Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Deleuze – 9 (fine). L’idea come molteplicità e virtualità

Premessa

Abbiamo visto i punti essenziali che caratterizzano la concezione aristotelica e, in generale, la concezione analogica dell’essere. L’identità è presupposta a ogni differenza, l’identità del genere per le differenze specifiche, l’identità della specie per le differenze individuali, la quasi-identità dell’essere per le differenze generiche. A questo si deve aggiungere la divisione dell’essere in due grandi regioni, la regione dell’essere in senso proprio, la sostanza, e la regione dell’essere in senso analogico, gli accidenti. Solo della sostanza, infatti, si può dire che propriamente è. La categoria della sostanza, poi, è la categoria dell’essenza per eccellenza, la categoria per la quale ha principalmente senso chiedere “che cos’è?” Pensiamo invece alla natura dell’accidentale: l’accidente è ciò che determina la sostanza, è il determinante in senso proprio. La sostanza, invece, è l’indeterminato infinitamente determinabile.

Se si pone la sostanza come l’essere in senso proprio, cioè come l’essere in sé, i cui caratteri sono l’essenzialità e la sussistenza e si fa dell’accidente l’essere che può solo inerire, l’ens in alio, i cui caratteri sono l’inessenzialità e l’insussistenza, il problema ontologico (la domanda sull’essere e sulla sua prevalenza sul nulla, cioè la domanda sulla determinazione, la domanda sul perché dell’ente) si trasforma dalla domanda sulla determinazione nel senso del determinante, nella domanda sulla determinazione nel senso del determinato. Vien meno, cioè, il senso verbale dell’essere, il determinare, ed emerge il suo senso sostantivo, l’ente in quanto determinato. Il problema ontologico si trasforma nel problema ontico. L’ente, in quanto cosa determinata, è ciò che viene assunto come il primum objectum; e il suo essere, cioè la sua causa, il suo perché nel senso del fondamento, è ancora un ente sussistente, la cui differenza, rispetto alla cosa creata, consiste nell’avere in sé necessariamente l’esistenza. Accanto a ciò possiamo enumerare tutti gli altri problemi che l’ontologia analogica pone, quali il depotenziamento della realtà (copia, immagine e somiglianza dell’ente sommo), il pensiero rappresentativo, e così via. La posizione opposta, quella dell’univocità dell’essere, l’abbiamo vista nella prospettiva di Duns Scoto e Spinoza: l’essere non è più attraversato dalla frattura fra il sostanziale e l’accidentale, né è diviso in generi e specie. Abbiamo, invece, un’unica sostanza che si esprime secondo modalità intrinseche negli attributi. L’importanza della concezione univoca, il suo sovvertimento dei concetti metafisici tradizionali riguardanti l’essere dell’ente sono continuamente affermati da Deleuze.

Sull’univocità di Spinoza

Si tratta ora di vedere il modo in cui l’essere univoco e le sue infinite espressioni trovano esplicita trattazione nel filosofo francese. L’unica sostanza diviene l’Idea, struttura virtuale e in quanto tale sommamente reale, molteplicità implicata e complicata i cui elementi sono determinati non in sé ma dalle relazioni che reciprocamente intrattengono, e il cui modo di attualizzarsi consiste nel differenziarsi, cioè nell’esplicazione di relazioni spazio-temporali fra i termini. Prima di affrontare direttamente questo lato del pensiero di Deleuze, per la cui comprensione dobbiamo anche riferirci a Bergson, in particolare per ciò che riguarda la sua teoria della differenza fra il possibile e il virtuale, è tuttavia necessario che ci soffermiamo ancora sull’univocità spinoziana dell’essere, per mostrare come la sostanza sia un Tutto virtuale, che non esiste se non nei suoi attributi e secondo gradazioni modali.

