Questo lavoro è il primo di una serie indefinita di brevi saggi tutti dedicati alla storia filosofica della realtà (sigla SFdR). I saggi, pur spaziando fra gli argomenti più disparati (filosofia, politica, economia, società, scienza, storia, letteratura, arte, cinema, ecc.) saranno tutti prettamente e rigorosamente filosofici.
Hegel aveva della filosofia e della sua storia una concezione organicistica. La storia della filosofia è per lui come una pianta che si sviluppa da un seme, il suo sviluppo è necessario e tanto le varie fasi di questo sviluppo quanto le sue articolazioni stanno fra loro come gli organi di un essere vivente. Niente, nei saggi qui proposti, è più distante da questa visione. Con questo non intendo certo dire che se questi saggi non si coappartengono come le parti di un organismo non abbiano comunque una intrinseca necessità di coappartenenza. Anzi, questa non solo c’è, ma ha una sua peculiare potenzialità che, a mio avviso, la svincola sia dalla solidarietà degli organi fra loro sia dalla funzionalità estrinseca delle parti di un meccanismo.
Questi saggi sono come le tessere di un puzzle, un puzzle filosofico in questo caso, ma con una caratteristica speciale: il disegno che devono comporre non è prescritto ma nasce di volta in volta a seconda dell’inventiva di chi legge. Certo, uno dei disegni possibili (e già prescritti) si può ottenere leggendo i saggi nella sequenza in cui appaiono, ma è solo uno e forse nemmeno il più interessante dei disegni. Un altro modo è quello di raggruppare i saggi per “area” (economica, storica, letteraria, ecc.), ma siamo ancora a un tipo di lettura troppo “vincolata”. Una lettura casuale o motivata da interessi momentanei è altrettanto possibile e può generare interessanti e inaspettati arabeschi. Insomma, quello che voglio dire è che questi saggi-tessera sono come gli ideogrammi di un linguaggio nuovo o come le lettere di un alfabeto, il modo in cui si combinano non è vincolato da nulla di precostituito, ma solo dalla creatività di chi li sceglie. Non quindi una necessità semantica o di contenuto, ma strutturale. Ecco perché il titolo sotto cui questi saggi vengono raccolti è puzzle filosofico (o ideogrammi filosofici?).
E veniamo al progetto che li sottende, quello di presentare una storia filosofica della realtà. Un titolo così impegnativo (e ambizioso, ai confini della megalomania) va spiegato subito e lo farò facendo ricorso all’etimologia delle parole. I riferimenti etimologici saranno molto frequenti, non per pedante esibizione di “cultura”, ma perché le parole sono l’unico mezzo che abbiamo per esprimere il nostro sapere, anzi, le parole stesse sono sapere, e il loro uso, intrinsecamente ambiguo, non può essere lasciato in balia di significati generici o confusi.
Una storia filosofica della realtà non è una rassegna delle concezioni della realtà così come si sono evolute nel corso dello svolgersi “storico” del pensiero umano. Il senso comune di storia, come insieme di eventi o concezioni intesi nel loro svolgimento o come narrazione di questi eventi o concezioni, qui non ha luogo. Storia viene dal greco ἱστορία (historía), il cui significato principale è “ricerca, indagine” (per conoscere i fatti), a cui si aggiunge quello di “conoscenza, informazione” (ottenuta grazie all’indagine). Secondario, ma presente, è il significato di “racconto, storia” (come relazione delle indagini e delle ricerche). Indagine filosofica della realtà, quindi. E indagine significa ricerca attenta e minuziosa, termine che in latino (indago, -inis) proviene dall’attività dei cacciatori che seguono le tracce, le peste, degli animali, al fine di sorprenderli e catturarli. Si tratta quindi di un’attività indiziaria, astuta. L’oggetto di un’indagine o di una “storia” in questo senso è sempre una preda, qualcosa di cui ci si è impossessati grazie a espedienti o a trucchi (ma anche più innocentemente a metodi) appositamente approntati.
Questa indagine è filosofica (né scientifica, né artistica, né letteraria, né empirica, ecc.). il termine “filosofico”, nel modo in cui io lo intendo, è pressoché indefinibile, ma questo non vuol dire “non indagabile”. A una prima accezione di filosofo (quella socratico-platonica) dedicherò un saggio, a cui ne andrà collegato un altro dedicato al più insidioso e irriducibile dei nemici del filosofo, lo stupido. Per ora intendiamo “filosofica” nel senso di “libera” o, se vogliamo, ma il termine è per me sinonimo, di “ingenua”. Un’indagine scientifica è per definizione metodica e sperimentale (anche se sul metodo usato si possono avere idee diverse) e in questo senso non è libera (il suo padrone è l’esperimento e la sua ripetibilità), non lo è nemmeno un’indagine empirica, dovendo per definizione attenersi ai fatti e ai dati. L’indagine filosofica, invece, non obbedisce a istanze diverse da quella intrinseca dell’indagare in quanto tale. E vedremo come sia proprio questo il significato di filosofia che Platone esprime nel Teeteto. Libertà dell’indagine significa uscire liberamente (ma non arbitrariamente o maldestramente) da un solco, “delirare”, significa “divagare” nel senso della libertà di “digredire” allorché necessità di comprensione lo richieda.
