3 – L’immagine della realtà naturale da Aristotele alla fisica moderna. Il concetto di spazio nella “Fisica” di Aristotele

In questo articolo fissiamo la nostra attenzione sul concetto di spazio in Aristotele. Consecutivo, contiguo, continuo sono termini visti nel precedente articolo. Per Aristotele lo spazio è una quantità continua. Questo significa che in realtà non esiste affatto “un punto dello spazio”. Essendo il punto un qualcosa di determinato e di “discreto”, di “granulare”, esso è incompatibile con la continuità spaziale. Tutti concetti visti la volta scorsa. Eppure, tutti noi abbiamo sentito parlare di punti: ad esempio, un punto su una retta, il punto di tangenza di una retta con una circonferenza, il punto mediano di un segmento, ecc. Gli esempi fatti sopra interessano lo spazio geometrico, matematico, una dimensione che non riguarda la realtà naturale, ma la “realtà mentale”. Il punto di una retta non “esiste”, è un’astrazione, come astrazione è la stessa retta o un suo segmento. Allora, il punto matematico lo possiamo definire come il “limite in-esistente” fra due regioni spaziali. Ad esempio, il punto di una retta può essere determinato solo come “limite inesistente” (inesistente perché ha solo un’esistenza logica, mentale, virtuale) fra due semirette. Se, anziché prendere un punto, prendo una figura geometrica e mi chiedo in che modo “sta” un triangolo nello spazio matematico, il quadro concettuale non cambia. Anche il triangolo geometrico sta nello spazio come ci sta un punto, in modo virtuale, come un “ritaglio mentale”. Nulla di nuovo rispetto a quanto visto la volta scorsa.

 

Ora viene un piccolo scoglio. Un triangolo di cartone o di metalloc’è”, mentre un triangolo come figura geometrica è una figura astratta: in uno spazio continuo, omogeneo, astraggo una “porzione” che obbedisca a determinate proprietà e la chiamo “triangolo”. Il triangolo di cartone “sta” nello spazio fisico nello stesso modo in cui il triangolo geometrico sta nello spazio matematico? Viene spontaneo dire di no e questa volta la spontaneità ha ragione: il triangolo di cartone “occupa” di fatto uno spazio, ha un suo “luogo nello spazio”, un suo “dove stare”. Il triangolo di cartone, a differenza di quello geometrico, ha un “qui”, un “là”, un “lontano da me”, un “sopra quel tavolo”, ecc. Aristotele si chiede: che rapporto c’è fra il triangolo di cartone (un corpo reale in uno spazio reale) e lo spazio in cui il triangolo si trova? Fra il triangolo di cartone e il luogo che il triangolo occupa? Visualizziamo bene le due entità da relazionare: un triangolo reale (e non più una figura geometrica o mentale) e un luogo ben determinato dello spazio, il luogo occupato dal triangolo di cartone. La domanda non riguarda il rapporto fra luogo occupato dal triangolo e spazio di cui il luogo preso in esame è una porzione. La domanda riguarda il rapporto fra corpo e luogo, non fra luogo e spazio. Questa precisazione ci fa capire dove sta la differenza fra spazio matematico e spazio naturale e fra figura geometrica e figura reale. Nel caso della geometria è un rapporto fra “spazi”: il triangolo geometrico è un ritaglio mentale dello spazio geometrico, non è un corpo reale; anche il “luogo” di un triangolo geometrico è mero spazio geometrico. Spazio e spazio: grandezze continue; fra loro hanno solo un rapporto “virtuale”. Il triangolo traccia un limite “inesistente”, virtuale in uno spazio mentale. Nell’ambito della realtà naturale, invece, non è più un rapporto fra “spazi” matematici, ma fra corpo (triangolo di cartone) e spazio (il luogo fisico occupato effettivamente dal triangolo di cartone). Anche quest’ultimo, per certi versi, un “corpo”. Questo rapporto è un rapporto di contiguità e non più di continuità. Perché di continguità? Perché i limiti dei due enti in relazione coincidono, ma non si confondono. Il “limite”, il “contorno”, termine che si chiarirà fra poco, del triangolo di cartone “coincide” con i limiti del luogo in cui il triangolo si trova. Ciò comporta che il triangolo di cartone (“mera estensione nella sua essenza”, dirà secoli dopo Descartes) e il luogo che esso occupa si distinguono realmente ed essenzialmente. Sono due “realtà naturali”, la cui natura dovremo indagare, non un’unica realtà mentale su cui pratico delle astrazioni, come nel caso di figure geometriche in uno spazio matematico. Per Cartesio, invece, c’è una distinzione reale o solo modale? Sono due distinte realtà o due modi diversi della stessa sostanza? Vedremo nella parte dedicata a Descartes cosa pensava il filosofo francese della relazione fra corpo e luogo occupato dal corpo.

