La “trinità” del monoteismo: unico dio, fede, rivelazione
Tutti abbiamo sentito dire che l’affermarsi del monoteismo rappresenta un “progresso” rispetto al politeismo, un’evoluzione dell’atteggiamento religioso. Il politeismo, è stato detto, appartiene a una mentalità ancora ingenua, poco sviluppata. In fatto di religione, prima l’uomo è animista, poi diventa politeista e infine approda al monoteismo. Ma abbiamo davvero un concetto di monoteismo?
Cosa significa essere monoteisti? In primo luogo significa credere che la verità esista e che sia unica. C’è una e una sola verità. Non riconoscere questa cosa significa cadere preda della follia politeistica. Una follia che ogni monoteismo condanna con il massimo vigore. Non ci sono eccezioni a questa convinzione. È bene saperlo, quando si professa una fede monoteistica. Ci si impegna a professare un’unica verità. “Io sono il Signore Dio tuo” = Esiste una verità. “Non avrai altro Dio al di fuori di me” = La verità è unica. La shahada islamica è analoga: “Non c’è dio, se non Dio (Allah)”. “lā ilāha illā Allāh”.
Tutti i monoteismi sono fratelli. Tutti: ebraismo, cristianesimo, islam. Anche il deismo è un monoteismo, fratello degli altri. Con buona pace del deista Voltaire. Il monoteismo non è solo affermazione categorica di un’unica verità. È anche concreta personificazione di questa verità. Il monoteista non si accontenta di una verità astratta. Ha bisogno di darle consistenza, realtà, forma. Ha bisogno di darle un nome. Dio, Iahvé, Allah, ecc. Un nome che può assumere anche l’aspetto di una figura mitica. È il caso dei monoteismi “laici”. Monoteismi “laici”? Sì, “laici” o ideologici, come il nazismo con il mito della Razza, il comunismo, con il mito della Classe, il fascismo con il mito del Capo. Anche il liberismo con l’unica verità del Mercato.
I monoteismi sono molteplici, ma solo nei dettagli. Nella sostanza sono uguali. Il monoteismo è un rischio sempre presente per il pensiero. Perché il valore unico, la verità unica è più rassicurante del politeismo dei valori. Avere un’unica prospettiva. Una prospettiva esauriente e totalizzante. Qui è la genesi della violenza intrinseca a ogni monoteismo. Del suo orrore per la differenza, per il dissenso. Se c’è un’unica prospettiva, “guardare altrove”, fuori di essa, significa essere eretici. E l’eresia, la scelta di un’altra prospettiva, è il più grave dei peccati per il monoteista. È una forma di apostasia. Un collocarsi altrove rispetto alla Verità. La ricerca luciferina di altre verità. L’eretico, l’apostata si mette fuori dal tempio (fanum). Si piazza davanti (pro) al tempio e lo sfida. Crea uno spazio pro-fano in cui non vige la Verità. Uno spazio profano in cui le verità molteplici si combattono e si integrano a vicenda. Lo spazio del libero pensiero, non del dogma.
Monoteismo significa affermazione di un’unica verità. Ma questo non basta a definirlo. A questo “monismo” vanno aggiunti altri due concetti, il concetto di fede e quello di rivelazione. Ecco la trinità del monoteismo.
- C’è un’unica verità da cui tutte le altre dipendono o vengono legittimate.
- Si deve avere verso questa verità una fede indiscussa.
- Esistono o sono esistite una o più persone che godono o hanno goduto del privilegio di essere i primi recettori di questa verità. Persone a cui la verità è stata rivelata.
Un solo Dio, fede, rivelazione. Il monoteismo è tutto qui. Ogni altro aspetto dei vari monoteismi è una derivazione, uno sviluppo o una conseguenza di questi tre concetti combinati assieme.
Analisi del concetto di fede
Fidarsi di qualcuno
Cominciamo ad analizzare il concetto di fede. La fede delle religioni monoteistiche ha una peculiarità. Il contenuto della fede, ciò a cui si crede, conta, ma solo in quanto è stato detto o rivelato da qualcuno riconosciuto come autorità. La fede monoteistica prima di essere fede in qualcosa, è fede in qualcuno, qualcuno che ha saputo convincere l’umanità di essere nientemeno che il portavoce di Dio. In questo senso la fede è un esercizio di obbedienza, basato sulla decisione di concedere il proprio assenso a quanto dice qualcuno, proprio perché è “lui” a dirlo. E l’ipse dixit è da sempre il fondamento dell’obbedienza a un dogma. Un fondamento indiscutibile: “l’ha detto Muhammad, Cristo, e così via”.
È una rinuncia a pensare, decisione obbligatoria, questa, per aderire a una qualsivoglia ortodossia. Ricordiamo 1984 di Orwell:
“ORTHODOXY means not thinking — not needing to think. Orthodoxy is unconsciousness.” “L’ortodossia significa non pensare – non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è incoscienza.”
Pensare è rischioso, si rischia di finire ingoiati dal vortice del dubbio. Cartesio, con la sua consueta efficacia, ce lo dice.
Tamquam in profundum gurgitem ex improvviso delapsus, ita turbatus sum, ut nec possim in imo pedem figere, nec enatare ad summum. “Ne sono sconcertato, come se, caduto all’improvviso in un gorgo profondo, non mi riuscisse né di poggiare il piede sul fondo né di risalire alla superficie.” (René Descartes, II Meditatio)
È il dubbio cartesiano, manca il terreno sotto i piedi. Non c’è retta opinione (questo vuol dire ortodossia) a guidarci, ma solo il nostro giudizio. Meglio essere in balia dell’ipse dixit: sembra proprio che abbia ragione Boncinelli, la fede ci rende stupidi. Eppure sappiamo che ci sono uomini di acuta intelligenza e grande umanità che si dichiarano fedeli. Sotto alcuni riguardi, la fede ci rende davvero stupidi. Non solo. Ci rende anche e soprattutto pericolosi. Senza la fede il cumulo di paradossi che costituisce il credo religioso, ogni credo religioso, franerebbe in un coacervo di ridicole assurdità. Su questo il Barone (Paul Thiry d’Holbach) scrive cose illuminanti nel suo aureo testo Le bon sens.
Disposizione all’obbedienza e il principio di autorità: il sillogismo di Sesto Empirico
Il monoteismo è “innaturale” perché la verità è cangiante e continuamente varia. Perciò per imporsi ha bisogno che i cittadini si trasformino in fedeli, in sottomessi. La sostanza della fede è la disposizione a obbedire, a sottomettersi. Ecco perché l’islam è la religione per eccellenza. La radice SLM (سلم) in arabo significa sottomissione.
Ma limitiamoci, per ora, al cristianesimo e alla definizione di fede che troviamo in questa religione. Rivolgiamoci in via preliminare alla genialità di uno dei più importanti scettici vissuto a cavallo fra il II e il III secolo della nostra era, Sesto Empirico. Nel suo testo Schizzi pirroniani ci mostra come per la fede sia irrilevante la concatenazione logica del discorso. Per la fede la logica non ha importanza, non ha importanza il contenuto. Sesto Empirico ce lo mostra servendosi del marchingegno logico per eccellenza, il sillogismo. In sostanza, rende evidente come ogni fede dipenda dalla preliminare accettazione del principio di autorità (il già citato ipse dixit, l’ha detto lui!)
Del resto, a una “verità” si presta fede solo perché manca di evidenza fattuale o empirica. Non c’è bisogno, infatti, di credere a ciò che constatiamo con ragionevole certezza. Lo vedo che quel fiore è sfiorito, non ho bisogno di crederci. Vedo che oggi piove e che il supermercato è stranamente vuoto. Ma a una “verità” si presta fede anche quando e perché manca di necessità logico-argomentativa o di verifica sperimentale. Nessuno direbbe che crede al teorema di Pitagora o alla legge di gravitazione universale di Newton. Non c’è “fede” nelle verità geometriche o scientifiche, ma solo conoscenza o ignoranza.
“Prestar fede” significa semplicemente “fidarsi di qualcuno”, qualunque cosa questo qualcuno dica. Il fideista rovescia il classico apoftegma aristotelico circa la preminenza della verità sull’autorità. Aristotele, non convinto della verità della teoria delle idee platonica, pur devoto allievo del grande filosofo ateniese, pronuncia la famosa frase Amicus Plato, sed magis amica veritas (Platone è un amico, ma la verità è più amica). Il fideista invece dice: Amica veritas, sed magis amicus Plato. Cerco la verità, ma la rigetto se scopro che va contro quello che dice Platone (ipse dixit è il principio ispiratore del fideista, non mi stanco di ripeterlo).
Ma godiamoci l’acuto “sillogismo” di Sesto. Distingue due tipi di argomentazione.
- Quelle che arrivano a una conclusione, dandone conto e chiarendone la necessità.
- Quelle che comunque arrivano a una conclusione.
Le prime si reggono totalmente sulla necessità logica, le seconde dipendono solo dalla fede e dall’autorità. Ecco il sillogismo di Sesto Empirico concernenti le argomentazioni fideistiche.
- Se qualche dio vi ha detto che quest’uomo diventerà ricco, egli diventerà ricco.
- Ebbene, un dio (ad esempio Zeus) vi ha detto che quest’uomo diventerà ricco?
- Allora quest’uomo diventerà ricco.
- È evidente che noi accordiamo il nostro assenso a tale conclusione non a causa dell’evidenza necessaria delle premesse, ma per l’autorità del dio che l’ha garantito.
La semplicità dell’intelligenza! Non si può essere più chiari nell’evidenziare il nesso fede-autorità-obbedienza. Ma continuiamo la lettura di questo testo tanto semplice (e per certi versi scontato) quanto illuminante.
- Bisogna che la dimostrazione sia un argomento, che abbia la forza di concludere, che sia vera e che la conclusione sia manifestata non dall’autorità di chi l’ha detta (ipse dixit) ma dalla forza delle premesse.
Naturalmente Sesto è uno scettico e proseguirà mostrando che i logici (lui li chiama dogmatici) si illudono di arrivare, anche usando la forza stringente del ragionamento fondato, alla verità, che lui, da buon scettico, ritiene inattingibile. Ma questo è un altro discorso e non inficia la differenza fra logici e fideisti. I primi cercano una necessità immanente al discorso e usano la correttezza delle inferenze come garanzia di verità. Ai secondi basta l’autorità di qualcuno che la possegga in sé e alla quale non si possa che obbedire.
Ciò a cui si crede è meno importante del modo in cui si crede e delle motivazioni che ci portano a credere. C’è chi crede costretto dalla coerenza e dalla necessità dell’argomentazione e chi lo fa per obbedienza a un’autorità. Naturalmente, chi non è scettico dirà che solo nel secondo caso si può correttamente parlare di fede. Ma la fede è un mare magnum in cui dobbiamo ancora scendere.
L’adulto e il bambino
La distinzione fra la “fede” in un contenuto che sia logicamente consistente o valido e la fede in qualcuno investito o autoinvestitosi di autorità è essenziale. È il bambino che crede a qualcosa perché lo dice un genitore. Ha fiducia in lui (o in lei) e non chiede prove. Fino a una certa età il padre o la madre gli possono dire qualunque stramberia che lui la prende per buona. Anche se non c’è riscontro nella realtà. Se dicono a un bambino che il pezzo di pane che c’è sul tavolo e il vino che c’è nel bicchiere del papà in realtà sono il corpo e il sangue della nonna morta qualche giorno prima, il bambino rimarrà frastornato, ma, se la cosa viene ripetuta seriamente, alla fine ci crede. Un adulto chiede conto di ciò che gli viene detto. Un bambino no. Gli basta l’autorevolezza della fonte. Me l’ha detto il mio papà, quindi deve essere vero. È la distinzione fra un credere adulto (una verità argomentata) e un credere infantile (il ritornello del “l’ha detto Lui!”).
Ma questa distinzione deve saldarsi con un altro concetto decisivo, quello di responsabilità. Far propria una convinzione, come quella religiosa, non è una cosa da poco. Serietà esige che ognuno risponda delle proprie convinzioni e delle azioni che da esse derivano. Solo persone mediocri non si curano della coerenza fra ciò che pensano e ciò che fanno.
Lo spirito critico e l’esame delle proprie credenze
Il modo in cui la convinzione si è radicata nella mente di una persona è importante. Anzi, decisivo. Ecco la responsabilità che ogni fede comporta. Ognuno di noi deve fare un severo esame delle proprie credenze. In cosa credo io? Come si sono formate le mie credenze? Ho delle buone ragioni per sostenere le idee di cui sono convinto? O ci credo per mera pigrizia e supina condiscendenza all’opinione comune? È sciatteria intellettuale avere delle credenze senza curarsi della loro qualità e della loro origine.