E veniamo all’ultimo termine, il più opaco, il più denso, il più generico, quello di realtà. Cosa c’è di più scontato della realtà? Solo i pazzi o i bambini fanno confusione fra sogni e realtà, fra immaginazione e realtà, fra invenzione e realtà. Non è questo significato ovvio di realtà che viene qui tematizzato, tanto che, lo vedremo, l’iperuranio platonico è, nella nostra accezione, realissimo. Tantomeno intendo impelagarmi nelle sottili e spesso capziose accezioni accademiche di questo termine, con la distinzione (di cui comunque mi servirò alla bisogna) fra realitas (ciò che ha un’essentia, una natura) ed esistenza (ciò che “effettivamente” è, l’exixtentia, l’actualitas). Tanto nell’accezione ovvia quanto in quella filosofica (un discorso a parte meriterebbe quella scientifica, ma lo faremo a suo tempo) ciò che viene mortificato è il denso e quasi inesauribile grumo semantico che veicola il termine latino res, da cui realtà viene, grumo che forse ha un corrispettivo nell’insieme di significati trasmessi dalla coppia di vocaboli tedeschi Ding e Sache. A dire il vero, il senso del termine realtà si preciserà passo dopo passo nel corso dei vari saggi. Per ora, tuttavia, voglio aggiungere al termine latino res, anche una parola greca poco usata, ma la cui rilevanza verrà alla luce in un saggio particolare, anche se non sconosciuta al lessico filosofico, quella di ὕπαρ (hýpar) (da ὑπο-, hypo-, sotto), termine indeclinabile che indica come reale “ciò che sta sotto, non ciò che appare sopra”. Nel “sotto” non dobbiamo sentire la presenza di un qualcosa di nascosto che sarebbe la vera realtà in opposizione a ciò che appare. Il “sotto” non svaluta il “sopra”, ma gli dà profondità, modernamente possiamo dire che gli attribuisce “complessità”. Ma il termine greco è anche pregnante perché veniva solitamente usato in contrapposizione a ὄναρ, sogno, venendo quindi a significare “vivere da svegli e non da dormienti”.
Realtà è il tutto: questa appare una buona soluzione provvisoria, un’ipotesi di lavoro feconda ancorché rischiosa, per la sua genericità, di non aver nemmeno i requisiti minimi di un qualunque crivello. Precisiamo allora in un modo più “selettivo”: “la realtà, come verrà intesa qui, è tutto ciò di cui ci accorgiamo” sia da un punto di vista conoscitivo intellettuale, sia da un punto di vista emotivo sentimentale.
L’accorgersi di qualcosa non è il mero portare alla coscienza qualcosa che prima c’era, ma inavvertito, l’accorgersi è il modo in cui un ente che sta nel mondo, non solo l’uomo, quindi, ma qualunque ente, entra in risonanza (che è una forma complessa di relazione, fatta di collaborazione, competizione, indifferenza, appetizione, annientamento, simbiosi, possesso, ecc.) con l’altro da sé. Non ci si accorge solo di qualcosa di formato, di definito, ma spesso, forse addirittura in modo più frequente (e sicuramente più fertile), di qualcosa di indefinito, non solo di forme, ma di processi di formazione, di forze, sempre percepite, sentite, nel loro premere, spingere, frenare, ecc.
L’essenziale dell’accorgersi, però, non riguarda solo il contenuto di questa esperienza (ciò di cui ci si accorge), ma anche il “soggetto” (chi si accorge). Non si può decidere di “accorgersi”, ci si accorge punto e basta. L’accorgersi è sempre qualcosa che sopraggiunge e che improvvisamente illumina di senso una porzione della nostra esperienza o rende insensati un mondo, una vita, un comportamento, una convinzione che finora sembravano acquisiti. L’accorgersi non è intenzionale, anche se, naturalmente, si può stare accorti, all’erta, ma stare accorti non significa intenzionare un mondo, tematizzarlo. Stare accorti è una forma di stare all’erta, è il modo di stare al mondo di chi sa che il mondo ha come sua caratteristica essenziale quella di sorprendere (e meravigliare, il θαυμάζειν, thaumázein, aristotelico). Nessuna persona accorta imprigiona il mondo in una griglia di significati dati, come farebbe un paranoico o un ossessivo.
