I filosofi milesi
Non c’è manuale di storia della filosofia che non si apra con l’esposizione del pensiero dei tre filosofi milesi, Talete, Anassimandro e Anassimene, subito seguiti da Pitagora e la sua scuola e, fra loro contrapposti, da Eraclito e Parmenide con la sua scuola eleatica. Cominciamo subito con una nota terminologica: i filosofi milesi non hanno mai cercato propriamente l’elemento fondamentale della realtà, l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene, l’ἄπειρον ἀόριστον (l’indefinito indeterminato) per Anassimandro. Non lo hanno mai fatto per la ragione che il concetto di elemento a loro attribuito (στοιχεῖον, da στοῖχος, fila, serie) nasce da una successiva interpretazione aristotelica. I milesi parlavano piuttosto di principio, origine, fondamento ἀρχή, da ἄρχω, comincio, comando). Il principio fondamentale deve essere capace di render conto dell’esistenza, dell’apparizione e dei caratteri particolari degli enti che esistono attualmente. È questo il problema del fondamento, che può essere articolato, per usare una terminologia filosofica generale, nel problema dell’essenza (che cos’è questo principio), e in quello dei suoi dinamismi e delle sue trasformazioni. La caratteristica fondamentale dell’ἀρχή milesia è quella di essere pensata come uno stato di indistinzione originaria, uno stato di omogeneità primitiva, anteriore a ogni apparizione di eterogeneità e distinzione. È importante sottolineare questo ultimo punto: apparizione di eterogeneità, dato che è proprio all’apparizione dell’eterogeneità che il principio originario è, in senso specifico, anteriore. Questo “principio di tutte le cose”, infatti, è, in modo molto speciale, “un molteplice”, anche se non un molteplice esistente o attuale, è un molteplice che è insieme uno, anteriore alla successiva distinzione fra unità e molteplicità.
L’omogeneità non indica solo e principalmente una indistinzione, un’assenza di limiti, ma anche e soprattutto una coerenza interna, ed è questo che dà a tale omogeneità un necessario carattere di unità. Tale aspetto non è qualcosa di ovvio. L’omogeneità, infatti, è un modo di “connessione”, un modo di stare assieme. Ad esempio, di un composto si può dire, qualora i suoi elementi siano connessi in modo tale da fondersi intimamente l’uno nell’altro fino a perdere la loro individualità, che è un composto omogeneo. Omogeneità è la relazione tra cose che appartengono allo stesso genere o hanno la stessa composizione o che hanno tra loro parti simili che si corrispondono termine a termine. Più che un indifferenziato, l’omogeneo è un indifferenziato in cui le differenze non appaiono perché sono intimamente amalgamate, inviluppate o virtuali. Una cosa può essere unitaria senza con questo poter essere definita anche omogenea. È questo il caso, come vedremo, dell’essere di Parmenide. Che l’omogeneità propria dell’ἀρχή milesia sia una qualità che può appartenere solo a ciò che è virtualmente molteplice, “connesso” in modo tale da rendere non apparenti, non attuali, le differenze, quell’eterogeneità che pure c’è, si può comprendere anche da interpretazioni che lo stesso Aristotele ci fornisce. V., ad es., Met. L, 1069b 21-24, dove l’ἄπειρον di Anassimandro, come il “tutto insieme” (τὸ σύμπαν) di Anassagora, viene compreso come mescolanza (μίγμα), in cui le differenze sarebbero contenute solo in potenza e non come qualità distinte. L’indefinito di Anassimandro, per Aristotele, è una molteplicità potenziale, perciò da esso si generano le cose. In aggiunta, ma non in contrasto, bensì come articolazione dell’interpretazione dell’ἄπειρον come μίγμα, Aristotele nella Fisica intende l’ἄπειρον come “ciò che sta nel mezzo”, “ciò che sta tra” (μεταξύ). L’ἄπειρον è qualcosa che “sta tra” gli elementi e che non è nessuno di essi perché ha impliciti contemporaneamente i caratteri di tutti. V. Phys. III, 4, 203a 16-19. In un passo del De generatione animalium, sempre a proposito dell’ἄπειρον, Aristotele parla di ciò che sta fra gli elementi (τὸ παρὰ τὰ στοιχεία). Il senso di questo breve excursus nella storiografia aristotelica è quello di mostrare come, anche un’interpretazione già pregiudicata da un’immagine del pensiero molto diversa da quella milesia, rilevi comunque come l’ἄρχή sia nella propria essenza “molteplice”, sia dunque una concezione molto peculiare di materia.