Teoria espressiva dell’essere

La filosofia di Spinoza è, agli occhi di Deleuze, la più compiuta formulazione della teoria espressiva dell’essere, teoria che libera il nesso fra le cose e l’essere da ogni esigenza gerarchica e di subordinazione e, in particolare, dalla necessità della somiglianza. L’espressione, a differenza della rappresentazione, cessa di somigliare, le essenze espresse non sono copie della sostanza che si esprime, come, invece, sono le cose rispetto alle idee che esse imitano. Questo significa fare dello spinozismo la prima metafisica realmente capace di uscire in modo radicale dal platonismo, grazie a una dottrina dell’immanenza che costituisce il rovesciamento della trascendenza platonica. Scrive Deleuze a questo proposito:

In Spinoza tutta la teoria dell’espressione è al servizio dell’univocità; e tutto il suo senso è di sottrarre l’Essere univoco al suo stato di indifferenza e di neutralità, per farne l’oggetto di affermazione pura, effettivamente realizzata nel panteismo o immanenza espressiva. L’affermazione è il principio speculativo da cui tutta l’Ethica dipende. (G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, Les Editions de minuit, Paris, 1968, p. 308)

L’espressione nel suo insieme è costituita dalla correlazione fra l’unità della sostanza e la distinzione degli attributi, nel senso che la pluralità degli attributi rappresenta la composizione qualitativa dell’unità della sostanza, le forme attuali dell’unica sostanza. Ma non è questa l’unica distinzione, essendoci anche la differenziazione modale, puramente quantitativa, cioè essenzialmente numerica. Con questo bagaglio concettuale lo spinozismo cerca di affrontare il problema dell’uno e dei molti in cui si concentra metafisicamente il rapporto di espressione.

Gli attributi

Gli attributi sono la prima espressione della sostanza e sono distinti formalmente (differenza reale non numerica) dato che sono realmente diversi nel senso, ma relazionati allo stesso oggetto designato, la sostanza unica o essere univoco. Gli attributi, allora, hanno un senso diverso, ma un unico significato. E questo è il primo punto decisivo. Il secondo è il fatto che la sostanza non esiste fuori dell’attributo che l’esprime, cioè non ha attualità, ha una realtà solo virtuale. L’infinità della sostanza si esprime in infiniti attributi, in ognuno dei quali l’essenza della sostanza è infinitamente espressa. Se la sostanza fosse divisa secondo la pluralità degli attributi, il rapporto identità/differenza, che l’espressione assicura salvando il senso proprio dell’uno e dell’altro dei due correlativi (l’identità in quanto sostanza univoca e indivisibile, la differenza in quanto attributi molteplici ed irriducibili) verrebbe, invece inteso come un rapporto di genere e differenze specifiche, in cui fra attributi e sostanza da un lato e fra gli attributi in quanto tali dall’altro si instaurerebbe una distinzione ontica (differenza reale numerica). La concezione dello statuto degli attributi come identità ontologica e differenza formale rende l’univocismo spinoziano fondamento di una filosofia della pura affermazione, dal momento che ogni attributo è definito in se stesso, attraverso la sua essenza positiva, indipendente e senza opposizione agli altri. Gli attributi, ontologicamente identici, ignorano la negazione.

È proprio della differenza reale – infatti – conservare ai termini distinti tutta la loro positività rispettiva, impedendo di definirli l’uno in opposizione all’altro e relazionandoli tutti ad una stessa sostanza indivisibile. (G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, cit., p. 69)

I modi

La dottrina dei modi dà piena esplicazione all’univocismo spinoziano. Il modo è un’affezione della sostanza ed esso, a differenza dell’attributo, non esiste in forza della sua essenza, non è, cioè, in sé, ma in altro. I modi sono intensità degli attributi, cioè della sostanza in quanto si esprime: l’attributo resta uguale nel suo variare intensivo, allo stesso modo in cui la qualità non varia al variare dei gradi della sua intensità (il bianco, nell’infinita varietà delle sue gradazioni rimane lo stesso bianco). In quanto gradi di intensità degli attributi sostanziali, le essenze modali sono sommamente reali nella sostanza, il Tutto, ove non vi è distinzione fra essenza ed esistenza. Nella metafisica spinoziana non vi è mai passaggio dal possibile al reale e lo stesso passaggio all’esistenza della cosa non è la realizzazione di un possibile ma l’esplicazione o l’estrinsecazione dell’esistenza virtuale. Per comprendere appieno queste affermazioni è necessario che ci rivolgiamo alla teoria deleuziana dell’idea come molteplicità e virtualità.

