La ripetizione dell’uguale
La ripetizione non è la generalità. La ripetizione deve essere distinta dalla generalità in vari modi. Ogni formula che implichi la loro confusione genera imbarazzo: così quando diciamo che due cose si somigliano come due gocce d’acqua; o quando identifichiamo la formula “non si dà scienza che non sia del generale” e quella “non si dà scienza che di ciò che si ripete”. La differenza è di natura tra la ripetizione e la somiglianza, anche estrema. (DR, 7)
Questo primo capoverso di Differenza e ripetizione richiama l’inizio di Identità e differenza di Heidegger: sia Deleuze che il filosofo tedesco vogliono sottolineare la specificità dei concetti che usano (ripetizione e identità) per sottrarli al luogo comune. La ripetizione non ha nulla a che fare con ciò che è comune, non ha nulla a che fare con la ripetizione dell’uguale, perché ripetizione non è somiglianza. Due gocce d’acqua sono uguali, tutte le gocce d’acqua sono fra loro uguali: questo sembra autorizzarci ad affermare che ogni goccia d’acqua ripete ogni altra goccia d’acqua. Ricordiamo, nell’articolo precedente, la poesia di Baudelaire “I sette vecchi”: i vecchi, tutti uguali, si ripetono uno dopo l’altro, provocando nel poeta una sensazione di orrore.
Differenza numerica e sostituibilità
Ripetizione, in questo caso, è somiglianza, anzi, estrema somiglianza, uguaglianza. I termini di una ripetizione sono fra loro talmente uguali da renderli indifferenti, cosicché, di fronte a questa generalità, io posso comportarmi senza riguardo per i termini in gioco, dato che posso scambiarli l’uno con l’altro. Una goccia d’acqua vale l’altra, un vecchio vale l’altro, non hanno un’identità propria, ma sono identificati solo da un numero che potremmo chiamare numero di matricola (il vecchio n. 1, il vecchio n. 2, ecc.). Questa è la ripetizione dell’uguale, la ripetizione senza differenza, dal momento che una differenza puramente e solamente numerica sancisce, in realtà, l’estrema uguaglianza, l’indifferente succedersi dei termini, un’uguaglianza senza identità.
Fissiamo, allora, un primo punto: la ripetizione dell’uguale richiede l’indifferenza riguardo all’identità (o, meglio ancora, riguardo all’individualità) dei termini in gioco: ciò che ritorna, ciò che si ripete, non sono le cose considerate nella loro identità propria e nella loro intrinseca differenza l’una rispetto all’altra, ciò che ritorna è invece l’uguaglianza delle cose, dato che ogni termine della successione non esibisce se stesso ma la propria uguaglianza e indistinguibilità da ogni altro termine.
Ma che cos’è l’individualità di un oggetto? Che cosa significa affermare che la ripetizione dell’uguale disperde l’individualità-identità di una cosa, cioè il suo insostituibile differire da ogni altra? Una generica definizione di individualità potrebbe essere la seguente: l’individualità di un oggetto consiste in tutto ciò che lo determina nel suo essere, in modo tale che esso è proprio quell’oggetto e non un altro. Questa definizione, in realtà, dice poco, è tautologica, non chiarisce affatto che cos’è che fa di un oggetto proprio quell’oggetto. L’identità o individualità di un oggetto si afferma proprio in forza del suo essere differente da ogni altro e la differenza numerica non basta ad assicurare tale individualità, perché permette, come abbiamo visto, proprio ciò che si contrappone maggiormente all’individualità, la sostituibilità degli oggetti. Uguaglianza e identità non sono la stessa cosa: se rompo un bicchiere posso chiedere e ottenere un altro bicchiere uguale, ma lo stesso bicchiere non potrò più riaverlo. Nella mia richiesta di un bicchiere uguale a quello che ho rotto si esprime un atteggiamento di indifferenza sostanziale rispetto all’oggetto in quanto tale, ciò che mi importa è ritrovare le stesse caratteristiche in un altro oggetto, in un oggetto analogo: ciò che voglio non è l’oggetto, ma la funzione che l’oggetto svolge, il suo uso.
