Psicologia scientifica e filosofia
Il filosofare – scrive Heidegger in Introduzione alla metafisica – è uno straordinardio porre domande su quello che è fuori-dell’ordinario. Questo non vuol dire che la filosofia sia una ricerca del meraviglioso, dello strano, dell’insolito. Lo straordinario a cui essa si rivolge è ciò che nell’ordinario rimane sempre non tematizzato. Ciò che nel rapporto con l’ente è il “già da sempre” trascurato: l’essere. Ma, proprio per questo incessante e inaudito domandare, la filosofia sembra non procedere, sembra non andare oltre le parole pronunciate dai pensatori delle origini. Perché, allora, non metterla da parte come un modo primitivo e inconcludente di conoscenza e non dedicarsi, invece, alle scienze, le quali, dotate di un rigoroso ed efficace metodo sperimentale, forniscono risposte certe e univoche, assicurano nuovi e sempre più vasti territori al dominio dell’uomo?
C’era sicuramente chi si poneva tale domanda a Zollikon, dove Heidegger, il filosofo, si era intrattenuto per un decennio (1959-1969) con un pubblico di medici, analisti e psichiatri in un ciclo di seminari promossi dal suo amico Medard Boss (Direttore del Burghölzli, la Clinica Psichiatrica dell’Università di Zurigo), dando vita a un confronto di grandissimo interesse mai viziato dalla prevenzione o dalla polemica, proponendo la filosofia alle scienze, non come loro guida, né, tantomeno, come loro antagonista, dal momento che diverso è il terreno sul quale giocano e diversi gli scopi che si prefiggono, ma come loro esigenza fondamentale perché possano avere concreto significato per la vita dell’uomo. Questo bisogno di filosofia concerne, in particolare, psicologi e psicoterapeuti, ai quali è richiesto in misura massima di essere “medici pensanti” e non semplici tecnici della scienza, dal momento che la loro Fürsorge è rivolta all’uomo nella pienezza e nella problematicità del suo concreto esistere.
Nelle sue lezioni, indubbiamente sconcertanti secondo una prospettiva meramente positivistico-scientifica, eppur straordinarie occasioni per il pensiero, Heidegger parla contro ogni tentativo di applicare un’epistemologia meccanicistica all’ambito umano, contro una riduzione dell’ uomo a mero oggetto di studio, contro una divisione del suo essere in corpo e psiche; e lo fa non solo mantenendo sempre alto il tono filosofico del discorso, ma anche ricorrendo a penetranti analisi fenomenologiche di concrete situazioni esistenziali. Non è certo una prospettiva genericamente umanistica o puramente antropologica quella invocata da Heidegger, perché, se così fosse, il suo discorso non sarebbe altro che l’affermazione di una Weltanchauung contro un’altra. Egli, in realtà, chiede ai suoi ascoltatori di riconsiderare la loro condizione umana e professionale, troppo spesso determinata, secondo il carattere dell’epoca, dall’idolatria scientifica, invitandoli a una profonda “conversione” del pensiero:
Chi oggi, nell’odierno carnevale di questa idolatria, voglia preservare ancora una qualche riflessività, chi addirittura si dedichi oggi alla professione di assistere l’uomo psichicamente malato, questi deve sapere che cosa succede; deve sapere dove egli sia storicamente; deve quotidianamente rendersi chiaro che qui è ovunque all’opera un destino ( Schicksal), proveniente da lungi, dell’uomo europeo; egli deve pensare storicamente e desistere dalla incondizionata assolutizzazione del progresso, nel cui risucchio l’essere uomo dell’uomo occidentale minaccia di tramontare (M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Guida, Napoli, 1991, p. 172; da ora in avanti SZ, num. pag.).
La “riduzione psicosomatica” dell’uomo
Se consideriamo ciò che Medard Boss dice a Heidegger nel 1972, durante l’ultimo dei colloqui riportati nel testo, la prima impressione che riceviamo è quella di una non vinta resistenza, da parte dei partecipanti ai Seminari, al “trattamento filosofico” ricevuto. È Heidegger stesso che, nel seminario del 1° marzo 1966, in seguito al paragone, proposto da Medard Boss, delle serate seminariali a una specie di terapia di gruppo mirante a rendere possibile una visione più libera della costituzione umana, parla di “resistenze alla cura heideggeriana” (SZ, 209).