Lo “strutturalismo” di Deleuze

La teoria dell’Idea rappresenta il momento più “strutturalista” del pensiero di Deleuze. Il filosofo identifica nell’Idea o struttura in quanto molteplicità relazionale il piano della intelligibilità propria della differenza. Deleuze definisce la struttura nel saggio Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in Storia della filosofia, a cura di F: Chatelet, vol. VIII: La filosofia del XX secolo, Rizzoli. La struttura è un sistema differenziale, cioè una molteplicità costituita da elementi che hanno senso in uno spazio puro e che si definiscono non in se stessi ma in base a rapporti differenziali costituenti una singolarità. In quanto tale essa è una virtualità, nel senso bergsoniano del termine, cioè differenziale in se stessa e differenziatrice nel suo effetto, ed è riconducibile nel suo funzionamento ai processi di complicazione, implicazione ed esplicazione che caratterizzano la sostanza spinoziana e i suoi rapporti con gli attributi e i modi. In un articolo del 1969 apparso sulla “Revue de métaphysique et de morale” (n. LXXIV) intitolato Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult Deleuze sottolinea la prossimità tra il metodo spinoziano e quello strutturalista.

Il problema del senso nello strutturalismo

Fra le varie implicazioni che lo strutturalismo comporta, fondamentale è quella riguardante una particolare concezione del problema del senso, che risulta sempre dalla combinazione di elementi che non sono di per sé significanti, vale a dire che tali elementi non hanno in sé alcun valore determinato, dato che si determinano reciprocamente. Si tratta del noto principio di autonomia intrastrutturale del segno, per cui questo è dissociato da ogni forma di intenzionalità o nesso extrastrutturale, tanto in rapporto alla cosa, quanto alla sua rappresentazione. Il significato di ogni termine o elemento strutturale è legato alla “posizione” (non spaziale ma relazionale) che esso occupa all’interno del sistema, posizione considerata in relazione a quella secondo la quale si dispongono gli altri termini dello stesso sistema. La configurazione delle posizioni e delle relazioni viene allora ad assumere un valore tanto preponderante rispetto agli elementi da proporsi come l’orizzonte semantico entro il quale opera il meccanismo logico delle combinazioni strutturali. Dall’insignificanza di ogni elemento preso a sé stante, al di fuori delle relazioni in cui è posto, discende la morte di ogni soggetto che non sia la struttura, quindi sia la morte di Dio che la morte dell’uomo (carattere antiumanistico dello strutturalismo).

La relazione strutturale, in sé, è irrapresentabile e costituita di elementi non dotati di senso, vi è, cioè,  divaricazione fra struttura delle relazioni e senso. Il non senso strutturale non è, tuttavia, l’assurdo, ma ciò che precede e produce il senso stesso. In Logica del senso Deleuze definisce la struttura come una macchina per produrre il senso incorporeo. Il non senso strutturale è ciò che non ha senso ma che, in quanto tale, si oppone all’assenza di senso operando la donazione di senso.

