estende solo a tutti i campi dell’espressione spirituale dell’uomo – a cui, in un senso o nell’altro, appartiene sempre una lingua – ma a tutto senza eccezione. Non vi è evento o cosa della natura animata o inanimata che non partecipi in qualche modo della lingua, poiché è essenziale a ogni cosa comunicare il proprio contenuto spirituale. E la parola “lingua”, in questa accezione, non è affatto una metafora. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p.53)

Lingua è espressione, perciò ogni cosa, in quanto forma e presentazione di un’essenza, ha una lingua in senso proprio. Per Benjamin la lingua non è una facoltà dell’uomo, ma l’essere stesso di ogni ente.

Il problema dell’espressione

Qual è la natura dell’essenza spirituale che la lingua comunica? Che cos’è essenza, espressione, forma? Sono domande a cui, per ora, possiamo rispondere solo in modo generale e che verranno a precisarsi nel corso dell’analisi dei saggi che commenteremo e, in particolare, con la lettura del paragrafo VI della Premessa gnoseologica al Dramma barocco.

Ogni fenomeno di espressione vive e si alimenta in quanto sempre un inespresso rimane alla sua base come riserva di senso. Nell’espresso non si tradisce mai completamente, esaustivamente, definitivamente, tutta la virtualità che lo alimenta. Ogni forma autenticamente tale è letteralmente “impedita” dal dispiegarsi in una totalità fattuale e dall’esaurirsi nell’empiria, in forza della cesura, dell’interruzione che l’inespresso opera in essa. Vi è, nel saggio sulle Affinità Elettive, un riferimento di Benjamin a Hölderlin di grande interesse per questo tema, che merita di essere citato interamente.

L’inespresso come cesura

L’opera d’arte – scrive Benjamin – nasce dal caos, ma non è né magica evocazione di parvenze, né creazione di ordine. Essa è forma che, per un istante, incanta il caos in mondo, lo fissa in pura apparenza. Ed è l’inespresso che interrompe il tremito vitale eternandolo.

L’inespresso è la potenza critica, che se non può separare, nell’arte, l’apparenza dall’essenza, vieta loro però di mescolarsi. Esso possiede questa autorità come parola morale. Nell’inespresso appare la potenza superiore del vero, che determina, secondo le leggi del mondo morale, la lingua di quello reale. Esso spezza, cioè, quello che resta, in ogni bella apparenza, come eredità del caos: la totalità falsa, aberrante – la totalità assoluta. Esso solo compie l’opera riducendola a un “pezzo”, a un frammento del vero mondo, al torso di un simbolo. Categoria del linguaggio e dell’arte, non dell’opera o dei generi, l’inespresso non si può definire più rigorosamente che mediante un passo delle annotazioni di Hölderlin all’Edipo, che non pare sia stato ancora compreso nella sua fondamentale importanza – oltre la teoria della tragedia – per quella dell’arte in generale. Il passo suona: “Il trasporto tragico è il propriamente vuoto e il più sfrenato. Perciò, nella successione ritmica delle immagini, in cui si sviluppa il trasporto, diventa necessaria quel che si dice nel metro cesura, la pura parola, l’interruzione antiritmica, per venire incontro, al suo culmine, alla vicenda incalzante delle immagini, onde appaia così, non più questo avvicendarsi, ma l’immagine, la rappresentazione stessa”. (W. Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus novus, cit.,  p. 222)

L’inespresso è la forza che interrompe la vita, ne spezza il continuo avvicendarsi, per affidarla all’istante eterno dell’immagine. È un “tra” che interrompe senza rompere, che irrigidisce senza esaurire. Fissare la vita dell’essenza nella forma, nell’immagine, vuol dire portarla alla presenza, esporla alla verità nella ripetizione del suo mistero. La lingua esprime l’essenza spirituale di ogni cosa in quanto tale essenza è esprimibile, in quanto, cioè, tale essenza è pro-dotta dalla forza veritativa, nel senso sopra chiarito, dell’inespresso. Tutto ciò è molto diverso da una teoria della rappresentazione, dove la cosa, la forma, è fenomeno, mera parvenza di una res, di una natura, di un’essenza che in sé rimane inaccessibile. Nella rappresentazione l’irrapresentabile non si consegna mai alla presenza, per cui la forma, anziché ripetere nell’istante il mistero dell’essenza, sancisce nella fatticità dell’empirico e nell’astrazione del concetto l’inaccessibilità della cosa in sé.