I primi seminari sul corpo e la psiche, nel 1965, sono piuttosto insoddisfacenti per i partecipanti. Essi vogliono essere meglio orientati riguardo a dove risieda la loro limitazione, se sanno concepire il rapportarsi di corporeo e psichico sempre e solo in quanto contemporaneità. D’altra parte, che parlare di una causalità sia fuori luogo, è chiaro a tutti. Nessuno crede più che, a partire da quegli impulsi elettrici nervosi nell’occipite, si possa determinare positivamente la percezione psichica, per esempio, di una farfalla nella sua significatività di farfalla. Altri hanno ripreso il rimprovero di Jean Paul Sartre, il quale si stupiva che Lei, in tutto Sein und Zeit, abbia dedicato appena sei righe all’argomento del corpo. (Medard Boss rivolto a Heidegger, in SZ, 337)
Ora, che fra le molte domande emerse nei seminari sia soprattutto quella riguardante il corpo, la psiche e i rapporti fra questi due enti a inquietare, è, a mio avviso, molto significativo, al di là del fatto specifico che gli interlocutori siano medici. Tale questione non è al centro degli incontri di Zollikon dal momento che in essi vengono alla luce tutti i principali aspetti della filosofia di Heidegger (dal problema del tempo a quello della differenza fra il vedere fenomenologico e la spiegazione scientifica, dalla ripresa dell’analitica esistenziale fino alla questione dell’essere e al concetto di differenza ontologica). Il tema del corpo, tuttavia, è sicuramente uno dei luoghi in cui questa problematica acquista, nel testo, un’altissima densità filosofia, al punto di proporsi, legittimamente, come uno dei possibili fili conduttori della lettura stessa. Se, del resto, scorriamo, anche velocemente, il sommario analitico che precede il testo (SZ, 35-40), non può sfuggire la frequenza con cui il termine corpo appare. Non sarà inutile, quindi, affrontare più da vicino questo tema.
Rispondendo alle sopra citate parole di Medard Boss, Heidegger semplicemente osserva che:
- Il corporeo è, in sé, la cosa più difficile da trattare, e che
- all’epoca di Essere e tempo non sapeva dire di più di quanto aveva allora scritto.
Nel Seminario dell’11/05/1965, interamente dedicato al corpo, la difficoltà di trattare tale problema emerge chiaramente da queste parole:
Ora, vogliamo tentare di pervenire un po’ in vicinanza del fenomeno del corpo. In ciò è fuori discussione una soluzione del problema del corpo. È già molto se solo riusciamo a vedere questo problema. (SZ, 146)
Heidegger, inoltre, riconosce che nei precedenti incontri, parlando dei fenomeni della presentificazione e della percezione sensibile, non aveva tenuto conto della parte che in tali fenomeni aveva il corpo (Leib), trascurando così proprio ciò che al suo pubblico di medici interessava maggiormente.
Abbiamo escluso la questione, che soprattutto inquieta Loro, dello psicosomatico, del come esso sia da determinare. Ora, per intensificare questa inquietudine, non per eliminarla, questa sera desidero affrontare il cosiddetto problema del corpo e con ciò, insieme, la questione della psicosomatica. In ciò si tratta di riconoscere dove riposi, in generale, l’elemento in primo luogo problematico del problema del corpo. (SZ, 141)
Gli interlocutori di Heidegger, da scienziati, puntano a risolvere il problema del corpo e della psiche ricercando le ragioni in base alle quali questi due enti sono in grado di dimostrare la loro legittimità a esistere come oggetti del pensiero scientifico. Heidegger, invece, intende assolvere tale problema da un simile compito; non per consegnare l’uomo, il corpo e la psiche al delirio dell’irrazionale, all’oscurità del puro vissuto, ma, al contrario, per obbedire a una reale esigenza di rigore adeguata alla cosa. Ciò che Heidegger propriamente vuole è dar vita a una “critica” filosofica del corporeo, secondo il genuino significato della parola greca krinein, che significa “distinguere, mettere in risalto”. La parola filosofica, anziché risolvere il problema, lo porta allo scoperto, ne fa vedere l’elemento problematico stesso, porta allo sguardo il fenomeno, la cosa stessa. Ebbene,
il fenomeno del corpo si lascia portare allo sguardo soltanto se e solo se, nell’oltrepassamento critico della relazione soggetto-oggetto finora normativa, l’essere-nel-mondo venga esperito espressamente ed espressamente venga assunto e mantenuto in quanto tratto fondamentale dell’esserci umano. (SZ, 162)
In queste parole possiamo trovare la sostanza della critica che Heidegger rivolge alle scienze umane in generale e alla psicologia in particolare: il loro essere, cioè, subalterne al metodo delle scienze naturali e il loro accettare acriticamente lo schema dualistico soggetto-oggetto. Non è la scienza in quanto tale il bersaglio critico di Heidegger, ma la scienza in quanto si pretende filosofia, una scienza che vuole imporre fuori dai suoi limiti un metodo e un rigore inadeguati alla cosa da studiare. Se è vero che elemento decisivo di una scienza è che sempre il suo modo di indagine corrisponda alla cosa da studiare, non è detto che tutte le cose si lascino ridurre a oggettività misurabili.
