Per la prima parte di questo breve saggio v. anche Benjamin: Il narratore e l’esperienza nella modernità.
La storia, per Benjamin, è il luogo dell’esperienza umana come prassi politica. La modernità, come mostra in più luoghi dei suoi scritti, impoverisce tale esperienza fino a minacciarla di estinzione. Nel saggio dedicato a Nicolai Leskov Benjamin parla della ridotta capacità di fare esperienze nella modernità, della natura dell’esperienza dopo l’avvento e il consolidarsi del mondo borghese e del nuovo, drasticamente nuovo, mondo-ambiente che la modernità ha allestito per l’uomo, dove i rapporti e i mezzi di produzione e le incredibili innovazioni tecnologiche nell’ambito dei mezzi di comunicazione e delle tecniche visive, hanno messo in crisi strutture, valori, paradigmi che sembravano naturali nel loro lento trascorrere e modificarsi attraverso i secoli.
Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo. (W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962. p. 258)
All’impoverimento dell’esperienza nel mondo moderno, Benjamin associa, fra gli altri effetti, anche il venir meno dell’arte del narrare. Non si tratta di un semplice estinguersi, un mero perdersi, ma un tramontare, un decadere, un disperdersi di questa arte nel romanzo, una forma del raccontare, questa, assolutamente diversa dalla narrazione tradizionale.
Il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare – non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi. […] l’arte di narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado di incontrare persone che sappiamo raccontare qualcosa come si deve: […] È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze. (W. Benjamin, Il narratore, cit., p. 247)
Ciò che si è interrotto, o che la modernità ha reso estremamente precario, è la comunicabilità dell’esperienza. Proprio la modernità, il tempo e il luogo delle esplosioni di massa dei mezzi di comunicazione, ha rattrappito, inaridito, i flussi di esperienza.
È chiaro che Benjamin con comunicazione e scambio delle esperienze non intende certo lo scambio delle notizie e delle informazioni, di cui c’è, invece, abbondanza, eccesso, ingorgo. L’esperienza che si estingue, quella alla quale la modernità ha sottratto la sua possibilità, è l’esperienza scambiabile di bocca in bocca, l’esperienza narrata, raccontata, che nasce da un organico rapporto con lo spazio e il tempo, con la lontananza e la vicinanza spazio-temporale. Quel narrare, ad esempio, proprio dei mercanti navigatori, di quelli che vengono da lontano e portano notizia di mondi esotici, o quel narrare che appartiene agli agricoltori sedentari, che proprio per il fatto di essere radicati nella loro terra ne conoscono di storie e di tradizioni che si perdono nella notte dei tempi. L’arte del narrare nasce, germoglia, fiorisce, si rafforza proprio affondando le radici in questa organica connessione con lo spazio e il tempo naturale. Il paese lontano, il tempo che fu, fonti inesauribili di racconti e di storie, è proprio ciò che la modernità ci aliena ed estingue.
È fondamentale, nella lettura benjaminiana della modernità, questo concetto di distanza. Ciò che conta, non è tanto il progressivo ridursi della distanza, quanto il suo divenire irrilevante. La scomparsa, l’estinzione della distanza, è un operatore dialettico, che può ostruire i percorsi stessi dell’esperienza, come mostra questo saggio, ma può anche innescare la miccia esplosiva dell’immagine dialettica o dell’illuminazione profana. L’immagine dialettica è un “accoppiamento” inaspettato e carico di tensione di termini estremi, tale da immobilizzare e “verticalizzare” il tempo. Come esempio di immagine dialettica e di conseguente illuminazione profana, vediamo un breve testo contenuto in Ombre corte, in cui Benjamin descrive la Cattedrale di Marsiglia.
Nel luogo più recondito e solatio si leva la cattedrale. Qui tutto è come morto, benché essa confini verso sud, ai suoi piedi, con la Joliette, il porto, e verso nord con un quartiere proletario. L’edificio deserto sta fra molo e magazzino, quasi stazione di smistamento di merce impalpabile e invisibile. (W. Benjamin, Marsiglia, in Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino, 1993, p. 245)
L’immagine della cattedrale emerge in uno spazio proprio, morto e rarefatto, i suoi confini sono, tuttavia, netti, contrastanti, vocianti e profani, produttivi e conservativi: è frammento decontestualizzato, che reclama una collocazione, una sistemazione, una combinazione. Frammento visivo, carico di tensione.
Dalla facciata si intravedono sale d’aspetto, dove viaggiatori dalla prima alla quarta classe (ma davanti a Dio tutti sono uguali) stanno seduti, come fra valigie, fra i loro bagagli spirituali, e leggono in libretti di inni sacri, tanto simili con le loro concordanze e corrispondenze a orari ferroviari internazionali. Estratti del regolamento ferroviario sono appesi, quali lettere pastorali, alle pareti; sono esibite tariffe agevolate per viaggi di lusso sul treno di Satana, e sono lì, pronti camerini, a mo’ di confessionali, dove chi viene da lontano può, appartato, ripulirsi. (ibid.)
Improvvisamente, questa tensione disegna automaticamente un margine, un limite, una linea dinamica e il profilo della cattedrale si rivela intensivamente affine a quello inaspettato, eppure così straordinariamente pregnante, di una stazione. L’edificio sacro, a seguito di un immateriale mimetismo, acquista il volto, la fisionomia di una stazione in cui si smista merce di natura spirituale.
Questa è a Marsiglia la stazione della religione. Carrozze letto con destinazione l’eternità vengono fatte partire all’orario delle messe. (ibid.)