Deleuze definisce questo comportamento un comportamento di puro scambio: un bicchiere è equivalente a un altro, l’uno vale l’altro: il bicchiere è mero strumento che serve ad affermare l’equivalenza della funzione. E ciò che l’equivalenza sopprime è proprio la peculiarità delle cose. Lo mostra bene Marx considerando la funzione della moneta nell’economia capitalista: nell’economia mercantile semplice il denaro funge da merce di scambio, la merce si converte in denaro nell’atto della vendita e si riconverte in merce nell’atto di acquisto, ciò che rimane è la merce, il cui valore d’uso non si disperde nel valore di scambio; nell’economia capitalistica, invece, la merce è solo un termine di passaggio, un mezzo di scambio per la realizzazione di denaro, che si trasforma in capitale nel momento in cui viene a reinvestirsi in un altro processo produttivo. Il denaro è l’alfa e l’omega del processo produttivo, ma il denaro, a differenza della merce, non ha qualità intrinseche, non ha valore d’uso ma solo valore di scambio, è l’equivalente universale.
Continuiamo con l’esempio dei bicchieri: sul tavolo ci sono due bicchieri perfettamente uguali, il riconoscimento di tale stato di cose non crea problema alcuno. Ma in realtà che cosa riconosciamo quando affermiamo “sul tavolo ci sono due bicchieri uguali”? Osserviamo i bicchieri con la massima cura e non rileviamo fra loro nessuna differenza, sono così uguali che potremmo, in determinate circostanze, anche sbagliarci, formulando persino un falso giudizio di identità. Se si mette uno solo dei due bicchieri sul tavolo alla presenza di una persona che apre e chiude gli occhi, tale persona può legittimamente credere di vedere sempre lo stesso identico bicchiere e avrà ragione se nessuno, mentre ha gli occhi chiusi, scambia il bicchiere 1 con il bicchiere 2, avrà torto se invece lo scambio avviene. Che cosa impediva di formulare un falso giudizio di identità quando i due bicchieri erano sul tavolo? Solo il fatto che erano due. Due bicchieri possono essere confusi e ritenuti lo stesso bicchiere solo se li considero senza riguardo alla loro collocazione spazio-temporale: due bicchieri perfettamente uguali li posso distinguere perché ora, in questo momento, uno è a destra e l’altro è a sinistra e se si cambiassero di posto rimarrebbero ancora distinti, perché quello che prima era a destra ora è a sinistra e viceversa. Si dice che lo spazio-tempo funge da principium individuationis, ma non è così: è vero che è l’hic et nunc che fa di un oggetto un oggetto (a parità di ogni altra determinazione), ma non è lo spazio-tempo che fa di un oggetto quell’oggetto, tanto che di due oggetti distinti fra loro solo numericamente diciamo che sono perfettamente uguali, al punto da poter essere scambiati l’uno con l’altro. Non c’è alcuna ragione intrinseca per cui il bicchiere 1, perfettamente uguale al bicchiere 2 tranne che per il suo dove ed il suo quando, possa reclamare un’individualità, cioè un’insostituibile unicità. Allora, quando riconosciamo sul tavolo due bicchieri perfettamente uguali, in realtà dichiariamo i bicchieri sostituibili, scambiabili l’uno con l’altro e ciò che riconosciamo non sono i bicchieri in quanto tali, ma la loro uguaglianza.
Ebbene, Leibniz in questo caso dice: se due bicchieri sono perfettamente uguali, allora non c’è alcuna ragione perché siano due (principio degli indiscernibili): se tra due enti non esistesse la benché minima differenza, allora non vi sarebbe alcuna ragione per essi di essere effettivamente due, perché due cose non possono differire tra loro solo localmente o temporalmente, ma è necessario sempre che intercorra fra loro una differenza intrinseca. Due angoli uguali esistono solo in matematica, non nella realtà. Gli enti reali, allora, si diversificano e si individuano per qualità intrinseche e non per determinazioni estrinseche. Che significato ha, ai fini del problema che stiamo trattando, questo principio?
