Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Deleuze – 7. Univocità – Equivocità: Il corto circuito ontologico

L’essere come rappresentazione e l’essere come espressione

La storia della filosofia si è trovata fin dal suo inizio (con Parmenide) davanti al paradosso dell’univocità dell’essere: se l’essere si dice in un solo e stesso senso, tutta la varietà del mondo sensibile non è che apparenza. Solo l’essere è, nella sua pienezza, immutabilità e indeterminazione. L’alternativa a una concezione ontologica così monolitica non è meno paradossale: la pura dispersione del molteplice, l’assoluta equivocità, l’irrelata e caotica pluralità di determinazioni senza senso o aperte a un qualunque senso arbitrario.

La dottrina dell’analogia entis media questi due estremi: da un lato, apre l’essere al diverso, sottraendolo al rischio del puro nulla, dall’altro, mette ordine nel caos delle determinazioni equivoche fornendo a esse una misura comune. Platone e Aristotele sono i grandi artefici di questa operazione: il primo traccia i confini entro i quali è lecito pensare, determina il tópos dove il pensiero ha per oggetto l’essere e i suoi fenomeni, le sue immagini, le sue copie legittime, seleziona e decide la fondatezza della pretesa, per questo il suo pensiero è a rischio, dato che si confronta sempre con l’altro da sé, con la sua impotenza, con l’indeterminato; il secondo, invece, opera entro confini già tracciati, mette ordine, organizza, classifica, divide l’essere in categorie, il suo rischio non è l’impotenza, ma l’errore. I confini che Platone traccia ed entro i quali Aristotele costruisce il suo sistema sono il recinto al cui interno vive la differenza addomesticata, la giusta differenza, né troppo piccola, perché cadrebbe nell’assenza di differenze dell’indeterminato e dell’univoco, né troppo grande, perché porterebbe al caos della mera diversità o dell’alterità irrelata.

L’indifferenza: sorte comune dell’indeterminato e del caotico

L’indifferenza è la sorte comune dell’indeterminato e del caotico. Al di qua, nel troppo piccolo, e al di là, nel troppo grande, c’è l’impensabile, il mostro da cui ci si deve difendere. Il Piccolo e il Grande, l’univoco e l’equivoco, non possono avere alcun contatto immediato tra loro, nessun discorso sensato può prodursi dall’incontro dell’inarticolata voce della sinonimia con la disarticolata voce dell’omonimia. Solo la mediazione fra l’univoco e l’equivoco, cioè l’analogico, permette alla voce dell’essere di articolare il suo senso.

Deleuze rintraccia però un’altra storia, che parla di un nesso immediato, diretto, fra l’essere e le sue determinazioni e, secondo la quale, il molteplice (l’equivocità predicamentale) è esso stesso l’essere (l’univocità ontologica) o, meglio, il suo distinguersi. Potremmo chiamare questa storia, della quale tre protagonisti sono Duns Scoto (l’univoco pensato), Spinoza (l’univoco affermato) e Nietzsche (l’univoco realizzato) la storia dell’essere e delle sue espressioni e contrapporla a quella della tradizione metafisica dominante, storia dell’essere e delle sue rappresentazioni.

Il primo capitolo di Differenza e ripetizione contrappone queste due storie e lo fa per riparare all’ingiustizia di un pensiero filosofico che fin dal suo inizio ha considerato la differenza come ingiustizia, la determinazione come colpa, negandosi così la comprensione effettiva del concetto di differenza, del concetto capace di pensare la differenza in sé, per affermare solo la differenza nel concetto, la differenza specifica, di un pensiero filosofico che ha ridotto il mondo a rappresentazione (ripetizione dell’uguale, sussunzione del particolare al generale, mondo in cui solo le somiglianze differiscono) perdendo il mondo come ripetizione (ripetizione del differente, universalità del singolare, mondo in cui non ci sono altro che differenze che si assomigliano, perché tutte esprimono lo stesso essere). È una grande pagina di filosofia che merita di essere attentamente analizzata.

