Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Deleuze – 3. Il problema dell’identità e della differenza in Heidegger

Il problema di identità e differenza e le critiche di Deleuze a Heidegger

Il pensiero filosofico, nella sua più intima essenza e fin dalle sue più remote origini, risulta definito dalla domanda circa il nesso fra identità e differenza o, il che è lo stesso, dalla domanda circa il nesso fra unità e molteplicità. Questo – scrive Beierwaltes nella Prefazione al suo voluminoso e fondamentale saggio dedicato appunto a Identità e differenza – vale tanto se entrambi i concetti vengono riconosciuti, quanto se si riconosce come vero solo uno di essi: identità e differenza, unità e molteplicità stanno a fondamento di ogni filosofare, a cominciare da Parmenide, che riconosceva vera e legittima solo l’identità e negava ogni consistenza ontologica al differente, per continuare con Platone, che proprio a partire dal rifiuto critico dell’eleatismo riconosce al non essere (in quanto differente) legittimità ontologica, fino agli empiristi che fanno dell’identità un prodotto a partire da una molteplicità irrelata di elementi. (v. W. Beierwaltes, Identità e differenza, Vita e pensiero, Milano)

Anche la filosofia di Heidegger, nel suo complesso, come ogni autentica filosofia, verte attorno a tale tema. Ogni suo testo può servire per riflettere su identità e differenza. Tuttavia, nel 1957 il filosofo tedesco raccoglie in un unico saggio, che intitola, appunto, Identità e differenza, due lavori di diversa origine, l’uno è il testo di una conferenza tenuta all’Università di Friburgo e dedicata a Il principio di identità, l’altro è il lavoro conclusivo di un seminario universitario dedicato alla Scienza della logica di Hegel e il suo titolo è La costituzione onto-teologica della metafisica. Il saggio si colloca in un luogo centrale della filosofia di Heidegger, laddove il filosofo riafferma con forza l’Überwindung della metafisica, in quanto pensiero caratterizzato dall’oblio della differenza ontologica. È nota la lettura heideggeriana della storia della filosofia, il suo tornare al pensiero aurorale dei primi filosofi, in particolare di Anassimandro, Parmenide ed Eraclito – filosofi che rifiuta di chiamare presocratici perché, a suo dire, sarebbe come considerare Kant un prehegeliano – il suo individuare in Platone l’artefice di quella “svolta metafisica” della filosofia, che avrà la massima espressione in Hegel per compiersi, infine, nel senso di perfezionarsi e finire, con Nietzsche, l’ultimo dei pensatori metafisici.

Nelle pagine finali di Differenza e ripetizione Deleuze, affrontando il tema dell’Eterno ritorno in Nietzsche, rivolge, en passant, una critica al modo in cui Heidegger ha impostato il problema della filosofia della differenza, dal momento che egli non avrebbe saputo, malgrado le sue intenzioni “decostruttive” nei confronti della metafisica, sottrarsi al vizio capitale della filosofia occidentale: il privilegio accordato alla rappresentazione. (DR, 383-384) La filosofia della differenza di Heidegger sembra mal fondata a Deleuze perché il filosofo tedesco si limiterebbe a contrapporre, in senso meramente terminologico, la piattezza dell’Identico (das Gleiche), come uguale a sé, alla profondità dello Stesso (das Selbe), capace di raccogliere in sé il Differente. Heidegger metterebbe in discussione non tanto l’identità, quanto un modo di intendere l’identità, quello, cioé, di ridurre il Medesimo all’Uguale. Ciò avrebbe portato alla non comprensione della costituzione differenziale intrinseca dell’identità. Ma, secondo Deleuze, tanto l’Identico, incapace di comprendere la differenza, quanto lo Stesso, che invece la accoglie in sé, restano pur sempre principi della rappresentazione. Alle pagine 89/91 dello stesso testo, Deleuze dedica a Heidegger una lunga e importante nota nella quale riassume in cinque tesi la posizione del filosofo tedesco sul tema della differenza, in particolare riguardo all’irriducibilità del concetto di differenza a quello di negazione. Vediamo tali tesi:

