Pittura e antifiguratività. Deleuze e Francis Bacon

Il carattere antifigurativo della pittura: liberare la tela dalle sue pre-occupazioni

Il problema fondamentale della pittura è sfuggire al figurativo. È un’affermazione che incontriamo fin dalle prime pagine del saggio che Deleuze dedica al pittore irlandese Francis Bacon. (Sull’estetica di Deleuze e in generale sul problema della forma, è utile il saggio Mireille Buydens (con una lettera prefazione di Gilles Deleuze), Sahara. L’esthétique de Gilles Deleuze, Vrin, Paris, 1990). Alla base della credenza figurativa sta infatti un’errata convinzione, quella che il pittore debba riempire una tela bianca, debba riprodurre sulla tela bianca qualcosa (della realtà, sia esterna che interna). In realtà la tela non è bianca, ma ingombra di clichés: tutto ciò che circonda il pittore, ciò che il pittore ha nella testa, nel cuore, fa della tela un luogo gremito di immagini. Si tratta quindi di svuotare la tela dalle sue pre-occupazioni. Queste sono di due tipi particolari. Innanzitutto i dati figurativi, veri e propri clichés, foto, percezioni, ricordi, altre immagini. Tutto ciò che ci è dato e che non va trasformato, ma ripulito, tolto di mezzo, distrutto. Le parole che D. H. Lawrence scrive su Cézanne illustrano bene questo problema.

La sua lotta contro il cliché è la cosa più evidente nei suoi quadri. […] Io sono convinto che ciò che Cézanne voleva era la rappresentazione, quella verosimile; solo che la voleva più verosimile, ed ora, esistendo la fotografia, è molto difficile avere una rappresentazione più verosimile. […] Solo in alcune nature morte Cézanne è riuscito qualche volta a sfuggire il cliché e a dare davvero un’interpretazione intuitiva degli oggetti reali [ecco la “verosimiglianza” pittorica: dipingere non la mela come oggetto, ma la mela come sensazione, come corpo]. Si tratta della vera essenza della mela e non può essere imitata. Ogni uomo la deve ricreare, nuova e diversa. (G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995, p. 158-159. D’ora in avanti, B, num. pagina)

Il verosimile della foto è l’imitazione formale, quello che cerca Cézanne, invece, è l’imitazione materiale o essenziale, una pittura non di oggetti, ma di sensazioni. Il limite invalicabile della foto, secondo Bacon, è il fatto di essere figurativa in senso essenziale: schiaccia la sensazione su un solo livello (ed essendo la sensazione passaggio di livello, è come dire che essa non dipinge la sensazione), è fin dall’inizio un dato, cosa vista. La foto non è qualcosa con cui il pittore possa intrattenersi, trasformandola, modificandola, manipolandola in qualche modo. Costituendo essa la figuratività essenziale, è proprio ciò che pre-occupa la tela, proprio ciò di cui ci si deve liberare, non rimuovendola, ma negandola. La pittura consiste propriamente nella necessaria operazione di distruggere l’onnipresente immagine fotografica della realtà. L’antiplatonismo che emerge da questa riflessione di Lawrence su Cézanne non può essere più chiaro e radicale. Per Platone la mela come oggetto reale è l’imitazione dell’idea di mela, mentre la sua riproduzione pittorica è un’imitazione illusoria, tradisce l’essenza della mela perché la condiziona al punto di vista dello spettatore e ad altre tecniche di resa illusionistica. Comunque sia, per Platone il problema ontologico si gioca tutto nell’imitazione della forma (éidos). L’immagine dipinta viene svalutata perché è un’immagine truccata, un’immagine che spaccia per vero ciò che vero non è, e questo tanto più quanto più assomiglia proditoriamente al vero. Per Lawrence-Cézanne, invece, l’essenza della mela non è éidos, ma àisthesis: perciò non può essere imitata, ma va ricreata continuamente nuova e diversa. La fedeltà all’àisthesis non è la mela, ma il “melesco”, non è l’immagine somigliante della mela, la mela che “sembra vera”, ma la Figura della mela, il suo corpo, il ritmo di sensazioni in cui essa consiste. E per dipingere il melesco può non bastare una vita, come ben sapevano i giapponesi riguardo alla pittura di un filo d’erba. Ma non solo i dati figurativi a pre-occupare la tela. Anche il caso, la spazialità empirica della tela, rappresenta un condizionamento ineludibile. I punti di una tela bianca sembrerebbero equivalersi, sono tutti “liberi” allo stesso modo. In quanto bianchi, tutti hanno la stessa probabilità di essere dipinti, occupati dal fatto pittorico. Questo però è vero solo in senso relativo. Anche in rapporto alla probabilità valgono considerazioni simili a quelle fatte sui cliché figurativi: essendo la tela uno spazio delimitato, i punti che si trovano al centro hanno una rilevanza diversa da quelli che si trovano vicino ai bordi o in una zona decentrata. Non solo. Anche ciò che il pittore ha in testa pre-giudica l’uguaglianza astratta dei punti della tela. In quest’ottica, il pittore può dipingere solo quando riesce a mantenersi sul filo del rasoio di una decisione che lo preservi da una doppia caduta: da un lato, quella della mera casualità (tracciare dei segni governati solo dalla probabilità, per cui la tela è uno spazio indifferente) e, dall’altro, quella del condizionamento determinante dei cliché (tracciare dei segni che rappresentino le ingombranti istanze prepittoriche attive).