Si può ben comprendere che una cosa può essere unitaria senza essere omogenea. Vedremo come con Parmenide. L’ἀρχή milesia è un principio unitario. Essa prefigura un’idea originaria di materia, precedente a ogni distinzione di materia e forma. Tale nozione primigenia di materia comporta un meccanismo di crescita, di sviluppo di tipo particolare, irriducibile al concetto naturalistico di genesi: è la φύσις, la potenza immanente all’ἄρχή di differenziarsi, di creare eterogeneità, novità. In tal senso l’ἀρχή, prima di essere qualcosa, prima di essere sostanza (οὐσία, per usare un termine aristotelico) è potenza di creare (φύσις), causa dinamica degli enti, potere di eterogeneità. Secondo tale concezione l’ente particolare, cioè l’ente determinato, non può essere primo, non può essere originario. Tale affermazione va compresa nel suo reale significato. Per i milesi l’ἀρχή è l’indeterminato, l’indifferenziato, ma non l’informe, il meramente passivo che attende la determinazione dall’esterno, come sarà la materia (ὕλη) per Aristotele. L’indeterminazione dell’ἄπειρον nasconde un potere di differenziazione, la φύσις. Se l’ἄπειρον è indeterminato, lo è in quanto è il determinante, la sorgente di ogni differenziazione. Nessun ente particolare, per quanto eminenti siano i caratteri a esso attribuiti, è primo. L’individuato, ciò che in un modo qualunque è qualcosa, l’ente, nella terminologia heideggeriana, è sempre “secondo”. Nessun ente può essere origine degli altri enti. Tuttavia, il fatto che l’ente particolare sia “derivato”, non comporta che sia anche esterno o staccato dall’origine, questo perché l’ente particolare è ritagliato nella materia sostanziale dell’elemento primitivo da un potere di differenziazione appartenente a questo elemento; l’essere particolare partecipa dell’elemento primitivo per la materia che lo costituisce e scaturisce dall’azione di questa φύσις, che è potere di sviluppo degli stati e degli esseri particolari. È la φύσις dell’elemento primitivo che sta all’origine dell’esistenza e dei caratteri degli esseri particolari. Questo è ciò che significa immanenza: l’essere particolare è, in un certo modo, lo stesso dell’origine, è una differenziazione intrinseca all’essere, il cui senso (ma non il suo modo d’essere) è lo stesso. La φύσις è potenza che appartiene all’ἀρχή, non all’individuato. Perciò, come afferma il filosofo francese Gilbert Simondon, il principio di individuazione è anteriore all’individuo. Se questa interpretazione del pensiero milesio è vera, la filosofia nasce a partire da un’idea pericolosa, un’idea contro la quale non si smette di pensare e contro la quale si forma una tradizione possente e dominante, basti pensare al monoteismo ebraico-cristiano e a Platone. Le prime parole della Bibbia recitano: “All’inizio Dio creò il cielo e la terra” (ἐν ἀρχῇ ἐποίησεν ὀ θεὸς τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γήν). All’inizio sta Dio, un ente infinito, ma comunque sempre un ente. Per Platone, invece, all’inizio stanno gli εἶδη, le idee, perfettamente determinate e identiche a sé, fondamento delle cose mondane. Degli esistenti stanno a fondamento di altri esistenti, ontologicamente dipendenti, gerarchicamente subordinati. Per Anassimandro, invece, ἐν ἀρχῇ ἦν τὸ ἄπειρον, un molteplice “inesistente” eppure reale, la potenza che crea e distrugge tutto ciò che esiste, ma che non è “altro” dall’esistente, anzi è lo stesso in un’altra modalità.
Presentandosi, venendo all’essere, l’individuo è il risultato della forza differenziante della φύσις, attualizzazione della sua potenza, “carne ritagliata” dall’ἄπειρον, ἄπειρον che si determina, che acquista confini, limiti (πέρας), forma limitata, ma non staccata, forma che “com-porta” questa potenza differenziante nell’aspetto di un meccanismo di crescita e di corruzione. Il termine a cui voglio dare evidenza è proprio “ritagliato”, perché in esso è indicato il rapporto delle cose che sono con la realtà da cui provengono e la realtà in cui finiranno. In questo termine c’è il tema dei confini: in che modo sta, in che modo è l’ente presente, rispetto all’ἄρχή, nella sua duplice modalità di γένεσις e di φθορά, cosa significa “prendere forma” dall’informe e “dissolvere la propria forma” nell’informe? Il riferimento è al fr. noto come il Detto di Anassimandro, che riporto nella traduzione di Colli: “Le cose fuori da cui è il nascimento alle cose che sono, peraltro, sono quelle verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo ciò che deve essere: le cose che sono, difatti, subiscono l’una dall’altra punizione e vendetta, per la loro ingiustizia, secondo il decreto del tempo.” (ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσις ἐστι τοῖς οὖσιν, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών˙ διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν). Anassimandro parla delle cose esistenti (τὰ ὄντα), della loro origine, generazione, produzione, venire alla presenza (ἡ γένεσις) e della loro distruzione, dissoluzione, morte, rovina (ἡ φθορά). Il “da dove” le cose provengono o si generano e il “dove” le cose periscono o si distruggono, non solo designano delle molteplicità (il greco infatti usa il plurale), ma sono anche “lo stesso”. Non solo, anche τὰ ὄντα, le cose che sono, hanno la stessa stoffa del “da dove” (ἐξ ὧν) provengono e del “dove” (εἶς ταῦτα) finiscono.
