Introduzione
Siamo al termine del De Deo, la parte dell’Etica dedicata all’indagine sulla natura delle cose. I risultati raggiunti fino a questo punto sono, agli occhi di Spinoza, incontrovertibili, in quanto frutto di una rigorosa concatenazione logica di ragionamenti. Eppure così non è. Il filosofo è consapevole che molti, non solo uomini comuni, ma anche dotti e teologi, sono refrattari, se non addirittura ostili, ad accogliere ciò che alla ragione appare chiaro. Questa “cecità” va spiegata ed è quanto il filosofo si accinge a fare in questa Appendice, uno dei brani più noti di tutta l’Etica. Ha per oggetto la confutazione del finalismo, il più pervicace di tutti i pregiudizi.
I pregiudizi, sono giudizi affrettati, frettolosi, pronunciati senza conoscere adeguatamente ciò di cui si parla. Il pregiudizio è forse il prototipo stesso di quella che Spinoza chiama conoscenza inadeguata, concetto che indagheremo in profondità nel corso dell’analisi della II parte dell’Etica. Dei pregiudizi non si è padroni, ma prede e, a causa della loro natura acritica, appaiono difficilmente “confutabili” con i soli mezzi della logica e della ragione. È noto e fin troppo citato l’aforisma di Einstein: “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. Ebbene, fra tutti i pregiudizi, quello finalistico è il più duro a morire, al punto da essere quasi inestirpabile.
Ma cos’è il finalismo? È la tendenza pressoché generale che gli uomini hanno di spiegare le cose non attraverso le loro cause, ma in base a supposti fini verso i quali esse tenderebbero o in forza dei quali esse sarebbero ciò che sono. È la convinzione che Dio abbia creato il mondo per il benessere dell’uomo, perché l’uomo possa servirsene per i suoi scopi, i suoi desideri, i suoi progetti. Il mondo al servizio dell’uomo. Fin dalla Genesi incontriamo questa idea.
Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. (Gen., 1, 26)
L’uomo riceve da Dio il mondo; tutto ciò che c’è in esso è di sua proprietà. Non si può pensare a una concezione più lontana di questa da quanto finora detto nell’Etica. In effetti è proprio il finalismo che rende difficile accogliere le proposizioni sulla Natura finora esposte. Malgrado la loro evidenza, malgrado la stringente rete logica deduttiva che le regge.
Il pregiudizio finalistico è inevitabile. Non nasce per caso e senza motivo. Ha delle cause. La facoltà “responsabile” è l’immaginazione, fonte inesauribile di “errori”. Essa appartiene alla natura umana, quindi non è possibile sopprimerla, ma, se ne conosciamo la dinamica, le sue “spiegazioni” possono essere sottoposte al vaglio della ragione. Spinoza affronta in modo approfondito nella seconda parte dell’Etica il tema dell’immaginazione e il ruolo che essa gioca nella sua teoria della conoscenza. Ma già nella trattazione del finalismo, come del resto in alcuni scolii della prima parte, la messa a fuoco di questa facoltà acquista uno spessore filosofico indiscutibile. La critica al finalismo è, in ultima istanza, la critica a ogni forma di superstizione e questa Appendice va letta in stretta connessione con la Prefazione al Tractatus theologico-philosophicus. A questo articolo farò perciò seguire una breve analisi di tale testo.
Ho spiegato con ciò la natura di Dio e le sue proprietà, cioè: che egli esiste necessariamente; che è unico; che è ed agisce per la sola necessità della sua natura; che è causa libera di tutte le cose, e in qual modo lo è; che tutte le cose sono in Dio e dipendono da lui in modo che senza di lui non possono né essere né essere concepite; e infine che tutte le cose sono state predeterminate da Dio, non certo mediante la sua libera volontà o il suo assoluto beneplacito, ma mediante la natura assoluta di Dio, ossia mediante la sua infinita potenza. (Appendice a Etica I)
Macherey, nel suo commento all’Etica, si sofferma sul termine “predeterminate” (che ho messo in corsivo nella citazione). Fa notare che esso potrebbe creare una difficoltà teorica a tutto l’impianto dimostrativo dell’opera, dal momento che sembra alludere a un atto creativo preliminare in cui tutto è già preordinato. La predeterminazione ci fa pensare non solo all’inflessibile necessità di tutto ciò che esiste (e questo non contrasta con lo spinozismo), ma anche e soprattutto al fatto che ciò che esiste sia stato in qualche modo “deciso” in anticipo (e questo nulla c’entra con Spinoza). In esso, infatti, il processo di determinazione
si effettua necessariamente ed eternamente al presente e non è suscettibile, in quanto tale, di essere ricondotto al momento di un atto primo nel senso di un’anteriorità fattuale. (P. Macherey, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La première partie: la nature des choses, Presses Universitaires de France, Paris, 1998, p. 208)
La “colpa”, per il critico francese, starebbe nel diverso stile argomentativo che Spinoza usa qui, come del resto aveva fatto negli scolii. Uno stile liberato dalla ferrea gabbia della consequenzialità logica, della causa seu ratio, che governa l’andamento delle proposizioni e dei corollari. Spinoza è colloquiale, parla un linguaggio meno rigoroso e si adatta ai modi di espressione propri dell’immaginazione. Senza con questo compromettere il rigore del pensiero. Già negli scolii, infatti, aveva parlato “impropriamente” di onnipotenza e onniscienza divine, concedendo agli avversari questi termini, ma caricandoli di un significato del tutto diverso. Spinoza, insomma, evita di “censurare” un linguaggio filosofico tanto impreciso quanto onusto di lunga tradizione, ma lo riprende da un’altra prospettiva, depurandolo da questi errori ed estraendone la parte di verità che esso contiene. Perciò “predestinazione” nel nuovo contesto perde il suo misterioso carattere di decisione anticipata e mantiene solo quello di necessità.