È quando la probabilità ineguale diventa quasi una certezza che posso iniziare a dipingere. Ma a quel punto, una volta che ho iniziato, come fare perché quanto dipingo non sia un cliché? Bisognerà eseguire prontamente dei “segni liberi” all’interno dell’immagine dipinta, per distruggere in essa la nascente figurazione e dare una possibilità alla Figura, che è l’improbabile stesso. Questi segni sono accidentali, “a caso”, ma è evidente che qui la stessa parola “caso” non designa più in alcun modo delle probabilità, bensì un tipo di scelta o di azione senza probabilità. […] Riguardano solo la mano del pittore. (B, 162-163)

Se il cliché o il figurativo è la resa del pittore al già determinato, alle pre-occupazioni di cui la tela è già satura, esso non può essere superato semplicemente cancellandolo, sostituendo la necessità eteronoma, il figurativo, con la mera arbitrarietà, l’a-figurativo. È quello che fa, ad esempio, l’informale. Ma la casualità probabilistica non è pittorica. Il pittorico è antifigurativo, nasce da una lotta con la rappresentazione, una lotta condotta dalla mano: “è necessario far sorgere la Figura dall’immagine visiva”. La lotta contro il cliché è un corpo a corpo contro il cliché: l’immagine visiva non deve essere cancellata, ma va liberata dallo stereotipo che l’ha generata e questo Bacon lo fa tracciando al suo interno dei segni liberi e accidentali. La Figura è un liberarsi dell’immagine dagli stereotipi, non in direzione di una arbitrarietà casualistico-probabilistica, ma in quanto sostituzione di una necessità estrinseca, quella di rappresentare, con una necessità intrinseca, quella di presentare se stessa. Come in Bachelard la fibra è materializzazione di istanti utilizzati, che non sono mero agglomerato, ma obbediscono a una dinamica intrinseca, così la Figura è “materializzazione” di un movimento, quello della mano, che si oppone a percorsi già tracciati, tracciandone altri: non meri accidenti, ma accidenti manipolati. Lo schema può essere riletto come un incontro della mano con l’occhio. L’antifiguratività del pittorico non è una catastrofe del visibile e della forma, risultato di una reazione intellettuale al visibile, bensì una sua epistrofe (nel senso etimologico di conversione), perché l’atto pittorico consiste tutto in

segni manuali diretti a riorientare l’insieme visivo, ad estrarre la Figura improbabile dall’insieme delle probabilità figurative. (B, 163)

Il pittore, come ogni creatore, non è l’inconsapevole strumento di qualcosa che lo trascende (la Musa ispiratrice, i suoi istinti, o qualsivoglia altra fonte), bensì è uno che deve risolvere un problema chiarissimo nei suoi termini, oscuro nelle sue possibilità: sa ciò che vuole, ma non sa come riuscirci. Sa che deve dipingere sensazioni, ma non sa come evitare che queste si appiattiscano sull’oggetto: il suo vero problema non è entrare nella tela (dipingere oggetti, forme), ma uscirne.

Tra ciò che il pittore vuole fare e ciò che fa, c’è stato necessariamente un come, “come fare”. Un insieme visivo probabile (prima figurazione) viene disorganizzato, deformato da tratti manuali liberi, i quali, una volta reiniettati nell’insieme, formeranno la figura visiva improbabile (seconda figurazione). (B, 165)

Il diagramma

Come uscire, allora, dalla tela? Come dar vita al fatto pittorico? Così Bacon lo descrive.

