I “due Bachelard”. Scienza e poesia come polarità spirituale
Testo di riferimento: Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, 1984, Edizioni Dedalo, Bari. Da ora in poi citato come IIPF, numero pagina. Oltre ai due testi del titolo, il libro contiene anche il brevissimo saggio Istante poetico e istante metafisico e una pregevole introduzione di Jean Lescure.
Bachelard, filosofo, epistemologo, critico letterario, nasce nel 1884 nella regione francese della Champagne, si laurea in matematica, diventa professore liceale di fisica e scienze naturali, si laurea poi in filosofia e insegna prima all’Università di Digione e dal 1940 alla Sorbona. Muore nel 1962. Ancora oggi in Italia la monografia più completa e approfondita dedicata a Bachelard è quella di Giuseppe Sertoli, Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, La Nuova Italia, Firenze, 1971.
Quando si parla di Bachelard, chiedersi “quale Bachelard?”, l’epistemologo o il filosofo dell’immaginazione è una domanda obbligatoria, dietro la quale spesso si nasconde la convinzione di una frattura interna alla sua opera. Immaginazione ed epistemologia sono, in effetti, i due volti sotto i quali il filosofo francese si presenta e sarebbe non solo un’operazione vana, ma addirittura falsificante, cercare una loro conciliazione: in lui l’immaginazione è l’antiscienza e la scienza è l’anti-immaginazione. Scienza e poesia sono due estremi opposti e inconciliabili, niente affatto complementari, come spesso si crede, perché ciò implicherebbe una preliminare divisione di territori, una spartizione di campi di ricerca, una sorta di tranquilla e fattiva collaborazione fra le due attività.
Scienza e poesia sono invece fra loro antitetiche e fra le due attività non c’è sintesi. Possiamo pensarle come una polarità: l’una deve guardarsi e difendersi dalle intrusioni dell’altra, perché entrambe, ognuna a modo proprio, sono totalizzanti. Non c’è punto di incontro, eppure l’opera di Bachelard, come sottolinea Sertoli, si presenta compatta e coerente. Chi legge le sue ardue e penetranti opere epistemologiche sente che sta leggendo lo stesso filosofo che ha scritto le bellissime opere sull’immaginazione. Queste due manifestazioni comuni dell’esprit, se divergono inconciliabili nella loro fioritura, hanno in realtà la stessa radice e un comune nemico.
La lotta contro il “vissuto”
Il 1938, l’anno della pubblicazione di due testi chiave, la Formation de l’esprit scientifique e la Psychanalyse du feu, è il momento in cui l’immaginazione irrompe apertamente, esplicitamente, nell’opera e negli interessi fino ad allora rigorosamente epistemologi di Bachelard. Ed è un’irruzione assolutamente speciale, perché non comporta nessuna invasione di campo, nessuna correzione in senso irrazionalistico della sua filosofia. L’opposizione resta, anzi, per certi versi si rafforza: tuttavia ora l’immaginazione abbandona il ruolo di mera opposizione alla scienza, di puro disvalore, non è più solo un pericolo dal quale lo scienziato deve difendersi per non inquinare le sue ricerche con valorizzazioni soggettive, e diventa a sua volta un valore a pieno titolo.
L’attività creativa dell’esprit non si esaurisce nella costruzione di pensieri rigorosi, di formule esatte, secondo le richieste della ragione scientifica, ma deve volgersi anche a quell’attività della coscienza soggettiva altrettanto rigorosa, anche se di un rigore di tutt’altra natura, che è la rêverie. Il termine rêverie, nell’accezione in cui lo usa Bachelard, è intraducibile. “Sognare a occhi aperti”, la traduzione che più si avvicina, introduce un elemento di divagazione che non rende giustizia al significato che il filosofo dà a questa parola. Lascio quindi non tradotto il termine, aggiungendo poche righe di chiarimento tratte dal già citato testo di Sertoli:
nella rêverie, la coscienza batte ad una intensità impercettibile, vuoi perché essa ancora indugia prima di sprofondare nel sogno (il rêve, l’inconscio), vuoi perché ne è appena emersa. La rêverie è dunque uno stato estremamente fragile, evanescente, instabile; e tuttavia essa è l’origine del mondo e dell’uomo, ossia è la dimensione originaria dell’essere dell’uomo di fronte al mondo e dell’apparire del mondo all’uomo. (G. Sertoli, Le immagini e la realtà, cit., p. 119)
In Bachelard, immaginazione e ragione hanno un valore etico e la loro paritetica sovranità, che non lacera l’esprit, ma lo raddoppia potenziandolo, viene, per così dire, “legittimata” da una comune finalità, da un comune nemico contro il quale combattono con armi diverse, ma ugualmente efficaci: il vissuto. Entrambe sono funzioni di purezza e di vigore, entrambe liberano dalle scorie di una naturalità che viene svalorizzata in quanto assunta come mera datità (sia in quanto dato di fatto, sia in quanto dato psichico, inconscio, abitudinario). Il dovere di pensare che la ragione impone e il diritto di sognare a cui la poesia autorizza sono i due modi, gli unici due modi, con i quali l’uomo può sottrarsi alla datità del reale e a una naturalità entro i cui confini si trova costretto e imprigionato, e può liberarsi per costruire due forme di surrealtà, la surrazionalità scientifica e la surrealtà poetica. Quando si parla di natura come prigione, come caos, non si intende dire che per Bachelard la natura presa in sé è caotica. Il filosofo francese è al di là dell’ingenuità epistemologica, vera fallacia del pensiero comune, di credere a una natura che sussiste come un’oggettività opposta all’uomo inteso come soggettività. Il caotico e il naturale, l’immediato, a cui Bachelard si oppone è il vissuto, il nostro immediato rapportarci, il nostro immediato disporci, la nostra, chiamiamola così, prima immagine di natura, prodotta dal nostro inconscio, dalle nostre aspettative, dai nostri desideri, intessuta di seduzioni.