Cosa significa credere in qualcuno “a prescindere”? Dal momento che “Dio” o la “Razza” sono solo concetti, idee a cui non corrisponde alcuna realtà oggettiva, per lo meno che sia accertabile, queste credenze devono essere severamente vagliate. Non posso accontentarmi di ciò che mi viene detto da qualcuno che ha avuto l’illuminazione o la rivelazione. Se lo faccio, rinuncio all’uso della ragione, rinuncio allo spirito critico. Ma proprio queste credenze sistematicamente, preventivamente, si sottraggono alla critica. Voler “ficcare il naso” nei misteri della religione è già di per sé “mancanza di rispetto”, un atteggiamento ai confini della blasfemia.
Il tempio, il profeta e il Libro sacro
Perciò questi concetti, per sopravvivere, anzi per prosperare, hanno bisogno di uno spazio protetto entro cui ripararsi. Un tempio, perché no? Il già citato fanum. E le credenze che si riparano nel fanum diventano idee fanatiche. A differenza delle idee profane, che vivono es-ponendosi alla critica, le idee religiose vogliono im-porsi, con il supporto dell’autorità di un profeta o di un libro.
Il profeta. Il Libro sacro. Il profeta. Un “esaltato”. Senza voler dare giudizi negativi, ma preso solo nel senso etimologico del termine: chi si è levato da terra, si è posto in una posizione sublime da cui parla agli ascoltatori. E cosa c’è di più sublime di un rapporto diretto con l’Altissimo? E un libro. Anzi, il Libro. Una verità detta una volta per tutte ed esaustiva di ogni altra verità. Una verità cristallizzata nel Verbo. Una verità rattrappita, a dire il vero. Sulla quale, instancabile, si esercita il rimuginare degli interpreti, degli esegeti. O, peggio, una verità da “prendere alla lettera”, per quanto assurde siano le implicazioni di questo feticismo del senso letterale. Queste idee fanatiche (protette dal tempio) si im-pongono impudentemente. Diventano dogmi. Chi crede nei dogmi non ha il coraggio di pensare, non ha la stoffa per assumersene la responsabilità.
E il dogma è l’oggetto proprio della fede. Analizziamo questo concetto. Scopriamo che la più assoluta delle verità, il dogma, ciò a cui si DEVE credere, pena l’empietà, etimologicamente e praticamente è pericolosamente attiguo all’opinione. Non a caso le “fonti” della religione sono le stesse di ogni convinzione opinabile. La tradizione (si dice che …, si tramanda che …, in quel tempo Gesù si recò a Gerusalemme …, Allah trasportò Muhammad dalla Moschea sacra della Mecca alla moschea più lontana …, ecc.). A cui va aggiunto l’immancabile ipse dixit, già ampiamente visto. L’opinione si basa proprio su questi meccanismi di acquisizione della verità: cose risapute da tempi immemorabili e persone autorevoli che attestano la veridicità di ciò che viene detto.
La fede: il dogma come opinione imposta
Opinione in greco si dice doxa (δόξα). Viene da dokèo (δοκέω), “credo, penso, mi sembra”. E questo verbo è anche la radice di dogma (δόγμα), termine che Platone usa, in alcune parti della sua opera, come sinonimo di doxa, opinione. E sempre Platone ci dice che l’opinione (ciò che è vero in base alla tradizione o all’autorità di chi lo afferma) è oggetto di “fede”, non di conoscenza. È una forma inferiore, incerta, spesso inaffidabile di conoscenza. Incomparabilmente inferiore, insiste Platone, alla scienza (epistème, ἐπιστήμη) o al pensiero intuitivo (nòesis, νόησις). Il dogma, nella gerarchia delle conoscenze, occupa quindi la parte bassa. Con buona pace dei dogmatici e dei fanatici.
Fede. In greco pistis (πίστις), in latino fides. Viene dalla radice indoeuropea bheidh, fidarsi. Le sabbie mobili dell’opinione minacciano incessantemente di ingoiare i dogmi religiosi, privi come sono di fondamento razionale. Come evitare la catastrofe? In un solo modo. L’opinione religiosa deve trovare corpo e solidità in un’istituzione. La Chiesa per i cristiani o l’intera comunità sacralizzata, la umma (أمّة) per i musulmani. Stessa radice di madre, quest’ultima. Anche la Chiesa, la cui etimologia è greca e deriva da assemblea, ecclesìa (ἐκκλησία), è spesso chiamata “madre”. Santa Madre Chiesa. È nel seno di questa madre istituzionalizzata che il dogma trova riparo e si sottrae agli attacchi “dissacranti” dei miscredenti. E il dogma protetto dall’istituzione ottiene una conferma ancora più autorevole, diventa verità rivelata. Custodito dall’istituzione e armato dall’indiscutibile (indiscutibile in senso stretto, che non si può discutere, che non si deve discutere) qualità di essere rivelato da Dio stesso, il dogma è pronto a im-porsi al mondo. Tutto questo per salvaguardarlo dalla sua strutturale e originaria opinabilità. Come tutte le debolezze, ha bisogno di solide e ben congegnate protesi.
La sua forza è tutta e solo nella pretesa che la fonte da cui promana sia unica ed eccelsa. Ripeto, pretesa indiscutibile. Questa è l’essenza della professione di fede islamica, la shahada, già citata sopra, e che l’ISIS ha stampigliato sulle sue bandiere nere. Il dogma come opinione imposta assume la veste di retta opinione, ortodossia. E l’ortodossia definisce uno spazio al di fuori del quale c’è ignoranza ed errore (jahiliya) e in cui ogni innovazione (bid’a) è vietata, ogni sforzo di interpretazione della legge (ijtihad) scoraggiato o rigidamente controllato.
L’esempio dell’islam
Sì, ho focalizzato il discorso sull’Islam, perché questa religione ha interpretato nel modo più rigoroso il rifiuto di criticare ciò in cui si crede. C’è una ragione che fa dell’islam una religione inscalfibile e pre-potente (che si im-pone con forza irresistibile). Una religione che non vuol sentire ragioni. Non sa che farsene della ragione. Priva del retroterra classico (greco-latino), la religione di Allah ha potuto svilupparsi in piena libertà, senza lo spirito critico che la cultura di Aristotele e Seneca ha, suo malgrado, imposto alla vita del cristianesimo. E i frutti di “una religione libera di lasciarsi andare” alle proprie pulsioni li vediamo bene. Sono davanti ai nostri occhi. È follia, perversione del pensiero.
La mancanza di una tradizione “pagana” si evidenzia nell’islam anche in altro modo. Il pensiero teologico islamico sunnita è teoreticamente debole, quasi elementare. Checché ne pensino gli islamofili. Si riduce al tahwid (ﺗﻮﺣﻴﺪ) (unicità). Unicità di Dio. Il monoteismo allo stato puro. Certamente la teologia islamica non ha la complessità, la capziosità, le sottigliezze di quella cristiana. Le dispute trinitarie e cristologiche, interminabili, cavillose, sofisticate, sono un “regalo” che la filosofia pagana ha fatto alla religione cristiana. L’islam ha tuttavia trovato modo di dare sostegno alla sua ortodossia essenziale e immutabile. Come? Elaborando una ortoprassi (retto agire) minuziosa, cogente e, soprattutto, comunitaria. Privo di nerbo teorico, l’islam ha “incatenato” i suoi fedeli con pratiche ripetute, ossessive e ineludibili.
La mancanza della cultura greco-latina evidenzia poi una differenza ancora più radicale fra le due “fedi”, che pure nell’essenziale sono, in quanto monoteistiche, uguali. Lo abbiamo detto sopra: tutti i monoteismi sono fratelli. E tuttavia è degna di rilievo la diversa antropologia che ispira i due monoteismi. Nell’uomo, per l’islam, non c’è colpa originaria, egli nasce innocente e sottomesso (muslim) all’ordine trascendente, in armonia con esso. Il mito della ribellione, che diversamente travaglia ebraismo (il peccato originale) e cultura greca (Prometeo) e che trova il suo epilogo e coronamento nella vittima divina riparatrice di questa ribellione archetipica (Cristo), in una religione essenziale come l’islam, non c’è, non può esserci. Per l’islam, l’uomo non nasce ribelle, non nasce disobbediente. Semmai lo diventa. La shahada, in realtà, non è una conversione, ma una conferma all’islam. Nulla a che fare con il battesimo, “sacramento” che “annega” l’uomo pagano e lo fa rinascere in Cristo. Nell’islam non si entra come nel cristianesimo. Si è già dentro. Dalla nascita. Il muslim non deve essere rigenerato. Non ne ha bisogno. Semmai deve essere protetto dal mondo che lo può traviare. E il primo, il più pericoloso traviamento, è il credere di poter pensare senza la comunità, il credersi autonomo dalla umma, dalla madre protettrice. Perciò il vero peccato nell’islam non è lo stato di kafir, l’infedele. Questo è uno stato di ignoranza da cui si può sempre uscire e che, a certe condizioni, può anche essere tollerato. Il vero peccato è l’apostasia (ridda: separazione, ribellione, negazione): rifiuto consapevole e imperdonabile non solo della verità rivelata, ma anche della stessa condizione naturale dell’uomo, oltre che della comunità dei fedeli. La storia del pensiero islamico mostra qualche tentativo di sottrarsi a questa tutela. Ma si tratta di sforzi velleitari, subito spenti, soffocati, repressi. Ci sono filosofi islamici di grande spessore. Non si può negarlo. Come ci sono matematici, letterati, scienziati. Ma non lo sono grazie all’islam. Lo sono malgrado l’islam. Molti noti filosofi islamici sono addirittura ripudiati dall’islam, come Averroè.
Incompatibilità fra islam e filosofia
La filosofia, in quanto ribellione al dogma (opinione imposta), è il nome che l’Occidente ha dato all’apostasia. Proprio a causa della filosofia, di cui è creatore e unico interprete, l’Occidente è incapace di islamismo e, quindi, di vera religione. Numerosi e vari sono i casi di incomunicabilità fra Occidente e islam, alcuni clamorosi. Mi limito a citarne tre, a mio avviso molto significativi. Bataille, nel suo libro La parte maledetta coglie l’estraneità dell’islam al nostro mondo. Anzi, a ogni altro mondo che non sia quello della umma. E scrive:
Maometto parla un linguaggio che, per noi, non ha il senso chiaro e definitivo di quello del Buddha o del Cristo. Per quanto poco siamo attenti, il Buddha e il Cristo si rivolgono a noi, ma Maometto ad altri ….
Chi pensa di integrare l’islam dovrebbe tener conto di queste parole. Muhammad, nelle parole dello scrittore francese, è un alieno. Per qualcuno, un alienato. E chi lo dice non è un volgare razzista, ma nientemeno che il filosofo Arthur Schopenhauer. È vero, lui è noto per essere uno spiritaccio malmostoso e scorbutico, ma, nei Supplementi al primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione è davvero sprezzante:
Nel Corano troviamo la forma più squallida e più povera di teismo. Ammettiamo pure che molto sia andato perduto nella traduzione, ma, in quest’opera, io non sono riuscito a scoprire nemmeno un pensiero dotato di valore.
Ma il caso più clamoroso, anche se spiegabile, è quello di Hegel. È vero, per lui la religione per antonomasia è quella cristiana, perché è l’unica dotata di qualità filosofica. Il cristianesimo è destinato a togliersi (aufheben) nella filosofia. Nella sua filosofia. Quindi il cristianesimo fa la parte del leone nelle Lezioni sulla filosofia della religione. E tuttavia egli trova lo spazio per parlare delle più oscure religioni animistiche, a cui dedica dei capitoli, ma relega in note a piè di pagina la religione islamica, definita, in modo sbrigativo, ma rivelatore, nient’altro che l’opposto del cristianesimo. Una vera e propria rimozione. Priva totalmente di tasso filosofico, la religione islamica riceve dal grande filosofo tedesco la più dantesca delle stroncature: “non ti curar di lei, ma guarda e passa”. Non sempre l’indubbia chiaroveggenza del grande filosofo si sposa con la preveggenza storica. Se vivesse ora, purtroppo, dovrebbe tenerne conto.
La definizione “paolina” di fede (Lettera agli Ebrei)
Il cristianesimo ha una sua definizione di fede. La prima e la più teoreticamente importante è quella data da Paolo di Tarso in una delle sue epistole, la Lettera agli Ebrei. È quasi certamente apocrifa, ma ai nostri fini questo conta poco, dal momento che appartiene a pieno titolo al canone. Una breve parentesi. Il vero fondatore e diffusore del Cristianesimo è senz’altro Paolo di Tarso, senza il quale la religione di Gesù sarebbe rimasta confinata fra gli ebrei, setta fra le sette. Una setta affine, ma non riducibile, agli Esseni. La lettera è, come tutto il canone cristiano, scritta in greco e l’individuazione degli “Ebrei” come destinatario è convenzionale e non da tutti accettata.