Contro i pregiudizi che travagliano la conoscenza umana
In alcuni degli scolii finora visti Spinoza ha già affrontato molti dei pregiudizi che travagliano la conoscenza umana. Tuttavia, data l’importanza dell’argomento, ritiene utile trattare con più sistematicità il problema.
Inoltre, dovunque se ne è presentata l’occasione, io mi sono curato di eliminare i pregiudizi che potevano impedire che le mie dimostrazioni fossero intese; ma poiché restano ancora non pochi pregiudizi che parimenti, anzi in sommo grado, potevano e possono impedire che gli uomini siano in grado di comprendere il concatenamento delle cose nel modo in cui io l’ho spiegato, ho creduto che valesse la pena di sottoporre qui tali pregiudizi all’esame della ragione. (Appendice a Etica I)
Questi pregiudizi non affettano solo l’uomo comune, ma riguardano tutti gli uomini, a cominciare dai filosofi. E Spinoza l’ha ampiamente dimostrato negli scolii di questa prima parte. Ma ciò che è più importante e che non deve mai essere dimenticato è che si tratta di pregiudizi inestirpabili con l’ausilio di mezzi puramente teorici. A nulla serve la stringente argomentazione, troppo astratta, avulsa dalle ragioni vitali che alimentano senza sosta gran parte dei pregiudizi e quello finalistico in particolare.
È naturale per l’uomo credere che il mondo sia fatto per lui e tale credenza, una volta innescata, si sviluppa con la stessa inflessibile necessità di ogni concatenazione logica. Il finalismo affonda le sue radici nella carne dell’uomo e, inadeguatamente affrontato, occupa tutto il campo del pensiero e dell’agire umano come una malefica pianta infestante. Come ricorda Macherey (P. Macherey, cit., p. 210-11), è proprio dei pregiudizi rinascere continuamente e non poter sparire né con un semplice atto di volontà né con la mera confutazione teorica. Spinoza è un vero e autentico razionalista, perciò evita un uso astratto e inefficace della logica e si dispone ad affrontare i pregiudizi riconoscendo in modo netto e pieno la loro forza e la loro naturalità. In altri termini, egli “prende il male dalla radice” e affronta direttamente la causa prima e generale di tutti i pregiudizi.
Spinoza è drastico: non c’è pregiudizio riguardo la natura delle cose che non trovi alimento nella credenza finalistica.
E poiché tutti i pregiudizi che qui mi propongo di indicare dipendono da questo solo pregiudizio, cioè che gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose della natura agiscano, come essi stessi, in vista di un fine, e anzi ammettono come cosa certa che Dio stesso diriga tutto verso un fine determinato: (dicono, infatti, che Dio ha fatto tutto in vista dell’uomo, e ha fatto l’uomo affinché lo adorasse), considererò dunque dapprima quest’unico pregiudizio. (Appendice a Etica I)
Insomma, è necessario e, per certi versi, sufficiente affrontare e smascherare questo unico pregiudizio per destabilizzare tutto l’impianto di false credenze che su di esso si regge.
Il “programma” di analisi del finalismo
A questo punto Spinoza traccia un programma, articolato in tre punti, di analisi e di critica di questo pregiudizio
- Ricercare la ragione profonda per la quale la maggior parte degli uomini rimane tranquillamente attaccata a questo pregiudizio.
- Dopo averne svelato l’origine, mostrare con rigore la sua falsità.
- Mostrare, infine, come questo pregiudizio non sia uno fra i tanti, ma costituisca la radice di molti altri pregiudizi che affollano la mente umana, come quelli che si riferiscono al bene e al male, al merito e al peccato, alla lode e al biasimo, all’ordine e alla confusione, alla bellezza e alla bruttezza, e ad altri oggetti della stessa specie.
Quest’ultimo punto allarga la prospettiva a un’indagine della mente umana e questo è il tema della seconda parte dell’Etica. Perciò Spinoza non si addentra ora in questo territorio, ma assume come dato di fatto la convinzione dell’innata inadeguatezza della mente umana e della sua profonda e strutturale natura desiderante.
Non è però questo il luogo di dedurre tali pregiudizi dalla natura della mente umana. Basterà qui porre come fondamento ciò che tutti devono riconoscere: cioè che tutti gli uomini nascono senza alcuna conoscenza delle cause delle cose, e che tutti hanno un appetito di ricercare il loro utile, e ne hanno coscienza. (Appendice a Etica I)
Gli uomini sono perlopiù “ignoranti” e “interessati”. Ignorano non solo le vere cause delle cose, ma addirittura che le cose hanno delle cause e tale ignoranza li spinge a fantasticare su ciò che a loro sembra essere la vera natura della realtà. Una fantasticheria guidata dall’interesse vitale, da ciò che sentono utile e desiderabile per la loro vita. Sono questi bisogni e queste necessità vitali che orientano la ricerca di spiegazioni. Il “non sapere come stanno le cose” e la “prospettiva vitale” in cui sono immediatamente posti rappresentano l’ineludibile alveo in cui si radica il pregiudizio finalistico.
La genesi del pregiudizio finalistico
Vediamo allora, in base al primo punto del programma, qual è la genesi di questo ostinato e infestante pregiudizio.
