39. Etica III – Prefazione: In che modo gli affetti sono stati finora trattati e perché vanno trattati diversamente

La Prefazione alla III parte dell’Etica è divisa in due linee argomentative. Innanzitutto Spinoza si chiede in che modo gli affetti siano stati finora trattati, per proporre poi un altro modo di trattarli, più adeguato alla loro natura.

In primo luogo è importante chiarire il termine “affetto”, uno dei concetti centrali dell’Etica. Il mondo sentimentale, a cui tale termine solitamente fa riferimento (trasporto emotivo positivo verso altri esseri, come tenerezza, buona disposizione d’animo), è totalmente estraneo alla prospettiva di Spinoza. In latino adficere ha una pluralità di significati: influire, impressionare, mettere in relazione, porre in una data condizione, ecc. Spinoza usa due accezioni derivate da questo verbo:

  • Affectio, un’impressione sul corpo derivante dall’esterno, impressioni sensoriali di vario tipo. Quando mangio una caramella, il dolce che percepisco è l’azione che il corpo-caramella esercita sul mio corpo. Non percepisco la caramella, ma l’azione che la caramella esercita sul mio corpo, perciò Spinoza afferma che l’affezione riguarda più la natura del corpo percipiente che quella del corpo percepito, indica, cioè, propriamente la natura del corpo modificato, mentre implica indirettamente quella del corpo modificante. È il genere più basso di conoscenza perché non ci fa conoscere le cose in quanto tali, ma solo nei loro effetti.
  • Affectus, modificazione della potenza di esistere in seguito all’affezione subita, secondo il più e il meno, nel senso cioè di aumentarla o di diminuirla. In ogni istante della sua vita l’uomo è immerso in un continuo flusso di emozioni che ne modificano senza sosta il tono dell’esistenza.

Si può perciò correttamente trattare l’etica di Spinoza come una dinamica degli incontri (le affezioni), che possono essere buoni o cattivi, capaci di migliorare o di peggiorare la condizione esistenziale dell’uomo (gli affetti). Non c’è una differenza di natura fra l’antipatia e il disgusto o fra la simpatia e il gusto: se Pietro mi è antipatico e il formaggio non mi piace, significa che Pietro e il formaggio sono costituiti in modo tale che si combinano male con il mio corpo, sono entrambi dei cattivi incontri, in seguito ai quali la mia forza di esistere perde potenza. Succede il contrario se incontro Paolo che mi è molto simpatico o mangio una fetta di torta Sacher. Come posso saperlo? Lo devo sperimentare.

Trattando l’affetto da un punto di vista generale, Spinoza non fa alcun riferimento al contesto umano. Le caratteristiche dell’affettività sono riferite a res, all’insieme dei viventi, non a soggetti personali. Naturalmente, entrando nello specifico, Spinoza prenderà in considerazione una declinazione umana degli affetti, ma si guarderà bene dall’intendere tale declinazione come un taglio netto rispetto al resto degli enti.

I due poli entro i quali si dispiega l’affettività sono quelli del pati (il patire) e dell’agere (l’agire). Afflitti da affetti passivi, gli uomini sono alienati, ma, quando cessa di essere una passione, l’affetto diventa lo strumento privilegiato di liberazione dell’uomo.