Parmenide e l’eleatismo
La concezione ontologica di Parmenide, di fondamentale importanza per lo sviluppo del pensiero di Platone, si oppone drasticamente a quella milesia sopra tratteggiata. Ora, infatti, è proprio l’individualità a essere prima, nella forma dello Sfero, l’essere assoluto, senza parti, tutto dato nella sua pienezza circolare. È nel modo di concepire l’unità che sta la differenza. L’unità parmenidea, infatti, per essere, non esige l’omogeneità, come quella milesia. Quella dei filosofi ionici è un’unità “materiale”, una stoffa unica di cui tutte le cose sono fatte, materia indefinita da cui e in cui si produce, per forza intrinseca (la φύσις), l’eterogeneità. L’individuo, pur “ritagliato”, resta comunque “attaccato” a questa stoffa, anzi, è questa stessa stoffa che prende forma. Il divenire, per i milesi, è il senso proprio dell’essere. L’unità di Parmenide, invece, è in primo luogo un tutto, ha la coerenza del tutto senza parti, che si contiene in sé (con-tenersi significa cum-sistere in sé, senza partecipare né procedere), un assoluto (ad-solutus significa sciolto da ogni altra cosa e riportato a sé), perfettamente determinato e come tale, per essere, esige il nulla esteriore. La metafisica di Parmenide non va intesa sulla base della distinzione fra l’uno-sfero, da un lato, e i molti della rappresentazione dall’altro, ma su quella fra l’essere e il non essere, perché per l’eleatismo “il mondo della molteplicità” è “lo stesso mondo dell’essere” visto con occhi sensibili. La κρίσις, il discrimine, sussiste solo fra l’ “è” e il “non è”, un tertium quid non è possibile. Perciò lo stesso apparire delle cose sensibili (τὰ δοκοῦντα) deve necessariamente rientrare in una delle due possibilità che “sole” sono logicamente possibili. Sarà Platone, figlio bastardo di Parmenide, ad ammettere un μεταξύ, una realtà intermedia che partecipa dell’essere e del nulla. τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι (lo stesso è essere e pensare): l’identità di essere e pensare rappresenta la dimostrazione dell’impossibilità di pensare la non-esistenza dell’essere.
Ciò che scompare in questa concezione dell’essere è proprio il divenire e l’ontologia da “fisica” diviene “logica”. L’assoluta presenza dell’essere, che si esprime nell’ “è”, viene liberata da ogni elemento temporale, con l’esclusione tanto del passato quanto del futuro. Parmenide rinuncia a tradurre nell’infinita durata temporale l’assolutezza dell’essere e la fissa in quel limite tra il “prima” e il “dopo” che è l’ “ora”, inteso non nella sua precaria momentaneità, ma nella sua compiutezza extratemporale, che non presuppone niente e non può uscire da se stesso. La famosa espressione parmenidea “l’essere è e non può non essere” fa da sostegno a una concezione statica e assolutamente determinata dell’essere, un essere non incontrabile nell’esperienza, ma solo concepibile logicamente (dobbiamo sentire in questo termine non il significato moderno di pensiero logico-razionale, ma tutta la pregnanza del greco λόγος) o evocabile miticamente. Con l’eleatismo si pone in tutta la sua drammaticità il problema di una verità logicamente inconfutabile che contrasta, tuttavia, con un mondo che la confuta in ogni momento e in ogni luogo.
Il nucleo centrale della metafisica di Parmenide è l’essere-uno, verità assoluta e vittoria totale sul mondo della contraddizione. Tale vittoria, però, è nello stesso tempo una completa rinuncia, perché la posizione dell’essenza assoluta, raggiunta attraverso la negazione della realtà immediata come tale, significa abbandonare a se stesso il mondo sensibile. L’errore per Parmenide, tuttavia, non sta nella molteplicità con cui l’essere, che è uno, appare. L’eleate, infatti, non nega l’esperienza, ma si oppone a una sua errata interpretazione, quella che la considera nei termini del divenire, anziché in quelli dell’essere. L’errore dei sensi consiste nell’attestare il divenire e quindi il nulla, ma il nulla non è. In realtà l’esperienza attesta sempre e solo l’essere, cioè cose che sono in quanto appaiono, mentre nulla può dire riguardo alle cose che non appaiono più o che cominciano ad apparire. Solo il λόγος può interpretare correttamente il divenire e lo fa mantenendo le cose in stretto rapporto con l’essere (l’ἐόν), tanto nella presenza quanto nell’assenza, e ciò che il λόγος ci dice fuori da ogni dubbio è che neppure quando le cose sono ἀπεόντα, cioè non presenti, esse sono preda del nulla. L’ἐόν non ha come opposto il γινόμενον, ciò che diviene, ma il μὴ ὄν, il non essere, un μὴ ὄν che è anche un ἀνόετον, un impensabile. Per Parmenide è la via ingannevole dell’opinione (la δόξα) che porta all’affermazione contraddittoria di una sostanza originaria che, contemporaneamente, è e non è ciò che da essa deriva. Ma l’essere, sottratto all’immagine ingannevole che ne offrono i sensi, non può derivare dal non essere, tale è infatti, ai suoi occhi, la realtà dell’ἄπειρον anassimandro, una realtà che non è in senso pieno ed eterno. Tuttavia, nel poema di Parmenide, la dea insegna al filosofo anche le opinioni dei mortali, anche se fallaci, proprio perché il passaggio alla sensibilità è necessario. Non c’è comunque nessun tentativo di derivare dalla realtà assoluta le forme contingenti del mondo, né di creare una gerarchia di valori gnoseologici in cui quelli della δόξα, pur non spettando loro una validità piena, siano almeno giustificati come gradi di conoscenza relativa. Il mondo dell’ἄλήθεια e quello della δόξα sono due cosmi chiusi l’uno all’altro.