Il principio degli indiscernibili afferma una cosa molto importante: la molteplicità non deve trovare fuori di sé la ragione della propria individualità, l’essere è molteplice perché è intrinsecamente differente, perché è in sé singolare e individuale. Gli enti sono molteplici e, quindi, anche numericamente distinti, perché sono intrinsecamente distinti. Questa è anche la ragione della loro universalità: pensiamo alle monadi di Leibniz. L’essere è singolarità, non generalità: il molteplice non è ripetizione dell’uguale che si differenzia solo estrinsecamente (o apparentemente), ma è ripetizione del differente (o dello stesso), nel senso che ciò che si ripete è l’insostituibilità, la non scambiabilità delle cose fra loro.
Legge scientifica e generalità
Lo stesso discorso fatto per la somiglianza, il cui grado estremo è l’uguaglianza, può essere ripetuto per la generalità di cui gode la legge scientifica in rapporto agli eventi particolari che ne costituiscono l’oggetto. Si dà scienza solo di ciò che è generale. Uno dei criteri distintivi delle scienze della natura rispetto alle scienze dello spirito consiste, per Dilthey, nel fatto che le prime si occupano di ciò che è generale, mentre le seconde si occupano di ciò che è singolare. Secondo Windelband è nomotetica la scienza, perché si occupa della legge che regola gli eventi, è idiografica, invece, la storia, perché si occupa dei singoli eventi. Ancora: la scienza è generalizzante per Rickert e astratta per Comte, mentre la storia per il primo è individualizzante, per il secondo è concreta.
Sappiamo che il generale è il risultato di un processo di astrazione, consistente nel porre, nel tematizzare, la somiglianza fra le cose e nel considerare tale somiglianza, ciò che è fra loro comune, come la realtà vera, l’essenza delle cose, riducendo, così, le differenze a mera apparenza. Ora, dire che la scienza ha per oggetto il generale o dire che ha per oggetto ciò che si ripete è considerato sinonimo. In tal modo, se l’individuale è l’irripetibile, il generale è il ripetibile.
La generalità è dell’ordine delle leggi. Ma la legge determina soltanto la somiglianza dei soggetti che vi sono sottoposti, e la loro equivalenza a termini che essa designa. Lungi dal fondare la ripetizione, la legge mostra piuttosto come la ripetizione resterebbe impossibile per quei puri soggetti della legge che sono i particolari. Essa li condanna a mutare. Forma vuota della differenza, forma invariabile della variazione, la legge costringe i suoi soggetti a non illustrarla che a prezzo dei loro propri mutamenti. (DR, 8)
Come opera la sperimentazione scientifica? Come si può, attraverso un esperimento, giungere a formulare una legge generale? In che modo la scienza garantisce che ciò che la legge afferma vale sempre? L’esperimento è sempre artificiale, ma non per questo è arbitrario o artificioso. La scienza toglie il molteplice dal suo ambiente reale e lo porta in laboratorio, sostituisce alle coordinate fisiche le coordinate geometriche: seleziona, ordina, dispone. Le somiglianze, che rappresentano l’ordine di generalità entro cui l’empirico si presenta, diventano equivalenze, il nuovo ordine di generalità in cui si dà lo sperimentale. Pensiamo all’esperimento di Galileo sulla caduta dei gravi: nell’ordine dell’empirico la pietra e la piuma sono fra loro simili, in quanto entrambi corpi materiali, ma non certamente uguali, perché affetti da peculiarità che le differenziano profondamente. Tuttavia, facendo astrazione proprio da queste peculiarità, diventano, ai fini sperimentali, perfettamente uguali, riducendosi, tanto la pietra quanto la piuma, alla mera condizione di gravi, cioè di corpi sottoposti alla forza di attrazione terrestre. Grazie a questo processo di astrazione, Galileo può formulare la legge della caduta dei gravi: tutti i gravi, nel vuoto, cadono alla stessa velocità. Chiunque può ripetere l’esperimento, non solo, ma si possono cambiare anche i corpi: si otterrà sempre una conferma della legge.