Vediamo il testo che ci interessa. Si trova nel capitoletto 11, versetto 1: Ebrei, 11,1. Assieme alla sua traduzione italiana, voglio dare anche il testo in greco (e in latino), perché l’etimologia delle parole usate è fondamentale. Uso gli evidenziatori per indicare la corrispondenza delle parole nelle tre lingue.
La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium.
ἔστιν δὲ πίστις ἐλπιζομένων ὑπόστασις, πραγμάτων ἔλεγχος οὐ βλεπομένων.
La definizione non è immediatamente evidente, ma qualche indicazione ce la dà, due in particolare. Il nesso (profondo e strutturale, come vedremo) con la speranza, cioè con l’attesa di qualcosa di piacevole o di consolatorio (e qui siamo nel campo del sentimento e degli affetti). E il nesso con una realtà che per sua natura non può essere colta con i normali mezzi della percezione o della conoscenza umana (e qui siamo nel campo della conoscenza). Potrei proporre una traduzione/interpretazione “maliziosa”: fede è credere a qualcosa che non c’è (che non si vede), ma che si vorrebbe tanto ci fosse. Ma non corriamo troppo.
Ricordiamo che il nostro sommo poeta l’ha quasi letteralmente “trapiantata” in un passo del Paradiso (Canto XXIV). Esaminato da San Pietro sul possesso dei fondamenti della dottrina cristiana e confortato dagli occhi benevoli di Beatrice, Dante recita la definizione paolina di fede:
“…fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate”…
Dante è consapevole di aver dato una definizione carica di veneranda tradizione e solida dottrina e infatti lo attesta chiosando quanto detto con il termine quiditate. La quidditas nella filosofia scolastica, la filosofia del medioevo che ha il suo culmine con Tommaso d’Aquino e Duns Scoto e la sua irreversibile crisi con Guglielmo d’Occam, indica l’essenza di qualcosa. Quindi Dante ha superato l’esame: ha definito la fede nei suoi termini essenziali.
Etimologia del termine “fede”
La pistis greca
Cosa si intende da un punto di vista etimologico con la parola “fede” nelle varie lingue? In realtà mi limiterò al greco e all’ebraico.
Il termine fede in greco ha un ben consolidato significato filosofico: Platone lo usa per indicare una conoscenza di grado inferiore rispetto a quella che si consegue con mezzi più idonei. Il termine è πίστις (pistis). Platone divide l’ambito della conoscenza in due grandi zone, la zona dell’opinione o doxa (δόξα) e la zona della scienza o episteme (ἐπιστήμη). L’opinione, a sua volta, ha due gradi di attendibilità, l’immaginazione o eikasia (εἰκασία) e la fede o, meglio, credenza (pistis). Due gradi anche la scienza: la conoscenza discorsiva o dianoia (διάνοια) e l’intuizione intellettuale o noesis (νόησις). La gerarchia, dal grado più alto a quello più basso, è allora: intuizione intellettuale – conoscenza discorsiva – credenza – immaginazione. Come si vede, la fede occupa il penultimo posto. Chi conosce per fede o mera credenza è in balia di tutti gli inganni dell’opinione.
Paolo di Tarso, che non ignora la cultura greca, quando fa della pistis, della fede, la virtù principale, fondante, del cristiano, non interpreta certo il termine nel senso in cui lo intendeva Platone. E tuttavia, proprio grazie alla sua preparazione culturale, è ben consapevole del radicale slittamento di significato di questa e di molte altre parole del lessico filosofico greco trasportate in ambito cristiano. Tanto consapevole, da scrivere queste parole nella Prima Lettera ai Corinzi:
Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani (1, 22-23).
Sempre le rivoluzioni culturali radicali “stravolgono” il significato delle parole, non solo dei comportamenti e delle azioni. E non c’è alcun dubbio che il Cristianesimo, rispetto alla cultura pagana, sia stata una vera rivoluzione. Paolo non avrebbe potuto dipingere in modo più efficace la distanza che la nuova religione ha, non solo riguardo ai Greci, ma anche nei confronti dei Giudei, dal cui alveo il cristianesimo delle origini esce. Il Cristo crocifisso, il dio morto, per la sua assurdità, va palesemente contro sia lo spirito logico dei Greci (stoltezza, quindi) sia lo spirito ritualistico degli Ebrei. Gli Ebrei vogliono segni (semeia, σημεῖα), prove, miracoli e restano scandalizzati da chi esalta il Crocifisso. Un Messia, un Salvatore, morto. Uno scandalo. In greco lo scandalon (σκάνδαλον) è un ostacolo, più precisamente un sasso che si trova lungo la strada e che ti fa inciampare. E quale difficoltà, quale inciampo maggiore di quello di sentirsi dire che il Messia, da cui un popolo si aspetta il suo riscatto, è un “povero Cristo” messo in croce? I Greci, che cercano sapienza (sophia, σοφία), di fronte a queste “verità” proclamate, non possono che rispondere con la diagnosi di follia (moria, μωρία). Scandaloso e folle prendere per vere certe assurdità! Vanno contro tutte le aspettative, contro la più elementare logica! È così! Perciò non possono che essere materia di fede.
Le radici del fideismo e del martirio (testimonianza)
Sta qui la radice di un certo fideismo estremo, che si esprimerà nel famoso (e probabilmente scorretto) “credo quia absurdum” di Tertulliano. Tertulliano (155-230), cartaginese, fu un retore e un apologeta (un difensore della fede) cristiano, probabilmente finito preda di posizioni eretiche. Il suo detto: “credo, proprio perché è assurdo” è diventato famoso sia presso i cristiani (come esempio di una fede che, più è smentita dal buon senso e dalla logica, più si rafforza) sia presso i non credenti (come esempio di irragionevolezza dei fanatici religiosi). In realtà il credo quia absurdum è una semplificazione. Il suo detto è più articolato e più provocatoriamente “folle”. Eccolo:
| Crucifixus est Dei Filius, non pudet, quia pudendum est; | Il Figlio di Dio è stato crocefisso, poiché è una cosa vergognosa, non c’è nulla di cui vergognarsi; |
| et mortuus est Dei Filius, prorsus credibile est, quia ineptum est; | il Figlio di Dio è morto, poiché è una cosa ripugnante, è del tutto credibile; |
| et sepultus resurrexit, certum est, quia impossibile. | sepolto, risorse, poiché è impossibile, questa è una cosa certa. |
È la fede spinta all’estremo e brandita contro la ragione a mo’ di sfida. Qui non è neanche più il principio di autorità, l’ipse dixit, a fondare la fede, ma l’assurdo. C’è in nuce la psicologia del fedele: il sentire come una forza, come una virtù, la disponibilità a credere a qualunque cosa. Credere con una fede incrollabile: ci vuole coraggio, personalità. Ci vuole una convinzione di cui solo pochi sono dotati. E quei pochi sono pronti a morire per difendere questa fede, per testimoniare la sua “verità”. E sapete come si dice in greco “testimonianza”? si dice martyrion (μαρτύριον), da μάρτυς, martys, il testimone. Da qui il nostro “martire”.
C’è bisogno di faticare per convincerci, noi che credevamo di esserci lasciati alle spalle il medioevo, di quanto pericolosa e assurda possa essere la violenza scatenata da questa “fede”? direi di no. Vediamo di continuo giovani, allettati dall’improbabile paradiso islamico, immolare la propria vita e quella di innocenti “infedeli” per raggiungere quel luogo. “Se, per uccidere degli infedeli, muoio anch’io, avrò a mia disposizione nel paradiso di Allah settanta vergini tutte per me. Assurdo, dite voi miscredenti? Proprio per questo è vero”.
Ma torniamo alla nostra etimologia. In greco non c’è, a livello terminologico, differenza fra il significato di credenza (da intendersi in senso genericamente gnoseologico, cioè come attinente al piano della conoscenza) e quello di fede (da attribuire al piano religioso). Per entrambe si usa pistis. Diciamo che la credenza è intrinsecamente precaria e sempre revocabile, non così la fede, la quale si installa subito in una zona al riparo da ogni contestazione, proprio perché la sua verità è garantita da un’autorità indiscutibile. La credenza, per questo è intrinsecamente democratica, mentre la fede è intrinsecamente autoritaria.
L’amen ebraico
Nell’Antico Testamento, il Tanakh ebraico, e ancora di più in quella sua parte che costituisce la Thorà, il nostro Pentateuco, quando si parla di fede il vocabolo usato si rifà alla radice אמנ (alef – mem – nun), a-m-n. La morfologia delle lingue semitiche è imperniata su radici trilittere, formate cioè da tre consonanti (ma ne esistono anche di due consonanti), portatrici del significato nella sua forma più generica, che vengono semanticamente e grammaticalmente determinate con l’aggiunta di prefissi, infissi, suffissi, e con variazioni vocaliche. A-M-N è una di queste radici. In realtà la traslitterazione corretta sarebbe ’-M-N, ma non è il caso di complicare oltre il necessario. È una parola notissima ai cristiani, dal momento che viene usata (o meglio veniva usata) a conclusione delle preghiere (amen, ora sostituita quasi sempre da “così sia”).
La parola deriva dal verbo “aman“, che, nel significato fondamentale indica “essere fermo/stabile“. In ebraico esiste una forma del verbo che si chiama “causativo“ (qualcuno che causa qualcosa) e si traduce “far essere / far fare / far dire / far parlare, eccetera”. La forma causativa del verbo “aman” ha allora il significato di “stabilizzare, rendere sicuro, rendere fermo” da cui deriva il senso finale di “prestar fede, credere“. Lo diciamo anche noi: mi è stato “assicurato” che quella cosa è vera. Chi ha fede è fermamente sicuro che ciò che gli è stato detto è vero. Chi ha fede è stabile nelle sue convinzioni, non vacilla. Per il credente la fede è una iniziativa di Dio, il quale causativamente “fa stabile, rende fermo/sicuro” il fedele che accoglie la sua parola. Perciò, ogni qualvolta un credente dice “amen” o “così sia”, deve avere la consapevolezza che non recita semplicemente la formula di chiusura di una preghiera, ma fa un’autentica, completa professione di fede. In una paroletta è racchiusa tutta la densità e intensità del “Credo”. Amen vuol dire “io credo”. È una conferma a quanto dice la preghiera, una conferma della fede in Dio. “Così sia”. I rabbini solevano dire: quando non hai assolutamente tempo per pregare come prescrive la legge, pronuncia la parola “amen” che racchiude tutta la preghiera e la fede.
Abramo è il prototipo del credente. Crede senza riserve alla parola di Dio, anche quando questa parola gli ordina la cosa più assurda: sacrificare il figlioletto Isacco che aveva ricevuto come dono da quel Dio che ora gli ordina di restituirglielo. Abramo crede. È assurdo, ma crede. Glielo dice Iahvé. Ancora l’essenza della fede: me lo dice un’autorità indiscutibile e, anche se è assurdo, anzi, forse proprio per questo, deve essere vero. E il termine usato in questo racconto è sempre basato sulla radice trilitterale vista prima (a-m-n). Essere saldi nella fiducia. In sintesi, in ebraico la fede è legata al concetto di stabilità, di solidità, di fedeltà, di durata e, di conseguenza, al concetto di affidabilità.
Ma c’è di più. La parola ’emét, che deriva dalla stessa radice che esprime la fede, significa “verità”. Quella precaria connessione della credenza con la verità denunciata da Platone, è invece pienamente rivendicata dalla lingua ebraica. A differenza del greco, per il quale fede e verità sono in dissidio (la verità si conquista con la ragione, non con la credenza), per l’ebreo, fede e verità sono due piante che nascono dalla stessa radice.
Septuaginta: La Bibbia ebraica in greco. Traversie della traduzione
C’è una sapienza profonda nelle lingue e nelle parole. Spesso illuminano, ma talvolta sottilmente traviano. Ebrei di lingua greca nel III secolo avanti Cristo hanno sentito la necessità di tradurre la Bibbia ebraica in greco. Il mondo ellenistico contava nelle sue città molti ebrei, i quali ormai non conoscevano più la lingua sacra e si limitavano nelle preghiere a ripetere formule ormai quasi completamente incomprensibili. Un po’ come facevano le nostre nonne quando “recitavano” le preghiere in latino. Ad Alessandria d’Egitto un gruppo di esperti (chiamati i Settanta, sigla convenzionale LXX) iniziò la traduzione in greco della Bibbia ebraica. È la famosa versione nota con il nome di Septuaginta. Fino alla traduzione latina di Girolamo, la Vulgata, entrata nel canone cattolico, quella dei Settanta è stata la versione usata, oltre che dagli ebrei, anche dai cristiani, ed è tutt’ora in uso presso gli ortodossi (con alcune varianti di poco conto).
