La “sopravvivenza” del testo originale nelle traduzioni
Tradurre significa, per Benjamin, trasportare da un dominio linguistico a un altro un “significato” inerente a determinati testi – il testo sacro e il testo poetico, innanzitutto – e, contemporaneamente, salvaguardare e trasformare profondamente tale significato.
La traduzione è un’operazione metalinguistica: suo compito non è esprimere un contenuto, dato che a questo ha già pensato il poeta, ma rappresentare un rapporto fra le lingue. La traduzione è un’espressione dell’originale, non una sua copia: come la respirazione non è una funzione aggiuntiva dell’organismo vivente, ma una sua manifestazione essenziale, così la traduzione non è una protesi potenziatrice che si aggiunge al testo originale per consentirgli di travalicare i propri confini geografici e linguistici.
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organismo vivente |
testo originale |
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vive nelle sue manifestazioni vitali |
“sopravvive” nelle sue traduzioni |
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rapporto espressivo |
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Solo nelle traduzioni, indipendentemente dal fatto empirico della loro esistenza, il testo originale sopravvive, trascende il proprio ambito di vita, per alludere a una dimensione superiore e più originaria. Non tutti i testi, naturalmente sono degli “originali”: solo laddove la lingua profana dell’uomo conserva in qualche modo un ricordo della lingua “divina”, un germe della lingua originaria, il testo esige la traducibilità. Perciò gran parte delle produzioni linguistiche umane sono “ciarla”, chiacchiera, opere intraducibili, effimere, morte, parole solo esteriormente comunicanti, rovina del beato spirito linguistico, asservimento contemporaneo della lingua e delle cose (v. il già citato saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, p. 66).
Elevazione del testo originale
Nel saggio del 1916, riferendosi alla lingua in generale, Benjamin aveva affermato che tradurre significa sempre e comunque elevare, dal momento che tale operazione avviene sempre nel passaggio da una lingua inferiore a una lingua superiore. Ora tale concetto viene ribadito con particolare riguardo alle traduzioni fra lingue dell’uomo.
(Nelle traduzioni) la vita dell’originale raggiunge, in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento. Questo dispiegamento, che è quello di una vita elevata e peculiare, è determinato da una finalità altrettanto peculiare ed elevata. Vita e finalità: il loro rapporto apparentemente evidente e che pure quasi si sottrae alla conoscenza, si dischiude solo se quello scopo a cui collaborano tutte le singole finalità della vita non è a sua volta cercato nella sfera stessa della vita, ma in una sfera superiore. Tutte le manifestazioni finalistiche della vita, come la loro finalità in generale, non tendono in definitiva alla vita, ma all’espressione della sua essenza, all’esposizione del suo significato. Così la traduzione tende in definitiva all’espressione del rapporto più intimo delle lingue fra loro. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 42)
La traduzione “eleva” il testo poetico a una dimensione superiore, più vicina a quella suprema della dottrina (Lehre) – concetto che in Benjamin è molto vicino a quello ebraico di Torah – anche se tale operazione non è mai definitiva e deve essere continuamente ripetuta.
Diversità di compiti fra poeta e traduttore
In quest’ottica, il compito del traduttore appare profondamente diverso, ma non meno importante di quello del poeta. Se l’opera del poeta è meritevole di sopravvivere, perché in essa si raccolgono frammenti della pura lingua, e solo il poeta, intuitivo e in intima anche se non permanente consonanza con la lingua della natura, è capace di compiere questa operazione, è solo nell’opera tradotta che la lingua originaria viene restituita alla sua purezza. Il traduttore non crea, non inventa, né tantomeno riproduce, bensì, operando contro la dispersione delle lingue, contro l’iperdenominazione, contro la strumentalità delle parole, contro l’arbitrarietà dei nomi, porta alla luce proprio quell’unità originaria di tutte le lingue, quella nostalgia per l’armonia, che alimenta segretamente tutte le opere poetiche. Solo il traduttore, quindi, contrasta Babele, non il poeta, che nei suoi momenti di ispirazione, è come un nuovo Adamo, capace di tradurre la lingua delle cose nel puro nome, ma costretto, nel contempo, a consegnare tale metallo prezioso alla “ganga” delle lingue profane (ed è proprio questa, paradossalmente, la condizione di possibilità della poesia stessa).