Non ogni scienza rigorosa è necessariamente una scienza esatta. L’esattezza è solo una determinata forma del rigore di una scienza, in quanto esattezza si dà solo laddove, fin da principio, l’oggetto è posto come un qualcosa di calcolabile. Se, però, si danno cose che, per la loro natura, si contrappongono alla calcolabilità, allora ogni tentativo di commisurare la loro determinazione al metodo di una scienza esatta non è proprio alla cosa. (SZ, 208)
Vedi anche a questo proposito Aristotele:
È proprio di un uomo colto ricercare la precisione in ciascun genere nella misura in cui lo consente la natura della ricerca: infatti è manifestamente pressoché identico ammettere che un matematico sia persuasivo e chiedere a un retore delle dimostrazioni. (Etica Nicomachea, 1094b, 23-27).
Ora, poiché il corpo è, secondo Heidegger, ciò che, in misura massima, risulta refrattario a ogni riduzione obbiettivistica, nulla di quanto è essenziale in esso può essere salvaguardato all’interno di un’impostazione scientifica. Naturalmente il corpo a cui pensa Heidegger è il corpo proprio dell’uomo, quello indicato dalla parola tedesca Leib (corpo vissuto, corpo di cui si ha esperienza) in opposizione al corpo anatomico, Körper (corpo conosciuto come mero oggetto). La considerazione dell’uomo non come soggetto e res cogitans, ma come Dasein, esser-ci, assegna all’analitica esistenziale un ruolo preliminare e fondante. Questo, Heidegger lo afferma programmaticamente fin dal primo seminario (8/9/1959):
L’esistere umano nel suo fondamento essenziale non è mai solo un oggetto semplicemente presente in qualche posto, per niente affatto un oggetto chiuso in sé. (SZ, 53)
Perciò, per comprenderlo, è necessario far ricorso a un atteggiamento totalmente altro rispetto a quello delle scienze.
Tutte le rappresentazioni oggettivanti, finora usuali nella psicologia e nella psicopatologia, della psiche, del soggetto, della persona, dell’io e della coscienza come di una capsula, dal punto di vista dell’analitica dell’esserci devono scomparire a favore di una comprensione totalmente altra. (SZ, 53)
L’implicito presupposto filosofico della psicosomatica
Il testo a cui Heidegger fa riferimento per criticare il concetto di psicosomatica è una conferenza tenuta da Hegglin nel 1964, intitolata Was erwartet der Internist von der Psychosomatik? (Che cosa si aspetta il medico internista dalla psicosomatica?), testo in cui il principio di distinzione fra psiche e soma è individuato nel diverso modo di coglimento di questi due ambiti tematici. Heidegger è conscio che la critica fenomenologica a cui intende sottoporre la scienza potrebbe generare, in un pubblico di scienziati, il timore di una delegittimazione oscurantistica della scienza stessa. Tuttavia, sostiene il filosofo, tale timore non ha ragione di esistere, dal momento che la filosofia non rivolge le sue armi contro la scienza, ma contro se stessa (infatti ciò che viene preliminarmente e tacitamente accettato in ogni scienza, non appartiene alla scienza, ma alla filosofia).