Bachelard si oppone al realismo ingenuo, una categoria, questa, nella quale egli comprende anche la stessa fenomenologia husserliana, contro cui polemizza in diversi passi delle sue opere (Saggio sulla conoscenza approssimata, Attività razionalista della fisica contemporanea, Materialismo razionale, Razionalismo applicato), ritenendo impraticabile la fondazione delle categorie scientifiche sull’esperienza vissuta: il motto husserliano “alle cose stesse” gli appare come una declinazione quasi perfetta del realismo ingenuo. Opponendosi al realismo, Bachelard si oppone contemporaneamente all’enfasi posta sulla concretezza, che ci porta a credere che una conoscenza sia tanto più concreta, e perciò tanto più vera, quanto più sappia attingere alla cosa stessa, liberandosi del suo carattere strumentale, costruito, ma anche a quella sua antitesi speculare, che è il formalismo, un anti-vedere che si legittima non in sé, ma in quanto astrazione dal concreto, anch’esso, come il concretismo, un rispecchiamento della realtà, non più nel dato percettivo, ma nella formula. Nel Razionalismo applicato, efficacemente Bachelard scrive che realismo e formalismo astratto riducono la scienza a pleonasmo dell’esperienza, mera esplicitazione di una datità che rimane indiscutibilmente il vero explicandum. Lo spirito scientifico, invece, non è affatto esplicazione, rivelazione, ma costruzione di un ordine contro il disordine del dato: non una sistemazione del dato, ma una sua negazione, negazione che il dato sia il vero. In sintonia con Einstein, il quale, certo della “verità” della sua teoria della relatività generale, pur non ancora empiricamente suffragata, affermava che se la realtà dovesse smentirla, avrebbe torto la realtà, Bachelard scrive, nel Nuovo spirito scientifico, che ogni verità nuova nasce malgrado l’evidenza, che ogni conoscenza nuova nasce malgrado l’esperienza immediata, perché la natura non è la verità che attende di essere rivelata, ma l’errore che deve essere cancellato. Il “dato” deve essere negato dal “costruito”, perché il nostro pensiero non viene dal reale, ma va verso il reale. La verità scientifica non è spiegazione della realtà, ma realizzazione della teoria: natura constructa. La scienza non si attiene ai fatti, ma fabbrica e inventa i fatti, li crea, e l’unica esperienza che riconosce è l’esperienza strumentale, non l’opaca esperienza vissuta.
L’immaginazione da ostacolo epistemologico a valore dello spirito
L’operazione che finora abbiamo tratteggiato è quella di una battaglia, la battaglia contro il vissuto, il dato, l’immediato. Il surrazionalismo può imporsi solo se sarà capace di vincere resistenze o, come le chiama Bachelard, ostacoli epistemologici (che assomigliano molto, pur in un quadro diverso, agli idola baconiani), perché non ci si istruisce, non ci si costruisce come uomini razionali se non contro qualcosa, forse contro qualcuno, certamente contro se stessi. Il termine ostacolo epistemologico è cruciale in Bachelard, dal momento che sarà proprio nell’affrontare direttamente tali ostacoli che l’immaginazione gli si imporrà in tutta la sua potenza e legittimità.
L’ostacolo non può essere razionalizzato, ma solo saltato: le valorizzazioni soggettive del fuoco, di cui si occupa il saggio La Psychanalyse du feu, che inquinano le meditazioni relative al fuoco e ai fenomeni termici dei pensatori del XVII secolo, non rappresentano un presupposto al successivo pensiero scientifico. L’alchimia, che giocherà un ruolo di grande rilevanza nel Bachelard rêveur, non costituisce affatto uno stadio preliminare alla chimica. Il filosofo non crede a una preistoria della scienza: l’ostacolo epistemologico, la malia del dato, la seduzione del sogno e del desiderio, vanno saltati, perché la scienza si costituisce come una rottura epistemologica, in discontinuità con il pensiero prescientifico. Lo stesso pensiero scientifico, una volta che si è costituito, non procede in placida evoluzione, ma con salti continui, con continue riorganizzazioni o, come direbbe l’epistemologo Kuhn, con cambi di paradigmi. L’irrazionale non è una zona da bonificare, un terreno da conquistare. È costante minaccia e alterità, il pantano in cui sempre si rischia di cadere. La scienza è una lotta contro la pigrizia, contro la facilità. Non credo che Bachelard sia un antivitalista, anche se molte cose che dice potrebbero farlo pensare. Si oppone all’enfasi posta sul darsi spontaneo della verità, una spontaneità che per lui è sempre caratterizzata di ottusità. Come tutti i grandi pensatori, non crede che il “prezioso”, che per lui è la purezza, ci venga regalato.