In che modo gli affetti sono stati finora trattati

Plerique, qui de Affectibus, et hominum vivendi ratione scripserunt, videntur, non de rebus naturalibus, quæ communes naturæ leges sequuntur, sed de rebus, quæ extra naturam sunt, agere. Imo hominem in natura, veluti imperium in imperio, concipere videntur. Nam hominem naturæ ordinem magis perturbare, quam sequi, ipsumque in suas actiones absolutam habere potentiam, nec aliunde, quam a se ipso determinari, credunt. Humanæ deinde impotentiæ, et inconstantiæ causam non communi naturæ potentiæ, sed, nescio cui naturæ humanæ vitio, tribuunt, quam propterea flent, rident, contemnunt, vel, quod plerumque fit, detestantur; et, qui humanæ Mentis impotentiam eloquentius, vel argutius carpere novit, veluti Divinus habetur.La maggior parte di quelli che hanno scritto sugli affetti e sulla maniera di vivere degli uomini sembra che trattino non di cose naturali che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un uno Stato dentro un altro Stato. Credono, infatti, che l’uomo turbi l’ordine della natura più di quel che lo segua, che abbia un potere assoluto sulle proprie azioni e che non sia determinato da altro se non da se stesso. Attribuiscono, poi, la causa dell’impotenza e dell’incostanza umane, non alla comune potenza della natura, ma a non so qual vizio della natura umana, che essi, per questa ragione, compiangono, deridono, disprezzano o come accade per lo più, detestano; e chi sa più eloquentemente o più argutamente censurare l’impotenza della mente umana è ritenuto quasi divino.

Finora gli affetti sono stati moralisticamente trattati come passioni e queste ultime viste come qualcosa che non appartiene alla natura (extra naturam), ma che agisce sull’uomo come un potere estraneo contro il quale l’uomo stesso deve lottare strenuamente per non soccombere. Anziché essere visto come un ente pienamente naturale, l’uomo viene considerato come un impero in un impero (veluti imperium in imperio), una parte separata che sta nella natura senza appartenervi veramente, un regno separato dotato di proprie leggi. In quanto considerato ente speciale, l’uomo sembra turbare l’ordine naturale e, non essendo sottoposto alle leggi della natura come gli altri enti, agisce nella natura secondo una supposta libertà (il libero arbitrio).

Da qui nasce la credenza che l’uomo determini le proprie azioni e che quando sbaglia lo faccia non perché cede alla costrizione di una potenza soverchiante, ma solo perché la sua natura è corrotta. È su tale convinzione che si fonda la legittimazione di ogni sorta di punizioni (pensiamo a chi considera l’AIDS o altre malattie come una punizione divina, al pari di altre catastrofi naturali). Dal momento che, secondo la concezione tradizionale, l’uomo non soggiace al determinismo, diverso in ciò da ogni altro ente, se non sa resistere alle passioni e cede alla loro forza, la colpa non può che essere della sua natura bacata.

Perciò chi più ferocemente accusa l’uomo (un uomo immaginario, badiamo bene), più è apprezzato. La convinzione che l’uomo “perturbi” l’ordine della natura ha un fondamento immaginario (credunt). Ed è proprio questa la causa di un’inevitabile incomprensione della natura umana stessa, misconosciuta nelle sue intime possibilità. L’uomo è a un tempo sopravvalutato e sottovalutato. In eccesso gli si attribuisce un potere assoluto su di sé, una capacità illimitata di autodeterminarsi nel bene e nel male. In difetto lo si ritiene guasto, bacato (v. il peccato originale), si accusa la sua natura corrotta che lo lascia in balia delle passioni, dalle quali tende a farsi dominare. L’uomo viene assegnato a una natura immaginaria, privata di tutti i caratteri della vera realtà; da qui l’incoerenza.

Ogni umanismo (pensare all’uomo come un ente non del tutto naturale) conduce a una speculazione “mistificata”. L’umanismo è proprio dei moralisti, che disprezzano la natura umana, la gravano di ogni difetto (v. anche l’inizio del Trattato politico, a riprova di una sintonia costitutiva fra etica e politica).