L’indifferenza ha due aspetti: l’abisso indifferenziato, il nero niente, l’animale indeterminato in cui tutto è dissolto; e insieme il bianco niente, la superficie ridivenuta calma in cui fluttuano determinazioni slegate, come membra sparse, teste decollate, braccia prive di spalla, occhi senza fronte. L’indeterminato è del tutto indifferente, ma le determinazioni fluttuanti non lo sono meno le une rispetto alle altre. Bisogna chiedersi se la differenza funge da intermediaria tra codesti due estremi. Oppure non è essa il solo estremo, il solo momento della presenza e della precisione? (DR, 43)

Riconosciamo in questo brano le categorie filosofiche di cui ci si siamo serviti prima: il nero niente, l’indiscernibile, è l’indeterminato, l’assoluta univocità, la bêtise, l’animale che sempre minaccia il pensiero, il senza-fondo; il bianco niente, invece, è il caotico, l’inconfrontabile, il disarticolato, l’assoluta equivocità, l’insensatezza che fa da pendant alla bêtise, alla stupidità. Sia l’indeterminato che il caotico sono indifferenti, o così appaiono. Che l’indifferenza abbia i due aspetti dell’indeterminazione e del disordine, che sia uno stato che richiede un intervento determinante (di separazione, un lógos diairetico) e gerarchizzante (di ordine e subordinazione, un lógos legislativo) non viene affermato solo nell’astrattezza teorica del pensiero filosofico. Gran parte delle cosmogonie sottolineano tale duplicità dell’indifferenziato, valga per tutte Genesi I,2 : la terra era aóratos (non visibile, nel senso di essere un tutto indistinto, tohù è il termine ebraico, che significa massa informe) e akataskeúastos (kataskeuázo significa fabbricare, costruire, organizzare, quindi il termine greco con l’alfa privativo indica il disorganizzato, lo scombinato, bohù è il termine ebraico, che si adopera per designare ciò che è in uno stato di disordine e di confusione; è significativo che i due termini ebraici, che hanno in sé sensi diversi, l’informe e il disorganizzato, condividano anche il comune significato di deserto e di indifferenza).

Differenza come mediazione e differenza come estremo

Se questa è l’indifferenza, quale sarà lo statuto della differenza? Deleuze ci pone di fronte a un’alternativa: la differenza è qualcosa di intermedio fra i due stati dell’indeterminato e del caotico, il giusto mezzo fra due estremi, la mediazione fra l’univoco e l’equivoco (analogia), fra l’assenza di differenze e l’anarchia delle differenze, per cui “la differenza è lo stato in cui si può parlare della determinazione”, l’ambito entro il quale è lecito e sensato il discorso; oppure essa è il solo estremo, il momento in cui la determinazione si presenta, cioè “lo stato della determinazione come distinzione unilaterale”? Nella prima prospettiva ci sono due estremi, l’informe e il caotico, il Piccolo e il Grande, e uno spazio intermedio occupato dal determinato, dall’ordinato, dal misurato: la differenza è il limitato, è un territorio bonificato e assegnato, un territorio in cui opera un nómos sedentario (v. DR, 54); nella seconda prospettiva c’è un solo estremo, ed è appunto la differenza, che non ha, pertanto, bisogno di mediazione, ed è, precisamente, ciò che determina, ciò che distingue, perciò la differenza è il limitante, il determinante ed esprime l’azione di un nómos nomade (v. DR, id.).

Consideriamo due cose che differiscono fra loro in modo empirico: due bicchieri, uno grande e uno piccolo, oppure uno di vetro e uno di plastica, o uno di vetro lavorato e uno di vetro liscio. A partire da una somiglianza di fondo, cioè da ciò che hanno in comune, si rilevano determinazioni particolari che li differenziano. Se due cose o due enti qualunque hanno invece in comune solo il fatto di essere due, si parla allora di indifferenza, che può assumere l’aspetto dell’assoluta uguaglianza (due bicchieri uguali: tutte le determinazioni dell’uno sono uguali a quelle dell’altro) o dell’assoluta diversità (il bradipo e i due volumi Laterza della Scienza della logica di Hegel: non c’è alcuna misura comune fra le determinazioni dell’uno e quelle dell’altro oggetto, sono pertanto oggetti estranei). La differenza empirica, come differenza fra due enti, fra due oggetti, è quella che Heidegger definisce differenza ontica ed è, dunque, di tre tipi: l’uguaglianza, la diversità e la differenza propriamente detta.