L’idea di una psicanalisi dello spirito scientifico, volta a smascherare i residui di naturalismo, di immediata adesione al vissuto, di esperienze qualitative, che insidiano il cammino della scienza, si inscrive in questo quadro. Nel procedere della psicanalisi vengono in primo piano, come formidabili nemici, le immagini che, in questa fase del pensiero di Bachelard, appaiono come espressioni dell’inconscio, della naturalità della psiche umana, in una prossimità impura con la naturalità e la corporeità. La loro azione mina l’edificio della scienza, ne sfigura l’immagine, dal momento che la compone con i tratti incompatibili della vita istintuale dello scienziato, ne surdetermina illegittimamente ogni concetto, valorizzandolo con complessi psichici.
Ma, come abbiamo già detto, l’incontro con le immagini è, per il filosofo, un incontro fatale. Nessun ripensamento, naturalmente, della sua epistemologia. La scienza e l’immaginazione rimangono incompatibili, ma forse la purezza non riguarda solo l’attività della ragione, forse della realtà non ci si libera solo con l’avventura surrazionalista, ma anche con la funzione di irrealtà che l’immaginazione genera. Irrealtà non significa affatto illusione o apparenza. L’irrealtà è quella notte conquistata, non più subita come l’oscurità del dato vissuto, in cui la felicità, perché la felicità è la ricompensa che Bachelard propone a chi sappia negare la pigrizia del dato, non ha più solo i tratti dell’impegno razionalista, ma anche, con pari diritto e dignità, quelli del riposo della rêverie. Senza leggere in questa dialettica di impegno e riposo una funzionalità e una gregarietà di quest’ultimo al primo, perché l’immaginazione è, tanto quanto la ragione, nemica della facilità.
Partita per distruggere le immagini, la Psychanalyse du feu approda alla loro completa legittimazione. È in questo libro che il concetto di rêverie acquista per la prima volta uno spessore concettuale preciso e questo in connessione con la psicanalisi della conoscenza, che Bachelard diversifica dalla psicanalisi dell’inconscio freudiana, perché si situa in una zona meno profonda di quella in cui agiscono gli istinti primitivi: la soglia che separa l’inconscio dalla coscienza e che mette in comunicazione il mondo notturno con il mondo diurno. Mentre nel sogno la coscienza è assente, nella rêverie essa è presente, anche se in modo umbratile. Nella sua evanescenza e instabilità, la rêverie è la dimensione originaria dell’essere dell’uomo di fronte al mondo: anche se in questa fase del pensiero di Bachelard essa semplicemente traspone in immagini i desideri dell’inconscio, rappresenta già comunque un decisivo distanziarsi dal vissuto. Nel testo del ’48 è presente un altro importante concetto, che, pur derivando dalla psicoanalisi freudiana, assume in lui un significato peculiare, quello di complesso. I complessi bachelardiani (nel testo sul fuoco ne sono individuati cinque: complesso di Prometeo, di Empedocle (divenire, morte e rinascita), di Novalis (calore intimo, viscerale), di Pantagruel e di Hoffmann) sono modi di valorizzazione della materia da parte dell’immaginazione al suo stato aurorale.
Della teoria bachelardiana dell’immaginazione, tuttavia, sfuggirebbe l’essenziale, se non se ne sottolineasse un aspetto decisivo, quell’aspetto che libera le immagini dal loro status di colpe dello spirito, di ostacoli epistemologici per affermarle come potenze dello spirito: l’immaginazione di Bachelard è l’immaginazione dei poeti, le immagini che ama sono le immagini poetiche, immagini che hanno rinunciato a ogni pretesa conoscitiva per diventare instauratrici di surrealtà. Mentre la ragione supera il caos naturale costruendo il cosmo razionale della scienza e della tecnica, la poesia supera quel medesimo caos trasmutandolo in immagine: entrambe sono due conquiste, due creazioni, due purificazioni. La purezza bachelardiana ha una fortissima valenza etica, e, proprio per questo, è libera da ogni moralismo: l’impegno razionalista e il riposo poetico non sono al servizio di valori trascendenti, non sono strumenti al servizio del bene o di istanze a essi estranei, sono etici nel loro stesso movimento, nel loro stesso porsi, in quanto creatori di mondi.
Il Lautréamont e il tempo discontinuo dell’aggressione
C’è un testo che ci permette di legare strettamente la concezione dell’immagine a una determinata concezione del tempo, ed è il Lautréamont, saggio dedicato al nume tutelare del surrealismo, il poeta Isidore Ducasse, conte di Lautréamont. (v. Gaston Bachelard, Lautréamont, Librairie José Corti, Paris, 1939). In questo testo il poeta è associato a un complesso specifico, quello della vita animale, con la sua fenomenologia dell’aggressività e della crudeltà. L’immagine appare qui come metamorfosi dell’istinto animale, ed è in questa operazione che la natura va oltre se stessa, la realtà si srealizza, si autotrascende e si conquista come purezza.
Fondamentale, però, è il fatto che l’immaginazione, pur essendo metamorfosi degli istinti, non può essere compresa in funzione dell’istinto che essa traduce in immagine, dato che compirebbe lo stesso errore di apprezzare il concetto scientifico in quanto traduzione e spiegazione della realtà, anziché come costruzione di una surrealtà. L’immaginazione vale in quanto inventa, non in quanto esprime, è un valore in quanto “va al di là”, non in quanto “fa affiorare”. Il suo esprimere è in realtà un distruggere: come il pensiero scientifico si rivolge alla percezione per negarla, non per trovarvi fondamento, così la poesia abolisce il vissuto, l’istintuale, in una direzione diversa, ma altrettanto radicale.