Fare dei segni casuali (tratti-linee); ripulire, trattare a spazzola o tamponare con lo straccio dei luoghi o delle zone (macchie-colore); lanciare colore da angolazioni e con velocità diverse. Questo o questi atti presuppongono però che sulla tela (come nella testa del pittore) vi siano già dei dati figurativi, più o meno virtuali, più o meno attuali. (B, 167)

È il problema del diagramma, insieme operativo (non figurativo) dei tratti e delle macchie, delle linee e delle zone, che “muovono” la mano del pittore, un “suggerimento” che guida a un tempo l’azione caotico-distruttiva dei dati figurativi e quella cosmico-costruttiva di un nuovo ordine pittorico: un caosmos, non l’astratta possibilità della Figura, ma la sua reale virtualità. È come avere un Sahara nella testa, dice Bacon, non un caos né un’immagine definita, ma molteplici e impermanenti configurazioni possibili. Il deserto è un paesaggio, ha una forma, ma il carattere proprio di questa forma è quello di essere esplicitamente il prodotto di forze che agiscono in continuazione, per cui questa duna ora non c’è più e al suo posto ce n’è un’altra. Le dune sono forme, indubbiamente, ma chi si provasse a definirle in base a questo, si troverebbe fra le mani un pugno di sabbia. La duna è l’esplicitazione di una forza e, nella sua forma, ciò che viene alla presenza è l’impermanenza della forma nell’insistenza delle forze formanti. Il quadro, il fatto pittorico, è il “comporsi” di questo Sahara, diverso sia dal suo “imporsi”, che si ha quando il quadro annega nel diagramma, sfigurato dall’ingombro di linee e tratti casuali, sia dal suo ordinato “disporsi”, che si ha quando il quadro nega il diagramma e i suoi tratti sono impacciati, imprigionati, prefigurati dai dati figurativi. Ogni pittore risponde in modo originale a questo problema di “raccordo” fra caos e nuovo ordine e, secondo Deleuze, si possono individuare tre grandi tendenze.

Vi è innanzitutto la via astratta. Il pittore si innalza al di sopra dei dati figurativi: non li distrugge più con il diagramma, ma li scompone nei loro elementi costitutivi (il punto, la linea, altre forme), che poi codifica. Il codice sostituisce il diagramma, la mano, sottoposta al dominio dell’ottico, si astrae in dito: l’astratto appare come una digitalizzazione del figurativo. L’astrattismo non ha tensione perché scompone la sensazione, neutralizza l’intensità in componenti visive. Vi è, poi, la via informale. Il diagramma, ora, si confonde con la totalità del quadro, il figurativo tracolla sotto la spinta di una forza meramente disordinata e, anziché scomporsi nei suoi elementi formali costitutivi come nell’astrattismo, precipita nella materialità informe. La sovranità non è più dell’occhio ma della mano, il visivo cede completamente al tattile. L’espressionismo astratto è confuso, rimuove la sensazione non più attraverso la sua codificazione in componenti elementari, ma facendola collassare nell’indistinzione. Diversa da queste due vie, ma non intermedia a esse, è la via figurale, la via di Bacon, guidata dalla fondamentale necessità di “salvare il contorno”. Dipingere, per Bacon, significa tracciare il contorno che sappia presentare nello stesso tempo e sullo stesso piano il diagramma e la Figura, che obbedisca all’occhio e alla mano, un contorno che nasca da uno stesso gesto che sia a un tempo distruttivo e costruttivo, caosmico. È grazie alla mobilità del contorno, mobilità che non è solo cinetica, ma in primo luogo dinamica, che la forza può trasformarsi in forma, senza spegnersi in essa, che la sensazione può presentarsi nella Figura, senza irrigidirsi in oggetto (Bacon), che il preindividuale può tras-dursi nell’individuale, senza esaurirsi in esso (Simondon). Se la via astrattiva è digitale e quella espressionistica manuale, se il digitale appare convenzionale e l’espressionismo catastrofico e informale, la via specifica che intraprende Cézanne e, in modo diverso, Bacon è analogica, il che, a prima vista, sembra imporle un certo qual impegno di somiglianza (la Figura, in effetti, ha una sua forma figurativa). Deleuze non respinge il criterio della somiglianza, ma distingue accuratamente una somiglianza produttrice o figurativa, che si ha allorché i rapporti fra gli elementi di una cosa si riproducono direttamente fra gli elementi di un’altra cosa, che sarà quindi l’immagine della prima (pensiamo a una foto), e una somiglianza prodotta o estetica, raggiunta allorché la forma che appare è il risultato di rapporti completamente diversi da quelli che avrebbe dovuto riprodurre, produzione “sensuale” e non imitativa. La pittura, l’arte analogica per eccellenza, obbedisce a questa seconda forma di somiglianza, sorta di modulazione prodotta dalla speciale dinamica del contorno e dal peculiare trattamento del colore, liberato dal ruolo gregario di dare particolarità e abbellimento a una forma già tracciata dal disegno. Ciò che la pittura deve fare è “realizzare la sensazione”, liberare la Figura dall’immagine rappresentativa, e questa è un’operazione di variazione continua o di modulazione degli elementi pittorici. Non poche pagine del saggio di Deleuze sono dedicate a questo problema.

