“Novecento” di Bernardo Bertolucci

È un film strano Novecento di Bertolucci, bello e impossibile. Com’è possibile, infatti, confezionare un oggetto di indubbio valore artistico, oberati da una pesante ipoteca ideologica, come avviene in questo film? Non c’è dubbio che il film sia bello: la fotografia, il punto di vista saldamente occupato, a partire dal quale si racconta la trama, la conduzione sapiente degli attori, l’intreccio seducente, fatto di anticipazioni e flashback efficaci, di dislocazioni temporali e spaziali, di inserti lirici entro un quadro drammatico e psicologici entro un contesto storico, riescono ad approfondire una fabula, una trama, in sé fin troppo prevedibile. Si sente la lezione del Novecento letterario: il film gioca virtuosisticamente entro la tradizionale e ancora ottocentesca cornice del racconto di formazione, ma lo fa per mostrarne l’obsolescenza.
Sì, perché Novecento ha l’aspetto del Bildungsroman, piuttosto che dell’epopea. Due personaggi principali, Alfredo Berlinghieri (Robert De Niro), padrone, e Olmo Dalcò (Gérard Depardieu), bracciante, sono seguiti dalla nascita alla morte, studiati nella formazione dei loro caratteri, del loro pensiero, del loro sentire, accompagnati nelle vicende che li vedono protagonisti, vicende indissolubilmente intrecciate eppure del tutto incomunicabili. Romanzo di formazione, però, solo in apparenza, perché manca il prerequisito che lo rende possibile: l’esistenza di un contesto storico e sociale condiviso (com’era nel secolo XIX), un contesto che, pur problematico, sia universalmente accettato e capace di integrare a sé, normalizzandole, le pulsioni e le aspettative spesso anarchiche e ribelli di personalità forti e acerbe a un tempo. Pensiamo al Wilhelm Meister di Goethe, al Julien Sorel di Stendhal o al Moreau di Flaubert.
Ciò che manca ai due protagonisti del film è proprio questo contesto di senso ed è tanto più paradossale che manchi, quanto più i quadri in cui sono di volta in volta inseriti appaiono invece ben definiti: quadro statico e ben strutturato nella prima parte del film, dove la divisione padroni-braccianti sembra avere la sanzione definitiva del dato naturale, piuttosto che di quello storico e culturale, quadro coercitivo e violento, ma altrettanto incontestabile, nella seconda parte, dove il fascismo assume le sembianze crudeli e inflessibili del destino. Sono due contesti di senso fortissimi, talmente forti che i due personaggi sembrano doversi ridurre totalmente a essi, fino ad apparire come semplici elementi, particolari di una dimensione che li trascende senza riserve, giocati in ruoli fissi e incontestabili.
In parte così avviene. Olmo nasce bracciante e per tutta la vita, pur educato da vicende dolorose e drammatiche, non sfugge a questa maschera. Anche la sua fede comunista, come quella dei suoi compagni di sventura, ha il carattere, non tanto ingenuo, quanto elementare e automatico, del dato di fatto. Alfredo nasce padrone e muore padrone: la sua vita, da buon padrone, ha sfumature più ricche di quella di Olmo, il suo carattere, da buon padrone, educato con più cura, non ha la granitica fermezza di quello di Olmo, tuttavia le sue incertezze, i suoi turbamenti, le sue esitazioni, le sue reticenti opposizioni, non si spingono mai fino alla messa in discussione del suo ruolo. Padrone era, padrone è, e padrone sarà fino alla morte, sulla quale, simbolicamente rivendica lo stesso potere che ha sulla vita. Non è un caso che i due padroni, Alfredo e il nonno, muoiano suicidi: muoiono quando “loro” hanno deciso che ne hanno avuto abbastanza. Come non è un caso che il nonno di Olmo muoia quando lo decide la natura, o che altri braccianti muoiano quando altri lo decidono, muoiano ammazzati, insomma.