Bachelard oppone il bestiario di Lautréamont, in cui gli animali sono aggressività e forza, a quello di La Fontaine, il grande favolista, dove gli animali appaiono come forme, specie. Incontriamo qui una posizione che ci ricorda molto Spinoza, in particolare quello Spinoza che Deleuze ha così potentemente valorizzato: ciò che conta, dice Spinoza, non è “che cos’è un corpo”, non è la sua essenza, ma “che cosa può un corpo”, qual è la sua potenza. Non conta la forma del corpo, ma la sua forza, non conta a quale specie appartiene un animale, ma di quali movimenti, di quali dinamiche è capace (il cavallo da tiro appartiene alla stessa specie del destriero, ma lo comprendiamo meglio se lo mettiamo nella stessa categoria del bue). Anche quando l’animale si dà in una forma paradigmatica, tale forma non è mai statica, non spegne la forza che le anima, anzi, è la dinamica stessa a costituirla e ad animarla. Se l’animalità è aggressività, le “forme” in cui tale funzione si presenta sono l’artiglio (il rapace, ma anche il granchio) e la ventosa (la piovra, il vampiro, il pidocchio), forme in cui urla il doppio richiamo della carne e del sangue. Una vera apoteosi dell’aggressione.
Ma l’aggressione non riusciamo a coglierla nella sua peculiarità se provassimo semplicemente a descriverla come un’azione; l’aggressione è atto, cominciamento, piuttosto che traiettoria: come si legge nel saggio Intuition de l’instant,
contemplando il gatto in agguato, vedrete l’istante del male iscriversi nel reale, mentre un bergsoniano viene sempre a considerare la traiettoria del male, per ristretto che sia l’esame che egli fa della durata. Senza dubbio, il fine, scattando, svolge una durata in accordo con le leggi fisiche e fisiologiche, leggi che regolano degli insiemi complessi. Ma vi è stato prima il processo complicato dello slancio, l’istante semplice e criminale della decisione. (IIPF, 63)
Il tempo dell’aggressione è un tempo discontinuo, in quanto non è mai dato, ma sempre costruito dall’atto stesso dell’aggressione: il tempo è un effetto, non un dato, dati sono gli istanti, caotici, pura molteplicità, senza gerarchia, senza direzione, ognuno di essi vuoto e perciò origine potenziale di una durata, la quale, piuttosto che una continuità, sarà un ritmo, piuttosto che una forma, sarà una configurazione, un istante complesso, un pulsare di intermittenze. Ed è qui che, usando molta cautela teorica, possiamo forse intravedere un “privilegio”, una maggiore originarietà creativa assegnata alla coscienza poetica rispetto alla coscienza pensante: la rêverie, in quanto forma di coscienza aurorale, è a contatto diretto con il fermento indistinto degli istanti, con la molteplicità caotica degli istanti, tanto che Bachelard dirà che la coscienza che sogna è una coscienza istantanea. Ciascun atto crea il proprio tempo e il proprio ritmo, la cui durata coincide con lo svolgersi dell’atto.
L’intuizione dell’istante
È bene entrare, ora, in modo più approfondito nella concezione bachelardiana del tempo come discontinuità, presentando brevemente il saggio Intuition de l’instant. Il testo è un commento al saggio Siloë, scritto da un suo collega dell’Università di Digione, storico della campagna francese, Gaston Roupnel. In realtà è soprattutto una serrata e precisa polemica contro la concezione del tempo di Bergson, alla cui durata Bachelard contrappone l’istante. Bachelard scrive poi un’altra opera fondamentale sul tempo, forse ancora più importante, che non toccherò, La dialectique de la durée, dove elabora l’importante concetto di ritmanalisi. I punti essenziali dell’opera che sto per esaminare sono due: l’istante è un battito fra due nulla, un gesto creatore che pone l’essere, per cui la durata assume l’aspetto della tessitura di una rete che lega fra loro gli istanti, e l’affermazione che la coscienza è il luogo dell’istante e l’istante il luogo della coscienza.
Bachelard non nega la durata, bensì, in consonanza con il motivo ispiratore di tutto il suo pensiero, ribadisce il rifiuto della facilità e della pigra immediatezza: della durata bergsoniana contesta appunto il carattere facile, il fatto di essere semplicemente data. A questa durata in fin dei conti sostanzialistica e sorda, sorta di basso continuo in cui la vita scorre prima di ogni suo determinarsi come qualcosa, Bachelard oppone la molteplicità delle durate costruite dagli atti di coscienza. Discontinuità è una parola fondamentale in Bachelard e il poeta e amico Lescure, nell’Introduzione che accompagna l’edizione italiana dell’Intuizione dell’istante lo mette bene in risalto.
Il pensiero di cui Bachelard ha voluto impadronirsi, sa che sopravviene nell’istante. È un pensiero sul punto di, meravigliato di una realtà istantanea, penetrato di verità. La coscienza che ha privilegiato e che rispecchia uno stupore d’essere, è quella della soglia. (IIPF, 26)
L’esperienza della soglia è un’esperienza di ricominciamento, perciò un’esperienza di purezza e di purificazione. E la purezza, come sappiamo, per Bachelard è una prova d’essere. La tensione verso la purificazione presuppone la possibilità di sempre nuove nascite ed esige che l’istante rompa la fatalità temporale, il suo unilaterale scorrere inesorabile e irreversibile. L’uomo non è mai, in nessun momento, la somma del suo passato, non è un dato.