I “mezzi” antifigurativi della pittura

Il saggio si apre ponendo in primo piano un problema squisitamente pittorico. Come evitare che la Figura, trovandosi in rapporto con altre Figure o con lo sfondo sul quale si staglia, assuma inevitabilmente un carattere illustrativo, come evitare che inizi a raccontare una storia? Non dimentichiamo che il pittorico nasce solo quando ha saputo liberarsi del figurativo. Come dipingere più figure, evitando che intrattengano fra loro rapporti rappresentativi, narrativi? Figure che siano, non la rappresentazione di qualcosa o la narrazione di una storia, ma costituiscano rigorosamente un fatto pittorico? È il problema di trovare il luogo proprio della pittura, il problema della forma pittorica o della Figura non figurativa. Il primo problema Bacon lo risolve con uno speciale procedimento, l’isolamento: la Figura, nei suoi quadri, appare spesso isolata da un tondo o da un ovale, altre volte inserita in un cubo o in un parallelepipedo, isolamento che non genera un luogo di confinamento, né tantomeno costringe la Figura all’immobilità, bensì la pone in un campo operativo. Il secondo problema sarà risolto con speciali composizioni, figure accoppiate o trittici, articolate fra loro in modo da istituire rapporti non figurativi. La risonanza è una risposta all’accoppiamento non narrativo delle figure, il trittico, irriducibile a una successione spazio-temporale di immagini o episodi, ma generato dalla sincronia di tre ritmi di base (un ritmo attivo, a variazione crescente o amplificazione, un ritmo passivo, a variazione decrescente o eliminazione e un ritmo testimone, slegato e indipendente dalla Figura) è una risposta alla coesistenza di molteplici figure. Il principio dei trittici è quello di conseguire il massimo di unità di luce e di colore, per il massimo di divisione delle Figure. Il colore universale diventa il fatto comune delle Figure, il loro essere ritmiche. Il problema della pittura è essenzialmente un problema di ritmo, perché la sensazione, che la pittura ha il compito di realizzare, è ritmo.

Nella sensazione semplice, il ritmo dipende ancora dalla Figura, si presenta come la vibrazione che percorre il corpo senza organi, è il vettore della sensazione, ciò che la fa passare da un livello ad un altro. Nell’accoppiamento di sensazione, il ritmo si libera, perché confronta e riunisce i diversi livelli di sensazioni differenti: esso diviene risonanza, ma si confonde ancora con le linee melodiche, punti e contrappunti di una Figura accoppiata; è il diagramma della Figura accoppiata. Con il trittico, infine, il ritmo assume un’ampiezza straordinaria e, in un movimento forzato che gli dà autonomia, genera in noi l’impressione di Tempo. (B, 138)

L’isolamento merita di essere approfondito, perché porta alla luce il problema del rapporto fra la figura e il resto del quadro, quello che, da un punto di vista figurativo, viene chiamato lo sfondo. Il problema è sempre quello di far tacere ogni possibilità narrativo-illustrativa per lasciar parlare il figurale, il pittorico. Bacon usa due procedimenti, quello dei tratti asignificanti e, soprattutto, quello della pulitura locale, che produce ampie campiture.

Il resto del quadro è sistematicamente occupato da grandi campiture di colore vivido, uniforme, immobile. Hanno funzione strutturante, spazializzante. (B, 19)

La cosa importante è lo spazio che queste campiture occupano in rapporto alla Figura: non sono né sotto, né dietro, né al di là di essa. Non c’è, fra la Figura e la campitura, una profondità, una sovrapposizione di piani, una gerarchia spaziale, un davanti e un dietro. Possiamo dire che non c’è spazio per la narrazione. La campitura è accanto alla Figura, campitura e Figura sono due spazi che occupano uno stesso piano ravvicinato, in una relazione di prossimità assoluta. Il concetto di prossimità assoluta va compreso con rigore: significa che ogni punto dello spazio è a un tempo locale e globale, luogo di strutturazione e agente strutturante. La pittura di Cézanne procede de proche en proche, tocco dopo tocco e l’aggiunta di un tocco comporta sempre la modificazione dell’intero quadro. La prossimità assoluta è rigorosa immanenza che ottiene due effetti fondamentali: da un lato, chiude lo spazio allo spettatore, nel senso di generare lo spazio proprio della pittura, senza rimandi, dall’altro, apre un movimento tra la campitura e la Figura che, in forza della prossimità assoluta, non è un movimento narrativo, ma potremmo dire, per usare termini e concetti già incontrati, trasduttivo o di modulazione.

