Linguaggio e filosofia in Walter Benjamin – 5 – La questione della traducibilità

La questione della traducibilità

Abbiamo già incontrato nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo il concetto di traduzione. In quel contesto l’insistenza era posta sulla traduzione come riconduzione del linguaggio muto della natura all’espressione linguistica umana. Una tale traduzione, naturalmente, riesce soltanto se l’uomo sa accogliere la comunicazione proveniente dalle cose ed è quindi realmente possibile solo nello stadio edenico dell’umanità. Dopo che la lingua è diventata strumento, anche la comunicazione delle cose all’uomo si è interrotta e forse solo il poeta con la sua lingua primaria, ingenua, intuitiva può in qualche forma ripristinarla.

L’attenzione agli aspetti non verbali del linguaggio gioca un’importanza decisiva all’interno della concezione linguistica di Benjamin, come testimonia il saggio Sulla facoltà mimetica.  Forme espressive come la danza, la grafologia, il linguaggio gestuale, il linguaggio infantile, l’onomatopea, ecc., tutte generate dalle forze della mimesi (forze fisiognomiche) costituiscono una immensa riserva di somiglianze che dovrebbero riversarsi nel linguaggio senza perdere la loro ricchezza. Questa forza mimetica, tuttavia, si è andata via via indebolendo nell’uomo moderno, man mano che si rafforzava la riduzione del linguaggio alla mera funzione strumentale.

Nel saggio Il compito del traduttore, dove non si tratta tanto di precisare gli aspetti tecnici del tradurre, quanto di sollevare in tutta la sua problematicità la questione della traducibilità, la strumentalità della lingua rappresenta ancora il termine negativo di riferimento per giudicare la traduzione di un testo da una lingua ad un’altra. Rivive in questo saggio una distinzione di Novalis fra traduzioni grammaticali, traduzioni alterate e traduzioni mitiche, definendo queste ultime “traduzioni in sommo stile” che “non ci danno l’opera d’arte reale, ma l’ideale di essa” e tali da richiedere “un cervello in cui spirito poetico e spirito filosofico si siano compenetrati in tutta la loro pienezza“.

Prima forma di cattiva traduzione: riprodurre il senso

Tradurre significa, nell’accezione generale del termine, restituire nel modo più fedele possibile dei contenuti presenti nel testo originale. Così posto, il problema della traduzione si riduce, in fin dei conti, a un problema di comunicazione e di trasmissione di significati. Non c’è dubbio che questo concetto di traduzione possa valere per una vasta categoria di testi (pensiamo ai testi tecnici o scientifici, ad esempio). Molto più controversa è invece la sua applicabilità ad opere filosofiche o, ancora di più, a testi poetici e sacri. La lingua è davvero, in questi casi, un semplice ed esteriore veicolo di contenuti, oppure il senso abita intimamente la lingua e il passaggio di un contenuto da una lingua a un’altra rappresenta alla fine un momento inessenziale in rapporto a un compito ben più impegnativo, quello della restituzione della lingua a un livello di integrità superiore? Vedremo che traducibili non sono tutte le opere, ma solo quelle che posseggono una forma tale da mediare ancora agli uomini un ricordo di Dio, opere che nell’originale mantengono ancora un’eco dell’origine, della pura lingua.

Opera d’arte e sua ricezione

Una delle grandi distinzioni riguardanti l’estetica è quella che contrappone un’estetica della ricezione a un’estetica della produzione. La prima si basa, nel giudicare un’opera d’arte, sull’attenzione rivolta al potenziale fruitore o destinatario della stessa, la seconda, invece, pone l’accento sull’artista e sulla sua attività creatrice.

Ebbene, il nostro saggio mette drasticamente fuori gioco, fin dalle prime righe, ogni riguardo al ricettore nella considerazione delle opere d’arte. La verità di un’opera d’arte non può mai risiedere nel fruitore, sia che questi venga colto nella sua specificità psicologica, storica o sociale, sia che venga considerato nelle vesti di ricettore ideale.

Nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli ascoltatori. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 39)

Se l’opera d’arte nascesse nel riguardo del suo ricettore, essa perderebbe la sua essenza più profonda, quella di essere creazione del nuovo. L’arte ha in sé la propria ragione d’essere: una poesia, un’arte, una sinfonia, creano letteralmente il proprio pubblico.

Perché Benjamin pone questi concetti, in fondo abbastanza ovvi, all’inizio del suo saggio sulla traduzione? Perché mette in relazione ambiti culturali e spirituali così profondamente diversi fra loro, attività quasi contrapposte, come quella geniale e creativa dell’artista, da un lato, e quella fedele, tecnica, riproduttiva del traduttore dall’altro?

È rivolta una traduzione ai lettori che non comprendono l’originale? Ciò sembra spiegare a sufficienza la differenza di rango fra l’uno e l’altra nel regno dell’arte. Inoltre sembra questa la sola ragione possibile di ripetere più volte “la stessa cosa”. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 39)

Perché si dovrebbe tradurre un testo, se non per consentire a lettori che non comprendono la lingua in cui è stato scritto il testo originale di partecipare comunque al senso dell’opera? Creazione e riproduzione: questo è il dualismo che sembra condizionare i rapporti fra opera poetica e sua traduzione. La traduzione deve essere fedele al testo originale, deve ripetere, per quanto possibile, la stessa cosa: solo così, ad esempio, un tedesco che non conosce il francese può accedere, sia pure in modo derivato, alla grande poesia di Baudelaire. Eppure, questa opinione diffusa, quasi scontata, viene radicalmente rovesciata da Benjamin.