Senza preamboli, Bachelard afferma subito che la realtà del tempo è l’istante: una realtà la cui natura è ancora oscura (cos’è un istante? un atomo temporale o qualcosa di totalmente diverso?), ma che già mostra inequivocabilmente una caratteristica, quella di essere una singolarità, o meglio, una discontinuità, dato che il tempo appare come una realtà racchiusa nell’istante e sospesa fra due nulla. Bachelard parla di tragico isolamento dell’istante, perché l’istante non ha né un prima né un dopo. Il tempo istantaneo non ha durata, non ha continuità, è nascita e morte, inizio e fine. Tragico isolamento perché il tempo istantaneo ci isola non solo dagli altri, ma anche da noi stessi, perché ci sottrae il passato. Citando Roupnel, Bachelard scrive:
L’istante che ci è appena sfuggito è la stessa morte immensa a cui appartengono i mondi aboliti e i firmamenti spenti. E lo stesso temibile ignoto contiene, nelle stesse tenebre dell’avvenire, tanto l’istante che si avvicina a noi, che i Mondi e i Cieli che ancora si ignorano. (IIPF, 44)
Il tempo come molteplicità di istanti entra in conflitto radicale con il bergsoniano tempo come continuità. Secondo Bergson, noi abbiamo un’esperienza intima e diretta della durata: la durata è un dato immediato della coscienza. L’esperienza spirituale è un mutamento incessante, una corrente continua, che varia senza tregua, una fluidità e un mutamento continuo. Nell’Evolution créatrice scrive: “Per un essere cosciente esistere significa mutare, mutare significa maturarsi, maturarsi significa creare indefinitamente se stesso“.
La scienza, presa nella rete metodica della matematizzazione, è incapace, secondo Bergson, di seguire il vitale nella sua fluidità e trasforma perciò tale corrente continuamente rinnovantesi in un tempo uniforme, nel cui corpo disincarnato si possono praticare tagli, sezioni artificiali più o meno estesi, a seconda delle esigenze dell’analisi scientifica. Il tempo perde così la sua connotazione propriamente temporale, che è vitalità creativa (durata), e si spazializza, diventa linea temporale: l’istante altro non è che un taglio artificiale.
Bachelard non contesta la critica bergsoniana al tempo spazializzato della scienza. La sua posizione è molto più radicale e coinvolge l’essenza stessa del tempo. Una concezione continuista del tempo, tanto il tempo spazializzato della fisica, quanto il tempo vitalistico dello spirito, considera l’istante una falsa cesura, un taglio artificiale, ma, se è così, ciò di cui non si può più rendere conto è proprio il cominciamento: passato ed avvenire sono un unico flusso che possono venire distinti solo con un’operazione in fin dei conti arbitraria. La temporalità continua non riesce a rendere conto dell’atto creativo, perché è incapace di concepire quell’assoluto, nel senso proprio del termine (sciolto da ogni altro da sé e riportato a sé), che ogni creazione del nuovo richiede, quell’assoluto che, in senso temporale, non può essere che l’istante. Per comprendere il senso di questa critica, non dimentichiamo mai il vero bersaglio di Bachelard: non tanto la durata, lo slancio vitale, la continuità, bensì tutto questo in quanto dato immediato della coscienza, ciò che la coscienza e lo spirito si trovano già a disposizione e che devono limitarsi ad accogliere nella sua immediata verità. Se la continuità e la durata sono dati immediati della coscienza, allora il nostro presente non può che essere il prodotto del passato: il presente è il dato immediato che ha come presupposto il passato. La vita, invece, reclama il contrario: è il passato che deve essere illuminato dal presente. “Illuminato dal presente”, non “ricostruito a partire dal presente”, perché altrimenti sarebbe un’operazione continuista e legittimante. Per riferirci a Benjamin, il presente dei dominatori illumina un passato diverso da quello che illumina il presente degli oppressi.
Scrive Bachelard che
i nostri atti di attenzione sono degli episodi sensazionali estratti da questa continuità chiamata durata. Ma la trama continua, su cui il nostro spirito reclama dei disegni discontinui di atti, non è che la costruzione laboriosa e fittizia del nostro spirito. Niente ci autorizza ad affermare la durata. Tutto in noi ne contraddice il senso e ne fa rovinare la logica. (IIPF, 50)
Decisivo, in questo brano, è il valore accordato all’atto di attenzione come esperienza dell’istante e l’affinità che tale atto ha con la decisione. L’atto, a differenza dell’azione, che è sempre visualizzabile come una traiettoria che si traccia da un punto iniziale, la decisione, a uno finale, lo scopo cui l’azione mirava, è sempre istantaneo, concentra il suo valore nel punto di inizio di quella che sarà poi l’azione, acquista il suo senso in quanto rottura di una continuità e inizio di una nuova continuità. L’azione ha dei presupposti, da cui è motivata, e degli scopi, che si propone di conseguire.