Ma in questa generale validità della legge ciò che si ripete non è costituito affatto dai particolari corpi, che sono, anzi, irrilevanti e strumentali, ma dalla legge stessa, che a ogni ripetizione afferma se stessa contro e grazie all’indifferente succedersi dei particolari. Nell’esperimento i corpi particolari rappresentano proprio ciò che non resta, proprio ciò che non resiste, ciò che è condannato a sparire e a mutare, ciò che deve essere sostituito e scambiato, perché la conferma, la validità, la permanenza della legge è assicurata solo dalla possibilità di mutare i particolari. La legge è valida solo se si applica indifferentemente a ogni corpo, non importa quale. Se valesse solo per la pietra e la piuma, non sarebbe una legge scientifica. La legge, insomma, è l’Uguale che si afferma e permane nell’indifferente mutare dei particolari, è la forma della generalità, afferma se stessa proprio solo decretando l’irrilevanza dei particolari.
Dobbiamo domandarci in quali condizioni la sperimentazione assicuri una ripetizione. I fenomeni naturali si producono all’aria aperta, essendo ogni inferenza possibile entro vasti cicli di somiglianza: è in tal senso che tutto reagisce su tutto, e che tutto somiglia a tutto (somiglianza del diverso con sé). Ma la sperimentazione costituisce degli ambiti relativamente isolati, nei quali definiamo un fenomeno in funzione di un piccolo numero di fattori selezionati (due come minimo, ad esempio lo spazio ed il tempo per il moto di un corpo in generale nel vuoto). Non è il caso, perciò, di interrogarsi sull’applicazione della matematica alla fisica: la fisica è immediatamente matematica, dal momento che i fattori rilevati o gli ambiti chiusi costituiscono altrettanti sistemi di coordinate geometriche. In tali condizioni, il fenomeno appare necessariamente come uguale ad una certa relazione quantitativa tra fattori selezionati. Si tratta dunque, nella sperimentazione, di sostituire un ordine di generalità a un altro: un ordine di uguaglianza a un ordine di somiglianza. Si disfanno le somiglianze per scoprire una uguaglianza che consente di identificare un fenomeno nelle condizioni particolari della sperimentazione. Qui la ripetizione non appare che nel passaggio da un ordine di generalità all’altro, affiora in virtù e nel momento di tale passaggio. (DR, 9-10)
Ancora una volta, dunque, la ripetizione come generalità è ripetizione dell’uguale e indifferenza verso il singolare, verso l’individuale.
La ripetizione del differente
La ripetizione di cui parla Deleuze è, invece, tutt’altra, perché è ripetizione del differente e affermazione del molteplice. Perciò scrive:
Al contrario, noi vediamo che la ripetizione non è una condotta necessaria e fondata se non in rapporto a ciò che non può essere sostituito. La ripetizione come comportamento e come punto di vista concerne una singolarità impermutabile, insostituibile. (DR, 7)
Ripetere è comportarsi, ma in rapporto a qualche cosa di unico o di singolare, che non ha uguale o equivalente. E forse codesta ripetizione come condotta esterna riecheggia per proprio conto una vibrazione più segreta, una ripetizione interiore e più profonda nel singolare che la anima. La festa non ha altro paradosso apparente: ripetere un “irricominciabile”. Non aggiungere una seconda e una terza volta alla prima, ma portare la prima volta all’ennesima potenza. Sotto tale rapporto della potenza, la ripetizione si rovescia interiorizzandosi; come dice Péguy, non è la festa della Federazione a commemorare o rappresentare la presa della Bastiglia, ma è la presa della Bastiglia che festeggia e ripete per prefigurazione tutte le Federazioni; oppure è la prima ninfea di Monet che ripete tutte le altre. Sono dunque in opposizione la generalità, come generalità del particolare, e la ripetizione come universalità del singolare. (DR, 7-8)
La ripetizione concerne, dunque, una singolarità irripetibile: mentre negli esempi finora visti le differenze dovevano confermare l’identità mostrandosi irrilevanti, Deleuze richiede che sia l’identità a confermare le differenze, perciò sostiene l’uguale dignità ontologica di ogni differenza. Per riprendere l’esempio dei bicchieri: è profondamente diverso volere un bicchiere uguale a un altro o volere proprio lo stesso bicchiere: solo in quest’ultimo caso voglio ciò che è unico, ciò la cui perdita non è risarcibile.