Dal momento che lo strutturalismo si afferma in primo luogo nella linguistica con De Saussure, vediamo un esempio di relazione strutturale tratto da questo ambito disciplinare. Saussure intraprende una critica serrata alla nozione stessa di elemento ribadendo come gli elementi linguistici non siano dei dati. Essi, infatti, possono essere individuati solo attraverso le loro relazioni reciproche oltreché attraverso il riconoscimento dell’intera organizzazione linguistica. L’elemento viene così a perdere ogni identità specifica di tipo materiale, per acquisire un valore inscindibile dalla sua collocazione strutturale e differenziale. La linguistica definisce le unità della lingua (fonemi, morfemi, ecc.) attraverso le diverse relazioni che esse stringono fra loro, allo stesso livello e a quelli superiori. Segmentiamo ad esempio il morfema “ragione”: otterremo i fonemi “r”, “a”, “g”, “i”, “o”, “n”, “e”. Ora possiamo sostituire “r” con “c”, oppure con “m”; o ancora “a” con “e”, oppure “g” con “z”, ecc. Otterremo morfemi diversi dotati di significato diverso (“cagione”, “magione”, “regione”, “razione”, ecc.). Il processo di sostituzione è sempre strettamente legato al processo di integrazione: la sostituzione di un suono all’altro si effettua sempre all’interno di un’unità di livello superiore dove il nuovo suono ha una funzione integrante nella formazione di queste unità di livello immediatamente superiore. La sostituzione non ha senso se non provoca anche l’emersione di un’unità superiore esistente nella lingua o nella catena parlata. Un fonema può essere identificato come unità linguistica solo perché può svolgere una funzione integrante in un’unità superiore. Così “r” può essere sostituita con “c” o con “m” e le tre consonanti possono essere chiamate fonemi perché sono in grado di formare unità di livello superiori. Ogni fonema, quindi, è definito per mezzo di ciò che lo circonda: le sue relazioni con gli altri elementi simultaneamente presenti (relazioni sintagmatiche) e le sue relazioni con gli altri elementi sostituibili dello stesso livello (relazioni paradigmatiche).

Teoria dell’Idea

L’Idea è definita da Deleuze come una molteplicità differenziale interamente positiva, molteplicità, tuttavia, che non deriva dalla combinazione di molteplice e uno ma che nasce da una organizzazione propria del molteplice in sé, tale cioè da non aver bisogno di alcuna unità per formare un sistema. Ciò significa che la sostanza stessa, cioè il sostantivo, è il molteplice, non l’uno. Le idee sono molteplicità, e ogni idea è una molteplicità, una varietà.

Nell’uso riemanniano del termine “molteplicità” (ripreso da Husserl e anche da Bergson), va attribuita la massima importanza alla forma sostantiva: la molteplicità non deve designare una combinazione di multiplo e di uno, ma viceversa un’organizzazione propria del multiplo in quanto tale, che non ha affatto bisogno dell’unità per formare un sistema. … Il vero sostantivo, la sostanza stessa è “molteplicità”, che rende inutile l’uno non meno del molteplice. La molteplicità variabile è il quanto, il come, il singolo caso. Ogni cosa è una molteplicità in quanto incarna l’Idea. (DR, 236-237)

Non si tratta di contrapporre il molteplice all’uno, quanto di intendere il concetto di molteplicità al di fuori di ogni riferimento all’uno, al qualcosa, all’ente. Se l’uno viene inteso come primum, il molteplice non può che apparire come una somma di uno, una collezione di enti e, in quanto tale, sarà sempre derivato rispetto all’unità. Il riferimento a Riemann, matematico noto, fra l’altro, per essere l’inventore della geometria ellittica, è importante e va chiarito. Riemann definisce le cose come molteplicità determinabili in funzione delle loro dimensioni o delle loro variabili indipendenti e distingue due specie di molteplicità, le molteplicità discrete, che contengono in sé il principio della loro misura (la misura di una delle loro parti è data dal numero degli elementi che esse contengono) e le molteplicità continue che trovano un tipo di misura nei fenomeni che in esse si sviluppano o nelle forze che in esse agiscono.