Si possono raccontare diverse cose interessanti su questa traduzione e sulle difficoltà trovate dagli studiosi per trasportare la lingua ebraica nella lingua greca. In alcuni casi i risultati furono clamorosi. Questo, fra molti, merita di essere ricordato. In Isaia 7, 14, citato poi in Matteo 1, 23, si profetizza che il futuro Messia nascerà da una vergine. In realtà il termine ebraico usato è עַלְמָה (‘almàh), che significa “giovane donna”. Una giovane donna che non ha ancora conosciuto uomo, non una giovane donna che non lo conoscerà mai. Una traduzione appropriata sarebbe stata senza dubbio κόρη (kore), fanciulla, giovinetta. Tale termine, però, era adoperato anche per indicare le statuette pagane di dee e ninfe, ragione per cui venne scartato. Altra traduzione possibile era νεᾶνις (neanis), ragazza, ma anche questa venne scartata, forse per il suo significato profano. Cosa fa il traduttore? Sceglie παρθένος (parthenos) (vergine, lat. virgo). Nel mondo di lingua greca può indicare una donna “destinata a rimanere vergine” per voto o per consacrazione. Come una suora, per intenderci. Ma se il profeta avesse voluto dare questo significato alla madre del Messia, aveva a disposizione un termine più adeguato nella lingua ebraica: בְּתוּלָה (bethulàh), donna destinata a rimanere vergine. Ma in Isaia non c’è bethulàh, c’è ‘almàh. Non è una “suora” la madre del Messia, ma una donna ancora vergine, non vergine per sempre. Nessuna profezia di verginità permanente e inviolabile. Scandalo, assurdità, follia pensare che una donna possa rimanere incinta e partorire rimanendo vergine. Credo quia absurdum. L’assurdità che feconda ogni fede è rispettata, un po’ meno il principio di autorità. Qui non è “Dio” che lo dice o un suo ispirato profeta, ma un gruppo di dotti ebrei che hanno inopinatamente “forzato” il senso del dettato originario. Ma è talmente radicato, inestirpabile il bisogno di credere a delle assurdità, che nessuno ha più messo in discussione il dogma della verginità della Madonna.
Ripresa dell’analisi del concetto “paolino” di fede
Veniamo finalmente all’analisi della definizione “paolina” di fede. La scrivo nuovamente, conservando l’uso degli evidenziatori per indicare la corrispondenza delle parole nelle tre lingue.
La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium.
ἔστιν δὲ πίστις ἐλπιζομένων ὑπόστασις, πραγμάτων ἔλεγχος οὐ βλεπομένων.
La definizione di fede ha due parti:
- fondamento di ciò che si spera
- prova di ciò che non si vede
Prima parte della definizione: fede come fondamento di ciò che si spera
I termini fondamentali sono “speranza” e “fondamento”. Limitiamoci, per quello che riguarda la speranza, al termine latino spes. A fondamento di questo termine c’è la radice sanscrita –spa, che indica il tendere verso qualcosa, verso una meta, un fine, un qualcosa che si considera un bene. Da qui il significato di speranza: aspettare qualcosa di desiderato, un atteggiamento di fiducioso ottimismo di ottenere ciò che si desidera. I Greci e i Romani avevano fatto della speranza (Elpìs e Spes) una dea. Nel mito del vaso di Pandora, la speranza era tutto ciò che restava agli uomini dopo che i mali contenuti nel vaso erano stati improvvidamente liberati da Epimeteo. Spes ultima dea, dicevano i Romani. “La speranza è l’ultima a morire”, diciamo noi.
La speranza è una consolazione, ma solo se ben “fondata”, solo se si radica in una ragionevole considerazione del bene atteso e delle condizioni del suo conseguimento. Altrimenti abbiamo la falsa speranza e chi ne è preda è un illuso. Una speranza ben fondata, questo è il problema. Ed ecco il termine “fondamento”, usato in questo primo aspetto della definizione. In realtà la traduzione del termine greco è più impegnativa e problematica. Hypostasis (ὑπόστασις) è il termine originale usato da Paolo. Significa “star sotto”, ciò che sottostà. È un significato affine a quello di “sostanza” (ciò che sta sotto), quindi la traduzione latina substantia è letterale e in linea di massima corretta. Lo è anche “fondamento”, inteso come ciò che fa da base a qualcos’altro. Bene, una speranza per essere credibile, per non essere una mera illusione o chimera, deve poggiare su qualcosa di concreto, su qualcosa di “attendibile”, qualcosa verso cui l’animo giustamente “tende”.
Chi fa un investimento prudente in borsa, ha una ragionevole speranza non solo di conservare il capitale, ma anche di realizzare un modesto guadagno. Non così chi gioca d’azzardo, compreso il gioco in borsa. È una falsa speranza, un’illusione, un abbaglio pensare di arricchirsi a forza di azzardi. Anche se può succedere. Ma non è normale che succeda. Diciamo che fondare la speranza di arricchirsi sull’azzardo è semplicemente stupido. Nutrire questa speranza dimostra una sola cosa: la crassa ignoranza delle elementari basi del calcolo delle probabilità. L’azzardo è un fondamento fragile, fragilissimo, privo di sostanza, per una vera speranza. Il giocatore d’azzardo è uno che vive di vane speranze. Anche vivere alla giornata e sperare che questo prima o dopo porti a qualcosa di buono è, alla resa dei conti, una vana speranza, malgrado la nobilitazione oraziana di questo stile di vita. Carpe diem, Orazio, Odi, 1.11: Ha un suo indubbio fascino, il fascino della vita estetica, ma, per non diventare ridicola scempiaggine, non deve generare pentimenti postumi. Chi fonda le proprie speranze di successo sul vivere alla giornata ha scelto un fondamento friabile, come chi costruisce sulla sabbia. Matteo, 7, 24-27: L’uomo stolto è colui che costruisce la sua casa sulla sabbia: inevitabilmente la vedrà franare alle prime piogge. Non così chi l’ha costruita sulla roccia. Una speranza ben fondata! Non lo è una speranza fondata sull’azzardo, come abbiamo visto. Eppure un grande filosofo (e non solo), Blaise Pascal, ha assimilato la fede all’azzardo, nella sua notissima scommessa. Vediamola.
La scommessa di Pascal
Pascal è un matematico di vaglia, oltre che un logico raffinato. Si rende conto che le prove sull’esistenza di Dio sono tutte deboli e non dimostrano un bel nulla. Dimostrare l’esistenza di un ente che trascende ogni umana comprensione è impossibile. Come impossibile è dimostrare la sua non esistenza. Si tratta di falsi problemi. Chi basa la propria speranza sull’esistenza di Dio e di una vita futura in quanto verità dimostrate razionalmente, basa la propria speranza su fallacie logiche. Eppure Pascal non vuole rassegnarsi. Per lui non sperare significa diventare un disperato o, peggio, un indifferente. Come risolvere? Con la scommessa razionale, l’equivalente di un prudente, assennato, gioco in borsa. Punto un capitale che, in caso di perdita, non mi manda in rovina, in caso di vittoria mi dà una ricompensa immensa. “Credi in Dio!” ti consiglia Pascal. “È sommamente conveniente. Se vinci, il premio che ottieni non ha uguali, se perdi, hai perso solo qualche svago e qualche vizio che ti nei negato!”
In effetti, cosa c’è di sbagliato in questo ragionamento? Cosa c’è che non va in questa scommessa razionale? Niente, se la assumiamo come un modello di strategia della decisione. Faccio un calcolo di costi-benefici e, se determino che mi conviene, posso legittimamente decidere di credere. Ma si può decidere di credere? Può essere una scelta razionale? Può la ragione legittimare ciò che, come abbiamo visto sopra, è l’antitesi stessa della ragione? Per usare un esempio tolto da un campo diverso, “posso decidere di amare una persona?” Direi di no. Altrimenti non si spiegherebbero né gli amori impossibili né gli amori sbagliati. L’amore è una scommessa: spesso è un abbaglio, rare volte una scommessa vinta. La ragione può consigliare di amare quella persona o sconsigliarlo, ma non può mai “accendere” o “spegnere” l’amore. Per questo ci vuole il “sentimento” o, come direbbe Spinoza, il gioco dinamico degli affetti.
Le cose sono ancora più difficili per la fede. E Pascal lo sa bene. Sa che la fede, se è davvero tale e non una mera e vacua abitudine, è un impegno totalizzante per l’individuo che “si decide” per essa. E qui viene il bello. Continuiamo il paragone fra la decisione di credere e quella di amare. Ci sembrano due pericolose forzature. La decisione, infatti, non tocca solo la mente, la volontà, la ragione, ma anche il corpo e le sue necessità, i suoi bisogni, le sue pulsioni. Pascal crede nella libera decisione, ma la ritiene limitata alla mente. Una decisione intellettuale. E il corpo? Qui vale la pena di entrare nel dettaglio.
Pascal ritiene che non ci si possa sottrarre all’obbligo della scommessa. Qualunque sia lo stile di vita scelto (ateo, religioso, virtuoso, libertino, ecc.), si è in ballo, si è effettuato un certo tipo di scommessa, consapevole o meno che sia. “Vous êtes embarqué”, scrive Pascal, siete in gioco. Perciò, presa la decisione conveniente, per Pascal quella di credere (gioco vantaggioso), rivolta correttamente la mente a ciò che è meglio, più utile, bisogna costringere il corpo a sottomettersi a questa decisione razionale. Ricordiamo che posso decidere di credere con la mente, ma la fede è un impegno totalizzante e, come per l’amore, la decisione della mente non è vincolante per il corpo. Ecco ciò che consiglia il filosofo (sottolineature mie).
Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l’aumento delle prove, bensì con la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall’incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che sono guarite da un male da cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi renderà bête” (Pensiero 164).
Proprio così: Vous abêtira. Vi renderà un bruto, un automa, diremmo noi. Un animale addomesticato, la pecora di un gregge. Un’idea niente male, fondata su quanto aveva detto poco sopra, nel Pensiero 156 (sottolineature mie)
Noi siamo automatismo altrettanto che spirito, e da ciò viene che strumento di persuasione non è soltanto la dimostrazione. Quanto poche sono le cose dimostrate! Le prove convincono solamente l’intelletto. L’abitudine genera le prove più efficaci e più credute: piega l’automa, il quale trascina l’intelletto senza che questo se ne renda conto. Su quali dimostrazioni riposa la nostra convinzione che domani tornerà a splendere il sole, o che un giorno moriremo? Eppure, c’è cosa più fermamente creduta? Dunque, è l’abitudine a persuadercene; ed è lei a fare tanti cristiani, a fare i Turchi, i pagani, i mestieri, i soldati, ecc. […] Quando si crede soltanto per convinzione razionale, ma l’automa tende a credere l’opposto, non basta. Bisogna dunque che tutte due le parti di noi stessi credano: l’intelletto, per opera delle ragioni, che basta aver conosciute una volta; e l’automa, per mezzo dell’abitudine, e impedendogli d’inclinare verso il contrario.
Il più logico e il più mistico dei filosofi cristiani coglie genialmente nel segno. Per credere davvero, una volta decisolo razionalmente, è necessario smettere di pensare e (letteralmente) “darsi anima e corpo” alla fede scelta. “Fede scelta”, giusta precisazione, perché il metodo Pascal, la sua scommessa, vale per ogni religione. Posso scegliere di credere nel Dio cristiano, in quello musulmano, e via dicendo. Comunque è una scommessa vantaggiosa. Questo risvolto della scommessa, però, non era del tutto tollerato dagli occhiuti teologi! Comunque, l’essenziale è che la fede, fondamento delle cose sperate, per essere un fondamento autentico e dare a queste cose sperate una certa attendibilità, ha bisogno di rendere il fedele “una pecora”. E, naturalmente, colui a cui si crede non può che essere il pastore. Non c’è ironia né sarcasmo. Sono i fedeli stessi che si definiscono un gregge e che chiamano Gesù Cristo il Buon Pastore.
Spinoza: La speranza come difetto di conoscenza
Dovremmo passare adesso all’analisi della seconda parte della definizione, quella per cui la fede è prova di ciò che non si vede, ma prima è necessaria una sosta per vedere ciò che Spinoza pensa della speranza. Niente di buono, a dire il vero.