Ma allora, cosa manca a Novecento per essere fino in fondo un frutto tardivo, anche se saporito, di Bildungsroman cinematografico? Il quadro di senso c’è, i protagonisti sono seguiti dalla nascita alla morte, la loro integrazione nel quadro in cui agiscono appare totale. Cosa manca? Qui interviene la magia artistica del regista e tale magia consiste proprio nello scompaginare con terribile discrezione questo quadro tradizionale, nel mostrare come il senso, che abita con immota tradizionalità la prima parte della vita dei due protagonisti e con eversiva e totalitaria ferocia la seconda parte, sia in realtà, non senso. La loro vita non ha ragione o giustificazione alcuna, né tradizionale né ideologica, ma appare consegnata al puro dato di fatto del forte che schiaccia il debole, secondo il dettato incontestabile della necessità antropologica. Un’asimmetria necessaria, naturale, invalicabile, costitutiva del vivente stesso, alla quale nessuna formazione, tradizionale o rivoluzionaria che sia, ragionevole o forsennata, può opporsi.
Il senso è una formazione, una costruzione, una necessaria menzogna, come l’arte. Una menzogna che, in quanto tale, non può che essere prima o poi smascherata, perché, nel momento in cui si istituisce, non può evitare di tradirsi e destituirsi. Nel film, e qui sta la sapienza del regista, i due quadri di senso, così dettagliatamente descritti, così profondamente ed esaustivamente indagati, così presenti in ogni particolare, sono abitati da un’assenza, ossessionati da un convitato di pietra che, come nel Don Giovanni di Mozart, ne denuncia la tragica inconsistenza, la precarietà, la povera fatuità, l’indecente miseria: la guerra. Le due guerre non appaiono. La prima si riduce a un prolungato stacco nero che chiude un mondo e ne apre un altro, la seconda apre e chiude il film, lo inquadra, ma è presente solo nei suoi effetti (i fascisti in fuga e linciati, i poveri diavoli incazzati ed esultanti). Le guerre non si vedono, ma noi le sentiamo in ogni fotogramma del film.
La Grande guerra appare improvvisa, immotivata, ma non inaspettata: il quadro statico della tradizione mostra in modo sempre più palese le sue tensioni represse. La “dignità” del vecchio padrone e la “forza” rocciosa del vecchio bracciante sono formazioni reattive destinate a esaurirsi e, in effetti, con la morte dei due personaggi, pur differente, si esauriscono, mettendo a nudo la verità su cui si basano: il sopruso del forte sul debole. Il padre di Alfredo è il vero volto che la maschera del nonno non riesce più a nascondere, il volto del potere, arbitrario, tanto più ottuso quanto più arbitrario. Ma anche il volto di Olmo smaschera, a suo modo, quello del nonno e lo fa rimanendo desolatamente uguale a esso, con geniale intuizione artistica. Se il potente, infatti, ha talvolta la necessità di giustificarsi, il debole, nella sua triste condizione, sotto la maschera ha ancora e sempre la stessa faccia. Perciò Olmo è “dignitoso” come il nonno. Forse con un pizzico di coscienza (o falsa coscienza?) in più, ma è il nonno sputato: forte, onesto, dignitoso. Smascherata la menzogna ottocentesca non c’è che la catastrofe e questa catastrofe è la guerra.
La seconda guerra mondiale appare solo nel suo esito manicheo, come dualistica è stata la sua motivazione: il bene ha sconfitto il male, i deboli si sono riappropriati della loro vita e ora, finalmente, dispongono della vita dei forti. Ma in realtà non è cambiato niente, è un’illusione ottusa nella sua rigidità ideologica, come ottuso appare il giovane e improvvisato partigiano che fa prigioniero Alfredo. Un’illusione a cui non può che seguire una delusione fredda, senza scandalo, senza passione, come saranno i cinquant’anni di potere democristiano che si stanno preparando. Illusione e delusione icasticamente colti nelle due affermazioni antitetiche urlate: “il padrone è morto!” “il padrone è vivo!” Nessuno spettatore può avere dubbi su quale sia l’affermazione vera. La guerra non poteva che seguire dall’orgia di potere nazifascista, come così come non poteva che derivare dalla stasi ottocentesca, ma la guerra non ha né messaggi né soluzioni da offrire: fa solo il suo lavoro di smascheramento.
Questa è la lezione di Novecento (film) e del Novecento (secolo): la dicotomia deboli-forti, che il regista ideologicamente trasfigura in modo manicheo in buoni e cattivi, non ha soluzione. La guerra, infatti, pur inevitabile, non risolve nulla. La storia si rivela come una sequenza di parodie mascherate di questa dicotomia. L’uomo può scegliere la meno dolorosa e ingiusta fra le rappresentazioni di questa dicotomia. Senza illusioni, ma con infinite e inevitabili delusioni.
Film strano, come strana è la verità.

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