Deleuze individua i tre elementi fondamentali che costituiscono la pittura di Bacon: la struttura materiale, il tondo-contorno e la Figura. Il tondo-contorno ha il carattere della soglia che determina un rapporto non figurativo fra struttura materiale e Figura, membrana, luogo di scambio nei due sensi. Sono questi tre elementi che liberano il quadro da un destino illustrativo-narrativo e lo affidano allo spazio proprio, autosufficiente, della pittura. Lo speciale movimento che proviene dalla struttura e investe la Figura, dandole una forma singolarmente atletica, è contemporaneo a un altro movimento che dalla Figura va verso la struttura materiale, quasi come se questa fuggisse verso la campitura. Da un lato, la Figura sembra divincolarsi dalla campitura, dall’altro, sembra che, nello stesso tempo, sia risucchiata nella campitura. Il contorno è la linea mobile che cattura questo movimento del divincolarsi e dell’essere risucchiato. Leggiamo Deleuze.

La struttura materiale si arrotola lungo il contorno per imprigionare la Figura, mentre questa accompagna il movimento con tutte le sue forze. Solitudine estrema delle Figure, reclusione estrema dei corpi che esclude ogni spettatore. (B, 37)

Il corpo-Figura si costringe ad un intenso sforzo immobile per poter fuggire, passando tutto intero attraverso il tubo di scarico. […] Il corpo tenta di fuggire attraverso uno dei suoi organi, per raggiungere la campitura, la struttura materiale. (B, 41)

In questo duplice movimento, che in Bacon assume declinazioni diverse (lo sfuggire attraverso una punta, lo specchio come spessore opaco in cui il corpo si trasferisce, ecc.), il corpo non ha con la struttura quel rapporto estrinseco, che avrebbe se fosse una forma su uno sfondo, ma un rapporto necessario: se la campitura si arrotola attorno al corpo deformandolo in un singolare atletismo, il corpo deve, nel contempo, ricongiungersi alla campitura e dissiparsi in essa.

Dipingere le forze, realizzare la sensazione

C’è un “luogo comune” in cui tutte le arti stanno, ed è il loro essere non figurative, non rappresentative. Ogni arte, ognuna a proprio modo, ha il compito di captare le forze, non quello di riprodurre le forme. Compito della pittura sarà quello di dipingere le forze. Rimproverare Millet – scrive Deleuze a p. 118 – perché  dipinge dei contadini che portano l’offertorio come se fosse un sacco di patate, significa dimenticare l’affinità profonda fra i due oggetti, cioè la loro pesantezza, la forza di gravità, che è il vero oggetto da dipingere, in nome di un’esteriore distinzione. Il pittore è un rivelatore di forze e il quadro è l’evento che rivela le forze. Se il problema è quello di captare le forze, sarà la statica, la scienza del comporsi delle forze, a “deciderne” forma. Ora, questo problema si articola in tre stadi, che non scorrono nel tempo, ma devono rivelarsi nella sincronia del quadro:

isolare,

Le forze che agiscono hanno come alla supporto le campiture e diventano visibili quando si avvolgono attorno al contorno e arrotolano la campitura intorno Figura. (B, 125)

deformare,

Si impossessano del corpo e della testa della Figura, divenendo visibili ogni volta che la testa si scrolla di dosso il corpo o la testa il volto. (B, 125)

dissipare.

Appaiono quando la Figura sfuma fino a confondersi con la campitura: e a renderle visibili è allora uno strano sorriso. (B, 125)

Dell’isolamento e della dissipazione abbiamo già parlato. La deformazione, che riguarda la forma in riposo, non quella in movimento, è ottenuta con puliture: una parte del volto, là dove agisce la forza, entra in una zona di indiscernibilità, presentandosi come altra sia dalla forma che dal meramente informe.