Per Spinoza l’uomo che spera è una persona che non sa come stanno le cose. L’“ateo sistematico” (così Pierre Bayle definisce Spinoza) sembra voler toglierci anche l’ultima dea, la speranza. In realtà, come sempre, il filosofo centra il bersaglio. La speranza è ciò che resta agli uomini quando la realtà li delude, li mette in difficoltà. Senza speranza sarebbero dei disperati. È proprio questa “consolazione fittizia” che alimenta le religioni e induce gli uomini a sopportare le ingiustizie patite in attesa di essere risarciti nell’al di là. Ma Spinoza merita di essere seguito alla lettera. Nella Parte IV dell’Etica, alla proposizione 47 leggiamo questo lapidario giudizio.
Gli affetti della speranza e della paura non possono essere buoni per sé.
Il termine “affetto” è decisivo in Spinoza: non indica un sentimento, non è uno stato d’animo. Affetto è una variazione della potenza esistenziale, della potenza di esistere. Un affetto passivo mi rende triste e fa diminuire la mia potenza di esistere, un affetto attivo al contrario esalta la mia forza vitale. L’affetto è come un “incontro”: un buon incontro (un successo sul lavoro, la comprensione di un testo difficile, trascorrere del tempo con la persona che amo, ecc.) mi fa del bene, fa variare verso il più la mia potenza; un cattivo incontro, al contrario, mi avvelena la vita. L’affetto è una variazione, verso la gioia o verso la tristezza. I preti e i tiranni, dice Spinoza, lo sanno bene e si sono specializzati nell’intristire gli uomini. Per Spinoza, paura e speranza (significativo averle messe assieme) sono evidentemente affetti che intristiscono e lo fanno perché sono generati da insufficiente conoscenza. Proseguiamo la lettura dello scolio di questa stessa proposizione.
Questi affetti indicano un difetto di conoscenza e un’impotenza della mente … segni di un animo impotente. … Quanto più, dunque, ci sforziamo di vivere sotto la guida della ragione, tanto più ci sforziamo di dipendere meno dalla speranza e di liberarci dalla paura, e di comandare alla fortuna, per quanto possiamo, e di dirigere le nostre azioni secondo il consiglio certo della ragione.
Speranza difetto di conoscenza. Se ci pensiamo bene, è così. Non abbiamo alcuna ragione di affidare alla speranza l’attesa di eventi di cui siamo certi. Nessuno in un laboratorio di fisica direbbe di sperare che la ripetizione dell’esperimento della doppia fenditura (variante dell’esperimento di Young e chiave per la comprensione della meccanica quantistica) confermi i risultati precedenti. Non si spera, si sa. È una certezza acquisita. Nessuno direbbe “spero che domani il sole sorga ancora” (a meno che non aggiunga uno scaramantico “per me”), perché c’è la certezza che sorgerà. Una certezza empirica, d’accordo, non una certezza logica, ma tanto basta per escludere questo fenomeno dalle cose sperate e includerlo nelle cose certe. Naturalmente l’aggiunta del “per me” sottrae in una certa misura il sorgere del sole alla certezza e lo affida alla speranza di essere ancora vivi domani mattina all’alba. Non potendolo sapere con certezza lo affido alla speranza di vita, accompagnata da un recondito timore di morte possibile. Spero di vivere perché non so se morirò. Spero di vivere perché, sia pure con probabilità bassissime (fatti i debiti scongiuri), potrei invece morire. Ecco il nesso fra speranza, paura e ignoranza messo in luce da Spinoza. Gioco in borsa un azzardo molto incerto. Non so se andrà bene, lo spero.
E la speranza (sempre accompagnata da timore) nell’esistenza di Dio e nella vita eterna è dello stesso genere di quelle viste finora? Assolutamente no. Che io domani mattina sia ancora vivo è incerto, ma potrebbe benissimo essere vero. Così la mia vincita alla lotteria della borsa. Molto incerto, ma possibile. Si tratta di speranze fondate, in quanto più o meno probabili, ma possibili. Sono speranze che, più che alla fede, affido alla matematica, al calcolo delle probabilità. E la vita eterna? Speranza vana, infondata, dato che la sua possibilità è per definizione inverificabile. Si tratta di un “fenomeno” extra-sensoriale: classica contraddizione in termini, dal momento che fenomeno indica ciò che si manifesta ai nostri sensi ed extra-sensoriale evidentemente lo nega. L’orizzonte entro cui può essere verificata la realizzazione di questa attesa non ha alcuna intersezione con l’orizzonte della nostra esistenza. Pertanto tale speranza, priva di basi empiriche e di basi razionali, non può che essere affidata alla fede.
Fede: quello strano, bizarro impegno di credere all’esistenza di qualcosa di inverificabile perché me l’ha detto qualcuno e perché tale speranza coincide con il mio desiderio. Idea inadeguata direbbe Spinoza. Prodotto di un’immaginazione frettolosa e ansiosa, ostacolo principale a un pensiero razionale. Perciò in Etica III, proposizione XVIII, scolio II, scrive
La speranza non è altro se non una letizia incostante, nata dall’immagine di una cosa futura, del cui esito dubitiamo.
La speranza è un affetto passivo, ci pone in un’attesa disinformata, animata solo da ciò che desideriamo e non da ciò che effettivamente è. E come ogni affetto passivo è adeguatamente sfruttato da chi è interessato a esercitare su di noi il suo potere. Preti e tiranni. Ciò che temono è l’uomo padrone di sé. Per questo la speranza è al centro dell’escatologia (l’interrogazione sul destino ultimo dell’uomo e dell’essere in generale) cristiana e non solo. E per questo tale illusione, per continuare a vigere, deve radicarsi nella pura irrazionalità della fede. Nella mente di un uomo abêti (ridotto a pecora), come dice Pascal.
Ha un altro in proprio potere chi lo tiene legato, o gli ha tolto le armi o i mezzi per difendersi o scappare, o gli ha messo paura, … [Chi ha sottomesso un uomo con la paura] ha sottoposto alla propria giurisdizione sia la mente che il corpo di lui, ma soltanto fino a che dura la paura o la speranza; tolta questa o quella, l’altro si ritrova autonomo. (Spinoza, Trattato politico, II, 10)
La guerra di Spinoza alla speranza non vuol significare che il filosofo ci vuole disperati. Spinoza ci vuole consapevoli, razionali: se conoscessimo tutte le cause che reggono il divenire del mondo, non avremmo bisogno di costruirci chimere e sperare in esse. La mente dell’uomo è limitata, non c’è dubbio, ma, fra la speranza beota e consolatoria e la disperazione ottusa e disfattista, c’è l’ampio e aperto spazio del pensiero razionale.
Fissiamo il risultato a cui siamo giunti con l’analisi della prima parte della definizione paolina di fede. La fede è il fondamento delle cose sperate. Ma le “cose sperate” altro non sono che aspettative di riscatto di una mente travagliata dalla paura, dalle difficoltà della vita, vagheggiamenti sostenuti ed elaborati da chi ci tiene in suo potere. Lo stesso che reclama la nostra fede nei suoi “racconti fantasiosi”. Traduciamo allora così questa prima parte della definizione: La fede è l’incrollabile garanzia che le nostre illusioni non saranno mai esposte all’azione corrosiva dello spirito critico.
Seconda parte della definizione: Fede come prova di ciò che non si vede
Confutazione della non visibilità
Anche la seconda parte della definizione (fede come prova di ciò che non si vede) ci offre degli spunti interessanti, a cominciare dal termine impiegato, “prova”, che traduce il latino argumentum e soprattutto il greco elenchos (ἔλεγχος). L’elenco in logica formale ha genericamente il significato di argomento, cioè di un motivo, una ragione a sostegno o a discapito di una tesi. Una prova, quindi. Pertanto, la traduzione italiana “prova” sembra corretta e in ultima analisi lo è. Tuttavia, per quanto corretta, la traduzione fa perdere un’informazione importante. Il termine greco elenchos ha precisamente il significato di confutazione, quindi di argomento a sfavore di una tesi. Tanto che un testo di Aristotele appartenente all’Organon (letteralmente lo Strumento), la raccolta dei suoi scritti di logica, ha come titolo Σοφιστικοὶ Ἔλεγχοι (Sophistikoi Elenchoi), tradotto in italiano Confutazioni sofistiche.
Questo ci crea però un problema. In che modo la fede sarebbe la confutazione di ciò che non si vede? Sembra più una critica che un sostegno alla fede.Nemmeno possiamo pensare che Paolo abbia usato questo termine ignaro del suo significato tecnico.
Il bosone di Higgs, i quark e le idee platoniche
E poi, “ciò che non si vede” appare un’espressione troppo generica, può applicarsi a una quantità di “cose” diverse. Il “bosone di Higgs” è stato per lungo tempo un ente puramente teorico. Certo, richiesto dalla teoria, quindi con una necessità di esistenza fortissima. Così forte che, se qualcuno avesse mostrato la possibilità della sua non esistenza, tutto il modello standard delle particelle elementari sarebbe crollato. Non si vede, non si vedeva ancora, ma doveva essere trovato. Il suo non vedersi era un difetto tecnico della sperimentazione, una insufficienza tecnologica. Poi si è visto, è stato “catturato” al CERN di Ginevra e tutto è andato a posto. Ebbene, per l’esperienza era un invisibile, per la teoria doveva vedersi. Possiamo dire che la teoria delle particelle elementari “provava” contro l’esperienza fino a quel momento disponibile, la visibilità del bosone di Higgs. Quindi era una “prova contro” (una confutazione) la sua invisibilità.
Sempre nella fisica, c’è un altro tipo di invisibilità, un’invisibilità strutturale, non risolvibile, almeno così pare a questo stadio di conoscenza scientifica, con nessun mezzo. Sto parlando dei quark, i costituenti dei protoni, dei neutroni e di altri adroni. Senza entrare nei dettagli, l’essenziale è che questi quark non sono mai stati osservati, ma solo ipotizzati. Ma, a differenza del bosone di Higgs, fino alla sua scoperta inosservabile di fatto, ma osservabile in via di principio, i quark non sono proprio osservabili, nemmeno in via di principio, essendo “inseparabili”. Ma allora, sono come Dio? Non si vede, non si può vedere, ma c’è? Conclusione affrettata ed errata. I quark “funzionano” sperimentalmente. Pur non essendo mai stati visti, essi sono stati “descritti” e anche “quantificati” con estrema precisione. Hanno una massa, una carica, uno spin, addirittura un nome che li differenzia in vari tipi (up, down, bottom, top, charm, strange), nomi fantasiosi, certo, ma non è questo che conta. Quello che conta è che l’ipotesi “quark”, se applicata rigorosamente, permette previsioni accuratissime sui fenomeni subatomici. Perciò devono esserci, anche se non si vedono. Perciò sono un’entità fisica e non metafisica. Perciò la loro esistenza è un’ipotesi scientifica. Come tutte le ipotesi scientifiche anche l’ipotesi quark è esposta alla falsificazione. È per questo una teoria scientifica, come ci ha insegnato il grande filosofo Popper.
Una teoria per essere scientifica deve essere confutabile, cioè deve prevedere l’esistenza di esperimenti che, nel caso riescano, possano decretarne la falsità. Perché la legge di gravitazione universale di Newton è una teoria scientifica, mentre l’astrologia non lo è? Perché se qualcuno, con un esperimento, dimostra che la formula non funziona ha decretato l’erroneità di questa teoria. Ci sono esperimenti che mi permettono di “controllare” la teoria. Non così per l’astrologia che, a ogni “smentita” empirica, oppone instancabilmente delle ipotesi ad hoc per giustificarsi. L’astrologia non è falsificabile, “se la cava” sempre. Ebbene, l’ipotesi quark lascia il campo aperto a esperimenti che la possano smentire, l’ipotesi Dio, invece, no. A questo va aggiunto che il geniale Richard Feynman ha dimostrato, attraverso un complicato esperimento, che i quark devono esistere come parti inseparabili degli adroni. Nessuno ha dimostrato questo riguardo a Dio, alla vita ultraterrena e ad altre credenze religiose. Ancora una volta possiamo dire che il modello standard delle particelle elementari “prova” la visibilità teorica (non empirica) dei quark e quindi “confuta” (è argomento contro) la loro invisibilità.