Determinazione, singolarità, fondo

L’uguaglianza e la diversità non permettono alcun discorso riguardo alle determinazioni: nel primo caso perché non c’è distinzione, nel secondo perché non c’è confronto. Solo la differenza propriamente detta assegna uno statuto legittimo alle determinazioni, perché queste possono risaltare su uno sfondo comune. Ma la differenza ontica o empirica non è l’unico riguardo sotto il quale la differenza può essere considerata. Infatti:

… in luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa che si distingua, eppure ciò da cui si distingue non si distingua da essa. Il lampo per esempio si distingue dal cielo nero, ma deve portarlo con sé, come se si distinguesse da ciò che non si distingue. Si direbbe che il fondo sale alla superficie, senza cessare di essere fondo. C’è qualcosa di crudele, e anche di mostruoso, da una parte e dall’altra, in questa lotta contro un avversario inafferrabile, in cui il distinto si oppone a qualcosa che non può da esso distinguersi, e che continua a coniugarsi con ciò che da esso si separa. (DR, 43)

Il lampo si distingue dal cielo nero, ma il cielo nero non si distingue dal lampo, così come le onde si distinguono dal mare, ma il mare non si distingue dalle onde: sono metafore e vanno prese per il loro valore illustrativo, tuttavia esse mettono in evidenza che questa differenza non riguarda due enti, non è ontica o empirica, ma riguarda una cosa e il suo distinguersi, un distinguersi che è un portare con sé ciò da cui si distingue. Questa differenza ha molte analogie con il concetto di differenza ontologica fra essere ed ente, secondo la quale l’ente, per manifestarsi, porta con sé l’essere e lo nasconde nella sua presenza. È una differenza reale, perché il mare e l’onda non sono la stessa cosa, non sono fra loro uguali, ma non è una differenza numerica, perché è la stessa cosa che si distingue.

La differenza ontica ha due piani impresentabili nel senso letterale del termine, che non possono apparire, l’indeterminato e il caotico, l’uno diventa l’infinitamente determinabile, l’altro costituisce la congerie di determinazioni, il primo diventa il fondo, o fondamento, in sé indistinto, ma recettivo, aperto a tutte le determinazioni, l’altro rappresenta l’insieme degli accidenti, eterogenei fra loro e insussistenti in quanto tali, ma attribuibili al subjectum, al fondo indeterminato, e, quindi, da esso unificati e organizzati. Ciò che risulta è un presentabile, il sinolo di materia e forma, la cosa determinata. Se ben guardiamo, nell’ente individuale avviene, secondo questa prospettiva, la rinuncia sia all’univocità (all’identità) che all’equivocità (alla differenza), lasciate in quanto tali fuori dal mondo e fatte coincidere solo in Dio, in favore di una soluzione di compromesso che rende secondaria, derivata (creata) l’identità e apparenti, inessenziali, accidentali le differenze. Totalmente altro, invece, è il caso della differenza ontologica, perché ora:

(il fondo) ha cessato di essere il puro indeterminato che resta al fondo, ma anche le forme cessano di essere determinazioni coesistenti o complementari. Il fondo che risale non è più al fondo, ma acquista un’esistenza autonoma; la forma che si riflette nel fondo non è più una forma, ma una linea astratta che agisce direttamente sull’anima. (DR, 44)

La determinazione ora non è più un accidente che affetta l’indeterminato, un qualcosa di estrinseco che si aggiunge a un fondo indifferente. Al contrario, essa porta nella propria singolarità finita l’aóratos del fondo, consegnando il fondo e il fondamento alla precarietà della superficie. La determinazione coinvolge nel suo destino l’indeterminato: ecco il corto circuito ontologico produttore di “mostri”.

L’indeterminato come le determinazioni vengono a confondersi in una sola determinazione che “fa” la differenza. Per produrre un mostro, è una formula insufficiente accumulare determinazioni eteroclite o iperdeterminare l’animale. Molto meglio far emergere il fondo dissolvendo la forma. … Non è detto che sia soltanto il sonno della Ragione a generare mostri: esiste anche la veglia, l’insonnia del pensiero. Il pensiero è quel momento in cui la determinazione si fa una, a forza di sostenere un rapporto unilaterale e preciso con l’indeterminato. Il pensiero “fa” la differenza, ma la differenza è il mostro. Non ci si deve stupire che la differenza appaia maledetta, colpa o peccato, figura del male promessa all’espiazione. Non si dà altro peccato che quello di far salire il fondo e dissolvere la forma. (DR,54-55)