I filosofi concepiscono gli affetti che si dibattono in noi, come vizi nei quali gli uomini cadono per loro colpa, sicché sono soliti deriderli, compiangerli, biasimarli o (quelli che vogliono sembrare più santi) detestarli del tutto. Così facendo, dunque, credono di rendere un servizio a Dio e attingere il culmine della sapienza, quando sanno lodare in mille modi una natura umana che non esiste da nessuna parte, e maledire quella che esiste realmente. Costoro, infatti, concepiscono gli uomini non per ciò che sono, ma per come vorrebbero che fossero, sicché quasi sempre hanno scritto una satira invece che un’etica e non hanno mai concepito una politica che fosse di qualche utilità, ma che è piuttosto una chimera o che potrebbe funzionare in Utopia o in quel tempo aureo dei poeti, dove cioè non era affatto necessaria. E quindi si crede che di tutte le scienze utili a qualcosa, tanto grande è in politica il divario tra teoria e prassi che nessuno sembra meno idoneo a governare uno Stato che i teorici, ossia i filosofi (Trattato politico, cap. 1, § 1)

Non defuerunt tamen viri præstantissimi (quorum labori, et industriæ nos multum debere fatemur), qui de recta vivendi ratione præclara multa scripserint, et plena prudentiæ consilia mortalibus dederint; verum Affectuum naturam, et vires, et quid contra Mens in iisdem moderandis possit, nemo, quod sciam, determinavit.Non sono mancati, tuttavia, uomini eminentissimi (alla cui fatica e operosità confessiamo di dovere molto), che hanno scritto molte cose eccellenti sulla retta maniera di vivere, e hanno dato ai mortali molti consigli pieni di prudenza; ma nessuno, ch’io sappia, ha determinato la natura e le forze degli affetti, e che cosa possa la mente, da parte sua, per dominarli.

Malgrado questa deriva, non sono mancati uomini saggi (es. Stoici), ma nessuno è andato oltre la formulazione di pragmatici consigli di buona vita. Cosa hanno trascurato? La natura degli affetti, la loro forza, il potere della mente di moderarli e modularli. Non si tratta di forza di volontà, ma di conoscenza (nulla di teorico o di meramente cognitivo, come vedremo; Spinoza, checché ne pensino alcuni, non sostiene una morale socratico-platonica).

Scio equidem celeberrimumCartesium, licet etiam crediderit, Mentem | in suas actiones absolutam habere potentiam, Affectus tamen humanos per primas suas causas explicare, simulque viam ostendere studuisse, qua Mens in Affectus absolutum habere possit imperium; sed, mea quidem sententia, nihil præter magni sui ingenii acumen ostendit, ut suo loco demonstrabo.So bensì che il celeberrimo Cartesio, benché abbia egli pure creduto che la mente ha un potere assoluto sulle sue azioni, ha cercato, tuttavia di spiegare gli affetti umani mediante le loro cause prime, e, insieme, di mostrare la via per la quale la mente può avere un dominio assoluto sugli affetti; ma, almeno secondo la mia opinione, non ha mostrato altro se non l’acume del suo grande ingegno, come dimostrerò a suo luogo.

Anche Cartesio (ma così molti altri filosofi) attribuisce al proprio lavoro tanto la capacità quanto il dovere di colmare le deficienze del pensiero precedente, senza tuttavia riuscirci.

Ciò che gli antichi hanno insegnato su questo argomento è così poca cosa e per la maggior parte poco credibile che io non posso avere altra speranza di avvicinarmi alla verità se non allontanandomi dalle strade che essi hanno percorso. Perciò sarò obbligato a scrivere qui come se trattassi di una materia finora mai toccata da nessuno (René Descartes, Les passions de l’âme, Gallimard, Paris, 1988, p. 155)

Cartesio distingue, come Spinoza, passioni e azioni, ma lo fa ponendo al centro la nozione di soggetto, concetto totalmente estraneo alla prospettiva spinoziana, perciò il tentativo del filosofo francese di spiegare gli affetti risalendo alle loro cause prime è insufficiente. Il De affectibus sembra sviluppato in polemica diretta con Les passions de l’âme di Cartesio, filosofo con il quale Spinoza entra spesso in polemica diretta, contrariamente alle sue abitudini, quasi sempre caratterizzate da critiche generali e da avversari collettivi. Spinoza non rifugge nemmeno da una fine ironia quando gli riconosce come unico merito quello di aver mostrato la brillantezza del suo ingegno.