Differenze intrinseche e singolarità
Deleuze ci propone come esempio di ripetizione della differenza la festa, ma andrebbe altrettanto bene l’esecuzione di una sinfonia: quando un direttore d’orchestra dirige una sinfonia, non riproduce certamente un significato artistico dato una volta per tutte, non è un pedissequo interprete della volontà autorale, ma non è nemmeno un arbitrario manipolatore di significati, libero di “tradire” come vuole un’opera d’arte che gli preesiste e che attraverso di lui deve rivivere. Ogni nuova interpretazione è una ripetizione, ma non è una replica.
Così la festa si caratterizza per le ricorrenze, ma le ricorrenze non sono repliche. La festa è un paradosso, perché ripete un irricominciabile, ma è un paradosso apparente. La ripetizione della festa non aggiunge evento a evento, ma intensifica l’unico evento. Il modo in cui la festa si celebra sta a indicare che a essa appartiene una propria temporalità, diversa da quella quotidiana dello scorrere indifferente del tempo. Nell’elemento festivo, nella celebrazione, l’evento non è semplicemente rappresentato, rievocato come un fatto avvenuto in un’epoca ormai remota, ma è una presenza eminente. È lo stesso evento che la celebrazione riguarda, non una sua copia uguale. Perciò ricordo e presenza nella festa sono una cosa sola. La festa del Natale, ad esempio, per un cristiano dovrebbe essere molto di più del ricordo della nascita di Gesù Cristo, che, come evento, risale a due millenni fa. Ogni Natale, misteriosamente, è contemporaneo con quel lontano presente.
La ripetizione è il comportamento che si tiene davanti al singolare nella sua unicità e irripetibilità: voglio la cosa stessa, non il suo concetto, voglio il Natale, non il suo ricordo. Ecco perché l’intelletto è l’organo degli scambi e del generale, mentre il luogo della ripetizione è la memoria, non come rievocazione, ma come cura amorosa della cosa o dell’evento. Mentre la ripetizione indifferente è una conferma della legge, la ripetizione differente è, invece, un “miracolo” ed è, quindi, contro la legge perché afferma il singolare, del quale non può esserci legge. Il singolare “smentisce”, trasgredisce la legge, non negandola, ma prescindendo da essa. Contro la legge, la ripetizione esprime la singolarità. La ripetizione è, dunque, trasgressione radicale: non contesta un contenuto specifico della legge, ma pone in questione la legge stessa, denunciandone il carattere astratto in nome di una realtà più profonda e concreta.
La ripetizione indifferente instaura l’ordine della legge, sia della legge di natura che della legge morale: la legge è nómos, tracciamento di confini, assegnazione di territori: la legge decide il reale e l’apparente (la legge di natura ci assicura che ciò che i nostri sensi percepiscono non è il reale), il vero e il falso (compito delle leggi logiche), il giusto e l’ingiusto (la legge morale decide su ciò che è lecito e ciò che non lo è). Senza la legge ogni evento sarebbe un mero fatto, un puro accadere senza senso. La legge, come ciò che permane sempre identico, dà o toglie consistenza ontologica alle cose, le quali solo alla sua luce possono manifestarsi. Ma proprio per questo le cose non sono che “illustrazioni” della legge, semplici esemplari in sé indifferenti, differenti solo nella legge.
La perdita irreparabile della differenza (La morte di Ivàn Il’ìc di Lev Tolstoj)
In quella straordinaria meditazione sull’esistenza che è il racconto di Lev Tolstoj, La morte di Ivàn Il’ìc, c’è un impressionante scontro fra legge astratta e vita concreta, fra la scambiabilità degli uguali e l’insostituibilità dello stesso.
Ivàn II’ìc è un uomo che, come molti, ha vissuto salendo o scendendo lungo i gironi di quella normalità che oggi definiremmo borghese: gli anni di studio, la conquista del posto, il matrimonio con la donna giusta al momento giusto, una decorosa vita familiare, rapporti sociali convenzionali. Raggiunto il vertice delle sue ambizioni, viene improvvisamente colpito da una grave malattia che lo porta verso la morte. La malattia turba illegalmente l’ordine implicito della sua vita, rendendolo cosciente della solitudine in cui si trova e della menzogna in cui ha trascorso tutta la sua vita. Tenta di rintracciare, ripercorrendo a ritroso la propria vita, i segni di un’identità individuale che gli consenta di prendere le distanze dal Caio di un celebre e minaccioso sillogismo: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale. Cosa può distinguerlo da Caio, cosa può sottrarlo alla morte logica, alla morte dell’uomo in generale?
Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizewetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso.Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja,, con la mamma, il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale? (L. Tolstoj, La morte di Ivàn Il’ìc, Garzanti, Milano, p.105)
Non è tanto sul pathos esistenziale di questo brano che dobbiamo porre l’attenzione, quanto sulla dignità ontologica di Ivàn, continuamente riaffermata, sull’unicità della sua esistenza, irreparabilmente persa con la morte, proprio ciò che la legge logica del sillogismo elementare misconosce o depotenzia in nome di un generico Caio, l’uomo in generale che può morire tutte le volte che si vuole, senza che nulla si perda. La ripetizione rovescia la legge, non trasgredisce a un suo contenuto: i grandi criminali o i grandi peccatori sono, al pari dei grandi santi e dei grandi moralisti, i migliori difensori della legge: esistono grazie a essa.
La ‘resistenza alla legge’ di Giobbe e di Abramo
La ripetizione è disobbedienza alla legge, non a una sua prescrizione, una protesta che può assumere il rigore ironico di un Giobbe o la minuziosità “umoristica” di un Abramo: il primo non si piega alla legge generale che vuole che tutti gli uomini siano colpevoli e, implicitamente, costringe Dio, la legge, a riconoscere l’ingiustizia che per affermarsi compie contro la creatura, il secondo, sottoponendosi agli ordini che la legge gli impone (“Va’ nel luogo che Io ti indicherò e sacrifica il tuo unico figlio”), eseguendo alla lettera l’ordine che ha ricevuto (fa lo sciopero bianco contro Dio, come un impiegato contro la burocrazia) costringe Dio a fermarlo e a negarsi, a giustificarsi dicendo “Fermati! Volevo solo metterti alla prova”.
Se la ripetizione è possibile, lo è tanto contro la legge morale, quanto contro la legge di natura.Si conoscono due maniere di rovesciare la legge morale. O, risalendo ai princìpi, si contesta l’ordine della legge come secondario, derivato, mutuato, generale; si denuncia nella legge un principio di seconda mano, che devia una forza o usurpa una potenza originali. Oppure, al contrario, la legge è tanto meglio rovesciata quanto più si discende verso le conseguenze, sottomettendovisi con una minuzia troppo perfetta: è a forza di sposare una legge che un’anima falsamente sottomessa giunge ad aggirarla e a gustare quei piaceri che si presumevano proibiti, come ben si vede in tutte le dimostrazioni per assurdo, negli scioperi bianchi, ma anche in taluni comportamenti masochisti di derisione per sottomissione. La prima maniera di rovesciare la legge è ironica, e l’ironia vi appare come un’arte dei princìpi, del ritorno verso i princìpi, e del rovesciamento dei princìpi. La seconda è lo humour, che è un’arte delle conseguenze e delle discese, delle sospensioni e delle cadute. … La ripetizione appartiene allo humour e all’ironia; essa è per natura trasgressione, eccezione, poiché esibisce sempre una singolarità contro i particolari sottomessi alla legge, un universale contro le generalità che fanno legge. (DR, 12)
Giobbe è la contestazione infinita, Abramo la rassegnazione infinita, ma essi sono la stessa cosa. Giobbe pone in questione la legge, in maniera ironica, rifiuta tutte le spiegazioni di seconda mano, esautora il generale per rivolgersi al più singolare come principio, come universale. Abramo si sottomette umoristicamente alla legge, ma ritrova appunto in questa sottomissione la singolarità del figlio unico che la legge comandava di sacrificare. (DR, 14-15)
Quando la legge, in forza della ripetizione di una singolarità, è smascherata come ingiusta o come assurda e incomprensibile, allora essa dice: “le mie disposizioni non sono vere, non valgono, servivano solo per metterti alla prova”. Sia Giobbe che Abramo sono tentati, sono messi alla prova: se anche per loro la legge vale e si afferma, allora essi sono uguali agli altri, sono come tutti gli uomini, sono in quanto la legge li riconosce e come la legge li conosce. Solo la singolarità che resiste alla legge può affermarsi. Gesù, tentato nel deserto, resiste, resta se stesso, non è uguale a tutti gli altri uomini che cedono alle lusinghe del potere, della ricchezza, della lussuria, diventando tanti esempi di uomini comuni, di uomini in generale, esempi di come la legge valga per tutti.