Per quanto i risultati della ricerca scientifica possano essere esatti e utilizzabili, con ciò non è in alcun modo provato che essi siano anche veri, veri nel senso del rendere manifesto l’essere dell’ente nella sua peculiarità, di quell’ente di cui si tratta di volta in volta. Nella psicosomatica si tratta dell’esser uomo dell’uomo. (SZ, 142)
La scienza opera entro ambiti già dischiusi, mentre il dischiudere non appartiene propriamente alla scienza. Il “semplice principio” a cui Hegglin intende attenersi per distinguere soma e psiche, il fatto cioè che “i fenomeni psichici non sono pesabili né misurabili, bensì si possono solo sentire intuitivamente, mentre tutto ciò che è somatico, invece, si può cogliere in qualche modo attraverso i numeri” (SZ, 143) è un principio palesemente filosofico, con il quale si fa un passo oltre la scienza. Differenziare due ambiti dell’essere, una regione misurabile e una non misurabile, e decretare che l’essere vero e incontrovertibile appartiene solo al misurabile, significa filosofare.
Nel “semplice principio” sopra citato l’essere del somatico viene arbitrariamente ridotto al misurabile, senza aver prima chiarito l’essenza della misurabilità. La misurabilità è una proprietà della cosa, in quanto la cosa stessa è ridotta a res extensa e, in ultima analisi a oggetto. Pertanto, essa è una condizione necessaria perché una cosa sia un oggetto, ma non è una condizione sufficiente del suo esser cosa in quanto tale. L’oggettività è uno dei modi dell’esser presente dell’ente al Da-sein, (un altro modo, più originario, è la strumentalità), precisamente quel modo in cui l’Esser-ci contraendosi a puro soggetto conoscente, a semplice res cogitans ha davanti a sé l’ente come semplice-presenza, come pura res extensa.
Già abbiamo notato l’indisponibilità del corpo a sottostare a una riduzione obiettivistica. Ma, se il somatico, arbitrariamente compreso in termini di misurabilità, è penalizzato, doppiamente penalizzato risulta essere lo psichico, dal momento che l’”arroganza” della scienza gli attribuisce una determinazione meramente negativa: esso è ciò che può essere sentito solo intuitivamente e l’intuìto è “il non misurabile”. Del resto, una connessione psiche-soma, al di là dei problemi che ogni dualismo genera, non è nemmeno scientificamente legittima, in quanto contraddittoria e indimostrabile. La scienza, infatti, accetta come dimostrabile solo il misurabile, quindi, a rigore, solo il somatico. Dove stia la misurabilità fra qualcosa di esistente (il soma misurabile) e qualcosa di oggettivamente non esistente (lo psichico non misurabile e meramente soggettivo) rimane, anche da un punto di vista scientifico, un mistero.
Merleau-Ponty: l’analisi del problema dell’arto fantasma
Prima di entrare nel vivo dell’impostazione filosofica di Heidegger riguardante il corpo, conviene prestare un po’ di attenzione alle analisi che a questo stesso argomento ha dedicato Maurice Merleau-Ponty, lui stesso partendo dalla convinzione della sostanziale inadeguatezza della prospettiva scientifico-obiettivistica (con il dualismo res cogitans-res extensa a essa sotteso) a cogliere l’uomo nella sua concreta corporeità. A tali analisi, che pure non gli dovevano essere sconosciute, Heidegger non fa cenno alcuno. Forse la cosa non è del tutto casuale, giocando, in tale esclusione, un sostanziale giudizio negativo nei confronti della fenomenologia esistenzialistica francese, alle cui posizioni probabilmente assimila, un po’ affrettatamente, anche MerleauPonty.
Cerchiamo di vedere la cosa un po’ più da vicino, limitandoci a prendere in considerazione una fra le molte analisi che il fenomenologo francese dedica al corpo. Esemplare, a tale riguardo, rimane lo studio del fenomeno dell’arto fantasma, cioè il sentire, da parte di un amputato, come esistenti, in particolare circostanze, un braccio o una gamba che, in realtà non ci sono più. (Vedi su questo M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 124 e seguenti). Si tratta di osservazioni fortemente critiche verso una mera spiegazione psico-fisiologica di tale fenomeno, secondo la quale l’arto fantasma sarebbe l’effetto unico di una doppia causalità (psicologica, in termini di rappresentazione, e fisiologica, in termini di stimolazione), i cui reciproci rapporti rimarrebbero alquanto problematici.