La Darstellung dell’armonia delle lingue
La traduzione non rivela (offenbaren), né istituisce (herstellen), ma esprime (darstellen) questo rapporto segreto fra le lingue. L’Offenbarung e l’Herstellung sono modi della manifestazione che avvengono al di fuori della vita verbale, tanto che a essi si addicono non le parole o i nomi, ma le analogie e i segni. La Darstellung, invece, è un riferimento a un significato che non è quello della somiglianza materiale, delle corrispondenze naturali, analogiche, né quello dell’indicazione convenzionale, ma quello enigmatico della somiglianza immateriale, che Benjamin definisce intensiva (intensiv), anticipatoria (vorgreifend), allusiva (andeutend), embrionale (keimhaft). Ciò che la traduzione mette in luce è una forma peculiare di convergenza delle lingue, il fatto che, al di fuori di ogni rapporto storico, di ogni parentela o derivazione reale, esse tutte sono affini in ciò che vogliono dire.
La lingua del poeta e la lingua del traduttore
Le parole non sono entità statiche, fissate in modo definitivo in un significato dato una volta per tutte. Esse hanno una maturazione postuma (Nachreife), anche e soprattutto le parole “definitive” come quelle poetiche o quelle sacre: un campo semantico, che all’epoca del poeta poteva essere dominante, può chiudersi, mentre nuove tendenze possono sorgere dal testo già formato. È nella natura stessa della lingua, infatti, la tendenza a trasformarsi ed è la traduzione l’agente che “rivela”, in senso quasi chimico, o meglio ancora alchemico, questo processo vitale.
Se la lingua in cui l’originale è scritto si trasforma, anche la lingua del traduttore si trasforma. Ma in questo processo di trasformazione viene alla luce una radicale differenza fra lingua del poeta e lingua del traduttore.
Il perdurare della parola poetica
Poiché, come il tono e il significato delle grandi opere poetiche cambiano radicalmente coi secoli, così cambia anche la lingua materna del traduttore. Anzi, mentre la parola poetica perdura [meglio che sopravvive, come si legge in traduzione] nella sua lingua, anche la più grande delle traduzioni è destinata a entrare (e a essere assorbita) nello sviluppo della lingua, e a perire nel suo rinnovamento. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit. p. 43) (c.m.)
Il testo poetico si trasforma e si rinnova proprio perdurando nella forma che il poeta gli ha dato: la sua è una maturazione, una fioritura continua. La parola poetica, proprio in quanto in essa vive la pura lingua, è una continua sorgente di sensi, una miniera di significati. Così le terzine di Dante, nella forma in cui il poeta le ha scritte, überdauern, perdurano lungo tutto il flusso dell’evoluzione storica della lingua italiana e proprio questo perdurare genera continuamente nuovi significati.
L’obsolescenza delle traduzioni
Non così la traduzione, la quale è fatalmente condizionata, fino all’obsolescenza, dallo sviluppo della lingua. Lungi dall’essere la sorda equazione di due lingue morte, la traduzione, all’opposto, deve essere capace di avvertire in modo quasi sensibile (zu merken), da un lato, la maturazione postuma della lingua straniera, la fecondità inesauribile del testo poetico, e, dall’altro, le doglie gestatorie della propria lingua. La grande traduzione partorisce nella propria lingua quel significato che abita nel testo originale. Perciò la lingua del traduttore viene scossa profondamente da questo significato: nessuna grande traduzione di Baudelaire può avvenire senza che la lingua in cui è tradotto si francesizzi in profondità, evitando, naturalmente di dare a queste parole un senso banale. Francesizzare l’italiano non significa fare un calco in italiano di parole o forme francesi, ma mettere in evidenza la parentela delle due lingue, la loro comune discendenza dalla pura lingua originaria.
Se nella traduzione si esprime l’affinità delle lingue, ciò non ha luogo per una vaga somiglianza della riproduzione e dell’originale. Come è evidente, in generale, che all’affinità non deve corrispondere necessariamente una somiglianza. […] ogni affinità metastorica delle lingue consiste in ciò che in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una sola e medesima cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni reciprocamente complementari: la pura lingua. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 44)
Il modo dell’intenzione
Le lingue tendono tutte alla stessa realtà, ma non nello stesso modo. Quando dico Brot e quando dico pane mi riferisco alla stessa cosa in modi diversi. Se, come scrive Benjamin, va rigorosamente distinto ciò che è oggetto di intenzione dal modo stesso dell’intenzione, solo quest’ultimo riguarda, in realtà, il traduttore. È tra i diversi modi di intendere che la traduzione deve cercare una complementarietà o un’armonia.