Come hanno ben capito i surrealisti, come ben dimostra Caillois nel suo bel libro Nel cuore del fantastico, ciò che inquieta e, in fin dei conti, ciò che è significativo, non è la coerenza, l’ordine, la figura ben disposta o sintatticamente corretta, sia che si tratti di un’immagine normale, sia che si tratti di un’immagine fantasiosa, di un’immagine realistica o di un’immagine arcimboldesca, perché una simile figura ha una grammatica che la rende prevedibile, leggibile, perché è sistematica, determinata, è una figura in cui le differenze sono riconoscibili e che ha irrigidito il processo di figurazione nella forma finita (Bachelard direbbe: è l’immagine formale che ha catturato e spento la produttività dell’immaginazione materiale), ciò che inquieta è, invece, l’emergere del fondo nel tessuto ordinato della superficie, il pervertirsi della forma sotto l’azione di ciò che l’ha prodotta, il disfarsi-dissolversi di tutte le determinazioni nella “determinazione”, che è il determinarsi del fondo, l’aspetto o il senso della cosa, quella determinazione (effetto di superficie) che è la fusione del fondo e delle particolarità.

La differenza in sé

Questa determinazione mostruosa, impura, peccaminosa è la differenza in sé (la determinazione nell’indeterminato) ed è il pensiero che affronta, sfida e si impadronisce (porta con sé) l’animale.

Occorre che il pensiero, come determinazione pura, come linea astratta, affronti il senza fondo che è l’indeterminato. L’indeterminato, il senza fondo, è di fatto l’animalità propria del pensiero, la genitalità del pensiero: non questa o quella forma animale, ma la stupidità.  … si può dire che il pensiero è la determinazione più alta, in quanto resta di fronte alla stupidità come all’indeterminato che gli è adeguato. La stupidità (non l’errore) costituisce la più grande impotenza del pensiero, ma anche la fonte del suo più alto potere in ciò che lo costringe a pensare. Questa è la prodigiosa avventura di Bouvard e Pécuchet, o il gioco del non senso e del senso: l’indeterminato e la determinazione restano uguali senza avanzare, l’uno sempre all’altra adeguato. (DR, 353-354)

La differenza, dunque, non è la cosa determinata, ma la determinazione, il punto preciso in cui il determinato mantiene il suo rapporto essenziale con l’indeterminato. Fin dalla più antica filosofia la differenza è maledetta e il pensiero cerca di difendersi da essa, perché la differenza rappresenta un rischio, non tanto quello di perdersi nell’indeterminato, quanto quello del perdersi dell’indeterminato nella finitezza della determinazione. Il fondo inquieta e scompone la superficie, assegna a ogni particolarità la sua voce e ogni volta tale voce si dà tutta in una particolarità. “Tutto è uguale” dice il fondo, “tutto torna” in ogni particolarità del molteplice. Ma questo, scrive Deleuze, a conclusione di Differenza e ripetizione si può dire solo laddove sia stato raggiunto il punto estremo della differenza, cioè solo laddove la differenza sia stata pensata nel suo concetto proprio..

Soltanto allora è possibile una sola e medesima voce per tutto il multiplo dalle infinite vie, un solo e medesimo Oceano per tutte le gocce, un solo clamore dell’essere per tutti gli essenti. Ma occorre che per ogni essente, per ogni goccia e in ogni via, si sia toccato lo stato di eccesso, cioè la differenza che li sposta e traveste, e li fa tornare, ruotando sulla sua mobile estremità. (DR, 388)

 

Il primo Sonetto a Orfeo di Rilke

Il primo dei Sonetti a Orfeo di Rilke ci dà un’immagine poetica della differenza in sé e della sua forza genesica: in una determinazione si dà tutto l’essere e in quella determinazione, singolarissima e universalissima a un tempo, si genera il mondo, la sua molteplicità. La determinazione, la massima chiusura e particolarità per un pensiero del generale, diventa il luogo in cui le forme che emergono infinite e inesauribili dal caos trovano la loro verità, lo spazio del loro apparire, perché nella determinazione è il fondo stesso che si dà. Quello spazio, che è un puro indifferenziato e indeterminato per il pensiero categoriale, è, invece, un fondo gremito di differenze (la molteplicità e la virtualità dell’Idea), che in ogni determinazione si dona senza risparmio e che ogni determinazione ruba e con gioia crudele disperde.