Gli uomini credono di essere liberi perché hanno coscienza delle proprie volizioni e del proprio appetito, mentre alle cause dalle quali sono disposti ad appetire e a volere non pensano neanche per sogno, poiché non ne hanno conoscenza. (Appendice a Etica I)
Di sé, l’uomo ignora quasi tutto. Si pensa libero, si crede indipendente, si reputa un essere che trae solo da sé la ragione dei propri comportamenti e delle proprie scelte. Non ha alcuna idea della rete di determinazioni in cui si trova immerso, impigliato, legato a tutte le altre realtà particolari. Nella Prefazione di Etica III questa illusione di libertà che l’uomo subisce viene esaminata con maggiore sistematicità e inserita nella teoria dell’affettività. L’uomo si illude di essere un dominio separato nella natura, un impero nell’impero, uno spazio di libertà entro un dominio di determinazione generale. Da qui nasce l’abbaglio di poter governare i propri desideri e quello di credere di scegliere le cose per il loro valore, anziché comprendere che è l’uomo stesso a valorizzare le cose: non si scelgono le cose perché sono buone, ma si giudicano buone le cose che si desiderano.
Gli uomini agiscono sempre in vista d’un fine, cioè in vista dell’utile che appetiscono; donde accade che essi bramino sempre di conoscere soltanto le cause finali delle cose compiute, e si acchetino appena le abbiano apprese, perché, cioè, non hanno più nessuna ragione di proporsi altri dubbi. Ma se non possono apprenderle da altri non resta loro se non di rivolgersi a se stessi e di riflettere sui fini dai quali essi son soliti essere determinati ad azioni analoghe, e così giudicano necessariamente, dal loro modo di sentire, del modo di sentire degli altri. (Appendice a Etica I)
Ogni individuo, ogni cosa del mondo, ha in sé l’impulso di essere sempre alla massima potenza a cui può ambire. Questo spinge l’uomo ad appetire tutte le cose che possono giovare a questa potenza. Vedremo nell’analisi della III parte il concetto di affetto, inteso come variazione della potenza di esistere di un essere in seguito all’incontro di affezioni “buone”, “utili” (la potenza d’essere aumenta) o di affezioni “cattive”, “dannose” (la potenza d’essere diminuisce, si affievolisce).
L’azione in vista di un fine, allora, è una cosa normale e inevitabile. Ma cessa di essere normale, anche se così appare, agire a causa di un fine o di un fine posto come esterno, incorporato nelle cose stesse. La distinzione è sottile ma decisiva. L’unico “fine” che si deve riconoscere come necessario è il desiderio d’essere, il conatus, slancio spontaneo di conservarsi e di potenziarsi. Il pregiudizio finalistico, invece, fa esattamente il contrario: non vediamo più in noi e nel conatus la spinta a “valorizzare” il mondo, ma è il mondo stesso che si presenta come un grande “contenitore” di cose buone o cattive in sé, viste come fini già decisi, verso cui ci dobbiamo volgere. Qui è la radice della grande mistificazione dei valori universali, come bene sottolinea Machérey:
Gli uomini generalizzano i loro desideri fattuali e ne fanno leggi comuni per tutti. Ciò che nella prospettiva della nostra potenza di agire aveva un valore pratico, diventa oggetto di un apprezzamento comune che ha potenzialmente una portata teorica e che entra nel quadro di una visione del mondo presentata come universale. Vedendo tutto in funzione dei fini che hanno riappropriato alle loro operazioni vitali fondamentali, gli uomini, che conducono a questi fini tutti gli elementi naturali della realtà, trattano questi come mezzi al loro servizio, incaricati di preparare l’attesa dei propri fini attraverso una sorta di preadattamento del mondo ai bisogni umani. Si mette in moto la rappresentazione di un mondo naturalmente fatto per l’uomo e a sua misura, che costituisce il quadro in cui potrà realizzare la sua libertà. In realtà, fin dall’inizio gli uomini hanno rinunciato a governare i loro desideri, lasciando che questi, in un mondo fittizio, si sviluppassero in modo autonomo e dettassero a loro la legge. (P. Macherey, cit., p. 221-222)
Poiché, inoltre, in sé e fuori di sé, trovano non pochi mezzi che contribuiscono non poco al raggiungimento del loro utile, come, per esempio, gli occhi per vedere, i denti per masticare, le erbe e gli animali per l’alimentazione, il sole per illuminare, il mare per nutrire pesci, ‹e così con tutte le altre cose, delle cui cause naturali non hanno motivo di dubitare;› da ciò è accaduto che gli uomini considerino tutte le cose della natura come mezzi per il conseguimento del loro utile. (Appendice a Etica I)
L’immediata apparenza delle cose è che esse “servano a qualcosa o a qualcuno”: se ci sono gli occhi è per vedere, l’erba dei prati o gli animali è per l’alimentazione o per le pelli, ecc. Le cose sono disponibili e l’uomo se ne serve per i propri scopi. Questa immediata e, per certi versi, inevitabile valorizzazione offre un orizzonte di senso, una griglia di interpretazione al cui interno collocare la maggior parte dei fenomeni. Non è difficile accorgersi che una visione del mondo finalista non si basa su alcuna idea razionale, non ha alcun fondamento legittimo. Eppure, proprio per la sua facile e naturale applicabilità, essa si sviluppa secondo una logica inflessibile. Il finalismo, come scrive ancora Machérey, è un dispositivo che si impone grazie alla forza della suggestione e non a quella del ragionamento, una concezione globale della realtà e della vita i cui differenti aspetti si tengono fra di loro a maglia stretta, con una tale coerenza da sembrare indistruttibile e a cui sembra impossibile sfuggire. E la suggestione, con la sua forza persuasiva, è la stretta e inseparabile compagna dell’immaginazione, la conoscenza inadeguata per eccellenza.