Che cosa “dice” un’opera poetica? Che cosa comunica? Assai poco a chi la comprende. L’essenziale, in essa, non è comunicazione, non è testimonianza. Ma la traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – e cioè qualcosa di inessenziale. Ed è questo infatti un segno di riconoscimento delle cattive traduzioni. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 39)

Seconda forma di cattiva traduzione: ricreare il senso

Se il trasmissibile in un’opera poetica è ciò che è inessenziale, mentre l’essenziale sarebbe il misterioso, il “poetico”, ciò che detto in quel modo nell’originale è destinato a rimanere ineffabile nel senso proprio del termine se riprodotto letteralmente in una lingua diversa, allora il traduttore sembra non avere altra strada che quella di farsi a sua volta poeta. Anziché riprodurre un senso indicibile al di fuori dell’originale, dovrà ricreare tale senso liberamente, senza sentire alcun obbligo nei confronti di una fedeltà impossibile. Questo, tuttavia, avverte Benjamin, è un altro contrassegno di cattiva traduzione, perché non fa altro che rovesciare specularmente la precedente prospettiva: a una precisa trasmissione dell’inessenziale si sostituisce ora un’imprecisa trasmissione dell’inessenziale.

Tanto la riproduzione quanto la ricreazione del senso sono cattive traduzioni perché si limitano, in modi diversi, opposti, ma accomunati dalla medesima intenzione, a tradurre il trasmissibile. La vera traduzione, invece, dovrà essere traduzione dell’intraducibile, attraverso un’azione condotta non sul contenuto del testo, né sulla sua forma, ma sul rapporto fra forma e contenuto, fra lingua e senso. La vera traduzione sarà trasformazione di questo rapporto.

L’argomentazione di Benjamin è rigorosa, stringente. Se è vero che l’originale, l’opera poetica, non deve servire al lettore, perché la traduzione dovrebbe tradire tale natura del testo piegandosi al servizio del lettore? Il traduttore fallirebbe clamorosamente il suo compito se, anziché sovvertire il mondo del lettore e scuoterne violentemente la lingua, se ne facesse docile servitore, e questo tradimento non riguarderebbe tanto l’autore o l’opera stessa, quanto la lingua nel suo essere, nei cui confronti, come vedremo, egli è indebitato.

La traduzione come forma

La traduzione è una forma: essa non trasmette contenuti, ma una struttura. Per comprenderla in quanto forma è essenziale il riferimento all’originale, dato che in esso si trova la legge della traducibilità. La traduzione è forma nel senso dinamico del termine: è formazione, metamorfosi, figurazione. Essa traduce l’originale trasformandone la composizione: nel testo tradotto, contenuto e lingua, conservano l’intraducibile dell’originale, grazie a una radicale ristrutturazione del loro rapporto.

Traducibilità empirica e traducibilità essenziale

Vi sono due sensi in cui la traducibilità di un’opera può essere intesa. Può significare:

se l’opera troverà mai, nella totalità dei suoi lettori, un traduttore adeguato (ob es unter der Gesamtheit seiner Leser …); o – e più propriamente – se l’opera nella sua essenza (ob es seinem Wesen …), consenta una traduzione, e quindi – giusta il significato di questa forma – la esiga. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 40)

La prima domanda agisce nell’ambito della dimensione empirico- fattuale. Ora, in un futuro prossimo o remoto, ci sarà qualcuno capace di tradurre quell’opera poetica, o qualcuno che vorrà tradurla? Il traduttore può essere trovato, oppure no: ciò non cambia nulla rispetto all’esigenza di traducibilità che promana dall’opera stessa. La traducibilità di un’opera, l’esigenza di essere tradotta, non viene minimamente inficiata se non si trova nessun traduttore per essa, allo stesso modo in cui l’indimenticabilità di un momento della vita non viene negata, anche se, di fatto, la dimenticanza finisse per sopraffarlo. La dimenticanza, come il non venir mai tradotta di un’opera, appartiene all’ordine dei fatti e non può intaccare la struttura essenziale dell’evento o dell’opera.

Il poetico come configurazione traducibile

Vi sono delle configurazioni, afferma Benjamin, che in sé esigono la traducibilità. Non ogni testo la esige, solo determinate opere. Solo laddove un nucleo, un nocciolo intraducibile alimenti la relazione forma-contenuto in un determinato modo, si pone il problema della conservazione e della sopravvivenza di tale nocciolo. L’originale, per sopravvivere, esige la traduzione, e questo non può mai darsi senza la trasformazione e la compresenza dell’originale stesso.

La traducibilità inerisce essenzialmente a certe opere: ciò non significa che la loro traduzione sia essenziale per le opere stesse, ma vuol dire che un determinato significato inerente agli originali si manifesta nella loro traducibilità. Che una traduzione, per quanto buona, non possa mai significare qualcosa per l’originale, è fin troppo evidente. E tuttavia essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua traducibilità. Anzi, questo rapporto è tanto più intimo in quanto per l’originale in sé non significa più nulla. Può essere definito naturale, o meglio ancora un rapporto di vita. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 40-41)

L’enigma del poetico è proprio questo: quell’intraducibile in un testo che merita di sopravvivere. Della conservazione di questo intraducibile il traduttore è responsabile. Il poetico non è un senso mistico e ineffabile, un qualcosa di inattingibile da conservare nella sua inaccessibilità. È una relazione, il nesso mimetico-fisiognomico (lo stile?) fra contenuto e lingua, la struttura ontologica stessa della lingua, della lingua originaria, del dono che Dio ha fatto all’uomo. Che sia proprio la traduzione a portarlo alla luce, trasportandolo in una dimensione superiore a quella della sua stessa produzione nell’originale (la traduzione è a metà strada fra la poesia e la dottrina, scrive Benjamin in questo stesso saggio, p. 48), rappresenta uno dei “paradossi” su cui dovremo interrogarci nell’analisi di questo saggio.

 

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