Lì si levò un albero. Oh puro sovrastare! Orfeo canta! Grandezza dell’albero in ascolto! E tutto tacque. Ma proprio in quel tacere avvenne un nuovo inizio, cenno e mutamento. Animali di silenzio irruppero dal chiaro bosco liberato, da tane e nascondigli e si capì ch’essi, non per astuzia o per terrore in sé eran sì sommessi, ma per l’ascolto. Rùglio, grido, bramito parve piccolo nel loro cuore. E dove quasi non v’era che una capanna al suo ricetto, un anfratto delle più scure brame ordito, con un àdito dagli stipiti sconnessi, tu creasti per loro un tempio nell’udito. (I,1)

Nella singolarità dell’albero, nella sua presenza, si esprime il sovrastare: il sovrastare è albero, la determinazione porta con sé, nella sua singolarità, anzi in forza della sua singolarità, tutto il sovrastare, ogni altro sovrastare. L’albero dà voce e forma all’indeterminato sovrastare. È in questa forma singola che l’essere irrompe, che l’essere trova lo spazio per donarsi a tutte quelle forme che verranno, perché la determinazione, il dono che l’indeterminato fa di sé, è la promessa di tutte le determinazioni, dell’inesauribile ricchezza dell’essere. Ma il dono è anche un furto perché la determinazione si impadronisce dell’indeterminato come della propria unica possibilità d’essere. L’albero è un distinguersi del sovrastare, un dono del sovrastare, ma il sovrastare non si distingue dall’albero, che anzi lo incorpora in sé. L’albero e il sovrastare non si assomigliano, l’albero non è una copia del sovrastare, fra loro non c’è alcun rapporto mimetico, l’albero è un’immagine senza somiglianza del sovrastare, un simulacro, è il sovrastare senza che ci sia un sovrastare al di fuori di esso.

Solo così la singolarità è autentica: essa non rappresenta alcuna idea, ma è l’idea stessa che si esprime. Se il peccato originale non fosse stato commesso non ci sarebbe stata alcuna singolarità capace di raccogliere in sé il senso dell’essere, nessuna frattura nell’ordito perfetto della creazione, troppo buona per essere vera, nessun ente, come l’albero di Orfeo, disposto all’ascolto dell’essere, a lasciare che il mondo sia. L’albero, l’uomo, Dio non sono (le differenze non sono), è l’Essere che è albero, uomo, Dio (l’Essere è differenza).

La maledizione della differenza

Ma la differenza viene maledetta perché svela la finitezza dell’essere, la sua costitutiva molteplicità: il sapere della differenza è un sapere tragico, la determinazione coinvolge nel suo destino l’indeterminato, il suo imporsi è genesico, ma anche mortale, mostro nel suo essere tutto e niente. La differenza si libera dall’uniformità edenica per entrare subito nel buio della caverna, dalla quale solo la filosofia può liberarla: la determinazione deve cessare il suo gioco tragico e metamorfico, le determinazioni devono collegarsi e coordinarsi con altre determinazioni, assumersi integralmente l’accidentalità e il destino di finitezza, lasciando il fondo nella sua immobile quiete, nella sua assoluta identità e immutabilità. Attribuite a questo fondamento, limitate dai pericoli dell’univoco e dell’equivoco, le determinazioni, molteplici, riflettono, rappresentano, grazie all’organicità del loro disporsi, l’uno che le sostanzia. Questa è l’operazione metafisica, rendere pensabile, sopportabile, la differenza, riconciliarla con il concetto, sottrarla ai pericoli e alle seduzioni del brutto incontro e della cattiva occasione e salvarla nella rassicurante veste del riconoscimento.

Il Sileno e il Serpente

Due brutti incontri? Il Sileno, che svela a re Mida e, per suo tramite, al Greco la tragicità dell’essere:

Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto.

Oppure il Serpente, che svela all’uomo il suo destino divino e mortale a un tempo. Da questi due brutti incontri nascono l’eroe tragico e l’uomo esiliato o nomade, due figure della differenza che periranno sotto i colpi mortali della metafisica. Il primo dà luogo alla sua rappresentazione parodistica, il dialettico, l’homo socraticus, il secondo all’uomo di mondo. La metafisica traccia i confini del mondo, disegna lo spazio entro il quale l’uomo può vivere e conoscere e pone i mostri (il Serpente e il Sileno) al di là di questa casa dell’uomo, progetta un mondo abitabile, ordinandolo e illuminandolo con la luce del sapere filosofico. In questo luogo protetto l’uomo può credere all’eternità dell’essere, che rimane trascendente e non più affetto dalle determinazioni, ridotte a meri accidenti che colpiscono solo le copie, gli analoga dell’essere, gli enti finiti, ma può credere che anche lui stesso, in quanto simile all’essere primo, sia destinato all’immortalità.