  1. La differenza ontologica – scrive Heidegger in L’essenza del fondamentoè il “non” tra ente ed essere. Tale “non” va, dunque, interpretato in senso differenziale, non in senso negativo: questo contro la lettura sartriana nell’Essere e il nulla e in sintonia maggiore con le posizioni di Merleau-Ponty espresse nella Fenomenologia della percezione e, soprattutto, ne Il visibile e l’invisibile.
  2. Tale differenza fra essere ed ente non è il “tra” nel senso comune del termine, ma la Piega, (Zwiefalt), costitutiva dell’essere e della maniera con cui l’essere costituisce l’essente, nel doppio movimento dell’apertura e del velamento.
  3. La differenza ontologica corrisponde alla domanda, ed è l’essere della domanda che si sviluppa in problemi.
  4. Così intesa, la differenza non è oggetto di rappresentazione, perché la rappresentazione subordina la differenza all’identità e pertanto non è in grado di pensare né la differenza in sé, né l’importanza del differenziante (il “gesto”, il movimento che separa essere ed ente). La differenza non tollera né sintesi né riconciliazione, ma si esplica come ostinazione nella differenziazione.
  5. Se la differenza non si lascia subordinare all’Identico o all’Uguale, essa, tuttavia, deve essere pensata nello Stesso e come lo Stesso.

Da un lato, Heidegger non penserebbe la differenza in sé, ma, subordinandola all’identità, rimarrebbe entro l’ambito concettuale del pensiero metafisico, dall’altro, avrebbe, ciononostante, colto un punto essenziale di tale tematica nella sua distinzione fra differenza e negazione, nel suo rifiuto di considerare la contraddizione, in quanto differenza massima (secondo quanto scrive Aristotele nel decimo libro della Metafisica) come l’archetipo di ogni differenza.

Critica al principio di identità: il frammento 3DK di Parmenide

Il saggio di Heidegger si apre con una critica al principio di identità, così come è inteso dalla logica, principio che di solito si enuncia come A = A. Ma l’uguaglianza tradisce l’essenza dell’identità, poiché l’uguaglianza richiede due termini, ponendo essa come uguali, sotto un determinato aspetto, due cose che, in quanto due, sono distinte, differenti. L’uguaglianza, pertanto, non dice che una cosa è, in quanto tale, se stessa e identica a sé, ma che essa è, sotto un certo riguardo, uguale a un’altra. L’identità, invece, esige un solo termine, giacché afferma che A è A, senza intendere tuttavia tale essere se stessa di una cosa alla stregua di una vuota tautologia, di un semplice e uniforme esser-sé della cosa, di un esser-sé privo di relazioni intrinseche.

L’identità, per Heidegger, ha un’essenza sintetica, è un rapporto, non relazione fra due enti sussistenti (tra i quali sussiste una differenza reale) ma un rapporto di sé a sé, di sé con sé. L’identità di un ente è tale in quanto e solo se alberga in sé una differenza dell’ente di sé con sé, una differenza che è un rapporto del tutto diverso da quello che si può stabilire fra enti sussistenti ma anche da quello che si può stabilire fra concetti. Per esprimerci con una terminologia propria della filosofia medievale, in particolare di Duns Scoto, l’identità è un rapporto di sé con sé, irriducibile tanto alla distinctio realis quanto alla distinctio rationis, tra i termini reciprocamente rapportantisi, un rapporto, chiamato da Heidegger Zusammengehörigkeit , che forse si avvicina, se addirittura non coincide, con il concetto di differenza formale di Duns Scoto.

Per un’adeguata formulazione del principio di identità e del concetto di Zusammengehörigkeit, Heidegger ricorre al frammento 3DK di Parmenide (τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι) “tò gàr autò noeîn estìn te kaì eînai”, lo stesso è pensare ed essere.

La distorsione rappresentativa del frammento di Parmenide

Ciò che è detto in questa sentenza determina, secondo Heidegger, tutta la riflessione dell’Occidente, perché la storia di questa riflessione è la storia di una traduzione/tradimento del significato essenziale della sentenza stessa. L’identità di pensiero ed essere è intesa come paradossale uguaglianza di pensiero ed essere e la sentenza viene riformulata modernamente dalla tesi di Berkeleyesse est percipi“, cioè “essere è essere percepito“, tesi che afferma in sostanza che l’essere è in forza della rappresentazione, ponendo, con questo l’uguaglianza di essere e pensiero, secondo l’impostazione fondamentale della filosofia moderna così come si è venuta imponendo a partire dall’ego cogito cartesiano.