Vedremo, e la cosa per ora può sembrare paradossale, che solo l’ingenuo (la persona libera) è accorto nel senso essenziale del termine. Io sono sempre più convinto che tutta l’attività creatrice dell’uomo (filosofia, scienza, arte, tecnica, politica, economia, letteratura, …) può essere proficuamente letta secondo questa chiave, quella dell’accorgersi e che i concetti filosofici, le formule e le leggi scientifiche, le creazioni dell’arte, e via dicendo, siano tutti geniali accorgimenti creati dall’uomo per rispondere a problemi di cui è stato costretto ad accorgersi, che l’hanno inquietato, costringendolo, come direbbe Deleuze, a scuotersi di dosso, temporaneamente e parzialmente, quella strutturale bêtise fra le cui braccia beatamente (e beotamente) vegeta. Gli accorgimenti sono un modo per chiamare le astuzie della ragione, sono creazioni che rispondono a una sorpresa, altro modo per chiamare un problema. Ognuno nel proprio campo, i filosofi, i tecnici, i politici, gli artisti, gli scienziati, ecc., sono maestri nel mettere a punto accorgimenti sagaci, prudenti, intelligenti e in questa loro attività si contrappongono radicalmente a un’altra attività, propria degli stupidi, dei furbi, dei fanatici, produttori instancabili di espedienti, sorta di toppe che facilitano provvisoriamente la soluzione di un problema. Gli espedienti semplificano la realtà fino a renderla schematica e stereotipata o spezzettata in parti irrelate per poi farne un coacervo di soluzioni parziali; gli accorgimenti, invece, tengono conto della complessità del reale e cercano con pervicacia e la coerenza e la novità a un tempo.
Possiamo allora, dopo questi chiarimenti, tradurre il nostro titolo “storia filosofica della realtà” con “indagine libera degli accorgimenti inventati dall’uomo”. Come abbiamo visto, ogni ente, non solo l’uomo, nella misura in cui “si accorge” della realtà, nella misura in cui questa preme su di lui, deve inventare degli accorgimenti (che altro non sono che i vari adattamenti darwiniani al reale). Noi, però, ci occupiamo solo dell’uomo, il quale condivide con ogni altro essere vivente la pericolosità e la precarietà del mondo in cui si trova, la scarsità di risorse disponibili, ma che in lui è complicata da una peculiare impotenza naturale e da un’altrettanto peculiare smodatezza del desiderare. Scarsità di risorse, impotenza naturale e smodata dilatazione di bisogni e desideri sono quindi le condizioni al contorno dell’esistenza dell’uomo.
Fin dall’inizio della sua storia l’uomo si è dolorosamente accorto dell’incolmabile divario fra i suoi bisogni e i suoi desideri, da un lato, e la disponibilità di beni, dall’altro. I miti dell’età dell’oro, del paese di cuccagna, della terra promessa, in cui abbondano latte e miele, diffusi in forme più o meno uguali in tutte le culture primitive, stanno a testimoniare della forza di questa percezione e degli accorgimenti (fantasmatici, quindi espedienti) con i quali ha cercato se non di colmare, almeno di rendere più sopportabile tale divario. Un modo più accorto e concreto di far fronte a tutto ciò è, invece, sicuramente l’economia, una presa di coscienza chiara della scarsità di beni e una messa a punto “efficiente” o supposta tale dei modi per ridurla e “razionalizzarla”. I sistemi economici, le forze e i rapporti di produzione, le strutture della distribuzione dei beni e della redistribuzione dei redditi, le ideologie che supportano tutta questa problematica, i rapporti di questo primario orizzonte dell’attività umana con orizzonti altrettanto primari e importanti, sono l’insieme degli accorgimenti e degli espedienti a cui l’uomo ha fatto ricorso per affrontare quest’area della sua esperienza. Di essi ci occuperemo a suo tempo, tenendo sempre in mente che la prospettiva dalla quale li guarderemo non è “economica” nel senso specialistico del termine, ma filosofica. Così sarà, e non lo ripeteremo più, per ogni altro orizzonte nel quale entreremo.
Altrettanto viva della scarsità di beni, se non di più, è stata per l’uomo la dolorosa presa d’atto di quanto debole fosse fisicamente rispetto agli altri suoi competitori naturali. Non ha artigli in grado di lacerare e uccidere, non ha zanne capaci di sbranare, non ha muscoli in grado di spezzare e stritolare né gambe in grado di inseguire e raggiungere animali veloci come le gazzelle. Insomma, lasciato solo con la sua dotazione naturale, l’uomo sarebbe stato al più un mangiatore di frutta, di erbe, di insetti, e di piccoli animali. Eppure è diventato il più terribile e implacabile dei predatori. Come ha fatto? Grazie alla tecnica. Costruendo armi, strumenti per la caccia, all’inizio meri potenziamenti delle proprie disponibilità fisiche troppo deboli, protesi nel senso preciso e tecnico del termine. Ed ecco la lancia, l’ascia, il pugnale, le reti, le trappole, ma anche, al di fuori dell’ambito della caccia, la zappa, un riparo non di fortuna, la domesticazione e l’allevamento di animali, la seminagione e la coltivazione di piante e via dicendo. Accorgimenti ed espedienti che non solo rispondevano e risolvevano problematiche relative all’impotenza naturale dell’uomo, ma che, come gli accorgimenti e gli espedienti economici, ridisegnavano in continuazione l’orizzonte di senso complessivo dell’uomo.