 

Per entrare in maniera più diretta nella tematica aristotelica dello spazio, notiamo che lo Stagirita non è interessato al problema della localizzazione indeterminata di un ente in quel luogo comune o universale che è il mondo considerato nel suo complesso. Aristotele cerca la determinazione del “luogo proprio” di ogni ente. Non gli interessa lo spazio assoluto. Questa sarà un’idea di Newton, secondo il quale lo spazio è un contenitore universale, omogeneo in tutte le sue parti, dove accadono gli eventi naturali. Aristotele crede nell’esistenza di luoghi naturali. Alto e basso, destra e sinistra, ecc., per lui sono proprietà specifiche dello spazio e non, come siamo portati a pensare noi (correttamente), direzioni determinate dalla nostra presenza nello spazio. Per il filosofo greco alto e basso non dipendono da dove mi trovo io, ma appartengono proprio alla realtà dello spazio. Perché l’alto è il luogo proprio del fuoco, il basso quello della terra e le posizioni intermedie sono occupate da aria e acqua, secondo l’arcaica dottrina dei quattro elementi. Ogni cosa nel cosmo aristotelico ha una sua dimora, una sua casa, un posto assegnato, sicché non di spazio si tratta, ma appunto di luogo, di posto. È questa la convinzione che guida l’analisi filosofica del τόπος (topos), il luogo, condotta nel IV libro della Fisica. L’esperienza del luogo è un’esperienza talmente originaria, da rendere indubitabile la convinzione che il luogo esista. Eppure non è semplice capire cos’è il luogo. Quando ci proviamo, una quantità di aporie, di dubbi, di difficoltà si affollano nella nostra mente. Aporia, termine interessante. In greco ἀπορία (aporia). C’è l’-ἀ privativo e il termine πόρος (poros), passaggio, mezzo: ho la via ostruita, non riesco a procedere, ad andare avanti. La riflessione sullo spazio, dice Aristotele, è aporetica, mi fa impigliare in una miriade di difficoltà. Perché? Perché uso concetti inadeguati per comprenderlo. Soprattutto perché mi ostino a pensarlo come un ente determinato, un “qualcosa che è”, allo stesso modo in cui solitamente penso i corpi. E questo è palesemente un abuso. Infatti, se penso al luogo come ente corporeo, allora dovrebbe esserci un luogo del luogo (ogni corpo infatti è in un luogo), e così via all’infinito, ricadendo in tutti i paradossi del regresso all’infinito. Un’aporia. Se lo penso, invece, come un ente solo intelligibile (o matematico), esso sarebbe del tutto privo di estensione. Un’altra aporia! Ebbene, lo spazio non è una cosa, né corporea, né matematica. Pur essendo qualcosa di naturale, di “somatico” come vedremo fra poco.

 