La forma in cui si esprime il mondo dell’uomo, la conoscenza dei mortali, è l’ὄνομα, il nome, che cristallizza la realtà in un aspetto che non è il suo, traducendola in schemi che non si radicano in essa e travisandola. È interessante riflettere sulla funzione dell’ὀνομάζειν in Parmenide: il nominare è proprio il dar nome, il determinare, il fissare, e questa operazione equivale alla rinuncia dell’assolutezza dell’ἀλήθεια. Dar nome a un principio implica l’ammissione di un principio opposto e la loro contrapposizione e distinzione. I mortali hanno dato il nome a due forme (lo Sfero dell’essere e il nulla esteriore) e il loro errore non è l’ammissione di una dualità, ma già il fatto di aver dato nome anche a una sola forma: la dualità, l’opposizione, la contraddizione ne derivano di conseguenza. Il monismo eleatico nega che il problema ontologico sia un problema di genesi e questa negazione comporta il rifiuto della molteplicità e del divenire.
Il pensiero successivo è, a un tempo, un pensiero contro Parmenide, ma a partire da Parmenide, un pensiero che ha come compito precipuo quello di salvare i fenomeni (σῴζειν τὰ φαινόμενα), quei fenomeni, quelle forme, quelle individualità che l’eleatismo ha cacciato integralmente nell’illusione. La salvezza dei fenomeni, la loro giustificazione, sembra, alla parte dominante del pensiero greco e successivo, dover consistere nel mettere al sicuro tali fenomeni ancorandoli a un essere che conservi i caratteri propri dell’essere eleatico.
Pitagora
Con il pitagorismo viene introdotto nell’ontologia un dualismo originario, tale che il principio di individuazione, per la prima volta, viene distinto dal principio di unità. Sia per gli ionici che per gli eleati, fatta salva la radicale differenza del concetto di unità che li caratterizza, l’unità è comunque prima: per gli ionici l’individuato è un differenziarsi immanente all’ἀρχή, per Parmenide è invece un illusione dei sensi; per i primi le forme nascono e muoiono, per il secondo hanno la realtà vana delle apparenze; per gli uni, infine, l’individuato non è tutto l’essere, per l’altro, l’individuato è primo, unico, totale e assoluto. Al di là di queste differenze, nondimeno, per entrambi l’unità è originaria. La situazione cambia con i pitagorici, i quali concepiscono un dualismo originario, radicale, come fondamento degli enti particolari: le forme sono il risultato dell’azione di un principio positivo e di uno negativo, di un principio di unità e di uno di molteplicità. È questa una differenza di grande rilievo rispetto alla fisiologia ionica, e tale differenza si accentua se si considera che i pitagorici introducono nell’ontologia una inedita preoccupazione etica (è anche per questo che Pitagora è un altro dei padri di Platone), perché, a differenza dei milesi, per i quali il divenire è pensato nella sua naturale innocenza, per loro la molteplicità e l’indefinito sono affetti da un intrinseco carattere di negatività. Le cose che sono, per esistere, devono imbastardire l’unità con la molteplicità, il buono con il cattivo, la finitezza perfetta con l’infinitezza.
Eraclito
Eraclito piega il pensiero in una direzione ancora diversa, apparentemente dualista, anche se di carattere diverso dal dualismo matematico pitagorico. Le forme, gli individui, gli esseri particolari, risultano da un conflitto di contrari, perché la φύσις eraclitea, pur conservando i caratteri dinamici di quella milesia, è caratterizzata da un intrinseco antagonismo, da una propria bipolarità. L’unità dinamica dei milesi viene sostituita da un dualismo dinamico. In realtà, con Eraclito, l’univocità dell’essere non viene tradita, per cui è più giusto parlare di dualità ontologica piuttosto che di dualismo e la differenza fra i due concetti è netta: mentre il dualismo suppone due principi onticamente indipendenti che si affrontano, la dualità è una polarità che abita lo stesso essere. Univocità ontologica significa: senso unico dell’essere e modi d’essere diversi, mentre l’equivocità sostiene una gerarchia di sensi e di enti. Come nei milesi la φύσις si prolunga nei processi di crescita e di sviluppo degli esseri particolari, in Eraclito la bipolarità ontologica si attualizza nell’ambivalenza ontica.