È difficile esagerare l’importanza di economia e tecnica nella storia dell’uomo, i veri motori di questa avventura, potenti e inarrestabili. È forse futile per un essere vivente complesso come l’uomo cercare di mettere in risalto poche caratteristiche strutturali della sua essenza, ma, volendo farlo, non c’è dubbio che tecnica ed economia siano le candidate più credibili. Se l’uomo non procedesse incessantemente a potenziare sempre più la propria economia e la propria perizia tecnica, sarebbe malaccorto, incauto, perché come ha ben sottolineato Dawkins, equivarrebbe a rinunciare alla “corsa agli armamenti” e tale rinuncia, in un mondo competitivo, scarso e selettivo, sarebbe una scelta sciagurata, propria di una specie che ha scelto la propria estinzione. Ma, come tutte le corse agli armamenti, cieche, ansiose e spasmodicamente tese all’unico (sacrosanto) obiettivo della sopravvivenza, il rischio è quello di ottenere effetti contrari a ciò che si desidera: sprecare risorse, esagerare con le “protesi”, semplificare oltre il consentito la complessità del reale. Perciò l’avvedutezza consiglia di dotare questi due potenti motori di “freni”, il cui scopo non è quello di mortificarne la potenza, ma di disciplinarla, di domarla nel senso efficace del termine. Questi due “freni” sono la politica e l’etica: non impediscono l’esplicazione della potenza, sarebbe non solo ingiusto, ma anche impossibile, ma la incanalano affinché serva meglio, svolgendo quindi meglio la funzione per cui, alla fin fine, agisce. Se vogliamo ricorrere a una buona analogia, diciamo che politica ed etica sono accorgimenti che permettono a economia e tecnica di essere centrali nucleari, non bombe atomiche.
La politica, nella sua accezione originaria, è l’attività che caratterizza in senso essenziale la πόλις (pólis), la città, spazio pubblico per antonomasia e in tal senso si contrappone alla casa, οἰκία (oikía), spazio privato, da cui viene economia. Sappiamo che in Grecia casa e città, piuttosto che contrapposte erano complementari e rigidamente separate nelle loro attività e competenze. Il δεσπότης (despótes) o dominus è tale di nome e di fatto, padrone che dispone a suo piacimento tanto dei beni della casa quanto delle persone che la abitano, non solo degli schiavi, strumenti animati o strumenti per altri strumenti come li definisce Aristotele nella Politica, ma anche di figli, moglie e altri parenti. Ma questo suo status vige solo nello spazio privato perché nello spazio pubblico della città democratica egli diventa un cittadino, un πολίτης, polítes, (contrapposto all’ἰδιώτης, idiótes, il privato cittadino) pari a ogni altro e, solo forzando le regole, può assurgere a un ruolo che è il corrispettivo pubblico del padrone privato, quello di τύραννος, týrannos, il tiranno, la più odiata e temuta delle declinazioni greche del politico, padrone senza legittimità dello spazio pubblico. La politica in Grecia non comanda alla casa, ma è a essa sovraordinata: gli interessi privati sono liberi di esplicarsi in tutta la loro molteplicità e ricchezza, con l’unico limite di non compromettere lo spazio pubblico. Lo spazio pubblico è il luogo delle decisioni strategiche, il luogo della comunità, a cui ogni privato appartiene (senza, naturalmente, ridursi ad esso). È spazio laico (dal greco λαικός, laikós, popolare, spazio del λάος, láos, il popolo), contrapposto sia allo spazio privato della casa, ma anche allo spazio sacro del tempio.
Essendo l’economia guidata solo dall’avidità (lat. avaritia, gr. πλεονεξία, pleonexía), permetterne un’esplicazione incontrollata è cosa funesta. Ora, l’avidità non è una caratteristica accidentale dell’uomo, tale da poter essere eliminata con la buona volontà e con un’educazione adeguata. Per usare espressioni aristoteliche, possiamo dire che, prima che un essere razionale, l’uomo è un essere avido e lo è ben più di ogni altro essere vivente. Efficacemente Platone ha stigmatizzato l’incontinente brama di avere, la squallida natura di ogni comportamento bassamente appetitivo, al comportamento del caradrio, uccello che mangia e defeca contemporaneamente o all’immagine di una giara bucata che lascia uscire ciò che accoglie in un inane e vacuo processo. L’avidità, comunque, per quanto i moralisti si affannino a condannarla, è una proprietà essenziale dell’uomo. Se si elimina l’avidità si elimina l’uomo così come lo conosciamo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Per questo la condanna moralistica dell’avidità non è un accorgimento intelligente, ma un vano e spesso violento espediente. Poco conta che una minoranza abbia orrore dell’avidità e viva una vita frugale e temperante: si tratta di “santi” o di impotenti che, incapaci di avere, elevano artefatti e patetici inni alla continenza. L’uomo non può, senza snaturarsi, rinunciare al desiderio di avere, questa è l’avidità, ma può evitare di ridursi a un piviere, non perché questo sia un male morale, intendiamoci, ma perché, alla fine dei conti, non gli conviene. Dire che non si può avere più del lecito è un modo sbagliato di impostare la questione: un lecito non c’è, l’uomo è autorizzato a volere tutto ciò che desidera (nel privato è dominus, e cosa c’è di più privato dell’uomo desiderante?), purché non voglia tanto da essere costretto contemporaneamente a evacuare ciò che ingurgita. Non sarebbe dignitoso. L’avidità non è immorale, è oscena, condannarla è una questione di buon gusto e di estetica, non di morale. E solo la παιδεία (paideía), l’educazione, la cultura, ha orrore dell’oscenità, quell’essere insozzati di fango e di lordume che ti rende impresentabile in qualunque spazio pubblico. Ma, come sappiamo, la παιδεία è la quintessenza della missione della πόλις.