Il peccato originale: la ‘resistenza’ di Adamo ed Eva
La ripetizione è disobbedienza alla legge e affermazione della singolarità: forse è questo il senso profondo del peccato originale. Non indica tanto l’acquisizione della coscienza e l’uscita dell’uomo dallo stato naturale, il peccato non consiste tanto nell’aver mangiato il frutto della conoscenza, perché, se così fosse, il peccato sarebbe perdonabile, dato che la legge ha il potere di perdonare la trasgressione a un suo comandamento. Ma Dio, la Legge, non può perdonare il peccato di Adamo ed Eva: messi alla prova, non hanno ceduto, hanno resistito, non si sono comportati come ci si dovrebbe aspettare che si comporti ogni essere che è stato creato buono (tutto ciò che Dio ha creato è buono, lo prova la vita deliziosa del paradiso terrestre, dove la legge divina trova conferma perché ogni cosa le risponde). Adamo ed Eva resistono, affermano la propria singolarità contro la generale validità della legge. Adamo ed Eva vogliono se stessi, la loro unicità, la loro insostituibilità, la loro umanità, la loro finitezza, la loro mortalità. E con la loro mortalità vogliono tutti gli uomini e il molteplice che dopo di loro e grazie a loro verrà. Sapevano di dover morire ed è proprio ciò che hanno voluto, perché volere sé e la propria unicità è volere tutti i sé che verranno. La cacciata dal paradiso terrestre è l’uscita dalla generalità, dal luogo dove vige la legge (l’uguale): l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, non somiglia affatto alla Legge, perde la somiglianza e, copia senza modello, simulacro, si ritrova nella sua umanità, finita ed insostituibile. Ma forse è Dio che viene rinchiuso nel Paradiso, non l’uomo che ne viene cacciato: se vorrà uscirne, Dio dovrà accettare, volere, subire, vivere ciò che hanno voluto Adamo ed Eva, dovrà farsi uomo e morire.
Ripetizione è differenza
Suona l’Eterno Ritorno: qualunque cosa tu voglia, voglila in maniera tale che tu possa volerne anche l’eterno ritorno. (DR, 15)
L’Eterno ritorno vuole la singolarità insostituibile: questo non significa volere l’eternità della stessa cosa, ma volere la cosa per se stessa, dato che “questa cosa” non ha equivalente. La ripetizione senza identità (o ripetizione differente) è anche la ripetizione senza equivalente, affermazione del molteplice non scambiabile, perché il suo essere è gratuito (un dono, un furto, un gioco, mai una merce, un dato, un concetto). Ripetizione è differenza, non equivalenza. Ogni cosa è differente perché non può essere scambiata con nulla, perché non esiste misura comune, perché non c’è una legge, un’identità a cui ricondurla. Ma c’è un senso in questa dispersione, oppure il molteplice è condannato a un atomismo irrelato, muto e caotico? Come si può sfuggire all’insensatezza dell’assoluta equivocità del molteplice, una volta che si è rifiutata la soluzione analogica di un’identità eminente e trascendente che sta a fondamento di un mondo ridotto a una dignità ontologica derivata?
Deleuze propone un corto circuito ontologico: il diretto collegamento fra equivocità e univocità, un corto circuito che porta all’ossimorica definizione della sua filosofia come empirismo (= equivocità) trascendentale (= univocità), come pensiero del molteplice. Naturalmente, come il mondo non è più la copia della legge, dell’idea, ma simulacro, così il pensiero non è più il pensiero categoriale. L’univocità ontologica e l’equivocità predicamentale è l’ardita soluzione di Deleuze a questo problema.