Che cosa si intende per pensiero rappresentativo e perché esso tradirebbe l’essenza dell’identità e, con questo, anche l’essenza della differenza, non più pensata in sé, ma in quanto differenza interna all’identità (o differenza specifica)? Sinteticamente, si può dire che è quella linea di pensiero che, da Platone a Hegel, subordina il molteplice all’uno, che nega tout court la realtà del molteplice, a meno che esso non si raccolga nell’identità del concetto. Per Deleuze la rappresentazione è il luogo della illusione trascendentale su cui si è edificata la storia del lungo errore del pensiero occidentale e della sua immagine dogmatica. Un pensiero caratterizzato dalla pretesa di porre il fondamento, cioè quell’operazione del lógos o della ragion sufficiente che consiste nel determinare, cioè nel porre il Medesimo o l’Identico quale criterio con cui misurare la pretesa alla verità e al valore di ogni realtà. Per usare ancora le parole di Deleuze, il fondamento è, a cominciare da Platone, essenza ideale e il fondato è pretendente o pretesa di partecipare alla qualità del fondamento. Il fondamento ha così funzione selezionatrice, ha il compito di fare la differenza fra i pretendenti: ogni immagine o pretesa ben fondata si chiama rappresentazione o copia o icona; le immagini ribelli, invece, cioè le immagini senza somiglianza, i simulacri, sono eliminate. È un’intenzione etica a guidare il progetto metafisico, sostiene Deleuze; un’operazione di valorizzazione, la riduzione dell’essere al valore, come scrive Heidegger in Introduzione alla metafisica. Il pathos del fondamento domina le operazioni di una soggettività manipolatrice che vuole dominare il mondo (gli oggetti) negandone l’alterità per ridurlo a sé.

Co-appartenenza di essere e pensiero

In Identità e differenza, dietro la co-appartenenza di essere e pensiero si legge la co-appartenenza di essere e uomo, l’identità/differenza di essere e uomo, che assume nella nostra epoca (l’epoca della tecnica, forma compiuta della metafisica) l’aspetto inquietante e nello stesso tempo salvifico del Ge-stell, dove balena l’Ereignis, una delle parole guida della filosofia di Heidegger, l’evento in quanto transpropriazione reciproca di essere e uomo. Ereignis dice lo stesso di Zusammengehörigkeit ed entrambe le parole dicono lo stesso del termine greco tò autó, che apre la sentenza di Parmenide.

Essere e pensiero, i differenti, sono tali in quanto essi si predicano dello stesso. Ciò che si dice dell’identità, di tò autó, è la differenza fra essere e pensare, ciò che si dice dell’ente in quanto ente (dell’essere-identico dell’ente, dell’esser-sé dell’ente) è la differenza di essere ed ente. La differenza ontologica è ciò che propriamente si dice dell’ente in quanto tale. Il termine enigmatico, per Heidegger, il concetto da pensare, è proprio quello dell’identità, il suo essere co-appartenenza, rapporto fra “qualcosa” e “qualcosa” distinti non concettualmente (e pertanto effettivamente distinti) eppure non distinti realmente (e pertanto numericamente uno). È questo il nodo da sciogliere se vogliamo sapere cos’è l’identità, ma sarebbe meglio dire se vogliamo esperire l’identità, perché l’accesso a tale ambito è in primo luogo un’esperienza, un’esperienza di abbandono (Gelassenheit) che equivale a un passo indietro e a un salto fuori, un ritrarsi dalla tradizione metafisica e un uscire dall’atteggiamento del pensiero rappresentativo.

Identità, differenza, diversità nella Metafisica di Aristotele

Vediamo innanzitutto la Metafisica di Aristotele e, precisamente, i libri V e X, due libri che sono dei veri e propri precursori dei dizionari filosofici, perché in essi lo Stagirita definisce numerosi concetti metafisici. Tra questi, appunto, i concetti di identico, diverso, differente, simile, opposto, contrario, uno, ecc..