Ma c’è un’altra “invisibilità” che dobbiamo distinguere da quella delle cose non visibili indicate da Paolo. Pensiamo alle idee platoniche, che hanno la loro sede nell’iperuranio e che sono visibili solo con gli occhi della mente e non con quelli del corpo. O, per fare un esempio più “moderno”, prendiamo il cosiddetto platonismo matematico, l’idea fortemente sostenuta da Kurt Gödel e, in un certo stadio del suo pensiero anche da Bertrand Russell, che i numeri e le forme matematiche abbiano un’esistenza indipendente dalla mente umana, quindi che non siano invenzioni dell’uomo, ma sue scoperte. Certo, i numeri ideali non si vedono, eppure ci sono. Questo sostengono i platonici matematici. Allora sono i numeri e le forme matematiche a essere Dio? Naturalmente no, anche se stavolta è un “no” più reticente, più dubbioso. Per spiegarlo dovremmo affrontare temi molto complessi che esulano da questo breve saggio. Chi è interessato può leggere le prime 30-40 pagine del libro di Roger Penrose La strada che porta alla realtà.
La domanda che implica la “fede” nel platonismo matematico è la seguente: perché la matematica funziona così bene e senza sbavature se applicata allo studio del mondo naturale? Quello che a noi interessa è già tutto compreso nel testo della domanda: la matematica “funziona”, una delle “possibilità” (ma solo possibilità) è che essa esista indipendentemente dall’uomo. Assieme a questa impostazione la filosofia matematica ne ha contemplate altre (il formalismo di Hilbert, il logicismo di Frege, l’intuizionismo di Brouwer, ecc.) ma a noi qui non interessano. Il platonismo matematico è un’ipotesi di lavoro, una prospettiva, un orizzonte aperto, su qualcosa che funziona al di là di ogni ragionevole dubbio.
L’ipotesi “Dio” e l’elefante rosa
Non così l’ipotesi Dio: quando non funziona si tirano in ballo misteri e disegni occulti. Perciò possiamo dire che l’indiscutibile funzionamento della matematica rende plausibile l’ipotesi che le forme matematiche, anche se non si vedono, esistano. Quindi, può essere una prova contro coloro che negano il mondo matematico. Ma allora, di che tipo è l’invisibilità delle cose che riguardano la fede? Qui mi viene bene la storia dell’elefante rosa.
Si può trovare in un polemico pamphlet scritto da Franco Cordero, giurista e scrittore italiano. A lui si deve il nomignolo “caimano” applicato a Berlusconi, ripreso poi nel film di Nanni Moretti. Agli inizi degli anni Settanta Cordero era docente di filosofia del diritto all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. A causa di un libro da lui scritto, considerato eterodosso (eh sì, cose di altri tempi, direte voi, ma ne siamo sicuri?) venne rimosso dall’insegnamento con intervento diretto dello stesso arcivescovo di Milano, al tempo il cardinale Carlo Colombo. La risposta di Cordero non si fa attendere ed è affidata a Lettera a Monsignore (De Donato Editore, Bari, 1970), dove il giurista attacca pesantemente i metodi censori e i contenuti intimidatori dei rappresentanti del clero. Riporto integralmente la “celia” sull’elefante rosa perché è troppo bella.
Si sta facendo buio, è meglio accendere la luce.
Purché l’elefante rosa sia propizio.
Cosa?
L’elefante, quello che irradia la luce.
Non capisco: basta che mi alzi e giri l’interruttore.
Lo dici tu: la luce viene da lui; lo scatto dell’interruttore è soltanto una condizione; la vera fonte luminosa è lui, l’elefante rosa.
In questa stanza non vedo tracce di elefanti rosa.
Credi che la realtà sia limitata alle cose visibili?
Ce ne sono anche di invisibili, ma in qualche modo le conosciamo attraverso gli effetti; certi gas velenosi non si vedono: se però li respiri vai al creatore.
Appunto, l’effetto dell’elefante rosa è la luce; dal fenomeno luminoso risaliamo a lui, la causa.
Non capisco che bisogno ci sia di presupporre l’elefante rosa quando a spiegare l’accensione basta l’impianto elettrico.
Se non lo capisci non posso spiegartelo: certe cose vanno intuite; la tua intuizione è povera.
Il solito fanatismo razionalistico: quando vi metterete in testa che la ragione non merita alcun rispetto? L’hanno definita “la bestia”.
Sarà una bestia, ma finché non avremo un intellectus angelicus bisogna usarla come si deve; quando sento certi vostri discorsi …
Lasciamo perdere, voglio confutarti sul tuo terreno; tu attribuisci una grande importanza alle prove basate sui fatti; ebbene, sei in grado di provare che la luce di questa stanza non proviene dall’elefante rosa attraverso un processo del quale lo scatto dell’interruttore è una semplice condizione?
E perché dovrei essere io a provare l’opposto di quello che tu affermi? Io sostengo che a illuminare questa stanza basta un giro dell’interruttore e lo provo con l’esperimento; tu hai tirato in ballo l’elefante rosa: se vuoi che ti prenda sul serio, fornisci delle prove. Se no basterebbe aprir bocca per riempire il mondo di personaggi invisibili: perché l’elefante rosa e non il coccodrillo argenteo o la balena purpurea?
Non mi piacciono questi paradossi. Siete dei feticisti dell’esperienza; tu dici: “ammetto solo le ipotesi confermate sperimentalmente”. Non ti sei mai domandato se non sia un modo arbitrario di procedere? Tanto per cominciare, non puoi provare in base all’esperienza il principio che pone l’esperienza come misura del vero e del falso.
L’intuizione non c’entra, è una questione di ragionamento più o meno corretto.
Mi stupisci: quando dici che “il principio di verificazione non può essere verificato” cadi in un’idiozia da parlatore sgrammaticato; quello non è un enunciato bisognoso di dimostrazione ma un criterio inteso a organizzare la nostra conoscenza, il solo possibile, visto che le idee presuppongono le percezioni e le percezioni presuppongono gli organi di senso, a parte l’esperienza introspettiva. Scusami, dimenticavo che voi metafisici avete un’anima immortale capace di fare cose prodigiose anche senza l’involucro corruttibile.
Lo scherno non è un argomento. La verità è che vi manca qualcosa.
In compenso abbiamo una testa che lavora a regola d’arte.
Una testa, una testa, come se l’uomo fosse soltanto logica: in certi momenti chiudo gli occhi e vedo cose di una bellezza sconvolgente; no, l’uomo non è quell’animale che voi credete, ci sono i valori …
Si è fatto tardi, ho una lezione, sai, io vivo dello stipendio.
Hai l’aria di rimproverarmi il successo: non c’è niente di male in un giusto riconoscimento del merito. A proposito, devo andare anch’io, l’autista mi aspetta; alle sette Monsignore tiene la meditazione sulla Via Crucis, vieni anche tu, no?
A dire la verità …
È paradossale, ma non irreale. La filosofia scolastica, la teologia, ha riempito il mondo di “elefanti rosa”, enti richiesti da nulla, tranne che dal rifiuto di limitarsi ai fatti e alle idee sensate o adeguate, come direbbe Spinoza. Al declinare della scolastica un francescano inglese, grande filosofo, Guglielmo di Ockham, ha dato una bella rasoiata a tutti questi elefanti rosa che appesantivano, impacciavano e deturpavano il pensiero. Così recita infatti il suo celebre detto, passato poi alla storia come il rasoio di Ockham: “entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”, “non si devono moltiplicare gli enti oltre il necessario. Non si devono introdurre argomenti a sostegno fantasiosi, ma solo quelli necessari all’economia e alla logica del discorso. Altrimenti infarciamo il nostro ragionamento di spiegazioni ad hoc, argomenti opportunistici, pretestuosi e fumosi.
Per concludere allora la nostra analisi della seconda parte della definizione paolina di fede, diciamo che l’uso del termine elenchos, confutazione, è adeguato. La fede, secondo Paolo, confuta che le cose in cui ci viene detto di credere siano non visibili. Prova invece che lo sono per chi guarda solo con gli occhi del corpo, ma agli occhi dello spirito la fede prova che le cose sono non solo visibili, ma anche e soprattutto desiderabili. Lascio a voi la riflessione se la “prova” basata sulla fede abbia la stessa forza persuasiva di quella basata sul modello standard delle particelle o sul funzionamento della matematica nello studio della natura.
Per sintetizzare il significato della seconda parte della definizione, diciamo che la fede “confuta” chi si ostina a non vedere “elefanti rosa”, dato che questi pullulano in ogni dove. La fede, come l’abbiamo definita, dogma, opinione imposta, ottusa rinuncia alla ragione e al suo procedere rigoroso. L’“elefante rosa” è la risposta del fedele alla complessità del mondo, alla sua meravigliosa architettura. Una risposta frettolosa, fantasiosa, data da chi non ha la struttura mentale adeguata per gli unici due atteggiamenti dignitosi del pensiero:
- la cauta modestia dello sperimentatore e del pensatore ragionevole
- il salutare esercizio del dubbio.
Molto meglio e più dignitoso dire “non so” piuttosto che favoleggiare dell’esistenza reale di enti metafisici ed extrasensoriali. Il mondo non è miracoloso, come sostiene il fedele, ma meraviglioso, come affermano il filosofo, lo scienziato, l’artista, …
L’ingiustificata buona fama di cui gode la fede
L’“irriverente” assimilazione della fede in Dio con la fede nell’elefante rosa è una canzonatura evidentemente. Ma non troppo. Una canzonatura: la fede religiosa ha una diffusione e una capacità di motivare all’azione quasi incalcolabile. Altro che elefante rosa … Inoltre non ci sono solo fedeli beoti, ma anche persone di grandissimo spessore intellettuale e morale che “credono”. Io, che ritengo un obbligo ineludibile rispondere adeguatamente alla complessità dei problemi, non posso dare una risposta semplicistica dicendo che la fede nel Dio delle religioni positive è assimilabile alla fede nell’elefante rosa. Una canzonatura, quindi. Ma non troppo: sono, infatti, intimamente convinto che da un punto di vista cognitivo non ci sia un abisso fra la fede religiosa e la fede in qualunque altra stramberia partorita dalla fervida immaginazione dell’uomo. Pensiamo alla mitica teiera di Russell posta fra la Terra e Marte in orbirta attorno al sole. Ma ciò che fa la differenza sono le motivazioni, le personalità che sorreggono la fede religiosa e la capacità di incentivare all’azione. L’uomo ha un’insopprimibile esigenza di sfuggire alla sua finitezza o, perlomeno, di esorcizzarla. La religione è uno dei modi più efficaci per riuscirci.
Ma concentriamoci sulla capacità di incentivare all’azione e sulla “qualità” delle personalità dei “referenti” religiosi (profeti, martiri, portavoce di Dio). Prima, però, voglio proporre una piccola riflessione a scopo introduttivo. La fede gode di un’incomprensibile buona fama. Incomprensibile per chi crede che l’analisi fatta nelle precedenti parti di questo saggio sia fondata. Perché molti “laici” alla domanda “Lei crede?” rispondono, con imbarazzo e contrizione “No, purtroppo no. Non ho la fede, devo vivere senza questo ausilio, privo di questo conforto”? Sembra che si giustifichino riconoscendo di non godere di qualcosa che viene considerato un privilegio. Sembra che l’infedele (privo della “virtù” della fede) debba essere compatito, come il disperato (privo della “virtù” della speranza), o addirittura esecrato, come il cinico (privo della “virtù” della carità). Ma è davvero così?
È tutta una cultura e una tradizione che ha contribuito a dare del fedele un’immagine positiva e dell’infedele, o peggio del miscredente, un’immagine negativa. A cominciare dall’uso dei termini, sempre contrassegnati da negatività e privazione per chi non ha fede: ateo (= senza Dio), infedele (= senza fede), miscredente (= malafede), ecc. Nello stesso linguaggio comune il “senza dio” è assimilato a un sociopatico, un delinquente, uno di cui non ci si può fidare. È una truffa semantica, che noi “senza dio” tacitamente avalliamo, quando ci definiamo orgogliosamente “atei”. Noi non siamo “privi di qualcosa”, siamo “liberi da qualcosa”. Rifiutiamo quindi la caratterizzazione negativa in cui ci vogliono ingabbiare e definiamoci orgogliosamente “liberi pensatori”. Il libero pensatore è l’antitesi del devoto, del fedele. Il libero pensatore, quel frutto raro nella storia dell’uomo, fiorito solo nella Grecia classica (Atene) e nei due secoli decisivi per la formazione della coscienza laica, il Seicento e il Settecento. Il libero pensatore. Il philosophe, ὁ φιλόσοφος.
La formidabile capacità di motivazione della fede
La fede sposta i monti
Ma veniamo al tema specifico di questa parte: la capacità della fede di incentivare e le personalità sul cui prestigio essa si fonda. Sono più di uno i passi del Vangelo in cui la fede viene esaltata come una forza salutare. Due in particolare appaiono particolarmente significativi. Prendiamo Matteo, 17. Si racconta della guarigione di un epilettico (puer lunaticus). Un miracolo, quindi. Un uomo, che si era prima rivolto invano ai suoi discepoli, implora poi Gesù di guarire il figlio epilettico. Fatto il miracolo, i discepoli vogliono sapere perché loro non ci erano riusciti. La risposta è tagliente e chiara a un tempo e consta di un rimprovero e di una esortazione. Il rimprovero: Mt, 17, 17:
O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo qui da me.