Il rapporto fra lingua ed essenza

L’essenza spirituale che la lingua comunica, che rapporto ha con la lingua stessa? La lingua comunica qualcosa d’altro da sé? Come ben sappiamo, non ci può essere una coincidenza fra lingua ed essenza, anche se nella lingua ciò che si comunica è l’essenza stessa e non una sua parvenza. Il secondo paragrafo del saggio imposta il problema del rapporto fra lingua e idea.

L’opinione che l’essenza spirituale di una cosa consista nella sua lingua […] è il grande abisso in cui rischia di cadere ogni teoria del linguaggio, e su di esso, giusto su di esso, è il suo compito di tenersi librata. La distinzione fra l’essere spirituale e quello linguistico in cui esso si comunica, è la distinzione primordiale in un’indagine di teoria linguistica, e questa differenza appare così certa che anzi l’identità spesso affermata fra l’essenza spirituale e linguistica costituisce un paradosso profondo e incomprensibile, di cui si è vista l’espressione nel doppio senso della parola lógos. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 54)

Il non chiarito rapporto fra idea e lingua sta alla base di un duplice rischio che ogni teoria della lingua corre. L’affermazione di una mera identità (la lingua, il nome, svela ed esaurisce in sé l’idea, senza residui), sostenuta da quella che potremo chiamare teoria mistica della lingua, fa da contraltare all’affermazione di una mera differenza (la lingua convenzionalmente rappresenta una realtà in sé inaccessibile), propria della teoria strumentale della lingua. Sia l’afferramento mistico dell’essenza totale delle cose nella lingua, sia l’afferramento solo concettuale di tale essenza, sono in realtà incapaci di cogliere il profondo carattere espressivo della lingua, il suo volto. Se la lingua non è l’idea in quanto tale, ma l’idea in quanto si esprime, essa non è tuttavia un mero strumento, un semplice veicolo di espressione dell’idea, perché, come scrive Benjamin,

è fondamentale sapere che questa essenza spirituale si comunica nella lingua e non attraverso la lingua. […] L’essere spirituale si identifica con quello linguistico solo in quanto è comunicabile. Ciò che in un essere spirituale è comunicabile è il suo essere linguistico. … [Pertanto] la lingua comunica l’essere linguistico delle cose. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit.,  p. 54-55)

Il carattere ontologico della lingua

Quest’ultima affermazione di Benjamin imprime al suo discorso un carattere apparentemente tautologico, rischio che lo stesso filosofo percepisce. Se la lingua non è veicolo, se la lingua si identifica con l’essenza spirituale stessa nella misura in cui è comunicabile, allora la lingua comunica se stessa. Che cosa comunica la lingua di una cosa? Che cosa comunica la lingua di una lampada, per usare l’esempio di Benjamin? Non comunica  né la lampada in sé, né una copia di tale lampada in sé. Né, tantomeno, comunica un insieme di sensazioni che solo attraverso operazioni soggettive di sintesi o di associazione producono l’oggetto lampada. La lingua della lampada non comunica la lampada semplicemente, la lampada in quanto ente, ma la sua presenza, il suo essere presente. Comunica – come scrive Benjamin – la lampada-del-linguaggio, la lampada-nella-comunicazione, la lampada-nell’espressione. Appare chiaro, qui, il ruolo ontologico della lingua, anche alla luce di quanto è detto subito sotto a chiarimento dell’apparente tautologia insita nella frase: l’essere linguistico delle cose è la loro lingua.