La cosa è incarnazione della molteplicità: ciò va inteso nel senso che la cosa è l’attualizzazione della realtà virtuale o strutturale che è l’idea, l’ente in cui l’essere si sostanzia. Per comprendere questo fatto dobbiamo addentrarci maggiormente nell’esame dell’Idea, struttura per la cui emergenza Deleuze definisce tre condizioni:

Occorre che gli elementi della molteplicità non abbiano né forma sensibile né significato concettuale, né, quindi, funzione assegnabile. In quanto non hanno neppure esistenza attuale, e sono inseparabili da un potenziale o da una virtualità, in tal senso essi non implicano alcuna identità precedente, alcuna posizione di un qualcosa che potrebbe dirsi uno o lo stesso; e viceversa la loro indeterminazione rende possibile la manifestazione della differenza in quanto liberata da ogni subordinazione. (È la determinabilità, o principio di quantitatività, riguardante gli elementi differenziali)

Occorre che questi elementi siano determinati, nella fattispecie reciprocamente, da rapporti reciproci che non lasciano sussistere alcuna indipendenza. Rapporti di tal sorta sono per l’appunto connessioni ideali, non localizzabili, sia che caratterizzino la molteplicità globalmente, sia che procedano per giustapposizione di contiguità. (È la determinazione reciproca o principio di qualitatività riguardante i rapporti differenziali)

Un nesso molteplice ideale, un rapporto differenziale deve infine attualizzarsi in relazioni spazio-temporali diverse, mentre i suoi elementi s’incarnano in atto in termini e forme variate. (È la determinazione completa o principio di potenzialità riguardanti le singolarità corrispondenti ai rapporti differenziali fra gli elementi). L’idea si definisce così come una struttura. (DR, 238)

Gli elementi della molteplicità non sono né percepibili né pensabili, non sono, cioè, oggetti o enti determinati. La loro indeterminatezza, tuttavia, non è quella dell’ente indeterminato, cioè del sommamente determinabile, dell’uno che precede il molteplice, della grande e indifferenziata identità. Gli elementi non sono degli indeterminati determinabili, ma degli indeterminati determinanti. L’ente è ciò che sussiste indipendentemente da altro, come causa sui o come ciò il cui modo d’essere è quello di sistere extra causas. Il suo status ontologico è dunque l’indipendenza, la sussistenza. In quanto tale esso è uno e, rispetto a un altro ente, stabilisce una differenza reale e numerica. Gli elementi di una molteplicità virtuale, invece, non sono fra loro indipendenti, essi sono solo in quanto reciprocamente rapportati, per cui non sono neppure localizzabili, dal momento che lo spazio stesso non è. La molteplicità, cioè, non ha un dove. Essa non può essere determinata estrinsecamente.

Il primato ontologico dell’accidentale

È chiaro che tutto ciò comporta una profonda rivoluzione ontologica, dal momento che il primum ontologico non è più la sostanza, ma la relazione, come concreto piano di coesistenza della differenza. Il sistema aristotelico è rovesciato, perché l’ontologico non è più l’essenziale o il sostanziale, ma l’accidentale o il relativo, quello che Deleuze chiama l’evento. Ricordiamo che nel VII libro delle Categorie Aristotele scrive:

Sono dette relative (prós tí) le cose di questo genere: tutte quelle che, ciò che sono, sono dette esserlo di altre cose o, qualunque altro ne sia il modo, in relazione ad un’altra cosa. (Cat. VII 6b, 36-37)

Non possiamo fare a meno di pensare alla posizione ontologica heideggeriana, alla reciproca transpropriazione di essere e pensare, alla coappartenenza di uomo ed essere, ma anche alla reciprocità del nesso fra intentio ed intentum della fenomenologia. L’impostazione antimetafisica pare caratterizzata nella sua essenza da una profonda scelta antiessenzialistica. Non è solo la relazione, infatti, che caratterizza l’ontologico, ma anche l’accidentale, l’accadere, l’insussistente. È fondamentale ciò che Deleuze scrive a questo proposito:

L’Idea non è affatto l’essenza. Il problema, in quanto oggetto dell’Idea, si trova dalla parte degli eventi, delle affezioni, degli accidenti, piuttosto che dalla parte dell’essenza teorematica. … il campo dell’Idea è l’inessenziale. … Non appena si tratta di determinare il problema e l’Idea come tale, non appena si tratta di mettere la dialettica in movimento, la domanda che cos’è? fa posto ad altre domande, ben altrimenti efficaci e potenti, ben altrimenti imperative: quanto, come, in quale caso? … Queste sono le domande dell’accidente, dell’evento, della molteplicità – della differenza – contro quella dell’essenza, quella dell’Uno, del contrario e del contraddittorio. (DR, 243-244)

Virtualità e attualità: l’influenza di Bergson

La relazione strutturale, nel suo divenire, richiede che la struttura sia pensata secondo una duplice modalità. Il primo modo è la virtualità, in cui coesistono tutti gli elementi, i rapporti e le singolarità, virtualità che, come l’essenza modale spinoziana, non è sinonimo di possibilità; il secondo modo è l’attualità, cioè l’incarnazione della struttura virtuale in specie e in parti, in qualità ed estensioni. Per l’importanza decisiva delle nozioni di virtuale e attuale è necessario entrare nello specifico di questi concetti, che Deleuze usa secondo l’accezione che a essi viene data da Bergson. Vediamo innanzitutto ciò che scrive Deleuze:

La virtualità dell’Idea non ha nulla a che vedere con una possibilità. La molteplicità non tollera alcuna dipendenza dall’identico nel soggetto o nell’oggetto. Gli eventi e le singolarità dell’Idea non lasciano sussistere alcuna posizione dell’essenza intesa come “ciò che la cosa è”. E indubbiamente è possibile conservare il termine essenza, se si vuole, a condizione però di dire che l’essenza è appunto l’accidente, l’evento, il senso. (DR, 248)

Il virtuale non si oppone al reale, ma soltanto all’attuale. Il virtuale possiede una realtà piena in quanto virtuale. … La realtà del virtuale consiste negli elementi e nei rapporti differenziali, e nei punti singolari loro corrispondenti. La struttura è la realtà del virtuale. (DR, 270)

Il virtuale si distingue dal possibile da due punti di vista.

  1. Innanzitutto il possibile è il contrario del reale e gli si oppone, il virtuale, invece, si oppone all’attuale. Il possibile, cioè, non ha realtà, pur potendo avere un’attualità, il virtuale non ha attualità, pur essendo reale. Questo significa che il possibile, pur potendo avere forma compiuta, pur potendo compiutamente essere qualcosa di determinato (pensiamo a un concetto), in realtà non “c’è”, non esiste; il virtuale, invece, non ha attualità, non è qualcosa di determinato e di compiuto, non è un ente, ma tuttavia ha una realtà, in realtà “c’è” e il suo esserci è correlato all’esserci dell’attuale, dell’ente. Reale e possibile sono identici nell’essenza e distinti di fatto, virtuale e attuale, invece, si coappartengono.
  2. Dall’altro punto di vista il possibile è ciò che si realizza (oppure no), è ciò che può passare da un’attualità a un’altra, da una forma a un’altra forma, senza differenza alcuna (fra cento talleri possibili o pensati e cento talleri effettivi non c’è differenza, l’essere non è un predicato reale). Tuttavia il possibile non è il reale. Il processo della realizzazione è sottoposto a una regola fondamentale, quella della somiglianza. Il reale si realizza a immagine e somiglianza del possibile, possedendo in più, rispetto a esso, solo l’esistenza o, come dice Kant, la posizione. Il virtuale, invece, non deve passare da uno stato ontico a un altro, dall’essere un ente in un certo modo a essere lo stesso ente in un altro modo, non deve realizzarsi, perché esso non è, ma deve attualizzarsi, cioè, diventare, venire all’essere, all’apparenza, uscire dal nascondimento. Il nesso fra il possibile e il reale è ontico e limitante (il reale è uno dei possibili che si è realizzato), il nesso fra il virtuale e l’attuale è ontologico e “creativo” (l’attuale è il presentarsi o, come vedremo fra poco, il differenziarsi del virtuale). Il fatto fondamentale è che la regola che guida il processo non è più la somiglianza, ma la differenza.