Il termine chiave è “incredula”, accompagnato da “perversa”. Fede significa “credere anche e soprattutto” senza il “Maestro”, il quale, per “funzionare” automaticamente come motivatore deve essere introiettato. Questo non è ancora avvenuto. I poveri pescatori sono ancora dipendenti dalla presenza di Gesù. Senza di lui non riescono ad agire. La loro fede è ancora tiepida, il loro fervore non è ancora acceso. Perciò Gesù li taccia di incredulità e, conseguentemente, di perversione. E infatti, tre versetti dopo (Mt, 17, 20), le parole di Gesù si fanno esplicative e si trasformano in potente esortazione.
In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spostati da qui a là», ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile.
Da qui viene il detto “la fede sposta i monti”. La fede fa miracoli e se tu non ci riesci, significa che sei uomo di poca fede. Non voglio ricadere nell’“irriverenza”, ma, sempre da un punto di vista cognitivo, la risposta obbedisce alla stessa logica del guaritore. “Non guarisci non perché il mio “farmaco” è una pozione inutile, ma perché non hai abbastanza fede, perché sei pieno di negatività …”. Ma il livello cognitivo non è tutto. È incontestabile che credere senza riserve in un’impresa aumenta incredibilmente le probabilità di successo. Questa scena è raccontata da Marco nel cap. 9 del suo Vangelo in modo più articolato rispetto a Matteo, ma la sostanza è la stessa. Il padre del puer daemoniacus chiede a Gesù: “Tu puoi qualcosa?” Puoi guarire mio figlio laddove i tuoi discepoli hanno fallito? La risposta di Gesù in Mc, 9, 23-24:
«Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!»
Il “tutto è possibile per chi crede” di Marco è una generalizzazione della “fede che sposta i monti” di Matteo. Ma la cosa significativa di questa citazione è la richiesta che il padre del ragazzo fa a Gesù: “Aiuta la mia incredulità”. La fede non è una decisione puramente intellettuale (lo abbiamo già visto con Pascal). La fede impegna l’uomo nella sua interezza. E un uomo, sia pur supposto figlio di Dio, serve per sorreggere con il suo carisma l’incerta fede del povero padre. “Aiutami Signore, fa’ che io creda”. Questa invocazione non chiede argomenti a sostegno della fede, ma forza intima di convinzione. È come il famoso “fachiotami” della preghiera “O Gesù d’amore acceso”. Si chiede a Gesù la forza di amarlo: “Fa’ ch’io t’ami sempre più”. Recitato nella più tenera infanzia ha trasformato il desiderio di amare in una incomprensibile, misteriosa e solenne formula magica. Il “fachiotami” ha circolato a lungo nel mio cervello in formazione come un mantra di oscuro ma sicuro significato. Il “fachiotami” analogo al “fachiocreda”. La fede ha bisogno di questi supporti irrazionali. Anzi, senza di essi non sarebbe fede cieca e ardente, ma ragionevole credenza. “Cosa devo fare per credere?” chiede il padre a Gesù. Come avrebbe reagito se avesse ottenuto questa risposta?
Credere è un atto dell’intelletto che aderisce alla verità divina, sotto il comando della volontà, mossa da Dio mediante la grazia.
L’uomo carismatico. Il legislatore
Il padre sarebbe rimasto senza parole (e senza fede) e Gesù non sarebbe stato l’uomo carismatico che era, ma un sofisticato dottore della Chiesa. Infatti, la frase precedente è letteralmente la definizione di fede data da Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae, II.II.q2.a.9. È la differenza fra un dottore, un erudito, e un profeta. “La fede sposta i monti”, tuona il profeta, “La fede è un atto dell’intelletto, ecc.”, borbotta il dottore.
Analizzeremo la definizione di Tommaso, ma prima fissiamo questa radicale differenza fra profeti e dottori, fra “ispirati” e “devoti commentatori”. Se comprendiamo questa differenza, comprendiamo anche quanto sia affrettato e superficiale assimilare fede in Dio e fede nell’elefante rosa. Assimilazione convincente solo da un punto di vista cognitivo, non dimentichiamolo mai.
Per comprendere questa differenza ci serviamo di una (lunga) citazione di Rousseau. Il filosofo sta parlando della figura del Legislatore, il “padre costituente” dello stato da lui vagheggiato, il “garante”, non il “sovrano”, che è sempre e solo il popolo. Ebbene, la sostanza del discorso è che il Legislatore, che si autoinveste di poteri sovrumani e di contatto diretto con il divino, non è un impostore. Anche, forse, ma “a fin di bene”. La pagina che ci accingiamo a leggere dal Contratto sociale, II, 7, è un inno all’uomo carismatico. Il carisma, dal greco charis (χάρις), grazia, è un dono che l’uomo riceve dagli dei, ma un dono che, anziché essere trattenuto dal ricevente, deve essere restituito trasformato e adeguatamente adattato agli altri. L’uomo carismatico ha ricevuto il dono del sapere ispirato e con esso l’obbligo e la forza di distribuirlo. Ecco Rousseau (sottolineature mie).
Ma non è da tutti far parlare gli dei ed essere creduti quando ci si proclama loro interpreti. La grande anima del legislatore è il vero miracolo che deve comprovare la sua missione. Chiunque può incidere tavole di pietra o comprerae un oracolo, o fingere un segreto rapporto con qualche divinità, o ammaestrargli un uccello a parlargi all’orecchio, o trovare altri mezzi grossolani per imporsi al popolo. Chi si limiterà a questo potrà anche, per caso, riunire un gruppo di insensati, ma non fonderà mai un impero, e la sua opera stravagante finirà ben presto con lui. Un prestigio effimero dà luogo a un legame passeggero, non c’è che la saggezza che lo renda stabile. La legge giudaica tuttora in vigore, e quella del figlio di Ismael (Maometto) che da dieci secoli governa la metà del mondo, testimoniano, ancora oggi, la grandezza degli uomini che le hanno dettate; e mentre l’orgogliosa filosofia o il cieco spirito di parte non vedono in essi che fortunati impostori, il vero politico ammira nelle loro istituzioni questo genio, grande e potente, che presiede alle istituzioni durevoli.
Il cretino crede a ogni ciarlatano, per lui un elefante rosa è sempre pronto; il fedele di una religione dà la sua fiducia a un “profeta”, della stoffa di quelli tratteggiati da Rousseau. Il profeta ha l’innegabile capacità di interpretare con grande efficacia le aspettative di un popolo, di una comunità. Anzi, il profeta crea un popolo, una comunità. Il profeta ha carisma, il ciarlatano solo chiacchera. Non è un talento comune quello di dar voce alle “speranze” di un popolo. Non si può liquidare tutto ciò con uno sprezzante “fandonie”. Il profeta, per noi laici, di sicuro non parla in nome di Dio, ma parla in nome di un popolo che non ha altra voce che la sua. Chi ignora “ciò che può un profeta” è destinato a soccombere al suo verbo rivoluzionario. Un profeta “reclama” legittimamente “fede”, perché è in sintonia con il sentire della folla. Al profeta bisogna rispondere con analogo carisma, o si soccombe. Un carisma, quello laico, che non fa appello alla fede, ma alla ragione. Un carisma destinato a perdere, perché la ragione non è un dono caduto dal cielo come la grazia, ma una dura, lenta e faticosa conquista che germoglia dalla terra, esposta a tutte le insidie. Il laico non scuote le coscienze, non scalda i cuori. Il laico feconda la mente. Un’operazione tanto meritevole quanto “prosaica”. Il profeta trascina le folle, il laico riempie la mente di dubbi. Chi credete che vincerà alla fine?
Nessuna religione, perciò, può fare a meno di profeti, anche se, a un certo stadio del loro sviluppo, tutte hanno provato a farlo. Sì, perché il profeta è sempre una minaccia per ogni istituzione. Il profeta destabilizza. Il suo verbo non muove solo i monti, scuote dalle fondamenta ogni duratura costruzione. Le religioni si istituiscono con i profeti, ma si consolidano con i dottori. E allora, non c’è bisogno solo di Gesù di Nazareth o di Paolo di Tarso, ma anche di Tommaso d’Aquino. Non c’è bisogno solo di un uomo carismatico in cui credere, ma anche di una dottrina in cui la magmatica fede evocata dal profeta trovi una forma. Ed ecco, allora, l’arzigogolata formula di Tommaso, meno seducente delle parole d’ordine evangeliche, ma altrettanto necessaria.
La dottorale definizione di fede di Tommaso d’Aquino
Tommaso ci dice che all’inizio c’è la grazia di Dio. Un dono. Se non l’hai ricevuto, c’è qualcosa di oscuro in te, un qualcosa che ti fa pensare di non averlo meritato. Tutto lo scabroso tema della predestinazione, che si radica nel pensiero di Agostino di Ippona interprete di Paolo di Tarso, si innesta su questo concetto: la grazia, un dono, non un diritto. La grazia, il dono, nella formula di Tommaso, non è un semplice possesso, ma comporta un obbligo a fecondare quante più persone possibili. La grazia muove la volontà, la rende attiva, operativa. Nessuno “toccato dalla grazia di Dio”, può rimanere inerte. Ha una missione da compiere. E questa “missione”, per non essere mera propaganda, ha bisogno di mobilitare l’intelletto, il solo capace di rivestire la fede di plausibilità.
Ecco allora che la formula del “dottore della Chiesa” Tommaso prende corpo e fa da sostegno all’immediata retorica della formula evangelica. La fede fa muovere i monti. Tutto è possibile per chi ha fede. Queste formule potenti ma elementari trovano riposo nella tortuosa formula tomista “Credere è un atto dell’intelletto che aderisce alla verità divina, sotto il comando della volontà, mossa da Dio mediante la grazia”. Perché una religione non può vivere solo di movimentismo. Deve trovare pace in una dottrina, in un catechismo. Ma nessuna dottrina deve e può smorzare l’impulso iniziale, il carisma, il mistero profetico. Quel quid che solo l’autentico profeta possiede, non certo il bislacco banditore dell’elefante rosa. Ecco perché nella formula di Tommaso all’inizio è assolutamente necessaria una “spinta” divina, mentre alla fine occorre un’adesione razionale. Il fedele, anche quando sembra “appagato” nella fede, ha bisogno sempre del Signore che mantenga viva questa fede, anzi, che la aumenti. Perché la fede non può acquietarsi: o va avanti o va indietro. Nessuna autentica fede sta ferma, soddisfatta di sé.
Contro il fideismo: Chiesa cattolica vs Mondo protestante
Proprio per questa sua dinamica la fede è “pericolosa”, se non è imbrigliata dalla ragione. Non la ragione tout court, ma la “ragion di stato”. La Chiesa cattolica l’ha compreso perfettamente. La fede va bene, il fideismo no. Troppo pericoloso. Il credo quia absurdum ha allettato correnti eretiche del cattolicesimo, mai il cattolicesimo tradizionale. Quello istituzionale. Il cattolicesimo ha sempre avuto bisogno di essere riconosciuto come una fede ragionevole, pur nel quadro di misteri insondabili. Il cattolicesimo di Santa Madre Chiesa, nei limiti del possibile, non ha mai voluto “credere contro la ragione”. E qui l’argomentazione cattolica ha raggiunto vertici di raffinatezza retorica: la fede non è assurda, ma misteriosa, e il mistero non è irrazionalità, ma sovrabbondanza di senso, di verità. Se il mistero sembra buio, non è perché non c’è luce, ma perché ce n’è troppa e chi prova a fissarlo direttamente ha la stessa esperienza traumatica di chi guarda il sole. Perde la vista.
Belle formule. Ma cosa significano in concreto? Nel medioevo si confrontavano dialettici e antidialettici, cristiani che credevano che la fede avesse bisogno di accordarsi con la ragione e altri che cercavano in ogni modo il conflitto con essa. Fra questi ultimi Martin Lutero. Trovava insopportabile che il credente fosse giustificato da “buone ragioni”. Per lui, solo chi crede senza altro motivo che la fede è giustificato. Chi ha bisogno della logica (o delle opere), non ha alcun merito davanti a Dio. Il mondo protestante ha un rapporto con la fede molto più fondamentalista del mondo cattolico. Chi ha letto Timore e tremore di Kierkegaard sa cosa significa “credere quia absurdum”. Insostenibile per un bravo cattolico. A che servirebbe la fede, ci chiede il filosofo danese, se la ragione mi dimostra le verità della religione? Credere a qualcosa di provato non comporta alcun merito.