E poiché sanno d’aver trovato questi mezzi, ma non di averli predisposti, hanno tratto da ciò motivo per credere che ci sia qualche altro che li abbia predisposti per il loro uso. Dopo aver considerato, infatti, le cose come mezzi, non hanno potuto credere che si siano fatte da se stesse; ma, dai mezzi che essi sono soliti predisporsi, hanno dovuto trarre la conclusione che ci sia uno, o più rettori della natura, dotati di libertà umana, che hanno curato tutto in loro favore e hanno fatto tutto per il loro uso. (Appendice a Etica I)
Questo mondo fittizio, senza realtà propria, perde ogni valore intrinseco e, per consistere, deve radicarsi in una trascendenza che lo “giustifichi” e gli dia senso. Nasce così l’esigenza di un Dio padrone del mondo.
E parimenti, poiché non avevano mai udito nulla della maniera di sentire di questi rettori, essi ne hanno dovuto giudicare in base alla propria; e quindi hanno ammesso che gli Dèi dirigano tutte le cose per l’uso degli uomini allo scopo di legarli a sé e di essere tenuti da essi in sommo onore: dal che è derivato che ciascuno ha escogitato secondo il proprio modo di sentire maniere diverse di prestar culto a Dio affinché Dio lo amasse al di sopra degli altri e dirigesse tutta la natura a profitto della sua cieca cupidigia e della sua insaziabile avidità. (Appendice a Etica I)
Spinoza non lascia dubbi circa il carattere fattizio e umano delle rappresentazioni finalistiche, che appaiono tanto più credibili quanto più sono radicate in ragioni oscure. Le radici irrazionali di queste credenze rendono incontrollabile tutta l’immagine del mondo che su di esse si basa. Le divinità, surrettiziamente introdotte, agiscono nel e con il mondo come se questo fosse un mezzo per i loro scopi, comportandosi allo stesso modo degli uomini. Da qui, il passaggio a un solo Dio è un passo breve. Questo Dio si erge in modo naturale come il monarca del mondo e, in quanto tale, diventa oggetto di cieca e superstiziosa devozione. La devozione acquista tratti di totale sottomissione, di paura di ritorsioni da parte della divinità, qualora non adeguatamente venerata. Dalla paura e dal rispetto superstizioso nascono i culti e il rapporto fra uomini e dei si configura come un vero e proprio commercio, uno scambio di servizi, una protezione.
E così questo pregiudizio si è cambiato in superstizione ed ha messo profonde radici nelle menti; il che è stato la causa per cui ciascuno si è dedicato col massimo sforzo a conoscere e a spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma mentre così cercavano di mostrare che la natura non fa nulla invano (cioè nulla che non sia per l’uso degli uomini), essi non hanno mostrato altro, mi sembra, se non che la natura e gli Dèi sono colpiti dal medesimo delirio che gli uomini. Guarda, ti prego, a qual punto è infine arrivata la cosa! (Appendice a Etica I)
L’ostinazione conduce gli uomini a mantenere ciecamente un modo di vedere le cose che tutta l’esperienza smentisce. Questa ostinazione trasforma quello che all’inizio era un semplice pregiudizio in superstizione, cioè in un rigido sistema di interpretazione del mondo che pretende di valere a priori per tutti i fenomeni, sistema riassunto nella formula “la natura non fa niente di invano”, concentrato dell’aristotelismo volgare. Con piccole torsioni alla realtà dei fatti, si arriva a una sorta di delirio generalizzato: gli uomini si abbandonano al delirio della loro immaginazione, rifacendo il mondo completamente a loro immagine. In tal modo hanno impedito a se stessi di conoscere la realtà così com’è davvero e di apprezzare la vera posizione che occupano di fronte a essa. Preoccupati innanzitutto dai loro interessi immediati, si sono un po’ alla volta allontanati dalla ricerca della verità e si sono serviti della religione per giustificare questo allontanamento.
Tra le tante cose utili offerte dalla natura, essi non hanno potuto evitare di trovarne non poche nocive, come le tempeste, i terremoti, le malattie ecc., e allora hanno affermato che esse avvengono perché gli Dei ‹(che ritengono abbiano la loro stessa natura)› sarebbero adirati per le offese fatte loro dagli uomini, o per i peccati commessi nel loro culto; e benché l’esperienza protestasse quotidianamente ad alta voce e mostrasse con innumerevoli esempi che i casi utili e i nocivi capitano egualmente senza distinzione ai pii e agli empii, non per questo essi si sono staccati dal loro inveterato pregiudizio: giacché per essi è stato più facile mettere questi eventi nel numero delle altre cose sconosciute di cui ignoravano l’uso, e così conservare il loro presente e innato stato d’ignoranza, anziché distruggere tutta quella costruzione ed escogitarne una nuova. Essi quindi hanno ammesso come cosa certa che i giudizi degli Dei oltrepassano di gran lunga l’intelligenza umana: e certamente questa causa da sola sarebbe stata sufficiente a tenere nascosta in eterno la verità al genere umano, se la matematica, che tratta non dei fini, ma solo delle essenze e delle proprietà delle figure, non avesse mostrato agli uomini una norma diversa di verità; e oltre la matematica, si possono assegnare ancora altre cause (che è superfluo enumerare qui), le quali hanno reso possibile che gli uomini ‹(sebbene molto pochi rispetto all’intero genere umano)› si accorgessero di questi pregiudizi comuni e fossero condotti alla vera conoscenza delle cose. (Appendice a Etica I)
L’illusione finalista provoca effetti devastanti sulla mente umana, rendendola “imbecille” nel senso etimologico del termine (da in-baculum, senza bastone: indica una persona debole, fiacca, incapace di camminare senza un ausilio). La mantiene, infatti, nell’ignoranza delle cause delle cose, stato che diventa intollerabile quando uomini sedicenti “colti” trasformano questo inganno in un sistema di interpretazione del mondo definitivo e obbligatorio. Il finalismo appare come una vera malattia dello spirito ed è necessario dunque prevenirne la propagazione con tutti i mezzi, in primo luogo con quelli della discussione razionale. Spinoza riconosce alla matematica (sineddoche per indicare ogni procedimento razionale basato sul concatenamento di premesse e conseguenze) di aver giocato un ruolo pionieristico nella riapertura del campo di conoscenza razionale da cui gli uomini avevano deviato a causa delle vane speculazioni della teologia. ma la matematica non ha tuttavia l’esclusività di questo tipo di percorso. Se è vero, infatti, che la conoscenza per causas è, per certi versi, la conoscenza per antonomasia, anche altri procedimenti sono utili per sottrarsi ai lacci della superstizione. Vedremo questo soprattutto nella II parte dell’Etica.