L’identità è “un’unità d’essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso viene considerata appunto come due cose”. (Aristotele, Met. 1018 a 8-9)

L’identità riguarda l’unità del molteplice. Tale concetto non si applica all’uno in quanto tale e nemmeno al molteplice per sé preso, ma stabilisce una relazione fra unità e molteplicità e precisamente comprende il molteplice come unitario. Come scrive Heidegger, l’identità di cui parla Aristotele è molto diversa da quella di cui parla Parmenide. Identità è, in Aristotele, identificazione, cioè l’atto con cui l’uno identifica il molteplice e lo riporta a sé.

Diverse o altre si dicono le cose nei sensi opposti a quelli per cui si dicono identiche. (Aristotele, Met. 1018 a 10)

La diversità o alterità, dunque, è ciò che propriamente si oppone all’identità, privazione di identità, assenza di identità, ciò che con l’identità non ha relazione alcuna, se non quella di negazione. L’altro, così inteso è il non dell’identità, il suo opposto speculare. Diverso, altro, è il molteplice nella sua dispersione, il molteplice preso per sé senza riguardo all’identità.

Differenti si dicono, invece, quelle cose che sono, sì, diverse, ma hanno fra loro qualche identità, identità per specie, per genere o per analogia. (Aristotele, Met. 1018 a 15)

La differenza, pertanto, non può presentarsi senza l’identità, sotto qualche aspetto. La differenza intrattiene con l’identità una relazione fondamentale: solo se due cose sono per qualche aspetto identiche possono tra loro differire. La differenza, allora, è una determinazione della diversità o dell’alterità e, nel contempo, una determinazione dell’identità. È in forza dell’identità che due cose possono differire, ma è anche, simmetricamente, in forza della differenza che due cose possono affermare la loro identità. In Aristotele identità e differenza sono connesse, entrambe riguardano la relazione dell’uno con il molteplice, solo che, mentre l’identità assume il punto di vista dell’uno, la differenza assume il punto di vista del molteplice. (Metafisica V,8, 1017b 24 – 9, 1017b,31). In Metafisica X,2,1054a 11 – 3,1055a2, Aristotele riprende tali concetti inserendoli all’interno della trattazione dedicata al rapporto tra l’uno e il molteplice. Scrive Aristotele:

All’uno appartengono l’identico, il simile e l’uguale; al molteplice appartengono, invece, il diverso il dissimile e il disuguale.

Ciò che manca in questo elenco è proprio il differente, ma non perché Aristotele se ne sia dimenticato, ma perché a esso riserva un rilievo del tutto particolare, definendolo come determinazione dell’identità e della diversità nello stesso tempo. Si legge, infatti, subito sotto:

La differenza e la diversità non sono la medesima cosa. Infatti, ciò che è diverso e ciò da cui esso è diverso non sono necessariamente diversi per qualcosa di determinato, perché basta che ciascuna cosa esista perché sia identica o diversa. Invece ciò che è differente è differente da qualcosa per qualcosa di determinato, di guisa che deve esserci qualcosa di identico per cui differiscono. E questo qualcosa di identico è il genere o la specie. (Aristotele, Met. 1054 b 14-26)

Alcune righe più avanti, poi, Aristotele determina il grado della differenza e stabilisce che la differenza massima e perfetta è la contrarietà:

Poiché le cose che differiscono fra loro possono differire in grado maggiore o minore, ci deve essere anche una differenza massima e questa io chiamo contrarietà. E che la contrarietà sia la differenza massima risulta evidente per induzione. Infatti le cose che sono diverse per genere non ammettono fra loro alcun passaggio, ma sono fra loro distantissime e incomparabili. Invece le cose che differiscono per specie si generano dai contrari, presi come estremi. Ora la distanza fra gli estremi, e quindi fra i contrari, è massima. (Aristotele, Met. 1055 a 4-9)