Il gatto che aggredisce un topo compie un’azione motivata da spinte istintuali e finalizzata a soddisfare tali spinte istintuali: mangiare il topo per soddisfare la fame. La traiettoria che porta il gatto dal punto dell’attacco alla cattura del topo costituisce certamente una deviazione dalla normale traiettoria vitale del gatto e, naturalmente, in senso ben più tragico, anche da quella del topo, ma si tratta di una deviazione che ha le sue radici nel “prima” ed avrà i suoi frutti nel “dopo”. Ciò che rompe, invece, ciò che fa irrompere il nuovo nell’abitudinario, nel consueto, ciò che decide, anche qui nel senso etimologico del termine, è l’istante del balzo, il momento in cui si concretizza l’atto dell’aggredire, quell’istante in cui “il male si inscrive nel reale”. È l’atto creatore o, in questo caso, distruttore.
La vita non è la trama delle nostre azioni, più o meno coerenti, più o meno efficaci. La trama delle nostre azioni appartiene alla ricostruzione della vita, alla riflessione sulla vita. La vita è la discontinuità degli atti, la molteplicità delle rotture e delle creazioni di cui siamo capaci.
È in questa luce che si chiarisce l’importante affermazione di Roupnel, secondo cui “bisogna costruire una dottrina dell’accidente come principio” (IIPF, 52) e non c’è affermazione più stridente e contrastante con la metafisica tradizionale, per cui all’inizio sta l’essenza, la sostanza, l’uno, l’identità. La legge generale dell’evoluzione creatrice è che alla radice di ogni tentativo di evoluzione sta un accidente, accidente nel senso di ciò che accade, ciò che sopraggiunge ad interrompere, a chiudere, ed a riaprire.
Il tempo bergsoniano è raffigurato da Bachelard come una realtà piena, continua, una retta nera, densa, infinitamente densa, in cui l’istante, se ha luogo, può averlo come un qualcosa che artificialmente interrompe questa densità continua, un fittizio punto bianco. Ben altra è invece la raffigurazione del tempo.
Per Roupnel, la vera realtà del tempo è l’istante; la durata non è che una costruzione, senza alcuna realtà assoluta. Essa è costruita dall’esterno, per mezzo della memoria, potenza dell’immaginazione per eccellenza, che vuol sognare e rivivere, ma non comprendere. Rappresenteremmo dunque abbastanza bene il tempo roupneliano, per mezzo di una retta bianca, tutta intera di possibilità, in potenza, dove improvvisamente venisse ad iscriversi, come un accidente imprevedibile, un punto nero, simbolo di un’opaca realtà. (IIPF, 53)
Nel tempo bergsoniano è dato l’essenziale, la durata: i suoi accidenti (gli istanti) sono, non tanto esterni al tempo, quanto estranei ad esso, artificiosi, frutto di astrazioni. Se l’azione, nel suo svolgersi, è l’essenziale, una sua scomposizione in momenti non può che apparire come un’analisi astratta. Nel tempo roupneliano, invece, l’essenziale non c’è, è semmai da costruire: la retta bianca è una retta di virtualità, mentre il punto nero è una delle attualizzazioni di questa virtualità. Uso i termini virtualità-attualità che sono, non dimentichiamolo, termini bergsoniani. Lo faccio per suggerire che la critica bachelardiana a Bergson è di tipo molto particolare, per certi versi il pensiero di Bachelard potrebbe essere definito come un bergsonismo senza la durata, un bergsonismo paradossale, ma non contraddittorio.
Abbiamo parlato molto dell’istante, senza tuttavia dissipare l’idea che l’istante sia un atomo temporale, un frammento infinitesimale del continuo bergsoniano, una piccolissima durata. L’istante della decisione, la soglia che separa l’agguato dal balzo, potrebbe apparire come un’azione concentrata, infinitamente concentrata, di cui la fame, il balzo, la cattura e il pasto, sarebbero l’esplicitazione nell’estensione temporale. Un atomismo temporale, un bergsonismo intermittente, a impulsi. Bachelard rifiuta esplicitamente questa interpretazione, bollandola come un deprecabile eclettismo filosofico.
È necessario distruggere l’assoluto di ciò che dura e conservare l’assoluto di ciò che è. Non dimentichiamo che Bachelard è epistemologo di prim’ordine, quindi il suo richiamo, nella trattazione del tempo, alla relatività einsteiniana è quasi obbligatoria. Si dice che la concezione del tempo di Einstein distrugge il tempo assoluto di Newton. In realtà, la distruzione è ben più radicale e non si limita al tempo in quanto astratto contenitore degli eventi, riguarda il tempo stesso, precisamente lo spazio di tempo: la durata del tempo, per quanto questa possa essere infinitesima, è sempre relativa al metodo di misurazione. Non c’è una durata assoluta. C’è, tuttavia, l’assoluto temporale, anche nella relatività einsteiniana, e questo assoluto è l’istante, l’hic et nunc, la soglia: non la concentrazione di spazio e tempo, non il punto di indistinzione per coesistenza o compresenza degli opposti (sarebbe ancora un assoluto sostanziale, un essenza dotata di contenuto o realitas, cioè di determinazioni reali, anche se date nell’indistinzione dell’origine), non la concentrazione, ma la convergenza e, come punto di convergenza di serie eterogenee, punto determinante, origine di tutte le determinazioni.
Se il tempo è l’istante, allora è l’istante presente che ha in sé tutta la carica del tempo, non il passato e nemmeno l’avvenire, che sono in sé vuoti. Ma leggiamo il testo.