Per questo il freno all’avidità non deve essere moralistico, ma politico. Solo nello spazio pubblico il padrone che appetisce e dispone, potenzialmente senza misura, diventa cittadino che condivide e distribuisce con la giusta misura. Nessun cittadino, senza rinunciare ipso facto a tale status, può imporre a tutti i propri interessi. Sappiamo che questo succede continuamente, è sempre successo e sempre succederà, la cultura, infatti, è il più fragile e caduco dei beni, ancorché il più prezioso. La politica mette un freno all’avidità a partire dalla sua virtù specifica, la giustizia (lat. aequitas, gr. δικαιοσύνη, dikaiosýne) o equa distribuzione dei beni (ma anche equilibrio, moderazione, imparzialità, disinteresse). La giustizia (o politica) non elimina l’avidità (progetto utopistico e insensato), ma la frena, la circoscrive, mette dei limiti, dà forma a essa. Qui risalta bene la differenza fra espedienti (il divieto morale all’avidità) e accorgimenti (un’istanza di controllo sovraindividuale di essa).
L’istanza formale (che in politica è sostanza) di controllo è il popolo (δῆμος, démos) e la politica in quanto controllo e limitazione dell’avidità economica è per definizione democrazia, la quale, in epoca moderna, ha assunto due forme peculiari, ognuna di esse con pregi e difetti: la liberaldemocrazia (un’avidità un po’ meno controllata in nome di una maggiore libertà privata) e la socialdemocrazia (un’avidità un po’ più controllata in nome di una maggiore solidarietà pubblica). Le due forme possono alternarsi per riequilibrare i guasti dell’una (slittamento del liberalismo nel liberismo) o dell’altra (irrigidimento del socialismo nel comunismo). Nulla vieta, naturalmente, che nel futuro la democrazia possa declinarsi in forme per ora nemmeno ipotizzabili, anche se, ed è preoccupante constatarlo, la tendenza sembra essere piuttosto quella di una sua sparizione o di un suo fatale snaturamento, come paventa il politologo britannico Colin Crouch nel suo Post-Democracy. Alla democrazia e alle forme di governo in generale dedicheremo un congruo numero di saggi.
Non c’è dubbio che il massimo dei mali per un popolo è l’economia che guida la politica: (In un mondo senza regole dettate dalla politica, sopravvivono soltanto in due. La criminalità e la finanza, Zygmunt Bauman) gli interessi privati che decidono e determinano gli interessi pubblici, la sparizione dei beni comuni o la loro commercializzazione, che è forse ancora peggio. È l’avidità che calpesta e disprezza la giustizia. Questo male assoluto oggi (ma anche ieri, e pensatori profondi e profetici come Marx lo hanno ben colto) ha un nome, tanto semplice quanto popolare, capitalismo di rapina. È assolutamente falso il mantra sovente ripetuto che il capitalismo sia la declinazione economica della democrazia e pertanto non si può avere l’una senza l’altro e viceversa, e la prova eclatante è rappresentata dal fatto che il più potente paese capitalistico dei nostri giorni, la Cina, è un paese tutt’altro che democratico e che nemmeno paesi di più solida e antica democrazia come gli Stati Uniti e la UE appaiano in buona salute. La democrazia ha come corrispettivo economico il libero mercato, sistema di cui il capitalismo è una delle varie forme che può assumere e tutt’altro che la forma unica ed eccellente. Il nostro tempo è quello della globalizzazione e della finanziarizzazione esasperata (e disperata) dell’economia, il tempo in cui l’avidità non solo non sente più il bisogno di mascherarsi, ma si pavoneggia indecorosamente, allo stesso modo in cui, nella società civile e in politica, la sottocultura o l’incultura si mostrano fiere di essere tali. È il tempo degli squali e dei tangheri, poltiglia putrida.
E veniamo al secondo motore della storia umana, la tecnica. La tecnica è una delle più straordinarie (forse la più straordinaria) caratteristiche dell’uomo. Homo faber è una gloria dell’essere umano, perché, come mostra Hannah Arendt nel bellissimo Vita activa, a lui si deve la costruzione di un mondo e il suo “arredo”. La tecnica è guidata dalla volontà di potenza, la quale, ineliminabile come l’avidità, a differenza di questa, sempre tendenzialmente negativa, è invece sempre positiva.