La falsità del pregiudizio finalistico
Tutte le cause finali sono poste dall’uomo, non certo dalla natura. Ciò è talmente evidente che bastano poche parole per dimostrarlo e, in particolare, basta il richiamo a tutto il percorso finora fatto nella I parte dell’Etica. Tutto ciò che avviene in natura avviene con necessità e con somma perfezione, come viene detto nella proposizione 16, e nulla è più estraneo alla natura di Dio che perseguire fini con la propria volontà, come viene ribadito nella proposizione 32 e in particolare nei suoi due corollari. Tutte le cose sono conseguenze della natura assoluta di Dio, tutto ciò che cade sotto l’intelletto infinito deve essere prodotto nella realtà come è concepito nell’intelletto. Tutte le cose si fanno naturalmente come devono essere. La visione finalista del mondo, invece, costruisce il suo sistema su tesi esattamente contrarie. Per questo è irreparabilmente in contrasto con gli insegnamenti della ragione. Tre sono le ragioni che rendono la tesi finalista aberrante.
Tale dottrina in merito al fine sovverte totalmente la natura. Essa, infatti, considera come effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa ‹come causa ciò che è effetto›. (Appendice a Etica I)
Mette la natura sottosopra. Considera come effetto ciò che in realtà è causa e inversamente, sostituisce la relazione causa-effetto con la relazione mezzo-fine. Fa risalire le cose verso le loro cause, interpretate come cause finali, anziché vedere che ne procedono necessariamente.
Rende inoltre posteriore ciò che per natura è anteriore. (Appendice a Etica I)
La tesi finalista ragiona mettendo le conseguenze al posto dei principi e viceversa.
E infine rende imperfettissimo ciò che è supremo e perfettissimo. (Appendice a Etica I)
Fa apparire nella realtà (che è ciò che per definizione è perfetto) una qualche forma di imperfezione. E questo è il punto sul quale Spinoza richiama in particolar modo l’attenzione. L’illusione finalista rovina alla radice lo stesso concetto di Dio.
Infatti (lasciando da parte i due primi punti, perché sono evidenti di per sé), è perfettissimo, come risulta dalle P21, P22 e P23, quell’effetto che è prodotto immediatamente da Dio, e quanto più una cosa ha bisogno di cause intermedie per essere prodotta, tanto più essa è imperfetta. Ma se le cose che sono state prodotte immediatamente da Dio fossero state fatte affinché Dio raggiungesse il suo fine, allora necessariamente le ultime, a causa delle quali le prime sono state fatte, sarebbero le più eccellenti di tutte. (Appendice a Etica I)
L’atto attraverso il quale le cose sono prodotte si effettua immediatamente. “Immediatamente” non significa “tutto in un colpo” o “in una sola volta”, ma che avviene in condizioni che non lasciano spazio a un rapporto di successione fra un prima e un dopo. L’atto in questione aderisce così strettamente al processo della sua realizzazione che nulla lo separa. È immediatamente tutto ciò che può essere, niente di più, niente di meno, senza bisogno di realizzarsi per gradi successivi e progressivi di perfezionamento. Dio ha in se stesso tutto ciò che serve per produrre effetti e tutti gli effetti conformi a ciò che è in natura.
Inoltre questa dottrina annulla la perfezione di Dio; giacché, se Dio agisce per un fine, egli allora necessariamente appetisce qualche cosa che gli manca. E sebbene i teologi e i metafisici distinguano tra il fine d’indigenza e il fine di assimilazione, confessano tuttavia che Dio ha fatto tutto per se stesso e non per le cose da creare; giacché, prima della creazione, non possono, oltre Dio, assegnare alcuna cosa in vista della quale Dio avrebbe agito; e quindi sono costretti ad ammettere che Dio mancava di ciò per cui ha voluto procurare dei mezzi, e che lo desiderava, com’è chiaro di per sé. (Appendice a Etica I)
Dio sarebbe meno perfetto se agisse in funzione di fini. Se lo facesse, vorrebbe dire che desidera qualcosa che gli manca. A poco serve la distinzione teologico-filosofica fra fine di indigenza (voglio che qualcosa sia, perché mi manca) e fine di assimilazione (voglio che le cose siano, per donare a esse la beatitudine divina). Dio non ha bisogno di regolarsi sulla rappresentazione dei fini assegnati alla sua azione perché ciò ci riporterebbe alla rappresentazione antropomorfica del divino e renderebbe Dio un agente personale che desidera fare una cosa o l’altra perché ne prova il bisogno. Dio non è l’autore della natura, ma la sua causa sostanziale immanente, che è anche la condizione della sua comprensione razionale. Questa concezione si oppone a un certo numero di pregiudizi ben radicati nella coscienza collettiva. Per questo serve a poco una confutazione teorica. Gli uomini, infatti, nella pratica vivono solitamente non solo nell’ignoranza, ma anche nel timore e sono disposti a ingoiare tutte le sciocchezze che vengono loro propinate anziché accogliere una spiegazione razionale.