La differenza specifica

La contrarietà, dunque, è la differenza perfetta e tale differenza è la differenza specifica. Ciò che è specificamente differente da qualcos’altro deve essere differente da questo in qualcosa che è comune ad ambedue. Questo qualcosa che è comune ad ambedue e che si differenzia nell’uno e nell’altro è il genere. La differenza specifica, perciò, è una differenza nell’ambito dello stesso genere, una differenza che dunque differenzia il genere stesso. Questa differenza specifica, spiega Aristotele, deve essere una contrarietà. Ogni divisione, infatti, si fa per opposti e gli opposti che sono nello stesso genere sono contrari, perché la contrarietà è una differenza perfetta e la differenza specifica è sempre differenza di qualcosa rispetto a qualcosa che è identico fra le due e ambedue abbraccia, cioè allo stesso genere. Questa lettura della differenza come negazione, come negazione determinante, e la relativa riduzione della differenza all’unità e all’uguaglianza del genere come vera realtà sottostante alle differenze (un’uguaglianza che toglie non solo valore, ma ogni stessa legittimità ontologica a ogni differenza in sé considerata) ha fatto scuola e ha condizionato tutto il pensiero occidentale. Chi, come Heidegger, si propone di ripensare tale tradizione con il compito di pensare l’impensato di essa, deve riprendere tutti questi concetti, porli a tema della propria filosofia.

Il “ripensamento” heideggeriano del problema della differenza

L’identità del genere, ma possiamo dire altrettanto bene l’identità del concetto, non rispetta le differenze che a essa non si sottomettono, ma non rispetta nemmeno l’essenza stessa dell’identità. In …Poeticamente abita l’uomo… (Saggi e Discorsi, 129) scrive Heidegger:

Il medesimo non si identifica mai con l’uguale, e neppure con la vuota uniformità del puramente identico. L’Uguale si volge sempre verso il senza-differenze (verso differenze meramente rappresentate) affinché tutto si accordi in esso. Il medesimo, invece, è la reciproca appartenenza del differente a partire dalla riunione operata dalla differenza. Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. Nel determinarsi del differente viene in luce l’essenza riunente del medesimo. Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre solo nell’uguale. Il medesimo unisce il differente in una unione originaria. L’uguale, per contro, disperde nell’insipida unità dell’uno unicamente uniforme.

Se l’essenza dell’identità non è quella uniformante del concetto o del genere, anche la differenza non potrà certo intendersi in termini di negazione. Su questo punto Heidegger ha più volte ribadito la reciproca irriducibilità dei due concetti per evitare anche fraintendimenti a cui la sua stessa filosofia è andata incontro. Nella Premessa alla terza edizione dell’Essenza del fondamento (1949) definisce la differenza ontologica come il “non” fra ente ed essere, definisce il ni-ente come il “non” dell’ente, cioè come l’essere esperito a partire dall’ente. Ma tale “non” non è né il nihil negativum sussistente e realmente distinto dall’ente che sussiste, né un ens rationis, il semplice prodotto di una distinzione dell’intelletto. Il “non” è l’altro dall’ente, è ciò in forza del quale l’ente è: è, appunto, la differenza ontologica fra ente ed essere.

Differenza reale, differenza concettuale e differenza formale

Ci troviamo continuamente di fronte a un senso della differenza che non è quello della differenza reale né quello della differenza concettuale, ma quello di una differenza che è co-appartenenza dei termini in gioco, una differenza che determina i differenti non come contrari, ma, appunto, come i differenti: dire, con Heidegger, che l’essere è il ni-ente dell’ente, lo abbiamo visto prima, non significa ridurre l’essere al nulla ontico (essere ed ente sarebbero contrari che trovano la loro uguaglianza nell’appartenere entrambi a ciò che sussiste).

La prima opera filosofica di grande rilievo di Heidegger è dedicata a un filosofo medievale che ha influenzato non solo il filosofo tedesco, ma tutti quei pensatori che hanno, ognuno con accenti diversi, ripensato in senso non metafisico il problema di identità e differenza. Mi riferisco a Duns Scoto (Il testo di Heidegger è La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto ed è, in realtà, il commento alla Grammatica speculativa, testo di uno scotista, Tommaso di Erfurt). Tale filosofo è noto, fra l’altro, per aver sostenuto un concetto di differenza diverso tanto da quella reale, proprio dell’ambiente tomista, quanto da quella concettuale, che troverà massima espressione in ambiente occamista. La differenza di cui parla Scoto è la differenza modale, meglio conosciuta come differenza formale.