E allora, cos’è? È quello che dobbiamo scoprire, con l’ausilio di una complicata, ma raffinata analisi. Fissiamo intanto questo: lo spazio non è una cosa (assodato, se non vogliamo cadere nell’intrico delle aporie), anche se è strettamente connesso alle cose. Lo spazio è “ciò che delimita e determina ogni cosa”. Delimitare, determinare. L’analisi aristotelica dello spazio si precisa come l’analisi di questi due termini. Per il filosofo il luogo va inteso secondo una duplice determinazione. Innanzitutto è un aspetto comune nel quale stanno tutti i corpi. Ogni corpo è strutturalmente nello spazio. Se un corpo è un corpo, deve essere da qualche parte, deve essere in qualche “dove”, deve occupare una posizione rispetto a qualcos’altro. Provate, se ci riuscite, a pensare un corpo reale che non abbia un luogo in cui stare. Questo significa che, necessariamente, un corpo ha un “fuori”. Perché? Per il concetto di “collocazione”: l’essere-qui di un corpo (avere un luogo in cui stare) comporta due cose necessariamente: Il suo non-essere-là (ovvio, se è qui, non può essere là) e l’essere-là di qualcos’altro, e questo è un po’ (ma solo un po’) più complicato da capire. Provate, se ci riuscite, a pensare uno spazio con un solo corpo. Sparisce il “dove”. Come indichi dov’è una cosa senza alcun punto di riferimento? Quindi non può esistere un corpo che non sia genericamente in uno spazio. Inoltre è quella determinazione particolare in cui un corpo immediatamente è. E qui lasciamo parlare Aristotele

Ad esempio, io dico: tu ora sei nel cielo in quanto che tu sei nell’aria – quest’aria è infatti nel cielo – e sei nell’aria in quanto che sei sulla terra, e allo stesso modo sei su quest’ultima perché sei in questo luogo, il quale contiene null’altro che te. (Fisica, 209 a 34-35).

La prima determinazione parla dello spazio in generale in cui un corpo, in quanto tale, necessariamente è. La seconda determinazione sottolinea il luogo specifico dello spazio in cui il corpo, ogni corpo, necessariamente si trova.

 

Il luogo, per Aristotele, è, in ultima analisi, un “contenitore”, un limite (coincidente con il limite del corpo contenuto, perciò luogo e corpo sono contigui). In questo senso Aristotele dice che il luogo è una “determinazione” del corpo. La parola de-terminazione è sinonimo della parola de-limitazione. Fissiamo bene questo concetto di determinazione perché lo ritroveremo nel corso dell’analisi. Il “luogo” come determinazione essenziale dell’ente esistente: determinazione in quanto lo delimita; essenziale in quanto è una proprietà ineliminabile di un corpo (che è sempre in un luogo); esistente in quanto è propria di un corpo effettivo, di un corpo concreto, non di una semplice e astratta figura geometrica. Queste caratteristiche portano Aristotele a dire che il luogo è ciò per cui “l’essere dell’ente è un essere-nel mondo”. Il luogo aristotelico esprime la collocazione qualitativamente determinata dell’ente nel mondo. Senza un luogo in cui stare un corpo non è un corpo, ma un semplice ente di ragione come il triangolo geometrico. Senza un corpo effettivo che lo occupa, uno spazio non è un luogo, ma ancora una volta un ente di ragione come lo spazio matematico.

 

Vediamo allora la definizione di luogo data da Aristotele

limite immobile del corpo contenente, immediatamente contiguo al corpo contenuto e non costituente con esso un continuo (tò péras toû periéchontos sómatos) (Fisica, 212 a 20)

È una definizione che va attentamente interpretata, anche se in parte dovrebbe già essere abbastanza comprensibile in base a quanto finora detto. Segnamoci solo tre termini di questa definizione prima di proseguire. πέρας (peras), è il termine, il limite, il confine. Il perimetro è il contorno, il confine di un corpo, di una figura. Da qui περιέχω (periecho), abbracciare, circondare, contenere, avvolgere, delimitare. Infine, σῶμα (soma), corpo. Pensiamo ai tratti somatici, i lineamenti del corpo. Facciamo attenzione che luogo e corpo sono entrambi “soma”, in tal senso da intendere come realtà naturali. L’uno è un “soma” limitante, l’altro un “soma” limitato.