Né qui si deve trascurare che i seguaci di questa dottrina, i quali hanno voluto far mostra del loro ingegno nell’assegnare i fini delle cose, hanno apportato, per dimostrare questa loro dottrina, una nuova maniera d’argomentare, la riduzione, cioè, non all’impossibile, ma all’ignoranza: il che mostra che essi non avevano a disposizione, alcun altro mezzo di prova per questa dottrina. (Appendice a Etica I)
Spinoza affronta la questione del finalismo non nel suo contenuto ma nel modo di argomentare. È un modo che privilegia la suggestione piuttosto che l’argomentazione razionale. Una vera impresa di manipolazione mentale messa in opera dai settari del finalismo. Fanatici che sfruttano senza scrupoli il loro talento argomentativo al fine di imporre la loro fallacia. Fanno passare vuote parole come verità profonde e applicano non il procedimento di riduzione all’impossibile, ma quello di riduzione all’ignoranza. La riduzione all’impossibile (o all’assurdo) vuole dimostrare la verità di una tesi dimostrando l’impossibilità della sua contraddittoria in forza della sua incompatibilità con le ipotesi assunte come basi della dimostrazione. Questa forma di ragionamento è perfettamente integrata al metodo geometrico. La riduzione all’ignoranza, al contrario, rappresenta il movimento di pensiero che pretende di convertire in sapere un’ignoranza sfruttando le lacune della conoscenza come se esse coincidessero in calco con la possibile rivelazione di verità nascoste inaccessibili alla ragione. Pretende di trarre insegnamenti da una semplice negazione, come se questa avesse in sé valore di verità. Le pretese affermazioni esprimono in realtà un non sapere. La riduzione all’ignoranza è un’impostura che sostituisce all’esercizio corretto del pensiero un gioco di prestigio per abusare di spiriti deboli che si lasciano impressionare da queste manipolazioni.
Significativi e venati di ironia sono gli esempi di cui si serve Spinoza, come la pietra che cade da un tetto e accidentalmente uccide qualcuno o la mirabile architettura del corpo umano ritenuta obbligatoriamente opera di un intelletto sovrumano.
Se, per esempio, una pietra è caduta da un tetto sul capo di qualcuno e lo ha ucciso, essi dimostreranno nel modo seguente che la pietra è caduta per uccidere quell’uomo. Se essa non è caduta per questo fine per volontà di Dio, come mai tante circostanze (e infatti molte, spesso, vi concorrono) hanno potuto accidentalmente concorrervi? Forse risponderai che ciò è accaduto perché il vento soffiava e perché quell’uomo passava da quella parte. Ma essi insisteranno: e perché il vento soffiava proprio in quel momento? perché l’uomo passava da quella parte in quel medesimo preciso momento? Se rispondi a tua volta che il vento s’era levato allora perché il mare nel giorno precedente, allorché il tempo era ancora calmo, aveva incominciato ad agitarsi, e perché l’uomo era stato invitato da un amico, essi insisteranno di nuovo, poiché non c’è mai fine nel porre domande: e perché il mare era agitato? perché l’uomo era stato invitato per quel momento? E così continuamente non cesseranno d’interrogarti sulle cause delle cause, fino a quando non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza. (Appendice a Etica I)
Il fatto: una pietra cade dal tetto “e” uccide qualcuno. Subito il finalista lo trasforma in un’intenzione: la pietra è caduta dal tetto “per” uccidere qualcuno. Perché? In forza di quali ragionamenti? Il procedimento seguito dal finalista è palese e artificioso a un tempo: una serie di fatti, di cause, tutte spiegabili inserendole nella rete di determinazioni necessarie, richiede ai suoi occhi giustificazioni pretestuose volte a individuare in essa dei fini predeterminati. Una serie interminabile di “perché questo” o “perché quello” può finire solo nell’esito più comune, nella scappatoia più facile: la volontà di Dio! Asilo dell’ignoranza lo chiama Spinoza, rifugio di chi non sa dare altre spiegazioni, a cominciare da quella più logica e sensata: l’universale necessità di tutto l’accadere.
Parimenti, quando essi considerano la struttura del corpo umano, rimangono stupiti e, poiché ignorano le cause di un sì bell’artificio, ne concludono che esso non è formato meccanicamente ma mediante un’arte divina o soprannaturale, e per questo costituito in modo che nessuna parte danneggi l’altra. E così accade che chiunque cerca le cause vere dei prodigi e si preoccupa di conoscere da scienziato le cose naturali e non di ammirarle da sciocco, è ritenuto generalmente eretico ed empio, ed è proclamato tale da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli Dèi. Essi sanno, infatti, che, distrutta l’ignoranza, ‹o meglio la stupidità,› è distrutto anche lo stupore, cioè l’unico loro mezzo di argomentare e di salvaguardare la loro autorità. ‹Che siano loro, tuttavia, a giudicare quale forza abbia questo argomentare.› (Appendice a Etica I)
Tagliente Spinoza nella conclusione di questa parte. Incapaci di cogliere le vere ragioni dell’artificio mirabile del corpo umano fanno intervenire cause e volontà e operazioni sovrannaturali. Qui il filosofo sembra anticipare il pastore anglicano William Paley, il quale intende mostrare che la mirabile perfezione dell’organismo non può non richiedere un progettista intelligente, allo stesso modo in cui un orologio ben congegnato esige un orologiaio. Merita essere riportato.