E la cattedrale, accostata alla stazione, si dilata nella città, in un’espansione senza estensione, tutta condensata nell’ossimorica immagine di Marsiglia come stazione della religione. È un esempio di immagine dialettica, di montaggio di elementi estremi fatti coesistere in un unico spazio immaginativo, una dialettica di sacro e profano. Questo spazio è il luogo dell’illuminazione profana.
Nel saggio sul Surrealismo (in W. Benjamin, Ombre corte, cit., p. 268-269) Benjamin sembra affidare all’ebbrezza procurata da droghe, a ciò che allenta, sovverte, confonde, incanta, un ruolo propedeutico al prodursi dell’illuminazione profana e al conseguente aprirsi o cristallizzarsi dello spazio immagine. Il concetto di illuminazione profana e, conseguentemente, quello di spazio immagine, è intimamente connesso al problema della rottura del quotidiano, del normale, dell’abituale. L’ebbrezza toglie al quotidiano la sua linearità, la sua compatta e strutturata apparenza, lo sottrae all’anonimia del fattuale, lo surdetermina (realtà diventa surrealtà). La disgregazione del quotidiano, la sua anarchica frantumazione (momento distruttivo) è anche produzione di cristalli di senso, di costellazioni di idee (monadi), di configurazioni fenomeniche estreme (momento costruttivo). L’illuminazione profana è come il risveglio da un sonno popolato di sogni, un’esperienza unica che sovverte, per un attimo, ogni rigida separazione fra sogno e realtà. Bisogna, tuttavia, essere “capaci di intensità” nell’esperienza, come mostra l’apologo taoista in cui si racconta di un vecchio saggio che sognò con una tale intensità di essere una farfalla che, al suo risveglio, non fu in grado di decidere se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che stava sognando di essere un uomo. In un frammento annesso alle Tesi sul concetto di storia, Benjamin, riferendo il risveglio alla scienza storica, lo definisce come
l’arte di esperire il presente come il mondo della veglia al quale quel sogno che chiamiamo passato in realtà si riferisce. (W. Benjamin Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 113; fr. K1, 3)
Come nel risveglio del vecchio saggio, il risveglio che la storia reclama sottrae il passato alla sua condizione di mera anteriorità temporale di un presente dato, un presente certo della propria legittimità, e lo mette in sincronia, in costellazione istantanea ed effimera, con un presente che, in forza di ciò, si apre a una nuova leggibilità. È una costruzione che lampeggia, che balena, effimera, perché condensa, nel momento del suo prodursi, un presente che passa con un passato sepolto nei ripostigli della storia e condannato dal continuum progressivo dello storicismo a un oblio irrevocabile.
È l’annullarsi della distanza nell’immedesimazione emotiva che degrada l’Erfahrung in Erlebnis. Ma è anche la negazione della distanza fra arte e vita che permette di sfrattare l’opera d’arte dal parassitario luogo cultuale in cui il filisteismo borghese l’ha elevata e confinata. La perdita dell’aura, infatti, è una demistificazione, lo smascheramento di una sovrastruttura che ha accompagnato l’arte come un’ombra, sottraendola al suo spazio proprio, per confinarla nelle inaccessibili (per le masse) regioni della dimensione estetica. Benjamin definisce così l’aura:
Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo. (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966, p. 70).
Distruggere l’aura significa avvicinare le opere d’arte, non lasciarle nella loro fittizia dimensione cultuale. I rischi che l’arte corre, intrinseci alla propria natura, sono connessi al suo non saper mantenere la “giusta distanza” (troppa prossimità o arcigna distanza auratica), al suo non saper resistere a tentazioni che le sono, per così dire, naturali o essenziali: il dissolversi dell’individualità contemplante fra le braccia annientatrici delle Sirene (la bellezza) o il confondersi con la vita annullando ogni distanza e con ciò ogni sua stessa ragion d’essere, il suo stare nella dimensione separata, protetta e sublimata dello spazio estetico. Sono tre modi peculiari dell’arte, in cui essa può finire. Tre tentazioni, tutte implicite nella sua natura o essenza, a cui l’arte deve saper resistere.
È ancora una distanza negata a innescare la potenzialità esplosiva dello Jetzt-Zeit, il tempo-ora, l’arresto messianico dell’accadere, costellazione in cui ogni presente si trova consonante con una ben determinata epoca del passato. Benjamin contrappone al tempo omogeneo e vuoto della concezione borghese della storia la nozione di tempo-ora, o presente istantaneo. Lo Jetztzeit istituisce in un determinato passato una contemporaneità potenziale con un’epoca futura: è ciò che “concretamente” rende possibile a Robespierre riattualizzare nella Repubblica francese l’antica repubblica romana. È la percezione di una profonda affinità fra l’attimo presente e un momento del passato, in forza della quale l’estensione temporale si contrae in un unico punto, la storia si ricapitola in un unico istante. Lo Jetztzeit è una temporalità speciale, dove il presente, colto nell’ora della sua conoscibilità, arresta il movimento temporale traducendo a sé il passato (non il “già stato”, ma il “mai stato”).
La crisi della distanza, che la modernità ha prodotto, sembra tuttavia, come vedremo in un prossimo saggio dedicato all’analisi del concetto di storia, dare ancora maggior risalto al permanere di una distanza paradossale (lontananza-vicinanza a un tempo), quella fra teologia e storia, fra necessità della teologia per la concezione della storia e inservibilità della stessa nella prassi politica.