La corporeità concreta, misteriosa e incomprensibile per la coscienza oggettiva del mondo, si rende, invece disponibile nel suo essere più profondo se si opera con la nozione di essere-al-mondo, intesa come una veduta preoggettiva: come l’apertura al senso globale di una situazione, perché intenzionata non dall’uomo, ridotto a mero soggetto conoscente, ma dall’uomo nella sua concretezza. L’essere-al-mondo, ante-ponendosi a ogni coscienza oggettiva del mondo, supera tanto l’unilateralità della riduzione alla res extensa (obiettivismo), quanto quella della riduzione alla res cogitans (soggettivismo), quanto, infine, il sincretismo di un’incomprensibile combinazione delle due causalità.
In rapporto al tema dell’arto fantasma, le spiegazioni unilaterali non escono dal mondo della rappresentazione, dal momento che affrontano il problema dell’assenza o della presenza del sintomo collocandosi fin da principio al livello della coscienza tetico-oggettiva. In altri termini, l’esperienza dell’arto fantasma sarebbe riducibile ai modi in cui un soggetto si dà un oggetto. Ma l’Io che rifiuta la mutilazione non è puro io che sostituisce con semplici rappresentazioni fantasma un oggetto mancato, ma un io in carne e ossa impegnato ad affrontare un mondo che si protende verso di lui pregno di tutto il suo significato. Il braccio fantasma, pertanto, lungi dall’essere una rappresentazione sostitutiva, rappresenta, invece, la testimonianza di un’apertura permanente al significato del mondo. L’amputazione instaura nel corpo una regione di silenzio, un silenzio opposto all’appello proveniente dall’oggetto maneggevole.
Per queste analisi, Merleau-Ponty si serve dei concetti di corpo abituale, il corpo in quanto insieme generico delle sue possibilità, così come si è venuto a formare nel corso dell’esperienza continua dell’essere al mondo, e di corpo attuale, il corpo impegnato a cogliere l’effettività delle cose nell’attualità del presente. Ora, il corpo abituale, nella sua permanente apertura al mondo, ignora la menomazione, ma proprio questa apertura rivela all’amputato la regione di silenzio che si è installata nel suo corpo. È attraverso il “non saper nulla” dell’amputazione da parte del suo corpo abituale che l’invalido, impegnato a rispondere all’appello del mondo col suo corpo attuale, “viene a sapere”. Nel fenomeno dell’arto fantasma il corpo abituale custodisce il corpo attuale, se ne fa garante, nel senso che l’effettività che il corpo attuale non può più incontrare retrocede alla mera possibilità, mantenuta sempre aperta dal corpo abituale. Il maneggevole passa da un maneggevole “per me” a un maneggevole “in sé”.
Con l’arto fantasma l’ammalato ha il suo corpo attuale imbrigliato dal suo corpo abituale. Tale fissazione non è certo una rappresentazione, ma uno “stile d’essere”: l’essere al mondo non è più un essere presso le cose effettivamente, ma presso le cose nella loro semplice possibilità, un vano protendersi del corpo senza mai incontrare se non l’angoscia del silenzio di una regione del mondo. L’amputato cade dal suo mondo al mondo in generale. Il braccio fantasma non è il ricordo del braccio effettivo (sarebbe, in questo caso, una rappresentazione), ma un quasi-presente, il “persistere” di un presente, quasi il rifiuto di un presente a “incorporarsi”. Ma incorporare il presente (far passare senza soluzione di continuità il corpo attuale nel corpo abituale) è una necessità a cui l’uomo non può sottrarsi se vuole essere sempre effettivamente presente al mondo. Ogni presente alberga in sé, per propria essenza, la pretesa di stare senza passare. È affetto, cioè, dalla tentazione del nunc stans.
Le analisi di Merleau-Ponty, pur condotte all’interno di una prospettiva non viziata dall’obiettivismo delle scienze naturali, sembrano, tuttavia, guidate da un atteggiamento ontico, antropologizzante. Se assumere l’uomo nella sua concreta corporeità costituisce un indubbio passo avanti rispetto a una sua comprensione come combinazione di psiche e soma, tuttavia questo non è ancora il Dasein, nel senso proprio in cui Heidegger lo intende. Per comprendere il valore della posizione di Heidegger dobbiamo mettere finalmente a fuoco ciò che il filosofo dice del corpo.