Nell’attraversare una brughiera, supponi io sbattessi il piede contro una pietra, e mi venisse chiesto come essa fosse venuta a essere proprio lì’; potrei con tutta probabilità rispondere che, fino a prova contraria, fosse lì da sempre: né sarebbe forse molto facile dimostrare l’assurdità di questa risposta. Ma supponi anche che trovassi per terra un orologio, e mi venisse riposta la stessa domanda; dovrei praticamente riprendere in considerazione la risposta appena fornita per la pietra, allo stesso modo, fino a prova contraria, l’orologio avrebbe potuto essere lì anche da sempre. (…) Dev’essere esistito, in qualche tempo, e in questo o quel posto, un artefice, o più, a mettere assieme i pezzi dell’orologio comunque, a fabbricarlo, per lo scopo al quale effettivamente vogliamo risponda; egli, o essi, hanno compreso la sua costruzione, e progettato il suo uso. (…) Ogni indicazione di ingegnosità, ogni manifestazione di disegno che esistessero nell’orologio, esistono nelle opere della natura; con la differenza, da parte della natura, di essere più grandi e migliori ancora, e in numero incalcolabile. (William Paley, Natural Theology: or Evidences of the Existence and Attributes of the Deity, Collected from the Appearances of Nature. 1802.)
Chiunque provi a spiegare i supposti prodigi facendo ricorso solo alle cause naturali viene colpito da anatemi e accusato di eresia. Ciò che finalisti e superstiziosi sommamente temono è la chiarezza e il rigore del pensiero. Solo se questo permane fumoso e intriso di superstizioni e di idee inadeguate essi possono prosperare. Vengono in mente due famosi aforismi di Schopenhauer: “Le religioni sono figlie dell’ignoranza, e non sopravvivono a lungo alla madre”. “Le religioni sono come le lucciole: per brillare hanno bisogno dell’oscurità”.
Lascio oramai questo punto e passo a quello che ho stabilito di trattare qui in terzo luogo. (Appendice a Etica I)
Tutti i pregiudizi si radicano nel pregiudizio finalistico
Dopo che gli uomini si sono persuasi che tutto quanto accade, accade per loro, non hanno potuto far a meno di giudicare che in ogni cosa l’elemento principale è ciò che per essi presenta la massima utilità, e di stimare, come le più eccellenti, tutte le cose da cui sono affetti nel modo più gradevole. (Appendice a Etica I)
Il pregiudizio finalista è diventato il vettore di un processo di contaminazione: la sua “logica” si propaga a tutte le forme di pensiero. La realtà si colora delle nostre attese e delle nostre speranze. La nostra valutazione del mondo, in qualunque aspetto, è viziata da questo pregiudizio.
In tal modo essi non hanno potuto far a meno di formare quelle nozioni con le quali pretendono di spiegare le nature delle cose, come il Bene, il Male, l’Ordine, la Confusione, il Caldo, il Freddo, la Bellezza e la Bruttezza: e poiché si ritengono liberi, da ciò son sorte queste altre nozioni, la Lode, cioè, e il Biasimo, il Peccato e il Merito. … Gli uomini, dunque, hanno chiamato Bene tutto ciò che contribuisce alla salute e al culto di Dio, e Male tutto ciò che è contrario a queste cose. (Appendice a Etica I)
Tutti i nostri giudizi di valore vengono pronunciati in rapporto ai nostri interessi. Non consideriamo più le cose per se stesse, ma per come possono servirci. Ci interessano più gli effetti che le cause e il corso corretto della conoscenza viene rovesciato. L’uomo è preda della conoscenza inadeguata. Lo spirito è in balia degli incontri e delle occasioni casuali. Una serie confusa di polarità entra abusivamente nel nostro pensiero e lo rende inadatto a comprendere la realtà. Interpretando il mondo alla luce delle categorie dell’ordine e del disordine, dell’armonia e della disarmonia continuiamo a esprimere preferenze personali. Facendo questo, noi non pensiamo, ma immaginiamo. L’immaginazione è la responsabile di questo deragliamento del pensiero. Spinoza si occupa di questo tema con sistematico rigore nella seconda parte dell’Etica, ma già nel De Deo è possibile cogliere il decisivo ruolo che l’immaginazione gioca nella genesi e nel mantenimento della conoscenza inadeguata.
Privo di ogni adeguata conoscenza, l’uomo produce senza controllo una congerie di immagini, che scambia per concetti e idee. Si figurano così, giudicando sempre in base a se stessi e non alla natura delle cose, che nella realtà ci sia un ordine o un disordine, a seconda che la realtà sia in accordo con le loro aspettative o in disaccordo con esse.
E poiché quelli che non conoscono intellettualmente la natura delle cose non affermano nulla intorno ad esse, ma solamente le immaginano e prendono l’immaginazione per l’intelletto, essi perciò credono fermamente che ci sia un ordine nelle cose, ignari come sono della natura tanto delle cose quanto di se stessi. Quando, infatti, le cose sono disposte in modo che noi, appena ce le rappresentiamo mediante i sensi, possiamo facilmente immaginarle e, quindi, facilmente ricordarcele, diciamo allora che esse sono bene ordinate ‹in buon ordine›; nel caso contrario, invece, che sono male ordinate o confuse. E poiché per noi sono più gradevoli di tutte le cose che possiamo facilmente immaginare, gli uomini preferiscono l’ordine alla confusione, come se l’ordine fosse qualcosa nella natura, indipendentemente dal rapporto alla nostra immaginazione; e dicono che Dio ha creato tutto con ordine, e in questo modo, senza saperlo, attribuiscono a Dio un’immaginazione, a meno che non ammettano che Dio, provvedendo all’immaginazione umana, abbia disposto tutte le cose in modo che potessero facilissimamente immaginarsi; e probabilmente essi non si faranno trattenere dall’obbiezione che c’è un’infinità di cose che superano di gran lunga la nostra immaginazione, e moltissime altre che la confondono a causa della sua debolezza. Ma su questo punto ho detto abbastanza. (Appendice a Etica I)
Ogni altra nozione che usa l’uomo ignaro delle vere cause delle cose è in realtà una arbitraria e soggettiva valorizzazione scambiata per oggettivo attributo di esse. Il bene e il male, il bello e il brutto, le opposte sensazioni di gusto, di olfatto e di tatto vengono immaginati come appartenenti alla realtà. Tutto perché l’uomo crede che questa sia fatta per lui.