Ogni traduttore vive della differenza dei linguaggi e ogni traduzione si fonda su questa differenza e, se pare perseguire il disegno opposto di sopprimerla, ciò accade non perché riduce una lingua a un’altra, ma perché eleva le due lingue verso la lingua originaria: in ciò consiste il suo compito messianico. Come scrive Blanchot, la traduzione non è destinata a far sparire la differenza fra le lingue, dato che essa, in realtà, ne è il gioco: l’opera è matura e degna di essere tradotta solo se nasconde in sé, disponibile in qualche modo, questa differenza.
Nessuna lingua, presa in sé come un tutto, riesce a cogliere completamente quell’unica e medesima cosa a cui tutte insieme tendono, la pura lingua (die reine Sprache). È la pura lingua che ogni testo poetico racchiude in sé, a un tempo scrigno e prigione, ciò che la traduzione mira a liberare, redimere (erlösen), nella propria.
Lingua straniera e madrelingua
Lingua straniera e madrelingua sono due concetti apparentemente opposti ed è il poeta il signore della propria madrelingua. Eppure, proprio nella lingua poetica si raccoglie e si concentra un’altra lingua. Nelle più potenti e intense espressioni di ogni madrelingua – le poesie – vive inseparabile un’altra lingua che le alimenta. La poesia, da un lato, vive dell’imperfezione delle lingue e, dall’altro, della nostalgia verso la pura lingua.
Estraneità di tutte le lingue profane
Anche il traduttore si esprime in una lingua profana, la propria madrelingua, ma diversa è in lui l’intenzione rispetto a quella del poeta. Il traduttore, pur servendosi necessariamente della propria lingua, mira a presentare, sia pure in un modo allusivo ed embrionale, la parentela fra le due lingue, in quanto entrambe idealmente discendenti dall’unica pura lingua, la lingua originaria. Egli svela che anche la madrelingua è, in realtà, una lingua straniera. Solo la traduzione, tematizzando l’intimo rapporto tra le lingue, giocando e vivendo della loro differenza, contrasta davvero Babele: non ripristinando la vera lingua, dato che non ha capacità istitutive o rivelative, ma dichiarando straniere ed estranee tutte le lingue.
Ogni traduzione è solo un modo pur sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità delle lingue. Altra soluzione che temporale e provvisoria, una soluzione istantanea e definitiva di questa estraneità, rimane vietata agli uomini o non è, comunque, direttamente perseguibile. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 45)
La traduzione, anche la più grande, è effimera, non può pretendere di perdurare (überdauern), come legittimamente pretendono le opere poetiche. La vita dell’originale può “sopravvivere” (überleben, fortleben) nelle traduzioni solo se queste, come le manifestazioni vitali di un organismo vivente, si rinnovano in continuazione.
La traduzione, quindi, per quanto non possa pretendere alla durata delle sue creazioni, e si differenzi in ciò dall’arte, non nasconde la sua tendenza a uno stadio ultimo, definitivo e decisivo di ogni formazione linguistica. In essa l’originale trapassa, per così dire, in una zona superiore e più pura della lingua, in cui a lungo andare non può vivere, […] ma a cui perlomeno accenna, in modo straordinariamente penetrante, come al regno predestinato e negato della conciliazione e dell’adempimento delle lingue. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 45)
Il nocciolo essenziale di un testo poetico
In ogni vera traduzione sopravvive un nocciolo essenziale (wesenhafte Kern), che a sua volta non è traducibile.
E ciò [il nocciolo essenziale] non si lascia trasferire a sua volta come il verbo poetico dell’originale, poiché il rapporto del contenuto alla lingua è affatto diverso nell’originale e nella traduzione. Se essi formano, nel primo, una certa unità come il frutto e la scorza, la lingua della traduzione avvolge il suo contenuto come un mantello regale in ampie pieghe. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 45-46)
Toccare, sfiorare, quell’intoccabile che il poeta ha prodotto è ciò a cui il traduttore mira: alludere a ciò che resta, dopo che tutto il senso comunicabile è stato estratto e consumato.