Se il contorno fosse solo tracciamento dinamico-cinetico, il fatto pittorico si ridurrebbe a una sorta di realismo delle forze, speculare e opposto al realismo delle forme. Il processo di individuazione, o di figurazione nel caso della pittura, non consiste solo nell’emergenza e nella dissipazione della forza, ma anche, contemporaneamente, nella sua estrinsecazione, nello “stare” della forza. La Figura appare non solo in quanto divincolantesi dalla campitura e risucchiata in essa, ma anche, nella sua “fase”, nel suo apparire, luogo d’azione di forze contrastanti, forma deformata. Le zone di pulitura o di indiscernibilità sono i luoghi in cui le forze agiscono, dove il volto scompare per lasciar apparire la testa.

Le deformazioni di Bacon raramente risultano imposte o forzate, nonostante l’apparenza, non sono mai torture: sono, al contrario, le posizioni più naturali di un corpo che si raccoglie in funzione della forza semplice che si raccoglie su di lui, voglia di dormire, di vomitare, di voltarsi, di rimanere seduto il più a lungo possibile, ecc. (B, 120)

La deformazione non è mai lo spettacolo della violenza (l’orrore che suscita il grido), ma la sensazione della violenza (il grido che è orribile).

La zona di indiscernibilità, quella dove il volto si disfa per lasciar emergere la testa, nella pittura di Bacon è la “zona comune” fra uomo e animale, l’essere animale dell’uomo, un fatto, non un concetto. L’animalità che Bacon dipinge non è un genere comune atto a ricevere una differenza specifica, la razionalità, per farsi specie uomo, un’identità in cui inscrivere differenze. Dipingere il fatto dell’animalità significa, al contrario, dipingere l’indisponibilità dell’animalità a “specializzarsi”, a organizzarsi, a diventare questo o quell’animale, questo o quell’organismo. L’essere “luogo comune” dell’uomo e dell’animale comporta la destrutturazione dell’organismo, la sua defunzionalizzazione: il corpo non è più struttura di carne modellata dalle ossa, ma carne e ossa, armatura e massa, che, invece di disporsi nelle rispettive funzioni del sostegno e del modellato, ponendosi quindi su piani gerarchicamente distinti per la profondità, si compongono in un rapporto, per così dire, paratattico, posti sullo stesso piano, l’uno per l’altro, non uno in funzione dell’altro, in prossimità assoluta, non relativa.

Le ossa sono una specie di attrezzi ginnici (carcassa) di cui la carne si serve per le sue acrobazie. L’atletismo del corpo trova un suo naturale prolungamento in questa acrobazia della carne. (B, 56)

La carne come viande è il fatto dell’animalità, la carnalità o la vita. Non è la carne di un organismo, la chair, né la carne semplicemente morta, la carne anatomica. È la carne macellata-nutrimento. Questo è, alla fine dei conti, l’animale per l’altro animale, carne che cammina, che corre, che riposa, che soffre, che gode, che urla, che si dimena. La Figura è viande in senso proprio, corpo che, nel suo divincolarsi dalla campitura, dalla struttura materiale, è già preda, volume che si sottrae al piano materiale, e che ha inscritto nel suo essere il ritorno al piano. Il pittore, allora, è un macellaio sacrificale, che libera il corpo dall’organismo, la testa dal volto, il sensibile dal figurativo. Ma lo fa animato dalla pietas, una pietà che non è dei sentimenti, ma della sensazione: il corpo non è ciò che resta di un organismo, ciò in cui un organismo si degrada o si decompone, ma ciò che l’organismo nasconde, ciò che l’organismo cerca di requisire. La macelleria del pittore libera il corpo dall’organismo, uccide la forma per ricreare la forza.

Dipingere la carne-viande è dipingere la sensazione. Per Cézanne la sensazione della mela, la sua carne, non sono le impressioni di luce e di colore in cui l’aspetto della mela si risolve, ma il corpo della mela, il suo essere “melesco”: significa liberare la Figura della mela dalla sua immagine. Il “melesco” è intensità, non forma, ma deformazione, passaggio (o meglio, caduta) da un livello di potenziale a un altro. La sensazione che la pittura dipinge assomiglia all’affetto spinoziano, una variazione che percorre il corpo, o meglio, una variazione di livello d’essere in cui il corpo consiste. Per Spinoza il corpo è, infatti, la variazione continua, a velocità infinita, della potenza d’essere. Il “melesco” di Cézanne è questo, il corpo della mela, la sensazione della mela è un differenziale nervoso, un esplicarsi cromatico di forze. Così è per il grido. Una pittura figurativa del grido dipinge l’uomo che grida e l’orrore che l’ha suscitato. Ciò che è assente in un’immagine di questo tipo è proprio il grido.