Il corpo come dispersione spaziale
Bisogna riconoscere che Heidegger ha parlato poco del corpo in termini espliciti, quasi come se l’essere-corpo dell’uomo non fosse una questione filosofica fondamentale. In Essere e tempo, lo abbiamo già detto, al corpo non si dedicano più di sei righe. Leggiamole come il filosofo le riporta in questi seminari:
Così come i suoi disallontanamenti, l’esserci include costantemente anche queste direzioni (in basso, in alto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro). La spazializzazione dell’esserci nella sua corporeità [Leiblichkeit] , che racchiude in sé una propria problematica, che qui non è possibile trattare, è insieme peculiarmente caratterizzata secondo queste direzioni. (SZ, 146)
Un po’ diverso appare il testo di Essere e tempo nella traduzione di Pietro Chiodi, che qui riportiamo:
Dall’orientamento direttivo derivano le direttive fisse di destra e sinistra. L’orientamento direttivo è costantemente connesso all’Esserci né più né meno del dis-allontanamento. È in base a queste direzioni che va caratterizzata anche la spazializzazione dell’Esserci nella sua “corporeità” spazializzazione che porta con sé una sua particolare problematica che qui non possiamo trattare. (M. Heidegger, Essere e tempo, tr. It. Di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 1976, 7a ed.)
Due sono le indicazioni che questo brevissimo testo ci fornisce:
- Viene posto il nesso corporeità-spazialità e affermato il carattere “esistenziale” della spazialità;
- La spazializzazione e la corporeità di cui si parla appartengono all’esserci prima che all’uomo.
La corporeità dell’esserci ha in sé una propria problematica, che Heidegger qui non tratta. Lo fa, però, in un corso universitario tenuto a Marburgo nell’estate del 1928 (l’anno dopo la pubblicazione di Essere e tempo) riguardante i Principi metafisici della logica, dove dedica alcune interessantissime pagine proprio al problema della corporeità del Dasein. (v. M. Heidegger, Principi metafisici della logica, Il melangolo, 1990, Genova, p. 162-167).
L’ontologia fondamentale, cioè l’analitica dell’esistenza dell’Esserci è il punto da cui partire per comprendere l’essere proprio di tale ente. Pertanto, ogni antropologia e ogni etica devono essere messe fra parentesi: non dell’Esserci in quanto uomo si tratta, ma dell’Esserci in quanto tale, nel suo essere in generale, nel suo esser-proprio. Il Da-sein in assoluto. Preliminare, quindi, è l’assoluzione del Dasein da ogni particolare determinazione ontica, l’assoluzione dell’esserci dall’esser-uomo e dall’esser questo o quell’uomo. Questo è il senso della neutralità essenziale che appartiene all’Esserci, neutralità che è anche asessualità, priorità rispetto a ogni differenza sessuale. In Heidegger il termine negativo non ha necessariamente un significato negativo, esso anzi spesso comprende in sé un’autentica positività (v. verità come a-letheia, non nascondimento). L’assoluzione del Dasein da ogni concrezione non isola tale ente nello spazio vuoto e irrelato dell’astrazione, non lo riduce all’indifferenza del nulla ontico, perché
nella sua neutralità l’esserci non è indifferentemente nessuno e ognuno, ma l’originaria positività e potenza dell’essere. (M. Heidegger, Principi metafisici della logica, cit., p. 162)
È la potenza dell’origine, che alberga in sé ogni possibilità concreta ed effettiva di esser-uomo. Asessualità del Dasein non significa che il Dasein non ha sesso, ma che in sé è sessualità predifferenziale e, in quanto tale, fonte di ogni sessualità possibile. Il Dasein neutro e asessuato non è mai l’esistente concreto ed effettivo (l’ontologico non è mai l’ontico), tuttavia al sé del Dasein (al Dasein in quanto tale) appartiene la possibilità interiore di una dispersione fattuale nella corporeità e, quindi, nella sessualità. La corporeità è radicata nell’esser-sé del Dasein. (Vedi, su questo argomento, il saggio di Derrida, “Geschlecht”. Differenza sessuale, differenza ontologica, in J. Derrida, La mano di Heidegger, tr. It. Laterza, Bari, 1991)
La neutralità metafisica dell’uomo, interiormente isolato, in quanto esserci, non è la vuota astrazione dell’ontico, un né-né, bensì l’autentica concretezza dell’origine, il non-ancora dell’effettivo essere-disperso. In quanto effettivo, l’esserci è, tra l’altro, sempre disperso, in un corpo e insieme scisso in una determinata sessualità. (M. Heidegger, Principi metafisici della logica, cit., p. 163)
La corporeità è dispersione, ma questo carattere, che pure ha un suono negativo, è ciò che permette all’Esserci di avere un mondo, di rapportarsi a una molteplicità di oggetti e di essere-con altri esserci, per cui essa rappresenta, in realtà, un vero e proprio fattore organizzativo. (V. M. Heideggr, Principi metafisici della logica, cit., p. 164). La spazialità dell’esserci, il suo attuarsi come dispersione, il suo esser-corpo, rappresenta un carattere essenziale dell’esserci stesso nella sua costituzione ontologica. Il Dasein ha un corpo in quanto è dispersione originaria, spazialità. Il nesso spazio-corpo viene alla luce come una determinazione essenziale del Dasein.