Organicità e artificialità del rapporto fra lingua e contenuto
Nel testo originale il rapporto fra contenuto (Gehalt) e lingua (Sprache) è stretto, aderente, organico, anche se non confuso e inseparabile. Ciò che la traduzione restituisce è ancora, naturalmente, un testo con un determinato contenuto e una determinata forma, ma ora il loro rapporto, la loro unità è profondamente mutata: non ha più l’organica aderenza che aveva nel testo originale, quella naturale corrispondenza di contenuto e forma, per cui si dice propriamente che in una poesia non c’è una parola in più del necessario né una parola diversa che possa esprimere meglio il contenuto della poesia stessa.
Nella traduzione il rapporto fra forma e contenuto si fa meno stretto, si introduce una distanza, per certi versi una libertà: la parola si sottrae a quell’immediatezza espressiva che è propria della poesia. Il rapporto si trasforma da nesso organico e naturale a nesso artificiale e simbolico. Il contenuto, come il corpo dall’abito, è ora solamente promesso, annunciato e, contemporaneamente, dissimulato dalla traduzione. Nessun abito è veramente tale se aderisce come una buccia al corpo. La migliore traduzione assomiglia al manto regale: rimane separata dal corpo, a cui pur si unisce.
Il cattivo traduttore
Il cattivo traduttore al posto di un frutto naturale ci offre, invece, un frutto contraffatto, anche se perfettamente riprodotto: ci dà dell’opera l’inessenziale, l’apparenza, il comunicabile. Anziché rivestire il contenuto con un altro testo, che nella forma dell’artificio preservi il nesso essenziale del rapporto forma e contenuto, in realtà lo traveste, lo maschera, lo camuffa, per renderlo somigliante al testo originale, incurante di rimuovere con ciò proprio quel nocciolo essenziale che rappresenta l’unica ragione perché il testo originale meriti di sopravvivere. Non mira all’integrazione linguistica, ma esalta l’imperialismo di una lingua rispetto ad un’altra. Solo il vero traduttore, producendo un altro testo che avvolge, calza, modella il contenuto, raccoglie l’appello alla sopravvivenza del testo originale, così come in misura minore fa il critico verso l’opera d’arte.
Traduzione e linguaggio della verità
È al linguaggio della verità, laddove lettera e senso non si distinguono più, che allude la traduzione, portando all’evidenza la distanza che in ogni lingua profana si stabilisce fra lingua e contenuto, quella distanza che il testo originale tende invece ad assorbire e a celare nell’organicità e nella naturalità del rapporto lingua-senso, significante-significato.
Ricordiamo che il primo effetto del peccato originale è proprio quello di aver separato lettera e senso: il poeta è colui che ripropone un’unità organica e naturale fra parola e significato e la sua intenzione verso la lingua ha un carattere intuitivo e primario, ma solo il traduttore accoglie l’appello che questa intuitiva unità lancia e lo traduce su un terreno ideale, tessendo testi come indumenti regali, dove l’ineliminabile inadeguatezza a cui ogni lingua profana è costretta, si fonde con la nostalgica allusione alla pura lingua. Il compito del traduttore, allora,
consiste nel trovare quell’atteggiamento verso la lingua in cui si traduce, che possa ridestare, in essa, l’eco dell’originale. Appare qui un tratto assolutamente distintivo della traduzione rispetto all’opera poetica, l’intenzione della quale non è mai diretta alla lingua come tale, alla sua totalità, ma solo e immediatamente a determinati contenuti linguistici. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 47)
Fedeltà e libertà
Far maturare nella traduzione la vera lingua appare un compito insolubile, soprattutto quando si è negato alla riproduzione del significato ogni valore determinante. Qui Benjamin pone la classica antinomia che travaglia ogni tradizionale disputa sulla traduzione, quella fra libertà e fedeltà.
Letteralità e inintelligibilità
È possibile riprodurre fedelmente, parola per parola, una poesia?
Come già è stato detto, il senso non si esaurisce nel riferimento all’inteso, perché a esso appartiene essenzialmente anche il modo di intendere ed è proprio questo che è diverso in ogni lingua. Ogni modo di intendere implica una tonalità affettiva che vanifica ogni proposito di fedeltà. La fedeltà letterale conduce diritto all’inintelligibilità, come dimostrano le traduzioni hölderliniane di Sofocle. Lo stesso discorso vale per la fedeltà resa alla forma di una poesia. Ancora una volta ciò che si disperde è proprio il senso che si voleva invece conservare. Molto meglio riescono in questo scopo i cattivi traduttori, che con la loro indisciplinata libertà salvaguardano il senso comunicabile di una poesia.