Per quel che riguarda poi le altre nozioni, anch’esse non sono altro se non modi d’immaginare, dai quali l’immaginazione è affetta in maniera diversa, e tuttavia sono considerate dagli ignoranti come attributi principali delle cose; perché, come già abbiamo detto, essi credono che tutte le cose siano state fatte per loro; e così dicono che la natura d’una cosa è buona o cattiva, sana o malsana e corrotta, a seconda del modo in cui ne sono affetti. Se, per esempio, il movimento che i nervi ricevono dagli oggetti percepiti mediante gli occhi contribuisce alla salute, allora gli oggetti che ne sono la causa sono detti belli; quelli, invece, che suscitano un movimento contrario sono detti brutti. Chiamano, poi, odorosi o fetidi quelli che eccitano il senso mediante le narici; dolci o amari, saporosi o insipidi quelli che lo eccitano mediante la lingua, ecc. Quelli, poi, che agiscono mediante il tatto sono detti duri o molli, ruvidi o lisci, ecc. E quelli, infine, che mettono in moto gli orecchi si dice che producono un rumore, un suono, o un’armonia, e l’ultima di queste qualità ha posto gli uomini fuori di senno in modo tale da farli credere che perfino Dio si diletti dell’armonia. Né mancano Filosofi che sono fermamente convinti che i movimenti celesti compongano un’armonia. (Appendice a Etica I)
Questa riduzione del mondo alle aspettative degli uomini ha generato lo scetticismo. Ognuno, infatti, ha le proprie preferenze, le proprie avversioni, tutte proiettate sulla realtà. “Quante teste, tanti pareri”. Ognuno è legittimato a definire la realtà in base ai propri gusti. Cosa ben diversa da una razionale considerazione del mondo.
Tutto ciò mostra abbastanza che ciascuno ha giudicato delle cose secondo la disposizione del suo cervello, o piuttosto ha preso le affezioni della sua immaginazione per le cose stesse. Non c’è dunque da stupirsi (per notare anche questo di passaggio) che tante controversie, quante ne vediamo, siano sorte tra gli uomini, e che da esse, infine, sia nato lo Scetticismo. Benché, infatti, i corpi degli uomini convengano in molte cose, essi tuttavia sono discordi in moltissime altre, e, quindi, ciò che all’uno pare buono, all’altro sembra cattivo; ciò che per l’uno è ordinato, per l’altro è confuso; ciò che per l’uno è gradevole, per l’altro è sgradito, e così via per le altre cose, sulle quali io qui non insisto, sia perché non è questo il luogo di trattarle esplicitamente, sia perché tutti hanno sperimentato ciò a sufficienza. Sono, infatti, sulla bocca di tutti i detti: quante teste, tanti pareri; ciascuno abbonda nel proprio senso; le differenze dei cervelli non sono minori di quelle dei palati: e tutti questi detti mostrano abbastanza che gli uomini giudicano delle cose secondo la disposizione del loro cervello, e le immaginano piuttosto che conoscerle intellettualmente. Se, infatti, le avessero conosciute intellettualmente, esse avrebbero il potere, come attesta la Matematica, se non di attirare, almeno di convincere tutti. (Appendice a Etica I)
Le nozioni di cui l’uomo si serve non sono enti di ragione, ma enti di immaginazione. Ciò lo porta a credere che la natura sia perfetta quando conviene ai suoi sensi e imperfetta quando ripugna e si crea un problema fittizio. Come può la natura, che deriva da Dio, essere affetta da tante imperfezioni? Ma sono imperfezioni solo perché non piacciono all’uomo o, peggio, a questo o a quello.
Vediamo dunque che tutte le nozioni con le quali comunemente si suole spiegare la natura sono soltanto modi d’immaginare e non indicano la natura d’alcuna cosa, ma solo la costituzione dell’immaginazione; e, poiché hanno nomi che suonano come se significassero enti esistenti fuori dell’immaginazione, io li chiamo enti, non di ragione, ma d’immaginazione; e così tutti gli argomenti, che contro di noi si traggono da simili nozioni, si possono facilmente respingere. Molti, infatti, son soliti di argomentare così: se tutte le cose sono seguite necessariamente dalla perfettissima natura di Dio, donde derivano, dunque, tante imperfezioni nella natura? Cioè, la corruzione delle cose sino al fetore, la loro bruttezza tale da suscitar nausea, la confusione, il male, il peccato, ecc. Ma, come ho detto dianzi, tali argomenti si possono facilmente confutare. Giacché la perfezione delle cose si deve stimare soltanto dalla loro natura e dalla loro potenza, né le cose sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, perché convengono alla natura umana o perché le ripugnano. A quelli, poi, che domandano: perché Dio non ha creato tutti gli uomini in modo che essi fossero governati dalla sola guida della ragione, non rispondo altro se non questo: perché a lui non è mancata la materia per creare tutte le cose, dal grado più alto, cioè, di perfezione, sino al grado più basso; o, per parlare con maggiore proprietà, perché le leggi della sua natura sono state tanto ampie da bastare a produrre tutte le cose che possono essere concepite da un intelletto infinito, come ho dimostrato nella P16. (Appendice a Etica I)