La permanenza e il cambiamento sono due aspetti complementari della realtà. La forma, l’individuo, l’ente particolare, è sempre il risultato dell’azione di due forze opposte, perciò l’identità non è mai data, ma sempre conseguita, né tantomeno può avere statuto definitivo: non è identità materiale, sostrato al cambiamento che trascorrerebbe su di essa come qualcosa di inessenziale o di illusorio. Al contrario, è un’identità che è tale perché si fonda sul perenne e continuo mutamento ed è in esso che l’essere particolare, la forma individuata, ha la sua ragion d’essere. Perciò per Eraclito l’essere particolare è un microcosmo che si mantiene, si conserva, solo grazie a uno scambio continuo con le realtà del mondo e le forze antagoniste che vi mantengono una tensione permanente. Eraclito porta alle estreme conseguenze il dinamismo cosmologico degli ionici e lo fa sostituendo al monismo della φύσις milesia la polarità dei contrari, approfondendo l’ontologia immanentistica e univoca dei milesi.
Lo Σφαίρος parmenideo, l’essere eleatico, è l’opposto di quello eracliteo. Ora, tale opposizione comporta un diverso statuto sia del linguaggio che del mondo. Se l’essere dell’individuo è il dinamismo dei contrari, che viene alla presenza in una forma particolare, allora tale dinamismo, tale contraddizione ontologica fondamentale, non può esprimersi senza violare il principio di identità. Il discorso è costretto a farsi contraddittorio, problematico, oscuro (σκοτεινός), perché la realtà è contraddittoria. Ben altra è la scelta di Parmenide. L’eleate deve dare un colpo di scure sul mondo per mettere da un lato ciò che può esprimersi razionalmente secondo il principio di identità, cioè l’individuo assoluto, l’essere pieno, eterno, sempre identico a sé, e dall’altro tutto ciò che, comportando divenire e molteplicità, può solo essere conosciuto secondo la via ingannevole dell’opinione.
Empedocle
L’opposizione di eraclitismo ed eleatismo rappresenta lo scenario aurorale a partire dal quale il pensiero filosofico si sviluppa. Sul fondamento di queste ontologie estreme il pensiero successivo cerca di apportare aggiustamenti e approfondimenti, fino a giungere alla grande stagione classica del platonismo e alla successiva sistematizzazione aristotelica. La direzione intrapresa dal pensiero filosofico sembra andare verso un progressivo ma ineluttabile abbandono della teoria dinamicistica della φύσις, abbandono al quale si accompagna quello dell’unità del principio elementare.
Con Empedocle l’ἀρχή assume il volto del disordine elementare: le quattro radici delle cose, i quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) diventano per la prima volta davvero elementi nel senso proprio del termine, στοιχεῖα, componenti della realtà, come i colori di cui si serve il pittore o l’acqua e la farina di cui si serve il fornaio. Decisiva è l’idea che tali elementi, lasciati a se stessi, formano un caos elementare, che solo forze opposte ed esterne possono strutturare e destrutturate. Νεῖκος (Neikos) (il contrasto, la lotta, la contesa, piuttosto che l’odio) e Φιλότης (Filotes) (l’amicizia, l’affetto, la concordia) sono le due forze opposte che intervengono sugli elementi per, letteralmente, “assemblare” il mondo. Gli esseri particolari, infatti, per Empedocle sono i prodotti dell’azione di queste due forze: per la prima volta incontriamo l’idea che le forme siano il risultato di operazioni di composizione e scomposizione di elementi altrimenti inerti. La riunione degli elementi, la loro separazione, i dosaggi diversi, sono operazioni del tutto diverse dalla rarefazione e dalla condensazione che governano il mondo degli ionici. Ora non sono più i movimenti sistolici e diastolici della φύσις a produrre il mondo, ma un lavoro di mescolanza e di separazione. La molteplicità degli esseri individuali si spiega con il progresso dell’Odio; a un mondo in cui tutti gli individui sono simili, essendo tutti androgini, succede un mondo in cui la differenza dei sessi testimonia il progresso dell’odio; tuttavia l’unità organica di ogni individuo è qualcosa di costruito che, dopo il progresso dell’odio, sarà ricostruito, quando all’epoca dell’odio seguirà il lento ritorno del molteplice verso l’uno e della divisione verso l’unione: allora i membri sparsi si rincontreranno, si raggrupperanno, talvolta formando dei mostri, talvolta formando degli esseri vitali. L’essere individuale è quindi prodotto dell’Amore in quanto unità organica, ma prodotto dell’Odio in quanto si oppone agli altri o si distingue da essi, per esempio con la sessualità. Non può sfuggire in questa ontologia il ruolo decisivo svolto da istanze etiche.