Questa proposizione non è tautologica, poiché significa: ciò che in un essere spirituale è comunicabile, è la sua lingua. Tutto riposa su questo è (che significa “è immediatamente”). […] Ciò che in un essere spirituale è comunicabile è ciò in cui esso si comunica. […] Ogni lingua si comunica in se stessa, essa è – nel senso più puro – il “medio” della comunicazione. Il mediale, cioè l’immediatezza di ogni comunicazione spirituale, è il problema fondamentale di ogni teoria linguistica, e se si vuol chiamare magica questa immediatezza, il problema originario della lingua è la sua magia. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit.,  p. 55)

Il mediale

Vi è identità-differenza fra lingua ed essenza, fra espressione e ciò che si esprime. La lingua è l’essenza stessa che si comunica. Perciò Benjamin scrive che la lingua è medium e che il mediale – ben altro dallo strumentale – è il problema stesso di ogni teoria del linguaggio. Contro ogni teoria della rappresentazione, il mediale afferma l’immediatezza di ogni comunicazione spirituale e, nel suo significato essenziale, coincide con l’ontologico, in quanto darsi immediato nella forma dell’essenza stessa. Intesa in questo senso, la lingua è anche infinita: non sono i suoi contenuti particolari a definirla, la lingua non si riduce a meccanismo referenziale, a dispositivo semiotico, ma ha come confine la propria essenza, la propria inesauribile potenzialità espressiva.

La lingua verbale

Dalla lingua in generale Benjamin passa a considerare poi la lingua dell’uomo, la cui specificità consiste nell’esprimersi in (non con) parole. La lingua dell’uomo è nominazione, Benennung. L’uomo è colui che dà il nome alle cose, il datore di nomi, come mostra l’episodio biblico citato (Genesi II) e, cosa fondamentale, egli, nella sua essenza, è solo questo. È questo un punto decisivo che va attentamente esaminato.

La nominazione come atto ontologico

Le cose vengono alla presenza dell’uomo comunicandosi nella propria lingua. La lampada e ogni altro ente mondano si comunicano all’uomo. L’uomo “ascolta” la muta lingua delle cose, coglie, nel presentarsi dell’ente, l’essere stesso di tale ente (coglie la lampada in carne ed ossa, direbbe la fenomenologia) e a tale evento corrisponde con la sua parola, che si fa nome. La nominazione non è un atto impositivo, arbitrario, convenzionale, ma apertura, accoglienza dell’essere delle cose, quindi atto ontologico. Quando l’uomo dà il nome alle cose, la lingua dell’uomo e la lingua delle cose si co-appartengono, parola e cosa sono lo stesso nella differenza che il nome ospita. Nel nome la lingua muta delle cose (il sensibile, le qualità percettive nel senso fenomenologico del termine?) si tra-duce in parole.

Quanto questa concezione del nome come luogo di incontro fra due lingue sia ricca di implicazioni, non solo per la filosofia in quanto scrittura, ma anche per l’arte, la poesia, la critica letteraria, per ogni espressione spirituale umana, appare evidente. Come vedremo poche pagine più avanti di questo stesso saggio, in Benjamin vi è un intimo nesso fra visione (Anschauung), in quanto apertura originaria alla lingua muta delle cose, all’essere stesso delle cose nel loro esprimersi, e nominazione (Benennung), in quanto traduzione di tale essenza nella lingua dell’uomo. Su tale tema ci soffermeremo nella prossima relazione.

Il nome come comunicarsi dell’uomo a Dio

Se le cose si comunicano all’uomo, come e a chi si comunica l’uomo, quell’ente la cui essenza consiste interamente nel denominare? Dopo aver negato che l’uomo si comunichi mediante i nomi che dà alle cose, Benjamin dà una risposta a tale domanda proponendo la nota distinzione fra concezione borghese (o semiotica) della lingua e un’altra concezione, che potremo chiamare sacrale o simbolica. È opportuno, a questo proposito, citare il testo letteralmente.