Il corpo-spazio come incontro e apertura
Sappiamo che la tradizione filosofica comprende l’oggetto in termini di spazialità, o, meglio, di estensione. Se Cartesio, esplicitamente, riduce l’oggetto a res extensa, Kant, da parte sua, individua nello spazio la forma pura del senso esterno, per cui l’oggetto ci è dato come altro da noi, in quanto posto di fronte a noi. L’affermazione di Heidegger che lo spazio è l’essere del corpo ci lascia quindi perplessi, perché sembra essere, in tutto e per tutto, coerente con la tradizione che fa del corpo un oggetto, una mera cosa spaziale. Le cose, naturalmente, non stanno così.
Il corpo è fenomeno dello spazio, è spazio reso visibile e determinato, ma la spazialità di cui il corpo è realizzazione non è certo la spazialità metrica e omogenea del mondo oggettivo. Anzi, è questa, semmai, a fondarsi nella spazialità originaria del corpo proprio, spazialità che è sempre orientata, esistenziale, aperta al Dasein.
L’esserci dell’uomo è in sé spaziale nel senso del concedere spazio allo spazio e della spazializzazione dell’esserci nella sua corporeità. L’esserci non è spaziale in quanto corporeo, bensì la corporeità è possibile solo in quanto l’esserci è spaziale nel senso di concedente-spazio. (SZ, 146)
Non è grazie al corpo che c’è lo spazio, ma il corpo c’è perché l’esserci è spaziale. Il rapporto spazio-corpo è quello di identità-differenza: il corpo è visibilità dello spazio, è lo spazio onticamente inteso, mentre lo spazio è il corpo ontologicamente compreso. Il corpo è ratio cognoscendi dello spazio, lo spazio è ratio essendi del corpo. Naturalmente, affermare che il corpo è l’aspetto ontico dello spazio non significa fare del corpo una determinazione accidentale dello spazio. Come all’essere è intrinseco esser sempre qualcosa, essere sempre un ente qualsivoglia, così è intrinseco allo spazio essere sempre, nella sua manifestazione, corpo.
L’orizzonte d’essere in cui l’esserci soggiorna è il Leiben, l’esser-corpo, l’esser-in-carne-ed-ossa. Ora esser-corpo significa, per Heidegger, essere spaziali. Ma qual è la differenza fra l’essere spaziale del corpo e l’essere spaziale delle cose? Cosa significa dire che l’uomo è nello spazio? Tavolo e uomo sono diversamente nello spazio: l’uomo si muove in un orizzonte, la cosa, invece, no. Il tavolo si dà nello spazio, occupa uno spazio, è-semplicemente-qui. I suoi confini coincidono con il suo esser-qui e, in tale coincidenza, il tavolo manifesta interamente la sua spazialità. Diversamente stanno le cose per l’uomo: al suo esser-qui appartiene, per essenza, l’esser-sempre-rapportato-a-qualcosa, l’essere sempre, cioè, oltre il “qui”. Il che non significa sostenere che l’uomo è sempre oltre il suo corpo essendo presso qualcosa. Se così fosse, l’uomo, primariamente, sarebbe determinabile come Körper, come semplice oggetto, res extensa, sostanza alla quale apparterrebbe, tra le altre, anche la misteriosa proprietà di protendersi oltre se stessa. Il confine del corpo proprio dell’uomo (Leib) non è quantitativamente, ma qualitativamente diverso da quello del corpo anatomico-fisiologico (Körper).