Il dualismo empedocleo non è più un dualismo di principi, com’era per il pitagorismo, ma un dualismo che oppone (e separa) forze e materia. Il dualismo elementi-forze ha una sua manifestazione anche nella vita umana e precisamente nel dualismo corpo-anima. Non a caso Empedocle viene avvicinato all’orfismo, quindi a una visione già religiosa del mondo e dell’uomo. Ora la materia appare inerte e, pur essendo radice, anche propriamente e solamente “materiale”, ingrediente, elemento della realtà. La molteplicità è vista come divisione e dispersione, smembramento dell’unità organica. Perciò essa è una condizione da sanare, una condizione affetta da negatività, un disordine, o meglio, una condizione di conflittualità, non caotica ed elementare, ma piuttosto particolare, dispersione di parti, di forme parziali, di pezzi, di costruzioni abortite, una confusione piuttosto che un caos, che solo l’amore può risolvere. E la soluzione non può avvenire che in direzione della ricostruzione dell’unità. Le forme particolari, che per gli ionici sono carne dell’ἄπειρον, abitate, per Eraclito, da una polarità dinamica, o illusioni dei sensi per Parmenide, sono ora frammenti, brandelli, parti.
Anassagora
L’interpretazione di Anassagora come il filosofo delle omeomerie è irrimediabilmente viziata dalla lettura aristotelica, non solo perché il pensatore di Clazomene non usa mai nei suoi frammenti questo concetto, mentre si serve del termine semi (σπέρματα), ma soprattutto perché nel concetto di omeomeria e in quello connesso di omeomero è implicita la convinzione che l’essere sia costituito da particelle elementari qualitative, convinzione del tutto estranea ad Anassagora. Nella massa originaria sono presenti i semi di tutte le cose, ciò da cui derivano tutte le cose, e sono semi tutti diversi l’uno dall’altro, per cui vanno considerati differenziati proprio sotto l’aspetto qualitativo. Tutte le cose derivano qualitativamente dai rispettivi semi. In nessun frammento, però, Anassagora fa pensare che i semi debbano essere intesi come particelle, perché ogni realtà è divisibile all’infinito. Il termine, piuttosto, sembra indicare il rapporto che intercorre fra ciò da cui le cose nascono e le cose stesse che sono nate. Come Empedocle, anche Anassagora ammette che gli elementi siano qualitativamente distinti l’uno dall’altro, ma ritiene che tali elementi siano, non quattro, ma infiniti, tanti quante sono le cose del mondo. Anassagora, infatti, accoglie l’idea eleatica che non ci sia generazione o corruzione nel senso di cominciare a essere o finire di essere.
A partire dall’illogicità del concetto dell’essere come “proveniente dal non essere e che nel non essere torna”, il filosofo afferma l’immutabilità qualitativa delle cose. Solo la conoscenza sensibile ci porta a fraintendere la realtà come un susseguirsi continuo di nascita e di morte, quando il modo reale delle cose è invece governato da un processo di composizione e di scomposizione. Ora, se niente realmente muta e se tuttavia le cose appaiono trasformarsi, sarà necessario che tutto sia già presente in tutto e che vari solo la proporzione fra i componenti delle cose. L’individuazione, in questa prospettiva, è una separazione, o meglio, un’estrazione, una variazione nella proporzione di un certo tipo di semi, fino al punto di “manifestare” quella particolare cosa, i cui semi sono prevalenti. Anassagora usa in modo diverso concetti che possono sembrare simili: separare (ἀποκρίνω) e dividere (διακρίνω), comporre (συμμίσγω) e ordinare (διακοσμέω). La separazione è il processo grazie al quale le cose vengono a formarsi a partire dalla massa originaria, un processo che, peraltro, non è mai radicale, dato che in ogni cosa permangono i semi di tutte le altre. La divisione, invece, è il processo secondo il quale un composto si divide nelle sue parti componenti e che ai sensi appare come annullamento della realtà stessa del composto. Dal momento, però, che questo processo implica il comporsi del tutto contemporaneo di quelle medesime parti in altre realtà, il termine assume il significato più particolare del differenziarsi delle cose tra di loro. In base a ciò, la composizione, allora, appare come la formazione delle cose, le quali non nascono dal nulla, ma risultano da una composizione di realtà che già esistono. Rappresenta l’aspetto positivo di quel processo di aggregazione dei vari semi che porta all’esistenza delle singole cose. L’ordinare, infine, è un termine usato per indicare l’azione compiuta dall’intelletto nei riguardi delle cose che, presenti nella mescolanza originaria, vengono a essere costituite in cosmo. Ogni essere particolare, pur essendo in primo luogo qualcosa di determinato, porta comunque in sé, anche se in proporzioni infinitesimali, i semi di ogni altra cosa. Così Anassagora concepisce l’unità del mondo: si tratta di un’unità materiale, perché tutte le cose sono composte dei semi dell’essere.