La τέχνη (téchne), per un greco, è un saper fare, un fare intelligente, capace di produrre “meraviglie” e “prodigi”. È giusto quindi completare la “definizione” di uomo data sopra: l’uomo è un essere avido e spinto (o mosso?) da volontà di potenza. (Uno dei saggi affronterà l’inedita connessione fra lo spinoziano conatus e la nietzschiana volontà di potenza). Nessun freno, in senso proprio, è efficace e nessun freno è giusto da applicare. Da parte di molti oscurantisti, disorientati, ad esempio, dagli scenari che le nuove possibilità dell’ingegneria genetica aprono, si sente dire che “la tecnica deve essere frenata”, ma si tratta di un proposito velleitario e senza senso, dal momento che la tecnica non può essere frenata. Se una cosa l’uomo è capace di farla, la farà. Solo motivazioni economiche possono, se non impedirla, ritardarla. Nessun’altra forza è in grado di contrastare la volontà di potenza tecnica. Porre veti alla ricerca e allo sviluppo tecnico e scientifico sulla base di istanze religiose o ideologiche, non è solo illusorio, ma è anche pericoloso, dal momento che serve solo a rimuovere ogni controllo razionale sulla ricerca stessa e a incentivare, secondo gli esiti storicamente sperimentati di ogni proibizionismo, trasgressioni selvagge, abusi e ogni altro malsano comportamento clandestino. Del resto, non bisogna mai dimenticare che ciarlatani e inquisitori appartengono primariamente a uno stesso e ben individuato ambiente storico e culturale, sono tutti prodotti di una ricerca censurata, di una scienza inadeguata, di una religione trionfante, di una sottocultura dilagante.
Se l’economia ha il suoi luoghi e i suoi tempi mitici (oltre che i suoi espedienti fantasmatici) nell’età dell’oro e nel paese dell’abbondanza, la tecnica ha i suoi “eroi” in due trasgressori dei limiti: Prometeo (colui che ruba il fuoco agli dei e lo dona all’uomo, colui che “provvede” all’uomo, questo è il senso etimologico di Prometeo) e l’apprendista stregone. Il primo insegna a usare la tecnica (e a ribellarsi agli dei, quando serve) per il bene degli uomini, il secondo evoca incoscientemente forze della natura che non sa dominare e alla fine ne viene travolto.
Se l’economia, allora, deve essere frenata (regolata) dalla politica, la tecnica deve essere assistita dall’etica. Etica ha due possibili etimologie, una più probabile (da ἔθος, éthos, costume, abitudine, uso, il lat. mos, per intenderci) e una più significativa e illuminante (da ἦθος, ancora nel significato di costume, uso, ma anche in quello di luogo abituale, sede, luogo proprio di qualcuno) e in base a questa l’etica è il luogo proprio in cui l’uomo soggiorna o dovrebbe soggiornare, il luogo dove esso trova la sua propria forma e il suo proprio fine. L’etica non frena, non proibisce (questo semmai è il compito della morale). L’etica “trattiene”, evita sia la dissipazione di sé in un informe, incontrollabile e distruttivo desiderio di potenza, sia la spietata e univoca selezione degli uomini operata da un’avvilente struggle for life. Questo a darwinisti ortodossi ed esasperati potrebbe far storcere il naso in segno di disapprovazione: come si permette l’uomo, prodotto naturale fra gli altri, senza alcun privilegio agli occhi della natura, di contrastare il meccanismo di selezione naturale? Infinite forme bellissime: questo è il prodotto di una natura mossa dalla spietata logica darwinista. Allora perché non applicarla anche all’uomo, perché contrastare il darwinismo sociale? Non potrebbe rivelarsi straordinariamente produttivo ed efficace? Ma poi, è davvero contrastabile un così potente meccanismo naturale? Due considerazioni meritano di essere fatte a questo proposito.
Che le forme naturali siano infinitamente varie e belle (ma anche mostruose, almeno da un punto di vista antropocentrico) è fuori da ogni dubbio. Che siano il meglio che si possa ottenere, è cosa invece legittimamente discutibile. La natura procede per prove ed errori, conservando ciò che funziona ed eliminando l’inadatto. Tale procedimento è dispendioso, sia in termini di risorse che in termini di tempo: il “materiale” testato (e scartato), infatti, è enorme, i tempi necessari per ottenere un “prodotto” che funziona (ben adattato) straordinariamente lunghi. Si tratta di forme non progettate, con i pregi e i difetti conseguenti. Il maggior difetto è l’imperfezione, innegabile malgrado i cantori del disegno intelligente: la natura non butta via niente di ciò che ha selezionato. Piuttosto aggiunge, aggiusta, rammenda, ecc. Il risultato è sempre un assemblaggio alla bell’e meglio. Questo, nel caso del cervello, è ciò che lo rende straordinariamente “lento” in operazioni di computazione rispetto a un computer (le trasmissioni elettrochimiche fra sinapsi sono “lentissime”), ma è anche ciò che lo rende unico (non ci sono due cervelli uguali e più in generale non ci sono due oggetti naturali uguali), e questo è un pregio impagabile, non conseguibile con cervelli progettati. E comunque diciamolo chiaramente, è la natura ad aver selezionato una forma naturale che non solo intende retroagire sui meccanismi evolutivi, ma che li vuole anche governare e, nel caso, incredibilmente stravolgerli.