 

Procediamo ora all’interpretazione. Il luogo, in quanto limite, è ciò che è immediatamente in contatto con il corpo, inseparabile da esso, e che, tuttavia, non può essere confuso con la cosa. Ricordiamo che corpo e luogo sono “contigui”, quindi in “contatto”, ma non confusi, come sarebbe se fossero “continui”. A costo di diventare noioso non mi stanco di sottolineare la differenza: un triangolo geometrico è continuo con lo spazio geometrico da cui è solo astrattamente ritagliato; un triangolo di cartone è continguo allo spazio fisico in cui si trova. Aristotele ricorre ad un’analogia: il corpo è nel luogo come l’acqua è in un vaso. Questa analogia è molto significativa perché ci permette di evidenziare alcune caratteristiche del luogo. Permane la distinzione fra contenente e contenuto, il vaso e l’acqua sono fra loro distinti, così come il luogo e il corpo; anche se il luogo, a differenza del vaso, non può sussistere senza il corpo (quindi l’analogia non è perfetta). Il luogo, che pure esiste, non è preso per ciò che è, ma per ciò che fa. Il vaso non è preso per le sue caratteristiche (di creta, di vetro, ecc., colorato, trasparente, ecc.), ma per la sua funzione: delimitare, contenere. Tutto ciò lo possiamo sintetizzare dicendo che “luogo e corpo sono in un rapporto di reciproca implicazione”. Questo è un rapporto di contiguità, non di continuità.

 

Vi è un brano di fondamentale importanza per la comprensione della nozione di luogo in Aristotele (Fisica, 211 a 30-34; 211 b 5). È il punto più difficile della trattazione, perciò suddivido questo passo su più righe (sottolineature mie).

Quando ciò che avvolge (tò periéchon) non è scisso dal corpo, ma è continuo (synechés) con esso, non si dice che la cosa è in ciò che la contiene come nel luogo, ma che essa è in esso come una parte nel tutto (hòs méros en hólo).

Ma quando una cosa è distinta (diereménon) e in contatto (aptómenon), essa è primariamente nel limite estremo di ciò che è contenente (en próto estí tô escháto toû periéchontos), e questo non è né parte del contenuto che esiste in esso, né maggiore della sua estensione, ma uguale, poiché i limiti estremi dei corpi in contatto sono in esso (en tô autô tà éochata tôn aptoménon).

… Sulla base di quanto esposto, è chiaro che cos’è lo spazio.

Nessuna paura. Ora decifreremo questa “oscura” definizione. Possiamo subito individuare due parti, la prima comincia con “quando ciò che avvolge …”, la seconda con “Ma quando una cosa è distinta …”. Aristotele distingue due modalità dell’avvolgere, del circondare (periéchein): l’avvolgere in modo tale che il circondato sia una parte nel tutto e l’avvolgere in modo che il circondato sia un corpo in un luogo. Nel primo caso la parte non ha un’esistenza in sé, staccata dal tutto a cui appartiene. Ne abbiamo già parlato: è il caso dello spazio geometrico e di figure in esso ritagliate. Un triangolo geometrico è un sottoinsieme dello spazio geometrico. Questo non è il luogo in cui il triangolo si trova, ma l’intero di cui è parte. Sottolineiamo il senso etimologico del verbo contenere (continere, synechein), fondere in un tutto. Il triangolo geometrico è la parte di un intero, parte dello spazio geometrico. E le parti in cui un intero può essere diviso non si trovano in luoghi diversi, ma tutte nello stesso luogo. Nell’intero.

 

Qui gioca un ruolo fondamentale il concetto di limite. Il peras. Come ormai sanno anche i sassi, è in base al limite che si distingue continuità e contiguità ed è in base al limite che si distingue un corpo in un luogo e una parte in un tutto. Nella Metafisica, quinto libro, 17 4-5, il limite viene definito come il termine estremo di ciascuna cosa. Quel termine “al di là” del quale non si può più trovare nulla della cosa (oltre il limite la cosa non c’è più) e “al di qua” del quale c’è tutta la cosa.

Ebbene, nel concetto di parte ciò che manca è proprio la determinazione “spaziale”. Il limite che determina una parte rispetto al tutto è lo stesso limite che determina il tutto rispetto alla parte. Continuità = confusione dei limiti (i limiti sono astrazioni, non realtà). Contiguità = coincidenza dei limiti (i limiti sussistono, sono reali, anche se coincidono). La parte è tale in quanto è continua con il tutto, in quanto al di qua e al di là del limite c’è ancora e sempre la stessa cosa.