L’attuale non assomiglia alla virtualità che esso incarna.

La differenza è l’elemento principale del processo di attualizzazione, differenza fra il virtuale da cui si parte e l’attuale a cui si arriva, differenza che non fa sì che l’attuale sia un’altra cosa dal virtuale, ma sia, invece, lo stesso che si differenzia, che si esprime. C’è identità e differenza fra virtuale e attuale e l’identità non riguarda due cose (quella è l’uguaglianza e riguarda il nesso fra possibile e reale) ma la cosa stessa, l’essere della cosa e la cosa che è. Lo specifico del virtuale, allora, è di esistere in modo tale da attualizzarsi differenziandosi e di essere obbligato a differenziarsi, a creare le sue linee di attualizzazione, per attualizzarsi. Se ben guardiamo la realizzazione del possibile non è un processo di determinazione, perché la cosa possibile e la cosa reale sono già determinate in quanto tali, in questo processo l’evento ontologico, l’apertura all’essere dell’ente, è già avvenuto. La determinazione, invece, è proprio ciò che caratterizza il nesso fra virtuale ed attuale.

Il processo di determinazione

Ma come avviene tale processo? La virtualità è un’identità non numerica, non è l’uno che si differenzia, ma molteplicità implicata:

Le Idee contengono tutte le varietà di rapporti differenziali e tutte le distribuzioni di punti singolari, coesistenti in ordini diversi e “perplicate” le une alle altre. Quando il contenuto virtuale di un’idea si attualizza, le varietà di rapporti s’incarnano in specie distinte,  e correlativamente i punti singolari corrispondenti ai valori di una varietà s’incarnano in parti distinte, caratteristiche di questa o quella specie. Per esempio, l’Idea di colore è come la luce “bianca” che “perplica” in sé gli elementi e i rapporti genetici di tutti i colori, ma che si attualizza nei diversi colori e negli spazi rispettivi. … Con l’attualizzazione, un nuovo tipo di distinzione, specifica e partitiva, prende dunque il posto delle distinzioni Ideali fluenti. Denominiamo differentiazione la determinazione del contenuto virtuale dell’Idea, e differenziazione l’attualizzazione di questa virtualità in specie e parti distinte. (DR, 267)

La virtualità si attualizza, cioè si differenzia o esplica in parti, in base a linee divergenti, ognuna delle quali corrisponde a un grado determinato della totalità virtuale. Il Tutto, altro modo per dire la sostanza spinoziana, è solo virtuale, cioè non è mai dato, esso ha attualità solo come il differenziato. Ecco perché l’ontologico, l’essere, non è ciò che è dato, ma ciò che dà, ed ecco perché il Tutto non è estrinseco, indifferente alle parti nelle quali si dà (l’essere non si dà mai al di fuori dell’ente). Il virtuale (l’essere) sta all’attuale (l’ente) come un problema, un compito da adempiere, sta alla sua soluzione:

Il virtuale ha la realtà di un compito da adempiere, come di un problema da risolvere, ed è il problema che orienta, condiziona e genera le soluzioni, ma queste non somigliano alle condizioni del problema. (DR, 274)

La struttura ontologica della cosa, allora, non è quella puramente ontica dell’ens creatum, in quanto ente sottratto alla pura possibilità e portato all’esistenza o, meglio, alla sussistenza; la cosa non è composta di due metà pari, simmetriche e somiglianti (il possibile ed il reale), ma di due metà dispari, dissimmetriche e dissimili, il virtuale e l’attuale, l’essere dell’ente e l’ente che è, due metà che si dividono, a sua volta in due:

una metà Ideale che affonda nel virtuale, costituita, da una parte, dai rapporti differenziali, e dall’altra, dalle singolarità corrispondenti; una metà attuale, costituita, da una parte, dalle qualità che attualizzano questi rapporti, e dall’altra, dalle parti che attualizzano queste singolarità. (DR, 358)

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