Nel dipinto del papa che grida non vi è nulla che faccia orrore, e la tenda posta davanti al papa non è solo un modo per isolarlo, per sottrarlo agli sguardi, ma è soprattutto il modo per far sì che lui stesso non veda nulla, e gridi di fronte all’invisibile. Così neutralizzato, l’orrore ha il suo culmine nel grido, e non l’inverso. (B, 88)

La sensazione, in quanto vibrazione e intensità, viene persa nella sua vera natura, se catalogata e assegnata a recettori specifici. Se il corpo viene depotenziato e spazializzato in organismo, la sensazione si banalizza in impressione specifica. Il corpo senza organi non è un corpo informe, indifferenziato, ma un corpo in cui l’organo non è parte di un’organizzazione, bensì soglia o livello. Il corpo senza organi è una realtà intensiva, è la Figura opposta all’oggetto o alla sua copia, che appartengono allo stesso ordine di realtà. La Figura è antifigurativa proprio in quanto realtà intensiva, una realtà che ha la propria natura nella differenza di livelli, nella potenzialità, non nell’estensione. Comprendere il corpo senza organi significa comprendere un concetto di individuazione che non è lo stesso che guida l’organismo. Questo ha come principio esplicativo il già determinato, il già individuato. Ben altra è l’individuazione del corpo senza organi.

L’onda percorre il corpo [è il movimento trasduttivo che, in un altro articolo, abbiamo già visto in Simondon]; a un certo livello e a seconda della forza incontrata, si determinerà un organo; quest’organo cambierà se la forza stessa cambia o se si passa a un altro livello. In breve, il corpo senza organi non è definito dall’assenza di organi, né semplicemente dall’esistenza di un organo indeterminato, ma si definisce attraverso la presenza temporanea e provvisoria di organi determinati. (B, 106)

Ciò che il corpo senza organi distrugge è l’esistenza separata del corpo e dell’organo o, ma significa dire la stessa cosa, l’incatenamento del sorriso al volto, del grido alla bocca. Come nel corpo senza organi il corpo insiste alla scomparsa dell’organismo, il sorriso alla scomparsa del volto, così nella Figura la presenza insiste alla distruzione della rappresentazione, la sensazione alla catastrofe dell’oggetto. Presenza interminabile la chiama Deleuze. Ora è proprio l’insistenza della presenza nella distruzione della rappresentazione a svelare la materialità di cui è fatta la forma, la “stoffa” di cui la forma consiste. Così come, da un punto di vista ontologico, è l’insistenza dell’individuazione nella distruzione degli individui a svelare l’univocità dell’essere.

Il colorismo

Solo la pittura può risolvere il compito di presentare la materialità del corpo, grazie “al suo sistema di linee e colori e al suo organo polivalente, l’occhio”. La differenza fra la Figura e la campitura nella pittura di Bacon è non tanto una differenza di forme, quanto una differenza cromatica, un modo diverso di trattare il colore: il monocromatismo della campitura è un cromatismo sovrasaturo, incompatibile, necessitato a modularsi nel cronocromatismo del corpo, che appare non come forma divenuta, staccata da uno sfondo a cui si oppone, ma come forma che presenta le forze che l’hanno generata. Il contorno non separa né confonde, bensì libera. I toni spezzati costituiscono la carne della Figura, come la plaga costituisce la dimensione della campitura. Il colore-struttura fa posto al colore-forza. Il colore pone il problema di distinguere fra rapporti di valore, basato sul contrasto del nero e del bianco, e rapporti di tonalità, basati sul contrasto dei toni. Ben diverso, ad esempio, è il grigio ottico (ottenuto con la mescolanza di bianco e nero) e il grigio aptico (ottenuto con la mescolanza dei colori complementari). Se prevalgono i rapporti di valore, si parla di luminismo (il colore ha una luminosità o un’oscurità, è un problema dell’occhio in quanto vede), altrimenti si parla di colorismo (il colore ha una “temperatura”, caldo o freddo, è un problema dell’occhio in quanto “tocca” o “tasta”). Il mosaico bizantino, ad esempio, risolve otticamente il problema del colore, intendendo il colorismo come luminismo, modulando il colore come modulazione della luce. La pittura di Bacon, invece, è un colorismo, che ci apre a un “nuovo Egitto”, un Egitto dell’accidente che diviene durevole.