Le lingue profane come frammenti della pura lingua
In relazione al rapporto fra lingua originale e lingua della traduzione, Benjamin presenta a questo punto la più famosa delle metafore contenute in questo saggio:
Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo di intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 49)
La traduzione è un movimento d’amore, un gesto amoroso che il traduttore compie verso l’originale. A nulla serve ricreare un frammento identico a un altro, perché mai si ricostruirà in tal modo l’unità originaria da cui tutti i frammenti derivano, anzi, riprodurre un frammento identico a un altro vuol dire semmai moltiplicare e ribadire la dispersione delle lingue. Se la traduzione non riproduce il senso, tuttavia nemmeno lo ignora. Essa lo rende nel punto di contatto, in quel nocciolo essenziale che deve preservare. Il profilo di due frammenti, che presi nella loro forma solitamente sono diversi, deve combaciare perfettamente.
L’elemento originale del traduttore è la parola, non la proposizione. Quest’ultima è come il muro che si pone davanti alla lingua originale e la nasconde, mentre la letteralità (Wörtlichkeit), la corrispondenza parola per parola è come l’arcata, che sorregge lasciando vedere. Come l’unione di due frammenti non avviene secondo una logica arbitraria, ma in vista della ricostruzione di un’unità originaria, così la crescita non dà luogo a una qualsiasi forma in una qualsiasi direzione. La traduzione deve realizzare le virtualità insite nell’originale. E l’originale richiede una crescita e un completamento perché fin dall’inizio nasce colpevole, mancante.
Redimere nella propria quella pura lingtedua che è racchiusa in un’altra: o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione – è questo il compito del traduttore. […] Come la tangente tocca la circonferenza di sfuggita e in un solo punto, e come questo contatto sì, ma non il punto, le prescrive la sua legge, per cui essa continua all’infinito la sua via retta, così la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso, per continuare, secondo la legge della fedeltà, nella libertà del movimento linguistico, la sua propria via. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 50-51)
Il senso che l’originale esprime non deve essere ripetuto o riprodotto dalla traduzione – la circonferenza è già tracciata, a nulla serve rifarla – e tuttavia tale senso non può essere indifferente. Anzi, per la traduzione è legge da seguire rigorosamente e fedelmente, ma non in quanto contenuto determinato, bensì in quanto funzione di un rapporto, quello fra lingua e contenuto.
Intraducibilità e perfetta traducibilità
Più l’originale è piatto, uniforme, monotono, meno è traducibile: un testo in cui la lingua è mero strumento, dove ciò che conta è l’inteso e non il modo di intendere, non esige traduzione. A nessuna lingua vera si allude, allorché le due lingue si piegano indifferenti a trasmettere semplicemente un significato.
All’altro capo dell’intraducibilità c’è la traduzione: se per il testo solo tecnico non c’è traduzione a causa della preponderante presenza del comunicabile rispetto allo stile, per la traduzione la situazione è opposta. Qui l’inteso è solo sfiorato dalla lingua, come un’arpa eolica lo è dal vento. Così intesa, svincolata da ogni obbligo di comunicare un contenuto, la traduzione diventa un’impresa per molti versi terribile. In essa il senso sprofonda, viene risucchiato nel vortice delle lingue, nella profonda e irraggiungibile armonia che la traduzione evoca.
Le traduzioni da Sofocle furono l’ultima opera di Hölderlin. In esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo. C’è bensì un arresto, ma nessun testo lo concede all’infuori del sacro, in cui il senso ha cessato di essere lo spartiacque fra il fiume della lingua e quello della rivelazione. (W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 51)
Il testo sacro
Nel sacro, nella sua lettera, è la vera lingua, senza alcuna mediazione del senso, senza alcuna relazione fuori di sé, che parla. Il testo sacro, è già vera lingua nell’originale, lettera e senso a un tempo, lingua che non esprime nulla fuori di se stessa, perciò è per sua natura immediatamente traducibile. E se ciò che conta non è l’inteso, ma la lingua in quanto modo di intendere, sarà la versione interlineare del testo sacro, parola per parola, l’archetipo di ogni traduzione.