Sia gli stoici che Cartesio non sfuggono alla prospettiva moralistica, essendo rimasti impigliati nell’umanismo, il cui peccato capitale è, come abbiamo già indicato, quello di pensare l’uomo come dotato di un io capace di contrastare, basta che lo voglia, tutte le passioni. È il nesso di libertà e volontà che Spinoza mette, come vedremo, radicalmente in discussione: basta che io lo voglia, e posso scegliere di condurre una vita virtuosa, se invece scelgo il male è perché la mia volontà è debole, la mia libertà di scelta è compromessa da un carattere senza nerbo. Tutta l’Etica è un vigoroso rifiuto di questa convinzione, radicata in un’insufficiente analisi della natura e dell’origine degli affetti e del reale potere che l’uomo ha su di essi, un potere che nulla ha a che fare con il libero arbitrio o con la forza di volontà.

Perché gli affetti vanno trattati in altro modo e quale sia questo modo

Nam ad illos revertere volo, qui hominum Affectus, et actiones detestari, vel ridere malunt, quam intelligere. His sine dubio mirum videbitur, quod hominum vitia, et ineptias more Geometrico tractare aggrediar, et certa ratione demonstrare velim ea, quæ rationi repugnare, quæque vana, absurda, et horrenda esse clamitant.Per ora, infatti, voglio ritornare a quelli che preferiscono detestare o deridere anziché intendere gli affetti e le azioni degli uomini. A costoro senza dubbio sembrerà strano che io mi accinga a trattare i vizi e le stoltezze degli uomini con procedimento geometrico, e voglia dimostrare con ragionamento certo cose che essi non cessano di proclamare ripugnanti alla ragione, vane, assurde e orrende.

Questo circolo vizioso va rotto e ciò si può fare solo con la rigorosa determinazione della natura degli affetti, la quale può essere chiarita individuando la reale origine di essi e non col loro riferimento a un uomo immaginario di cui essi sarebbero la nefasta espressione. I moralisti hanno un implicito e inconscio atteggiamento “affettivo” quando indagano gli affetti (deridono, detestano, esaltano, compiangono, ecc.). Non c’è oggettività, non c’è distacco: il loro giudizio è ossessionato da ciò che si agita in loro stessi. Strano, inconcepibile per loro il solo pensare di trattare razionalmente l’affettività, ciò che, a loro dire, ripugna massimamente alla ragione.

Sed mea hæc est ratio. Nihil in natura fit, quod ipsius vitio possit tribui; est namque natura semper eadem, et ubique una, eademque ejus virtus, et agendi potentia, hoc est, naturæ leges, et regulæ, secundum quas omnia fiunt, et ex unis formis in alias mutantur, sunt ubique, et semper eædem, atque adeo una, eademque etiam debet esse ratio rerum qualiumcunque naturam intelligendi, nempe per leges, et regulas naturæ universales.Ma ecco qual è la mia argomentazione. Nulla avviene nella natura che si possa attribuire ad un suo vizio; giacché la natura è sempre la medesima, e la sua virtù e potenza d’agire sono dappertutto una sola e medesima; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutto avviene e si muta da una forma nell’altra, sono dovunque e sempre le medesime, e quindi una sola e medesima deve pure essere la maniera di conoscere la natura delle cose, quali che esse siano, e cioè mediante le leggi e le regole universali della natura.

Nulla di ciò che è, è per difetto della natura, per sua mancanza o insufficienza. La natura non è un progetto che può realizzarsi più o meno bene. In essa non vige in nessun modo il negativo, inteso come mancanza ontologica. Tutto nella natura è potenza. In nessun momento o in nessun tempo le leggi della natura sono manchevoli, carenti o inespresse. Perciò essa va intesa sempre e solo in un modo e allo stesso modo, ovunque e sempre. In ciò sta l’univocità, il rifiuto del dualismo ontologico, della trascendenza da parte di Spinoza. Realtà e perfezione sono lo stesso (v. def. 6 del De Mente). Giudicare l’essere sulla base di un immaginario dover essere è un atteggiamento moralistico ed equivale a giudicare la natura in base a qualcos’altro da essa stessa.