 

Il limite spaziale determina, definisce la cosa, ma definizione si dice in molteplici modi. Due in particolare sono rilevanti. Un conto è definire un cosa nel senso del “dove”: qual è la sua posizione? il suo hic? (a cui potremmo aggiungere anche il nunc temporale, ma non complichiamo troppo). Questa definizione è detta esistenziale: indicando il luogo e il tempo della cosa, mi dice che la cosa “c’è” effettivamente, quindi esiste. Un altro conto è definire una cosa nel senso del “che cos’è”: quali sono le sue caratteristiche essenziali, le sue proprietà intrinseche? Questa definizione è detta essenziale: dicendo che l’uomo è “animale razionale”, mi indica il genere prossimo (animale) a cui l’uomo appartiene e la differenza che lo specifica all’interno di questo genere (la razionalità, che fra tutti gli animali, appartiene solo all’uomo). Non mi dice più che la cosa c’è, ma che cos’è la cosa di cui parlo.

 

Una cosa è una cosa determinata e reale solo se il suo “che cos’è” può consistere, collocarsi, prendere posto, determinarsi in quanto compiuta in sé e altra rispetto a ciò che la circonda. Mi spiego. Io posso definire (nel senso di che cos’è, nel senso di elencarne le caratteristiche) un centauro. Ma, essendo questo un ente immaginario, ha un posto nella mia fantasia, ma nessun posto nella realtà esterna alla mia mente. Il centauro “è qualcosa” (ha un’essenza) “che non esiste” (non ha un’esistenza). Il centauro non ha nessun posto nella realtà.

 

Il limite assicura la distinzione della cosa. Distinzione, diairesis (διαίρεσις), significa prendere qualcosa e allontanarla o isolarla, farla diventare qualcosa di separato, di distinto. La dieresi separa un dittongo e lo fa diventare uno iato. È proprio ciò che fa il limite. “È grazie a esso che la cosa può apparire”. Senza di esso sarebbe confusa con l’ambiente, con il tutto. Naturalmente la diairesis  non è sufficiente per la consistenza della cosa. Abbiamo bisogno dell’altra funzione del limite, quella che determina l’essenza dell’ente, il che cos’è, la sua forma essenziale. È il limite in quanto responsabile della forma (εἴδος, eidos) di un ente. Separazione (da un tutto indistinto) e forma (propria, specifica e non generica) sono essenziali perché un ente sia qualcosa di determinato. Ma non bastano ancora!! Io posso avere, e in effetti ho, molti concetti, ben distinti l’uno dall’altro, ognuno di questi chiaro alla mia mente, cioè ben determinato nelle sue caratteristiche, e tuttavia non dirò mai che questi concetti hanno un posto nella realtà. Essere enti distinti e ben formati (come i concetti) è una condizione necessaria ma non sufficiente per esistere. Per avere un posto nella realtà.

 

È qui che entra in gioco la seconda modalità dell’avvolgere, del cicondare. Perché il distinto possa apparire nella realtà e non solo nel pensiero esso deve essere anche “connesso” (ἅπτειν, haptein, essere in contatto) con un altro distinto. Ecco il colpo di genio di Aristotele: un distinto connesso con un altro distinto e così via all’infinito è il modo per dire che “i distinti” sono esteriori gli uni agli altri. In questo senso lo spazio è nella sua essenza “esteriorità”. Un ente è nello spazio se è distinto e in contatto, se non si confonde con ciò che lo circonda, ma ne emerge implicandolo.

 

In quanto limite, il luogo non è qualcosa, ma una delle condizioni necessarie perché il qualcosa sia. È un “soma”, ovviamente, altrimenti non sarebbe una realtà naturale, ma non viene preso come qualcosa, ma come un “operatore”. Non il vaso in quanto specifico vaso, ma il vaso in quanto generico contenitore. Ricordate che all’inizio della trattazione Aristotele aveva detto che finora non si è mai capito davvero lo spazio perché, anziché considerarlo come condizione della cosa era considerato a sua volta “cosa”? Ecco che il filosofo ha sciolto l’enigma. Ma l’analisi non è ancora finita. Lo spazio è un limite e un limite è sempre limite di qualcosa. Ora, Aristotele esclude che lo spazio sia limite del corpo contenuto, perché, se così fosse, coinciderebbe con la forma di tale cosa. Perciò egli precisa che:

Entrambi, forma e luogo, sono limiti (pérata), ma non della stessa cosa: la forma lo è della cosa (prágma), mentre il luogo lo è del corpo (sóma) avvolgente. (211 b 14)

La distinzione fra “pragma” e “soma” è altamente significativa: quando parlo dell’acqua (il pragma) in un vaso (il soma), l’acqua è il corpo, il vaso è il luogo. L’acqua mi interessa per ciò che è, il vaso per ciò che fa.

 

Cosa significa, alla fine, essere limite del corpo avvolgente? Il limite del corpo è la forma del corpo. Si esclude però che il luogo sia la forma della cosa che sta in esso. Esso sarà allora la forma di ciò che non è la cosa, ma che circonda, avvolge la cosa. Una complicazione non da poco. Nell’accezione aristotelica, la forma di una cosa è la sua attualità, il suo esistere effettivo. Questo significa che, definire il luogo come limite del corpo avvolgente significa comprendere simultaneamente la cosa e il mondo circostante, la figura e lo spazio. Allora,

il luogo è uno con le cose (háma tô prágmati ho tópos), perché i limiti sono uno con il limitato. (212 a 30)

Qui la traduzione può essere fuorviante. Forse, anziché il termine “uno” è meglio usare il termine “assieme”, oppure “simultaneo”, per non confondere tale modalità dell’essere-con (essere in contatto), con quella dell’essere-con della continuità. I limiti della cosa e quelli del luogo, pur distinti, sono assieme, contigui. Coincidono, ma non sono “uno”. Anche se sopra si è detto che il luogo è limite, e perciò forma, del corpo avvolgente, non bisogna fraintendere tale affermazione.

 

Ciò che determina realmente il concetto di luogo, ciò che rende peculiare il suo essere limite, non sta tanto nell’essere forma o attualità di qualcosa, ma nell’essere simultanea distinzione (posizione) della cosa e del suo luogo. Dell’acqua e del vaso. Contiguità e non continuità dei limiti significa definirsi rispetto all’altro da sé, ma non riguardo all’essenza, bensì rispetto al dove, riguardo alla reciproca posizione. E questo è il fondamento stesso dell’esteriorità, per cui

quel corpo, al di fuori (ektós) del quale esiste un corpo che lo contiene, è in un luogo, altrimenti non lo è. (212 a 31)

ma è anche il fondamento stesso dell’esistenza del mondo.

Ciò che è in un luogo (pou), è qualcosa (ti), e qualcos’altro (állo ti) deve esistere, oltre a ciò, che lo contiene. (212 b 15).

In conclusione, dire che il luogo è il limite del corpo avvolgente significa dire che il luogo è il distinguersi tangibile, sensibile, delle cose. Significa dire che le cose sono nella realtà esterna e non solo nella mente. La cosa non è considerata in quanto tale – distinzione formale, intelligibile – ma in quanto cosa in uno spazio. Non cosa determinata nella sua essenza (come un concetto), ma cosa determinata nella sua effettiva, concreta, presenza (come un oggetto). Si può dire, con questo, che la teoria aristotelica costituisce la fondazione filosofica dell’esperienza qualitativa del luogo, in quanto dialettica di cosa e spazio.

 

Spazio e luogo esistono (éstin ho tópos kaì pou), ma non come in un luogo, bensì come il limite esiste in ciò che è limitato.

Detto diversamente, lo spazio non è a sua volta in uno spazio, ma è il limite effettivo delle cose.

Non tutto ciò che esiste (ou pân tò ón) è pertanto in un luogo, ma solo il corpo che si muove (allà tò kinetòn sôma). (212 b 28-30a).