Questa opinione (che l’uomo comunichi un oggetto ad altri uomini, mediante la parola con cui designa una cosa) è la concezione borghese della lingua, la cui vacua inconsistenza risulterà sempre più chiaramente in seguito. Essa dice che il mezzo della comunicazione è la parola, il suo oggetto la cosa, il suo destinatario un uomo. Mentre l’altra teoria non conosce alcun mezzo, alcun oggetto, alcun destinatario della comunicazione. Essa dice: nel nome l’essere spirituale dell’uomo si comunica a Dio. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 57)

Nella sua sconcertante lapidarietà, l’affermazione di Benjamin che l’uomo si comunica a Dio pone una serie di problemi che, in questa fase della lettura del testo, sono destinati a rimanere in gran parte senza risposta. Si può, comunque, in prima approssimazione, proporre un’interpretazione di tale frase.

Alla lingua muta delle cose l’uomo corrisponde, come abbiamo visto, con la sua lingua verbale e lo fa nominando le cose. Nel nome le parole e le cose si incontrano, l’uomo e il mondo si comunicano nella differenza. Il nome è il luogo in cui la differenza si pro-duce, non il mezzo con cui l’uomo comunica l’essenza delle cose. Il nome non comunica alcuna essenza, se non quella della lingua stessa, l’evento stesso dell’espressione in quanto tale. Nel nome – scrive Benjamin – la lingua stessa si comunica. Nel nome l’uomo corrisponde a Dio, non come un ente a un altro ente, perché si ricadrebbe nell’ambito della concezione semiotica della lingua, ma in quanto la lingua verbale dell’uomo ripete la lingua di Dio. Se il verbo divino fa essere il mondo, il verbo umano lo accoglie, così come si dà, nell’immediatezza stessa del suo venire alla presenza. Quando Dio affida all’uomo il potere dei nomi, in realtà sancisce l’identità-differenza di uomo e mondo, di parola e cosa, quell’identità-differenza che l’uomo porta nel suo stesso essere, in quanto polvere del suolo e alito divino, corpo e spirito parlante, ente fra gli enti, eppure il solo ente che si interroga sull’essere degli enti.

La lingua adamitica, che pronuncia il nome delle cose, è anche, fra l’altro, l’instaurarsi della trascendenza dell’uomo rispetto al mondo, l’evento che svela l’uomo come icona di Dio. Dio è il “tra” che mantiene la differenza, come vedremo meglio nel seguito della lettura. Per ora basti ricordare che l’apertura dell’uomo al mondo nella nominazione è l’accoglienza del mondo nell’identità-differenza del nome e in tale accoglienza l’uomo si comunica (parla) a Dio, perché in tale accoglienza l’uomo rispetta il “tra”, in cui e grazie a cui accade l’evento ontologico del venire alla presenza del mondo.

L’uomo, il datore di nomi

Se l’uomo si comunica nominando le cose (parla a Dio aprendosi al mondo), l’uomo, allora, non è nulla in sé, non è affatto una sostanza dotata di attributi, fra i quali quello essenziale di possedere una lingua. L’uomo è solo ascolto dell’essere, il denominante che dà la parola al mondo, il Signore della natura con cui la creazione si compie e che si porta la responsabilità di quanto gli è stato affidato. Se il nome è l’essenza della lingua e solo all’uomo è stato dato il potere di nominare, solo nell’uomo l’essenza spirituale, in quanto essenza linguistica, si comunica interamente. Concludiamo la prima parte dell’analisi del saggio sulla lingua con queste parole di Benjamin, dove appare chiaramente il ruolo del nome come fondamento della differenza fra uomo e mondo.

Il nome è ciò attraverso cui non si comunica più nulla e in cui la lingua stessa e assolutamente si comunica. Nel nome l’essenza spirituale che si comunica è la lingua. […] Il nome come patrimonio della lingua umana garantisce quindi che la lingua stessa è l’essenza spirituale dell’uomo; e solo perciò l’essenza spirituale dell’uomo, solo fra tutti gli esseri spirituali, è interamente comunicabile. È ciò che fonda la differenza fra la lingua umana e la lingua delle cose.[…] Solo attraverso l’essenza linguistica delle cose egli perviene da se stesso alla loro conoscenza – nel nome. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 57)

 

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