Ma vi è un secondo aspetto da considerare. Gli esseri umani sono coscienti di sé (e questo è qualcosa di più complicato della mera propriocezione di un animale o di vegetali). Le “forme umane” hanno desideri, aspettative, paure. Non desiderano, per esempio, essere giudicate inadatte a vivere. Trovano ingiusta la selezione applicata a sé o ai propri cari (anche se non sempre si peritano di applicarla ad altri). La “forma uomo”, forma naturale come ogni altra, quindi prodotto darwiniano (almeno in linea di massima), ha, fra le proprie possibilità, l’ambizione di continuare a esistere per il semplice fatto che lo desidera e non perché sia più o meno adatto a farlo. È non solo una forma riottosa (tutte le forme naturali in un certo senso lo sono, per spirito di conservazione gli esseri viventi, per mera inerzia gli enti non viventi), ma anche una forma pretenziosa (non solo teme la propria soppressione, ma la considera ingiusta). Perciò ha studiato e sempre continuerà a studiare ogni mezzo per sottrarsi alla selezione, selezione che nell’uomo è resa tanto più pericolosa e spietata dallo scatenarsi incontrollato della volontà di potenza. E questa può assumere le sembianze più diverse, non necessariamente violente o aggressive. Pensiamo per esempio alle nuove tecnologie informatiche che rendono sempre più superflue competenze e lavori prima essenziali. Selezione vuole che i lavoratori detentori di queste competenze vengano semplicemente espulsi dal mercato e in un certo senso “soppressi” in quanto inutili. Potrebbe sembrare compito della politica salvaguardare questi individui, ma si tratterebbe di una prospettiva errata, dato che non sono vittime di indebita appropriazione di spazi pubblici da parte di interessi privati, ma di sopraggiunta irrilevanza economica e umana a seguito di un legittimo e auspicabile progresso tecnico. Perciò è l’etica che deve ispirare soluzioni per le vittime della selezione tecnica.
Se il massimo dei mali è un’economia che guida la politica, il massimo dei pericoli è una tecnica senza razionalità. L’incubo tecnologico della rivolta delle macchine è ancora il minore dei pericoli. Ben peggiore è quello della perdita dell’uomo o, estremo, la distruzione dell’ambiente. Ed è un pericolo che oggi stiamo sempre più avvicinando. Non intendo sostenere nessuna posizione reazionaria né vagheggiare alcuna nostalgia di tempi passati in cui vigeva un’(illusoria) arcadia. Il contrario, semmai. In molti disastri del mondo contemporaneo, il problema non è troppa tecnica, ma troppo poca tecnica. Più tecnica, una tecnica migliore e più sofisticata, altro che nostalgia per il bel tempo andato, il tempo in cui Berta filava.
La domanda fondamentale allora è: abbiamo un’etica all’altezza della nostra tecnica? La nostra conoscenza è pari alla nostra potenza? La nostra capacità di trattenere è adeguata alle forze che siamo in grado di scatenare? Se la risposta è no, come temo che sia, il rischio che corriamo è mortale. Perciò l’invenzione di un’etica adeguata è il compito più grande, forse l’unico, che oggi la filosofia deve porsi. Compito ineludibile.
Economia e tecnica, lasciate a se stesse, non possono che obbedire a una logica darwinista e questa è implacabilmente “esteriore” e indifferente rispetto alle forme a cui si applica, non tiene conto di ciò che le forme “interiormente” sentono (gioia, dolore). La logica darwinista, inoltre, è schiacciata sul presente, è un continuo e incessante “farsi”, senza progetto (non mira ad alcun futuro), senza memoria, se non quella cumulativo-selettiva, è perciò indifferente ad aspettative e a ricordi). Proprio della cura di gioie e dolori si occupa l’etica, proprio della cura di aspettative e ricordi si occupa la politica.
Merita citare uno straordinario brano tratto da un libro di Anatole France, Les dieux ont soif, romanzo del 1812 che descrive gli anni del Terrore rivoluzionario a Parigi e in cui vengono dolorosamente analizzate sia la crudeltà umana senza limiti sia la degenerazione degli ideali migliori. Protagonista è il feroce giacobino Evariste Gamelin, al quale si contrappone il nobile decaduto Maurice Brotteaux, di cui citiamo queste parole a un tempo disincantate e pregne di impegno umano.
La natura, la mia sola padrona e la mia sola istitutrice, non mi mostra in effetti in alcun modo che la vita di un uomo abbia un qualunque valore; al contrario, insegna in tutte le maniere che non ne ha alcuno. L’unico fine degli esseri sembra quello di diventare cibo per altri esseri destinati allo stesso scopo. L’assassinio è per diritto naturale. … La natura ci insegna a divorarci reciprocamente e ci dà l’esempio di tutti i crimini e di tutti i vizi che la condizione sociale reprime e dissimula. Bisogna amare la virtù; ma è bene essere consapevoli che si tratta di un semplice espediente (accorgimento?) immaginato dagli uomini per vivere comodamente assieme. Quello che chiamiamo morale non è che un’impresa disperata dei nostri simili contro l’ordine universale, che è la lotta, la carneficina e il cieco gioco delle forze contrarie.
L’essere è incessante, (casuale?) produzione e distruzione di forme, attività indifferente (a-progettuale), che obbedisce al solo principio di una inflessibile competitività selettiva. La sola difesa dell’uomo, unica “forma” consapevole della propria casualità, è la costruzione di forme (tali sono, in primo luogo, la politica e l’etica, regolazioni delle forze economiche e tecniche), impresa tanto più irrinunciabile quanto più inane. Ogni uomo, in fondo, non ha altro “senso” se non le “forme” (pensieri, azioni, opere, strumenti, ecc.) che è riuscito a costruire nella sua vita. Quando un uomo, ma anche una società, uno Stato, un’istituzione, ha smesso di costruire forme (per impotenza o per esaurimento) ha un’unica dignitosa strada, il suicidio o l’eutanasia.