L’istante non ha una durata nel suo seno; non spinge una forza in un senso o in un altro. Non ha due facce, è intero e solo [potremmo dire che in questa concezione del tempo, antifenomenologicamente, l’istante non ha né ritenzione né protensione]. Se ne mediti l’essenza finché si vuole, non si troverà in esso la radice di una dualità sufficiente e necessaria per pensare ad una direzione. (IIPF, 73-74)
In questo senso, Bachelard può affermare che l’istante è un germe temporale, anche se tale affermazione può apparire contrastante con la suaccennata negazione che l’istante sia un atomo temporale concentrato. Il germe, infatti, appare proprio quel concentrato di potenzialità da cui abbiamo differenziato l’istante in quanto luogo di convergenza di molteplici determinazioni, soglia temporale, non seme temporale. E infatti Roupnel scrive:
Niente sarebbe più pericoloso che immaginarsi il germe come un contenente di cui un insieme di proprietà sarebbe il contenuto. Questa associazione dell’astratto e del concreto è impossibile; e d’altronde essa non spiega niente. (IIPF, 84)
Koyré la definisce un’idea mistica, una confusione in cui la materia che evolve e la potenza che la fa evolvere sarebbero misteriosamente lo stesso. Un’idea che non rompe con la metafisica della sostanza, perché ciò che nel germe così pensato viene valorizzato è, più che il cominciare a essere, il permanere e il continuare a essere: fra il germe dell’individuo e l’individuo formato non c’è soluzione di continuità e ciò che viene tematizzato è la crescita dell’individuo, non la sua nascita, il suo venire al mondo. Se l’istante temporale è un germe in questo senso, non solo il suo passato, ma anche il suo futuro è già inscritto in esso. Per questa ontologia l’essere è un’abitudine che si conserva nel durare uguale a se stesso pur cambiando: la vecchia idea del divenire che ha la sua ragion d’essere, il suo fondamento, la sua radice, nell’essere.
Bachelard non rifiuta l’idea che l’essere sia un’abitudine, ma l’abitudine, se adeguatamente compresa, non è un divenire che conserva, ma un divenire che rinnova, non il divenire dell’essere, ma l’essere che è divenire. Richiamandosi a Samuel Butler, nota che l’abitudine non è solo routine, ma un plesso speciale di novità e routine, per la precisione, è l’assimilazione routinière di una novità. Pensiamo, dice Bachelard, a un’attitudine: questa resta tale solo se si sforza continuamente di superarsi. Un pianista, ad esempio, mantiene la sua attitudine solo se ogni giorno cerca non di ripetere gli stessi esercizi con la stessa abilità, ma di superarsi. Nulla si mantiene, dura, davvero, se non si rinnova. Il germe, allora, va compreso, in quanto in esso è attiva, non la forza di durare e di svilupparsi, ma quella di iniziare. Esso è l’inizio dell’abitudine di vivere. Con questo Bachelard non sta proponendo una teoria dell’origine come atto unico, enfatizzato, non intende farsi cantore di nessuna Origine con l’iniziale maiuscola. L’origine abita, o meglio, può abitare qualunque istante, perciò la vita è lo sforzo di utilizzare il maggior numero di istanti. Un’idea spinoziana, questa: felicità, per Spinoza, significa aumentare la potenza d’essere, porsi nella condizione di fare quanti più incontri positivi sia possibile fare.
Se la vita accetta l’affermazione degli istanti secondo una cadenza particolare, cresce con più rapidità in una direzione particolare; si presenta come una successione regolare di cellule perché è il riassunto della propagazione di una forza di generazione assai omogenea. La fibra, è un’abitudine materializzata; fatta di istanti ben scelti, fortemente solidarizzati da un ritmo. Da qui, se ci si pone davanti all’enorme ricchezza di scelte che offrono gli istanti discontinui, legati dalle abitudini, si vede che si potrà parlare di cronotropismi, che corrispondono ai diversi ritmi che costituiscono l’essere vivente. (IIPF, 92)
In questa teoria del tempo, che pone il dato nell’istante e il costruito nell’abitudine, emerge la necessità di accoppiare due concetti che sembrano non poter stare assieme, la ripetizione e il cominciamento. Compito dell’uomo è quello di sottrarsi a una durata ottusa, fatta di continuità e affermare un tempo come eterna ripresa, “la continuità del coraggio nella discontinuità dei tentativi, la continuità dell’ideale, malgrado la rottura dei fatti”. (IIPF, 97). Ed eterna ripresa significa, per parafrasare Nietzsche, che “non dura se non ciò che ha la forza di durare”, cioè di ricominciare sempre.
L’immagine come istante complesso
Se comprendiamo questa concezione del tempo, possiamo cogliere nel suo pieno significato le parole che aprono il breve saggio Istante poetico e istante metafisico, cioè che la poesia è una metafisica istantanea. La poesia ha la forza della simultaneità, la capacità di unire ciò che è disperso, la potenza di esistere senza preamboli, senza ragioni, ma anche senza scopi, come la rosa di Angelo Silesio, che fiorisce senza un perché.