Affectus itaque odii, iræ, invidiæ etc. in se considerati ex eadem naturæ necessitate, et virtute consequuntur, ac reliqua singularia; ac pro inde certas causas agnoscunt, per quas intelliguntur, certasque proprietates habent, cognitione nostra æque dignas, ac proprietates cujuscunque alterius rei, cujus sola contemplatione delectamur.Gli affetti, dunque, dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., considerati in sé, seguono dalla medesima necessità e dalla medesima virtù della natura da cui seguono le altre cose singole: e quindi riconoscono certe cause mediante le quali sono intese, e hanno certe proprietà altrettanto degne della nostra conoscenza quanto le proprietà di qualunque altra cosa di cui la sola contemplazione basta a darci diletto.

Ogni affetto, anche quelli supposti negativi, termine che Spinoza sostituirà con “passivi” (odio, invidia, lussuria, ecc.), ha la stessa necessità e la stessa legittimità (deriva dalle stesse leggi, da cause naturali, non da difetti morali o ontologici) di ogni altra singola cosa esistente. Tutto è quindi degno di essere conosciuto e da ogni cosa così conosciuta è lecito trarre diletto. Solo in quanto liberati da una carica emotiva che li “sfigurano”, questi supposti vizi (mancanze) possono essere considerati virtù, dato che è l’ignoranza della causa che li produce, a gravarli di interpretazioni arbitrarie. (È lo stesso errore che genera la credenza nel libero arbitrio: “gli uomini si credono liberi perché sono coscienti delle proprie azioni, ma ignorano la vera causa che le determina”). Questo trasforma la condanna scandalizzata che solitamente ispirano gli affetti negativi in diletto (gioia di comprendere), un altro affetto, ma attivo anziché passivo.

Gli affetti sono, in qualunque loro manifestazione, testimonianze insostituibili dell’inesauribile ricchezza di invenzione della natura. V. la fine dello scolio della prop. 57 del De Servitute:

Gli affetti umani indicano la potenza e l’arte, se non dell’uomo, almeno della natura, non meno di molte altre cose che ammiriamo e della cui considerazione ci dilettiamo.

Il verbo delectari verrà ripreso anche nell’enunciato della prop. 32 del De Libertate:

Siamo allietati da tutto ciò che comprendiamo con il terzo genere di conoscenza, e questa gioia è accompagnata dall’idea di Dio come causa.

È noto che il combattimento fra ragni e mosche dilettava moltissimo il filosofo, come mostra questa testimonianza di Colerus:

Un suo passatempo era cercare ragni e farli combattere l’uno contro l’altro o prendere delle mosche e gettarle nella tela del ragno: assisteva con una grande soddisfazione a queste battaglie, fino a riderne. Usava poi il suo microscopio per osservare le più piccole mosche o zanzare e ne ragionava

Tratterò dunque della natura e delle forze degli affetti e del potere della mente su di essi col medesimo metodo con cui ho trattato nelle parti precedenti di Dio e della mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi.Tratterò dunque della natura e delle forze degli affetti e del potere della mente su di essi col medesimo metodo con cui ho trattato nelle parti precedenti di Dio e della mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi.

Perciò anche gli affetti vanno trattati more geometrico. Ciò è possibile solo liberandosi (tutt’altro che una negazione) della loro influenza (in realtà, liberarsi solo dall’influenza degli affetti passivi). Non farsi alienare da essi. Vanno affrontati con serenità (acquiescentia), la quale è a sua volta un affetto (ma un affetto attivo, di cui la mente è causa adeguata). Questo termine sarà al centro del progetto di liberazione della V parte. L’affettività è accessibile alla vera conoscenza solo se viene sdrammatizzata e disincantata.

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