Due fondamentali caratteristiche dei semi sono l’infinita divisibilità e l’infinita aggregabilità, per cui non si giunge né a un minimo né a un massimo. “Insieme erano tutte le cose, illimitate sia in quantità sia in piccolezza; anche il più piccolo, infatti, era illimitato, ed essendo insieme tutte le cose, nessuna era manifesta a causa della piccolezza; aria ed etere pervadono tutte le cose, essendo ambedue illimitati, queste sono infatti le più grandi nell’insieme di tutte le cose sia per quantità sia per grandezza”. Fr. 1 DK. L’infinita divisibilità, che serve a Zenone per negare la realtà del molteplice, serve invece ad Anassagora per affermarla. È per questo che non si giunge mai a un elemento semplice, qualitativamente omogeneo, ad esempio, solo acqua o solo aria. Non il semplice, quindi, sta all’origine, ma il misto, quello stato di originaria mescolanza che Anassagora chiama il “tutt’insieme” (τὸ σύμπαν). “E se eguali sono le parti del grande e del piccolo in quantità, anche così tutto è in ogni cosa e non è possibile che siano separatamente, ma tutte le cose hanno parte di ogni cosa. Poiché non è possibile che il minimo sia, non è possibile essere separati né venire ad essere in sé, come in principio anche ora tutte le cose insieme.” Fr. 6 DK. Il concetto di “tutt’insieme” (τὸ σύμπαν, ma anche πάντα ὁμοῦ) è fondamentale in Anassagora e va ben compreso, anche per distinguerlo dall’ἄπειρον di Anassimandro, distinzione che sembra sfuggire, nella sua essenza, ad Aristotele. Il “tutt’insieme” è la massa originaria, la mescolanza di tutte le cose, in cui tutte sembrano fondersi, tanto che niente pare distinguibile, e in cui tutte, peraltro, mantengono la loro caratterizzazione qualitativa. Per aiutarci a capire usando una concettualità non greca, possiamo dire che, mentre l’ἄπειρον anassimandreo è un tutto virtuale, il σύμπαν di Anassagora è invece un tutto attuale.
Anassagora sostituisce il monismo ionico con un pluralismo quantitativo, ma questa non è l’unica differenza con gli ionici. La moltitudine infinita dei semi non può essere trama della realtà, senza una forza esterna a tutti i semi e che presiede a tutte le successive estrazioni. Si evidenzia con questo la necessità, per un’ontologia che ha sostituito l’ἀρχή come φύσις materiale con un pluralismo qualitativo, ma inerte, di un principio, se non trascendente, almeno separato dal resto della materia. Mentre per Empedocle i quattro elementi sono combinati e separati dalle forze “etico-mitiche” della Concordia e della Contesa, per Anassagora questa forza, con maggior rigore ontologico, viene identificata con il νοῦς, l’Intelletto. L’intelletto, tuttavia, non va inteso come qualcosa di spirituale. Per Anassagora è una materia sottile, presente anch’esso nella mescolanza originaria, ma unico a non essere mescolato con le altre materie. Per questa sua caratteristica, il νοῦς può esercitare una capacità di controllo e di dominio sulla massa che a un certo punto mette in movimento, ordinando così, in un processo infinito, tutte le cose della realtà sensibile. L’intelletto anassagoreo, naturalmente, non ha né autoconsapevolezza né è animato da intenti finalistici, è solo legge naturale. Va ricordato, inoltre, che la separazione di parti operata dall’intelletto non elimina mai la mescolanza, per cui nella visione di Anassagora, il misto non solo è primo, ma è anche permanente. La funzione dell’intelletto è quella di mettere in movimento il misto e, piuttosto che creatore, appare dosatore.
Con Anassagora viene alla luce in modo chiaro il senso del dualismo ontologico fra forza e materia: perché si affermi è necessario abbandonare la nozione di φύσις come forza produttiva immanente alla materia, per cui le forme individuali non erano prodotti staccati, particolari, ma sue espressioni. Anassagora sembra prendere, come modello della produzione degli esseri, l’operazione imposta alla materia da un agente esterno nell’estrazione di un metallo a partire da un minerale; la materialità sostanziale dell’elemento perde il suo potere di trasformarsi quando l’elemento è sostituito dall’infinità pluralità dei semi. Si comincia a intravedere, in questa visione, la concezione aristotelica della materia come ὕλη, massa inerte, passiva, infinitamente plasmabile. Pur concependo ancora la materia come riserva di qualità, Anassagora la ritiene, tuttavia, priva di forza immanente, priva di un principio di sviluppo intrinseco, avviandola con ciò verso il suo destino di essere informe suscettibile di strutturazione da parte di una forma a essa esteriore.
Gli atomisti
Con l’atomismo di Leucippo e Democrito, non solo la φύσις, ma anche ogni aspetto qualitativo viene espulso dalla concezione dell’essere. Per gli atomisti, l’essere, anche se appare disperso in un’infinita molteplicità, gli atomi, è in sé è unità e identità (e in questo accolgono il concetto eleatico di essere): gli atomi sono tutti uguali e si differenziano solo per la posizione. Il modello dell’ontogenesi, qui, è l’individuo fisico e l’individuo è in realtà una composizione di elementi già in sé individuati, gli atomi appunto. ἄτομος in greco, significa indivisibile, e la sua etimologia è la stessa di individuo: assieme a quello di vuoto è il concetto fondante dell’atomismo e, nella contrapposizione di pieno (la molteplicità infinita degli atomi) e di vuoto (lo spazio infinito nel quale gli atomi si muovono), si riproduce la distinzione parmenidea di essere e non essere. Democrito era solito associare al concetto di atomo il termine ἰδέα, a indicare la forma atomica, una forma indivisibile, connotata della sola quantità (e vedremo subito cosa significa questa affermazione), ma indifferenziata da un punto di vista qualitativo. L’atomo democriteo, insomma, non ha parti né qualità, è materiale, immutabile ed eterno, non percepibile con i sensi (perciò definito “intelligibile”). L’infinita molteplicità degli atomi costituisce l’essere secondo Democrito e ogni cosa riceve il proprio essere dagli atomi. Appare evidente che il principio di individuazione è già deciso al livello stesso dell’essere, già deciso nel senso di un privilegio accordato preventivamente all’individuato. Che altro è, infatti, l’atomo, se non qualcosa di completamente determinato, sia pure in un senso ridotto rispetto alla concretezza delle cose del mondo? Al termine “ridotto” non diamo un significato di mancanza, ma quello rigoroso di riduzione alle qualità essenziali, oggettive o appartenenti all’oggetto, come diremmo oggi, in opposizione alle qualità accidentali o soggettive [è la distinzione galileiana di qualità primarie e secondarie].