Lungi dal tramare una bella e compatta apparenza, laddove c’è solo disordine, il poeta distrugge la continuità, fatta di istanti successivi, concatenati, sopprime la sensata catena del tempo quotidiano, il tempo orizzontale, e crea un istante complesso, un tempo verticale in cui ciò che conta è la simultaneità, la sincronia, l’ambivalenza, una costruzione in cui il tempo non scorre, ma sgorga, non dura ma inizia. Nell’istante poetico si trova
Tutto ciò che ci distacca dalla causa e dalla ricompensa, tutto ciò che nega la storia intima e il desiderio stesso, tutto ciò che svalorizza assieme il passato e l’avvenire. (IIPF, 119)
Il tempo della poesia, che è il tempo dell’immagine, è dunque un tempo istantaneo, che nasce da una serie di “no” pronunciati contro i diversi tempi orizzontali, quello degli altri, quello delle cose, quello della vita. L’istante complesso è il tempo che ha la forza di immobilizzare la vita, trasponendo la successione in cui essa si disperde nella simultaneità e nell’unità della forma. Ma si tratta di una forma che ha in sé una tensione che non può spegnersi, proprio perché essa vive nell’istante complesso, verticale, il cui tempo, come abbiamo visto, non è quello della durata, della permanenza, ma del cominciamento.
Se l’immagine poetica, nell’istante in cui irrompe, è forma, proprio perché essa vive nell’istante, tale forma avrà valore in quanto verticalità che rompe l’orizzontalità del reale, un fuori che spezza la concatenazione dei fatti, che inquieta la pigra coscienza adagiata nella solita vita, rinnovandola. Perciò l’immagine poetica non può mai essere forma nel senso formale del termine, forma divenuta, perché, se così fosse intesa, anziché irrompere nel reale, trasponendo la serialità in simultaneità, diventerebbe più banalmente un pezzo del reale, si comporrebbe con esso contribuendo a rafforzarne la compattezza e il conformismo. La bella immagine, che si è liberata dell’inquietudine dell’istante per durare come apparenza compiuta è, in questo senso, apologetica del reale.
Per tornare al Lautréamont, comprendiamo ora cosa intende Bachelard, quando definisce la poesia dei Chants de Maldoror un grido fermato nel suo diapason, un gesto bloccato nel momento della sua massima tensione, lingua istantanea che immobilizza l’attimo culminante dell’espressione energetica e lo traspone in figura. Grido e gesto sono forze che si tramutano, nel momento della massima tensione, in forme, in immagini.
Questo è il potere irrealizzante, o meglio, surrealizzante dell’immaginazione poetica, questo è l’istante complesso, il tempo immobilizzato, fermato, che cattura forze, spinte, pulsioni, che altrimenti si disperderebbero e si spegnerebbero nel mero flusso vitale, e le traspone nella surrealtà dell’immagine. E l’istante è il tempo dell’immagine perché l’istante è il tempo del nuovo, il tempo in cui il movimento inizia e muore, in una incessante ripresa.
L’iconoclastia di Bachelard: immagine formale e immagine dinamica
Qui appare in tutta la sua originalità la concezione bachelardiana dell’immaginazione e la sua distinzione fra immaginazione formale, da un lato, e immaginazione materiale e dinamica, dall’altro. Se l’immagine cattura o cristallizza una tensione o una forza, e in questo senso ferma nella surrealtà un movimento che si sarebbe disperso nella realtà (traspone la successione o la diacronia in sincronia), essa, per sua stessa natura, o meglio per ciò che in Bachelard è la surrealtà, potenza di rinnovamento, non può che essere, a sua volta, forza di attivazione. Non per riconsegnare al reale una forza che da esso deriva, ma per dinamizzare l’immaginazione che riceve queste immagini. L’immagine poetica è tale perché è una forma che muore accendendo l’immaginazione di chi la riceve. È questo il senso del Bachelard lettore di poeti.
La surrealtà non è il luogo in cui si accumulano in bella mostra le immagini poetiche, una sfera separata dove soggiornare nella piacevole contemplazione di belle immagini. è il luogo in cui le immagini-forme nascono e muoiono come tali perché regalano la loro forza all’immaginazione del lettore. L’iconoclastia dell’immaginazione riguarda il reale e l’immagine stessa nella misura in cui questa si prostituisce con la sua (del reale) temporalità, nella misura in cui ambisce a diventarne un pezzo. Non possiamo non ricordare, qui, la benjaminiana distruzione dell’apparenza storica che pretende di imporsi come la vera apparenza. L’immagine formale è rifiutata da Bachelard perché è contro il potere dell’immaginazione, contro la sua libertà, perché la forza dell’immaginazione eccede sempre la forma, qualunque forma, in cui essa si cristallizza. Come tutti quelli che hanno pensato profondamente l’immagine, Bachelard è iconoclasta, distruttore di immagini, come Benjamin, che ha pensato profondamente la storia, è antistoricista. Se si vuol essere creatori, bisogna distruggere, come insegna sempre Benjamin, se si vuol essere libertari, bisogna negare: l’iconoclastia di Bachelard è un no pronunciato alle immagini che pretendono di spegnere la capacità di immaginare, proponendosi come immagini definitive, l’antistoricismo di Benjamin è un no pronunciato contro un progresso che spegne la capacità di agire liberamente, per sostituirla con la capacità di avanzare con la corrente. L’immaginazione, per Bachelard, è a un tempo la capacità di formare e di deformare, non nel senso di distruggere la forma verso l’informe, ma in quello di creare un’altra forma.