In ogni esperienza del corporeo, dal punto di vista dell’analitica dell’esserci, si deve partire sempre dalla costituzione fondamentale dell’esistere umano, vale a dire, dell’esser-uomo in quanto esser-ci, in quanto esistere – in senso transitivo – un ambito di esser-costantemente-aperto-del-mondo; a partire, dunque, dall’esser-costantemente-aperto, nella cui luce le significatività di ciò che si fa incontro rivolgono la parola all’uomo assegnandoglisi. (SZ, 337)
L’esser-ci è già sempre rapportato a qualcosa che gli si disvela. L’essenza dell’uomo sta nell’essere rapportato all’ente (intenzionalità), in quanto aperto all’essere dell’ente (trascendenza, comprensione dell’essere). Ma non è un semplice essere-rapportato, bensì un esser-rapportato-percettivo: l’uomo è “invitato” a rispondere a ciò che gli si assegna secondo il suo modo proprio. Ciò che gli si fa incontro è il reale (Wirklichkeit), il percettivo in quanto effettivamente incontrabile. Se l’uomo fosse un “percepire spirituale” sarebbe lui stesso l’essere e, pertanto, sarebbe privo di ente, privo di mondo (orizzonte di apparizione dell’ente). Non sarebbe apertura, ex-sistere, stare-nell’aperto (l’esser-qui nel modo dell’esser-sempre-altrove).
Se esistere è esser-rapportati-percettivamente a ciò che ci si fa incontro assegnandocisi, e se esistere è leiben (essere in carne ed ossa), il corpo non può essere oggetto a cui si aggiunge, come sua guida, un soggetto; il corpo non è corpo animato, se con tale espressione si vuole intendere corpo + anima (Körper + Seele, soma + psyché). Con la morte il Leib diventa Körper e il modo d’essere del Dasein assume quello della cosa. Il Dasein cade-fuori, si fa mera esteriorità, puro oggetto nello spazio, senza evento e senza incontro. Non è più un ambito del poter percepire, ma il percepito semplicemente. Vedere il corporeo in quanto oggetto è vedere il corpo in quanto morto. Una comprensione dell’uomo in termini di combinazione di soma e psiche comporta che l’essenziale dell’uomo è già per sempre scomparso dallo sguardo.
Il Dasein è incontro percettivo con le cose, perciò l’esserci, cioè quell’ente che nel suo essere appare difforme alle cose, non può non essere, sotto un riguardo tutto speciale, anche cosa (corpo). Il corpo “ci serve” nel senso che noi lo “adoperiamo” nel nostro rapporto con l’ente. La dimensione utensilitaria del corpo sembra indiscutibile. Il corpo, allora, è uno strumento? Assolutamente no, secondo Heidegger. Non è l’uomo che adopera il corpo per manipolare l’ente, è l’uomo che “si adopera” nel rapporto con l’ente. Il corpo non è uno strumento che, in quanto tale, possa essere messo da parte quando non serve, uno strumento che ha la propria ragione fuori di sé in una coscienza utilizzante. Il corpo non è utensile, ma possibilità di utilizzare; non è cosa spaziale, ma possibilità di aprire lo spazio; è ciò che apre il mondo come complesso di strumenti, come orizzonte di apparizione degli oggetti. Il corporeo è l’effettuarsi (wirken) della possibilità di percepire e, in quanto tale è fenomeno del Dasein (v. SZ, 146).
Conclusione
La connessione privilegiata di essere e tempo era servita a Heidegger per scardinare la concezione metafisica dell’essere, entro la quale rimaneva incomprensibile la peculiarità ontologica dell’uomo, la sua non disponibilità, in quanto progetto, a essere compreso entro lo schema dualistico soggetto-oggetto. L’attenzione rivolta al corpo porta ora a far emergere, accanto a quello già indagato del tempo, anche il senso ontologico dello spazio, come fenomeno originario, irriducibile a ogni altro. Se il § 70 di Essere e tempo sembra andare verso un tentativo di ridurre la spazialità alla temporalità, l’indagine sulla corporeità mostra che l’esserci non è solo temporale, l’esserci è anche spaziale. Nell’interpretazione dell’esserci la spazialità è cooriginaria con la temporalità, l’essere-proprio dell’uomo non è solo comprensibile in termini di evento, come inaugurazione di orizzonti storico-culturali, ma anche come fare-spazio, incontro, prossimità, abitare una “semplice contrada”, radicarsi in un luogo; tutte metafore spaziali, sempre più frequenti nel “secondo” Heidegger, che dicono lo stesso delle metafore temporali del “primo” Heidegger: la costitutiva finitezza dell’esserci.