Nel capitolo secondo de I problemi fondamentali della fenomenologia Heidegger dedica alcune pagine proprio a questi diversi concetti di differenza, affrontando il tema della concezione scolastica della distinctio in generale (PFF 87/91). Tale problema viene alla luce in relazione alla distinzione e ai rapporti fra essenza ed esistenza nell’ente creato, al modo in cui l’ente creato, che è un mixtum, è nello stesso tempo uno. Ma, al di là del problema specifico, ciò che interessa è cogliere in termini generali cosa siano i tre tipi di differenza. A dire il vero, la grande divisione è fra due tipi di differenza:

  1. la distinctio realis, che si ha quando l’un termine distinto stando al suo contenuto essenziale, non si identifica con l’altro, vale a dire è in sé, a prescindere da qualsiasi atto del pensiero. L’unità fra due termini realmente distinti è una compositio di due realtà. Nello specifico problema medievale l’ens creatum è un mixtum fra un’essentia che non ha fra i suoi predicati l’existentia, e, appunto, l’existentia che si aggiunge alla res come un accidens. Pertanto ogni ens, in quanto ens creatum, è un compositum ex esse et quod est e tanto l’esse, quanto il quod est sono res, cioè sono qualcosa di determinato che stanno misteriosamente assieme a formare un’unità. Ma tale compositum non costituisce propriamente un’unità, non la costituisce essenzialmente, ma solo analogicamente. Perché ci sia unità, in base alla distinctio realis, è necessario che il contenuto essenziale sia uno e indistinto in sé. Nella fattispecie Dio, in cui l’essenza coincide con l’esistenza, è uno in senso proprio e, in quanto tale, è la verità del molteplice, la verità del composto, suo fondamento come causa creatrice e come fine ultimo. In base alla differenza reale, la verità appartiene all’uno e non al molteplice.
  2. la distinctio rationis, invece, è quella distinzione con cui l’intelletto si rappresenta non due res diverse, ma un’unica e medesima cosa secondo concetti diversi. Vi è, quindi, un solo termine e non due termini diversi, due res, come nella differenza reale. Pertanto le differenze interne a una res sono mere rappresentazioni, sono opera dell’intelletto, come ben si può cogliere nella stessa definizione scolastica (Suarez) della differenza concettuale, intesa come quella differenza che “mens unam eandemque entitatem diversis conceptibus repraesentat“. La distinzione fra essenza ed esistenza sarebbe una distinzione puramente concettuale, una differenza che non appartiene all’ens creatum, ma all’intelletto che lo riguarda, alla facoltà conoscitiva e non alla cosa. Tuttavia la scolastica distingue due aspetti della differenza concettuale:
    • una distinctio rationis pura o ratiocinantis, in base alla quale si distingue qualcosa, ma ciò che viene distinto è una sola e medesima res e la differenza riguarda solo il modo in cui la concepisco, è, cioè, una differenza originata e motivata unicamente dal ratiocinari, cioè dall’atto intellettuale del distinguere. Ad esempio la distinzione fra homo e animal rationale: la res è unica, ma in quanto definita homo, è intesa implicitamente, in quanto definita animal rationale, invece, è intesa esplicitamente.
    • una distinctio rationis ratiocinata è, invece, una distinctio rationis cum fundamento in re e si ha quando la distinzione non scaturisce unicamente da un atto intellettuale, non è propria, cioè, dell’intelletto raziocinante, ma è motivata dalla cosa stessa nel suo essere colta dall’intelletto, è ratiocinata. Tale distinctio occupa una posizione intermedia tra la distinctio puramente logica e la distinctio realis e, secondo Suarez, coinciderebbe con la distinctio formalis di Scoto. Applicata all’ ens creatum, la distinzione formale permette di affermare che l’esistenza appartiene effettivamente all’essenza, non è, cioè, distinguibile da essa solo concettualmente, ma che purtuttavia, non è una res. Usando un’altra formula possiamo dire che vi è differenza formale fra “essenza ed esistenza” quando tra esse non c’è solo una distinzione di ragione, come sarebbe se fossero solo modi diversi di definire e concepire un unico ente, né c’è una distinzione reale, come ci sarebbe se fossero realtà numericamente distinte e separate.

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