Già, perché ci eravamo dimenticati che la fede è un merito. E questo adesso lo comprendiamo meglio che all’inizio. Se credere autenticamente (e non da beoti) significa credere in un profeta, in un uomo carismatico che è in diretta e comprovata sintonia con il sentire di un popolo, allora chi ha bisogno di “piantare il naso” e vedere quanto è plausibile questa fede è un buzzurro. Uno zotico, alla stregua di chi, davanti a un’opera d’arte, ha bisogno di qualcuno che la smonti, che la metta in prosa, incapace di un retentissement, di una immediata risonanza con essa. Per un fideista, chi si affanna a giustificare la propria fede è come un beota che vuol sapere perché è bella e sublime la settima sinfonia di Beethoven. Se non lo capisci, dice l’artista, non sei degno di capirla, non hai la grazia dell’intuizione estetica. Lo stesso per la fede religiosa. Dio ti ha negato la grazia di credere. Non puoi supplire con la ricerca meticolosa delle ragioni.
Il fideismo che, ripeto, è sostanzialmente estraneo al cattolicesimo, fonda la sua sfiducia nella ragione umana sul fatto che la natura dell’uomo è corrotta alla radice dal peccato originale. La ragione è il frutto avvelenato della disobbedienza iniziale: come può supportare ciò contro cui ha combattuto. L’opposizione cattolica al fideismo non è, tuttavia, dovuta a una maggior ragionevolezza del cattolicesimo rispetto al protestantesimo, ma a un’accorta e prudente strategia di controllo del corpo dei fedeli. Il Cattolicesimo è una Chiesa gerarchica, non può agevolmente accogliere entro il suo seno manifestazioni di religiosità sregolata. Potrebbero diventare ingestibili, come lo fu Savonarola, Fra Dolcino, lo stesso Francesco, in certa misura. Il Cattolicesimo ha bisogno della dottrina più che della fede. Questa, se c’è, è bene che stia incanalata entro il letto sicuro del catechismo. Il Cattolicesimo riduce al suo nocciolo duro il materiale fluido e incandescente della fede, l’obbedienza. Tanto gli basta. Se poi anche si crede sinceramente, meglio, ma non è essenziale. La fede è, in ultima analisi, obbedienza ai proclami di un profeta. Ma questo profeta ha parlato una volta per tutte. Non può continuare ad agitare gli animi. Non si può obbedire a chi parla in continuazione, ma solo a chi pronuncia una volta per tutte la parola definitiva. Dopo la quale, solo i dottori, solo gli autorizzati, il clero, hanno voce. Una voce controllata e controllante.
La fede creatrice di comunità
Sia quel che sia, tanto la fede “anarchica” dei protestanti quanto la fede “gerarchica” dei cattolici, hanno la forza di costruire, di cementare una comunità. Nulla come la fede rende coesa una comunità. Nulla come la mancanza di fede, nulla come il dubbio sistematico, la frantuma. È ciò che vediamo nelle nostre società secolarizzate, prive del nerbo necessario per resistere all’assalto delle “società sacre”. L’Atene “arcaica”, coesa e unitaria, come ci mostrano Eschilo ed Erodoto, ha la forza di resistere all’urto possente dell’impero persiano, l’Atene “democratica e secolarizzata”, l’Atene periclea, splendida e relativista, soccombe nella guerra del Peloponneso alla piccola ma “sacralizzata” Sparta. La fede muove i monti, la mancanza di fede porta alla rovina.
Dobbiamo stare attenti quando esponiamo le nostre credenze e le nostre tradizioni al corrosivo spirito critico. Per quanto si indaghi, il dissidio insanabile è sempre tra la fede e il sapere critico, fra chi ha ricevuto l’illuminazione e chi procede con il lume naturale. Questo dissidio appare evidente ancora in Paolo.
Poiché, siccome nella sapienza d’Iddio, il mondo colla sapienza propria non ha conosciuto Iddio, piacque a Dio di salvare i credenti colla stoltezza della predicazione … perché la follia d’Iddio è più sapiente degli uomini. (Lettera ai Corinzi, 1, 21, 25)
È il dissidio fra sophia (la sapienza) e morìa (la follia, la stoltezza). Un dissidio che Paolo ricava direttamente da un passo evangelico.
Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché tu hai nascoste queste cose ai saggi e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Si, o Padre, perché tale è stato il tuo beneplacito. (Luca, 10, 21)
Non è mai mancato, all’interno della tradizione cristiana, il tentativo di conciliare le due istanze, ma si è sempre trattato di operazioni dirette a una ristretta cerchia di “privilegiati”. Agostino di Ippona oppone al credo quia absurdum di Tertulliano il suo doppio impegno sintetizzato in due formule famose: credo ut intellegam (credo per capire) e intellego ut credam (capisco per credere). La formula sarà ripresa da Anselmo d’Aosta (o di Canterbury) nell’altrettanto nota sentenza fides quaerens intellectum (la fede che cerca l’intelletto). Fede e intelletto non possono e non devono escludersi a vicenda, ma sostenersi reciprocamente. Tutta la Scolastica può essere compresa come il tentativo di dare un fondamento razionale ai misteri della fede. Tentativo non riuscito, tentativo che non poteva riuscire, dal momento che, come ho mostrato, la fede nasce contro la ragione e non solo a prescindere dalla ragione. Il grande Seneca ha pronunciato la sentenza definitiva sulla religione.
La sentenza di Seneca sulla religione
La religione è vera per l’uomo comune [i poveri di spirito], falsa per i sapienti, utile per i governanti.
Chi pensa e rispetta la ragione non potrà mai acquietarsi nella mera obbedienza di un atto di fede, sarà sempre spinto a scavare, conoscere, capire, mettere in dubbio. Il “sapiente” conosce la storia della religione, le vicissitudini che hanno portato alla formazione dei dogmi. Sa che la religione è un’impresa integralmente umana. Perciò per lui la religione è falsa. E la religione “ripaga” condannando la sapienza come atto di superbia assoluta, come spirito luciferino (v. la medievale Imitatio Christi). Il povero di spirito semplicemente non conosce. La stragrande maggioranza dei fedeli, a parte qualche formula stereotipata, non sa nulla della religione di cui si professa adepto. Conosce meglio il regolamento di condominio che i precetti della fede. Semplicemente l’incolto dà il suo assenso alla religione in cui si è trovato a vivere per semplice casualità e abitudine. Il cattolico è tale perché nato in Italia, o in Austria, ecc.; il musulmano è tale perché nato al Cairo o a Teheran. Caso, abitudine. Ignoranza. Perciò per lui la religione è vera. Il governante ha bisogno di una comunità, di spirito comunitario. Ha bisogno di persone che obbediscono piuttosto che di persone che criticano. Ha bisogno di persone che possano essere tenute a freno con regole morali semplici ma efficaci perché condivise. Ha bisogno di persone che possano essere “illuse” con la promessa che saranno gratificate in un’altra vita. Perciò per lui la religione è utile.
Il carattere strutturale della religione nella storia
Questo ruolo complesso della religione (vera, falsa, utile) è un indice del caratterre strutturale della religione nella storia (o forse nella stessa antropologia) dell’homo sapiens. E quindi del carattere illusorio di ogni tentativo di critica “razionale”, “illuminista” a essa. Freud ha mostrato che la religione è destinata ad accompagnare sempre come un’ombra la storia dell’umanità. (Freud, Il futuro di un’illusione). Sentenza definitivamente sancita da Lacan nel suo dibattito con i Monsignori in Vaticano, di cui riporto pochi ma significativi passi, il cui senso si può così sintetizzare: “La religione nulla deve temere dal sapere, perché i sapienti hanno la verità, la religione ha il senso”. E ciò che l’uomo vuole è il senso, non la verità. Ma vediamo Lacan.
La religione è inaffondabile. … ha risorse tali che non possiamo nemmeno immaginare. … È veramente capace di dare un senso a qualunque cosa. … [I religiosi] sono formati per questo. Fin dall’inizio, tutto ciò che è religione è consistito nel dare un senso alle cose che erano un tempo le cose naturali.
Nietzsche: La fede nemica della verità più pericolosa della menzogna
La potenza della fede non ha pari, perché l’uomo ha bisogno di senso, altrimenti la sua vita è vacua. La fede è “convinzione” operativa alimentata dall’immaginazione. Perciò è nitroglicerina, perciò è più pericolosa della menzogna, come ha genialmente visto Nietzsche. Nel cap. 55 dell’Anticristo riprende un aforisma di Umano, troppo umano, I, 483.
Le convinzioni sono nemici della verità più pericolosi delle menzogne.
Ma leggiamo questo lungo e strepitoso passo dall’Anticristo
Esiste in generale un’antitesi tra menzogna e convinzione? Tutta la gente lo crede; ma, a che cosa non crede la gente? … Chiamo menzogna il non voler vedere qualcosa che si vede, il non voler vedere qualcosa così come lo vediamo. … questo non voler vedere ciò che si vede, questo non voler vedere così come si vede è a un dipresso condizione prima per tutti quelli che, in qualsiasi senso, sono “partito”: l’uomo di fazione diviene di necessità bugiardo. … “Questa è la nostra convinzione: la professiamo dinanzi a tutto il mondo, viviamo e moriamo per essa – onore a tutti quanti nutrono delle convinzioni!”. … I preti, che in queste cose sono più fini e comprendono benissimo l’obiezione che sta nel concetto di convinzione, vale a dire la falsità tale per principio, poiché utile allo scopo, hanno preso dagli Ebrei la furbizia di inserire a questo punto i concetti di “Dio”, “volere divino”, “rivelazione divina”. … A che fine Dio dette all’uomo la rivelazione? Dio avrebbe fatto qualcosa di superfluo? L’uomo da se stesso non può sapere che cosa è buono e cattivo, per questo Dio gli insegnò la sua volontà…Morale: il prete non dice bugie – in cose come quelle di cui discutono i preti, la questione del “vero” e del “non vero” non esiste: queste cose non permettono affatto di mentire. Giacché per mentire uno dovrebbe poter decidere, che cosa qui sia vero. Ma appunto questo l’uomo non può fare; il prete è così solo portavoce di Dio. Un simile sillogismo pretesco non è in alcun modo solo giudaico e cristiano; il diritto alla menzogna e la furbizia della “rivelazione” sono proprie del tipo-prete. … La “legge”, la “volontà di Dio”, il “libro sacro”, “l’ispirazione”: tutte parole solo per le condizioni in cui il prete giunge al potere, con le quali egli sostiene il proprio potere – questi concetti stanno a fondamento di tutte le organizzazioni ecclesiastiche, di tutte le strutture di dominio sacerdotali o filosofico-sacerdotali. … La “sacra menzogna” – comune a Confucio, al codice di Manu, a Maometto, alla Chiesa cristiana – non manca in Platone – “La verità esiste”: queste parole, dovunque udite, significano il prete mente …
A Nietzsche non piacciono i preti. La mentalità pretesca è fatta di astuzia subdola e intrigante. Il punto di attacco di questa mentalità è la tiritera dei “limiti della ragione”, punto strategico in cui si insinua la furbizia pretesca. Se la ragione ha dei limiti, bisogna affidarsi a Dio e ai suoi interpreti per sapere che cos’è la verità e dove sta il bene e il male. Allo scettico e al dubbioso viene contrapposto il fedele armato di convinzioni incrollabili e la forza di queste convinzioni viene spacciata come indice di verità. Ma la forte convinzione indica solo la débacle della critica. E le convinzioni non sono tutte uguali. Le convinzioni religiose sono purtroppo inestirpabili dall’uomo come ineliminabile è la sua mortalità. Altre convinzioni, vitali e salutari, rischiano di essere messe in crisi dalla sconsideratezza dell’uomo. E dalla religione, come ha detto Lacan nella citazione vista sopra.
Conclusione: La “sana” fede nel senso delle cose naturali
È il senso delle cose naturali, duplicemente minacciato, dal sapere e dalla fede. La fede perché non sa appagarsi nella vita (la fede, come dice Nietzsche, è un no alla vita naturale) e vuole trovare un senso alle cose della natura che esse in sé non possiedono. Il sapere, quando è solo esercizio tecnico della razionalità strumentale, perché “demistifica” le cose naturali e rischia di toglierci la sola “fede” di cui l’uomo dovrebbe prendersi cura. Ci vuole “fede” per accettare la bellezza di un sorriso dell’amata o del canto di un uccello, quando invece il sapere lo riduce senza pietà a movimenti muscolari o a tecniche di sopravvivenza. E ci vuole coraggio e serenità per appagarsi di questa “fede” e gettare alle ortiche la cupa e opprimente dogmatica religiosa.