Per Democrito gli atomi, cioè l’essere, hanno tre caratteri intrinseci: la διαθιγῆÁ (da διατιγγάνω, tocco continuamente) o modalità di congiunzione (la τάξις, da τάσσω, dispongo in ordine, schiero, o ordine di Aristotele), la modalità di riavvolgimento o τροπῆ (da τρέπω, volgo, V. l’eliotropismo, il volgersi verso il sole dei fiori. È la θέσις, da τίθημι, pongo, o posizione di Aristotele) e la traiettoria o ῥυσμός (è la forma ionica di ῥυθμός, da ῥέω, scorro, fluisco, mi espando, è lo σχῆμα, dal tema σχη del verbo œἔχω, nel significato di ho, tengo una certa posizione, o figura di Aristotele). Il ῥυσμός è il tracciato che un atomo, muovendosi, disegna nello spazio. Ogni atomo ha una propria specifica traiettoria, che lo conduce a incontrarsi con altri atomi, allorché i loro percorsi si intersecano nello spazio, ponendo con ciò le condizioni, secondo le loro rispettive διαθιγῆ, perché si congiungano oppure si urtino respingendosi. Aristotele chiama tale traiettoria figura o schema, individuando in essa e nel suo carattere stereometrico-spaziale, il fondamento della differenziazione degli atomi. Anche la διαθιγῆÁ è tipica di ogni atomo ed è la proprietà che gli consente di aggregarsi con certi atomi e di respingerne altri. Svolge perciò un ruolo chiave nella generazione, nella corruzione, nell’alterazione, in altre parole nel divenire, della realtà. È una τάξις, un ordine come la chiama Aristotele, perché guida l’aggregazione o la disaggregazione degli atomi. è il modo secondo il quale si determina la cosiddetta catena atomica, il concetto proprio di individuo empirico secondo gli atomisti, cioè un insieme di atomi congiunti tra loro e in grado, in virtù della loro specifica forma e della loro vicendevole disposizione tridimensionale, di ingenerare una qualità fenomenica, percepibile da un senziente, cioè da un vivente dotato di organi di senso, vivificati da atomi psichici. Più catene atomiche costituiscono un aggregato atomico, ossia un corpo percepibile sensibilmente. Vi è infine la τροπῆÁ o modalità di riavvolgimento, che esprime il modo, anche questo peculiare ad ogni singolo atomo, con cui il ῥυσμός di un atomo si volge nello spazio, carattere assimilabile alle volute che nella scrittura il segno grafico deve compiere per costituire la lettera, sicché per l’atomo questa proprietà diviene anche il modo di darsi del suo stesso ῥυσμός. Tale modalità viene pensata da Aristotele come una posizione o θέσις intendendo dire che il modo in cui ogni atomo si dispone, nel muoversi lungo la propria traiettoria, è condizionato dalla posizione che esso assume rispetto agli altri nella catena atomica.
Il mondo degli atomisti, come quello di Anassagora, è un mondo senza virtualità, un mondo dove tutto è attuale, dove tutto ciò che è, esiste senza riserva d’essere. Le figure, le forme, non nascono per una forza intrinseca che le porta all’essere e nemmeno per una forza esteriore, trascendente o separata, che le assembla, le combina, le aggrega e le separa. Gli atomi sono tutti animati da un movimento spontaneo, che li fa urtare l’uno con l’altro e rimbalzare, e a tali urti o incontri si deve il nascere, il perire e il mutare delle cose. Non c’è dinamica, ma solo cinematica in questo mondo. È il movimento casuale che aggrega gli atomi, secondo un meccanicismo assoluto e rigoroso che riduce il κόσμος all’insieme delle sue parti. Per molti versi l’atomismo rappresenta la riduzione naturalistica dell’eleatismo, del quale ha fatto propria la proposizione fondamentale (l’essere è necessità), ma ha inteso tale proposizione non nel senso della necessità logica, ma in quello della determinazione causale. Dall’eleatismo desume anche l’antitesi tra realtà e apparenza, portandola, comunque, sul piano della natura.