Il corpo in divenire, il corpo naturale. La stretta correlazione fra corpo e luogo viene alla luce, infatti, a causa del movimento. Solo grazie a esso è possibile distinguere fra il luogo nel quale il corpo si muove e il corpo che nel luogo si muove. In rapporto allo spazio, il movimento è un fenomeno di sostituzione (antiperístasis): il pesce e l’acqua dov’esso si muove prendono a volta a volta il posto l’uno dell’altro. Questo sta a significare due cose: da un lato, il luogo si viene a determinare solo nel movimento (divenire), dall’altro tale determinazione non può prescindere dal rapporto del corpo in movimento con gli altri corpi. In sostanza il luogo si determina tanto in rapporto al corpo contenuto, di cui esso è limite contenente, quanto come relazione reciproca che un corpo in movimento assume rispetto a tutti gli altri corpi. Se, in base a tale caratterizzazione relazionale, il luogo è sempre, oltre che luogo di un corpo, anche luogo di un corpo in rapporto ad altri corpi, allora appare chiara l’affermazione di Aristotele riguardo al non luogo dell’universo. Esso, inteso come totalità, non ha niente al di fuori di sé.

 

Non possiamo evitare, alla fine di questa parte, di segnalare il deragliamento antiscientifico di Aristotele: responsabile di tutto è il suo pregiudizio finalistico. Secondo questa prospettiva, il vuoto, per Aristotele,  non è, come credevano gli Atomisti (ma avevano ragione loro!), la condizione fondamentale del movimento e del cambiamento, anzi, li renderebbe addirittura incomprensibili. Essendo il vuoto privo di qualsiasi proprietà locale naturale, quale “ragione” ci sarebbe, infatti, per determinare il movimento di un corpo in una qualsiasi direzione? Visto che per lui tutto avviene secondo un fine! Come si potrebbe spiegare quell’accelerazione del movimento del corpo in vicinanza del suo “luogo naturale”? Senza il finalismo (che è anche un dinamismo, cioè movimento secondo forze), il meccanicismo puro non riuscirebbe neppure, a suo dire, a costituirsi nell’ordine dei movimenti violenti (movimenti di allontanamento dai luoghi naturali: il sasso che è terra che si muove verso l’alto, luogo del fuoco): questi, infatti, si possono comprendere solo come snaturamento dei moti naturali. Il sasso va verso l’alto solo perché lo lancio verso l’altro. Il vuoto, infine, essendo definito dall’assenza di qualunque contenuto, contraddice alla stessa natura del luogo: limite determinato di un contenuto reale.

 

L’universo (tò pân) è il luogo comune degli esseri naturali e dei loro movimenti ed è il primo dei motori mossi. Nulla avendo fuori di sé, è perfetto e, come tale, finito e muoventesi col moto che più si addice alla sua perfezione, quello circolare. In esso sono comprese tutte le direzioni del moto rettilineo, perciò nell’universo si manifesta una prima diversità qualitativa, quella dei luoghi naturali, connessa a opposizioni qualitative fondamentali: l’alto è il luogo del leggero assoluto, il basso il luogo del pesante assoluto. Donde quattro corpi semplici elementari, le quattro materie. Anche il movimento eterno circolare ha un elemento corrispondente, la quinta materia o quintessenza (l’etere). L’universo è così diviso in due grandi regioni profondamente diverse l’una dall’altra (il mondo dei corpi celesti e il mondo sublunare), altro aspetto che evidenzia il carattere qualitativo della fisica aristotelica. Ogni regione dell’universo è caratterizzata da un proprio elemento (o insieme di elementi) e ognuno di essi è dotato di uno specifico movimento, obbediente al principio generale secondo il quale ogni elemento si muove verso il suo luogo, se non è impedito (Fis. IV,1, 208b 10). È tale principio che stabilisce l’esistenza dei luoghi assoluti, sede naturale degli elementi, ai quali essi ritornano quando ne sono allontanati. Il nostro Aristotele, dopo la rigorosa analisi del “luogo” si è perso nella più gratuita delle speculazioni. Purtroppo sono queste bizzarre e farneticanti elucubrazioni che, complici la filosofia cristiana e una turba di indegni epigoni, sono rimaste legate al suo nome e l’hanno fatto diventare, lui, logico severo e attento osservatore, un enorme macigno posto come ostacolo sul cammino della scienza (e della filosofia).

 

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