Che cos’è una forma? Un no eroico e disperato all’entropia: nasce dalla potenza disponibile per “contornare” pezzi di caos e renderli consistenti. La forma è una potenza domata (non repressa). La forma è (sempre) costruzione: l’uomo incontra sempre l’essere come già determinato, mai come semplicemente dato, ma sempre già “costruito”; tale “prodotto”, a sua volta, si fa datità in vista di una nuova costruzione. Questo significa che non c’è differenza ontologica fra la forma, una forma qualsiasi, e la materia che la costituisce (entrambe sono prodotti) ma solo funzionale. Il concetto di forma perfetta, cioè di forma finita, compiuta, non ha luogo: o indica empiricamente una forma morta, spenta, esausta, senza energia intrinseca, mero ciarpame o indica metafisicamente la forma in sé, concetto altrettanto astratto di quello di materia in sé. Due cascami, due espedienti, nel nostro linguaggio. Ciò comporta che l’uomo non possa smettere di costruire forme perché in ogni momento la forma che costruisce è per necessità incompiuta e ciò lo espone a due rischi speculari, entrambi derivanti da ὕβρις (hýbris), da dismisura, a cui ogni autentico formatore deve saper resistere. Lo scoramento dell’impotenza (a che pro? Quale senso? Non è assurdo questo impulso a formare l’informe con la consapevolezza che, non solo il lavoro non ha termine, ma che nella sua essenza è un perenne ricominciare?) (il Sisifo di Camus) o la tracotanza dell’onnipotenza (farò una cosa talmente grande, così meravigliosa, ricca, possente, che non ha uguali, qualcosa di definitivo) (Il capolavoro sconosciuto e La ricerca dell’assoluto di Balzac, ma soprattutto la torre di Babele).
Il costruttore costruisce lui stesso la propria strada passo dopo passo e lo fa proprio opponendosi ai due abissi, allestendo una via media che non porta da nessuna parte, senza meta, ma che ha il suo senso intero nel vincere momento dopo momento i due abissi. Questa via media è un esercizio della sublime arte della prudenza (lo spinoziano caute) non della pavidità e si costruisce solo in un modo: passando continuamente dall’abisso dell’impotenza a quello dell’onnipotenza e viceversa, un movimento di va e vieni fra due dismisure a cui si deve resistere, quella dell’eccesso e quella del difetto.
Il creatore non è un guerriero che si batte contro un nemico o per una nobile causa, perciò il suo rischio, ma è meglio dire il suo destino, non è la nobile esperienza della sconfitta. Più che alla tenacia del vinto verghiano, il creatore assomiglia prosaicamente a un funzionario che ha un compito da svolgere. Perciò gli si addice il fallimento: non ha rivincite da cercare, ma riprese di un compito che deve portare a termine e che non può farlo. Il suo “dovere” è l’esatto opposto di quello comandato dall’etica kantiana: “tu devi, quindi puoi” è il motto che guida l’uomo giusto per il filosofo di Königsberg. Qui invece il motto è: “tu non puoi, eppure devi”. Il creatore è un personaggio kafkiano. Sparisce inevitabilmente ogni enfasi posta sul nome del creatore. Personaggio anonimo, al modo del muratore babelico, senza nome, tutto risolto nel costruire, o al modo dell’impiegato, del funzionario kafkiano, colpevole senza sapere perché, impegnato in un compito che sa di non poter condurre a termine e che pure si affaccenda a eseguirlo al meglio. Sisifo, appunto. Ma, come dice Camus, un Sisifo felice. Non rivincita, ma ripresa, non riscatto, ma riprova.
Mi sono iscritta al blog qualche settimana fa e ho avuto tempo di leggere alcuni articoli. Ho un interesse filosofico non da professionista del settore ma da amante della materia. Ho apprezzato moltissimo quello sulla fede religiosa, altrettanto interessanti anche altri ma un po’ più impegnativi: ciò non toglie che li riprenderò in un prossimo futuro. Ho sempre pensato che la filosofia dovesse essere calata nel quotidiano, senza banalizzare ovviamente, perché anni fa ho vissuto un coup de foudre col saggio di Singer per una vita etica, lettura consigliata dal prof di filosofia. Qualche giorno fa volevo scriverle proprio perché amo questo taglio che mi costringe a riflettere sulla realtà, spesso data per scontata, e oggi ho ricevuto questa bellissima sorpresa della storia filosofica della realtà. Sarò assidua lettrice di questi articoli.
La saluto e la ringrazio
Minerva
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La ringrazio per l’interesse che dimostra per i miei articoli, spero di continuare a meritarmelo. Complimenti al suo professore di filosofia per il suo consiglio di leggere Singer, un autore per molti controverso, ma per me centrale. Il suo antispecismo e l’utilizzo come criterio etico della capacità di soffrire mi trovano totalmente d’accordo. La saluto cordialmente. Giuliano Antonello
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