La metafisica come formazione reattiva

La metafisica è una formazione reattiva: la differenza, nella sua immediata evidenza, è il male perché tradisce (lascia trasparire) il fondo, lo consegna alla finitezza. Tuttavia, la differenza c’è. Si può sostenere che è mera illusione (eleatismo), ma si cade, allora, nella muta solennità dell’univoco, si può affermare che essa è la sola realtà che ci è dato conoscere, dichiarando il fondamento come il grande assente (sofistica), ma si cade nelle false seduzioni della retorica o nelle artificiose ed equivoche dispute dell’eristica, si può, infine, salvare, riconoscendola fondata nell’essere e aprendola così alla rappresentazione analogica. La storia della prova selettiva per separare i simulacri dalle copie e quella della catalogazione categoriale degli enti per regolarne i rapporti è già stata raccontata.

Due possibili fraintendimenti del pensiero di Deleuze

Il dualismo fondo-superficie e l’insistenza sulla determinazione, la singolarità e l’individualità possono generare due equivoci assolutamente nefasti per la comprensione del pensiero di Deleuze, due fraintendimenti che ci precluderebbero il senso proprio della sua filosofia:

  1. Credere a una duplice dimensione dell’essere, il fondo e la superficie, affermando così, con termini diversi, il già criticato dualismo metafisico. Per Deleuze il fondo non è altro dalla superficie e la superficie non è altra dal fondo, anzi, è giusto affermare che non c’è alcun fondo né alcuna superficie in quanto tali. Deleuze stesso, in testi successivi, non si servirà più di questa terminologia “ambigua”. Tuttavia anche Differenza e ripetizione, se letta con attenzione, ci permette non solo di sfuggire al pericolo del dualismo fondo-superficie, ma anche di intendere correttamente “che cos’è fondo” e “che cos’è superficie”. Per far questo è necessario chiarire, per quanto è possibile, la sua dottrina dell’univocità dell’essere e dell’equivocità predicamentale.
  2. Attribuire alla singolarità una sorta di pathos dell’autenticità. La singolarità di Deleuze non ha nulla di eroico, né ha nulla a che fare con la bella individualità né con alcuna altra tonalità del patetismo romantico. In molti punti in cui parla di molteplicità, di divenire, di differenziazione e determinazione dell’indeterminato è presente, senza dubbio, un’ispirazione o un’accezione vitalistica, ma questa non costituisce l’essenziale della sua visione. La singolarità non è mai il determinato puro e semplice, nemmeno se colto in quanto unicum: la singolarità è il determinante, l’individuante, non l’individuale. In Differenza e ripetizione emerge con precisione questo senso della singolarità ed è ancora la dottrina dell’univocità dell’essere e dell’equivocità predicamentale che permette di esplicitarlo, almeno in prima approssimazione, considerando, tuttavia, che esso potrà trovare ulteriore e più compiuta espressione solo dopo la trattazione del concetto di Idea come molteplicità e virtualità.

Nella Nota dell’autore per l’edizione italiana della Logica del senso (p.293-295, ed. Feltrinelli) Deleuze si mostra consapevole dei possibili equivoci legati all’uso fatto in Differenza e ripetizione di concetti quali fondo e superficie e scrive:

Il mio libro Differenza e ripetizione aspirava tuttavia ancora a una specie di altezza classica e persino a una profondità arcaica. L’abbozzo che facevo di una teoria dell’intensità era segnato da profondità, falsa o vera; l’intensità era presentata come proveniente dalle profondità. … In Logica del senso la novità per me consisteva nel fatto di apprendere qualcosa delle superfici. … L’Anti-OEdipe non ha più altezza o profondità, né superficie. Lì tutto succede, si fa, le intensità, le molteplicità, gli eventi, su una specie di corpo sferico o di dipinto a rotolo: Corpo senza organi. (LS,294)

 

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