Il colorismo o modulazione non consiste solo nel rapporti di caldo e di freddo, di espansione e di contrazione che variano in base ai colori considerati; esso consiste anche nei regimi di colori, nei rapporti fra i regimi stessi, negli accordi fra toni puri e toni spezzati. Ciò che chiamiamo visione aptica è questo senso dei colori. (B, 223)

E ancora

Tutto il problema della modulazione sta nel rapporto tra i due elementi, tra la materia di carne e i grandi squarci uniformi. Il colore non esiste come sfumato, bensì in questi due modi della chiarezza: le plaghe di colore vivo, le colate di toni spezzati. (B, 209)

Nel primato assegnato al colore, la forma precipita, non è più essenza, ma accidente.

Il diagramma disfa il mondo ottico, per essere al contempo reiniettato nell’insieme visivo dove determina un mondo propriamente aptico. (B, 205)

Il colorismo, che sostituisce i rapporti di valore con rapporti di tonalità, è visione aptica. La luminosità non è più luce ottica, bensì bagliore che si genera dai colori complementari. Le differenze sono differenze di saturazione piuttosto che di valore. Il “chiaro” è una proprietà del colore, non della luce. O, meglio ancora, il colore ha una sua luce.

Una breve storia della pittura

Nel saggio di Deleuze l’influenza di Alois Riegl, con i suoi concetti di spazio aptico e spazio ottico, è palese e rappresenta la base per una breve ma intensa storia della pittura. Il rapporto fra l’occhio e la mano, essenziale nella pittura, dà luogo a diversi aspetti dei valori della mano: il digitale: la mano è interamente subordinata all’occhio, la visione si fa interna, la mano si riduce a dito, che interviene solo per scegliere le unità corrispondenti a delle forme visive pure; il tattile: è una subordinazione allentata della mano all’occhio, acquistano rilevanza, nel dominio ottico, riferimenti che sono propriamente manuali, come la profondità, il contorno, il modellato, ecc.; il manuale: insubordinazione della mano all’occhio, alla vista si impone uno spazio senza forma e un movimento senza sosta; l’aptico: integrazione della mano e dell’occhio, la vista scopre in sé una funzione tattile che gli è adeguata.

L’Egitto produce l’arte in cui più stretta è la connessione fra occhio e mano. Nel bassorilievo trova corpo quella che viene chiamata arte aptica, una particolare geometria diversa sia da quella puramente ottica che da quella puramente tattile: qui l’occhio procede in modo simile al tatto. È una geometria della superficie piana, dove la forma e il fondo sono sullo stesso piano e il contorno è a un tempo linea comune fra la forma e il fondo e linea che isola la forma in quanto essenza. È un’essenza non sostanziale, ma figurale.

L’arte greca o classica conquista invece lo spazio ottico, attraverso la distinzione dei piani, l’invenzione della prospettiva (privilegio del piano avanzato) e del gioco di luce e ombra. Se l’arte egizia è l’arte della forma essenziale, quella classica è l’arte della forma fenomenica, della forma riferita all’accidente, ma in quanto questo manifesta l’essenza (non quindi della forma apparente). La rottura dello spazio aptico non apre, però, al puramente ottico: quello classico è uno spazio tattile-ottico, dove il tattile è subordinato all’ottico. La pittura non esprime più l’essenza, ma la connessione fra l’accidente e l’essenza, perciò è il contorno l’elemento operativo che guida il costituirsi della forma classica. Non è più geometrico, ma organico, si fa tangibile, non intaccato dai giochi di luce, dai contrasti di chiaroscuro.

Con l’arte bizantina si giunge all’esposizione di uno spazio ottico puro. Rovescia l’arte greca cancellandone i contorni: figura e fondo vengono riportati su uno stesso piano, ma non per l’azione di una linea di contorno che ha la stessa stoffa del fondo e della forma, ma per il dissolversi del contorno nei giochi di luce, nell’alternarsi del chiaroscuro. La forma si fa impalpabile, l’organicità classica si destruttura in composizione, le forme sono sempre sul punto di disgregarsi nella luce. L’iconoclastia sarebbe, allora, una reazione del sensibile contro la sua spiritualizzazione.

L’arte gotica, infine, impone uno spazio manuale violento. Rovescia l’arte greca cancellando i contorni in modo diverso dall’arte bizantina: restituisce al tatto la sua pura attività, anima la linea di una vitalità non organica. La linea e il piano tendono a eguagliare le loro potenze. L’idealismo metamorfico dell’arte bizantina (sublimazione e disgregazione della forma nella luce) lascia il posto al realismo catamorfico (catastrofe della forma nella materialità informe). Lo spazio manuale si avvale di aggregati manuali piuttosto che di disgregazione luminosa.

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